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Web, buona giornata.

Binaghi è il nuovo presidente Iab-“Il web non è piu’ una riserva indiana”-repubblica.it
Roberto Binaghi è il nuovo presidente di Iab Italia, eletto all’unanimità dal consiglio direttivo. La Iab è un’associazione internazionale che si occupa dello sviluppo della comunicazione e della pubblicità interattiva.

46 anni, Binaghi ha iniziato la sua carriera professionale nel 1987 nel reparto media di Y&R. Da venti anni è tra i protagonisti media industry e vanta una particolare esperienza nel comparto dei centri media: è stato CEO di Mindshare e successivamente di OMD. E’ stato inoltre presidente del Centro Studi di Assocomunicazione e consigliere di amministrazione di Audiweb, Audipress ed Audiposter. Dal 2009 è il vice direttore generale di Manzoni con delega al marketing strategico, al multimedia ed al digitale e si occupa del coordinamento tra concessionaria e divisioni operative del Gruppo Espresso per la gestione dei progetti editoriali.

“Ritengo significativo che a guidare il vertice dello Iab sia stato chiamato un professionista che proviene da un gruppo multimediale e plurimediale. Internet non è piu’ una riserva indiana che deve emanciparsi, ma una componente stabile della dieta mediatica degli italiani e del mix degli inserzionisti. La mia nomina è un segnale di integrazione fra mezzi e mondi un tempo separati”.

Il neo-presidente vuol puntare sul dialogo con le altre associazioni: “E fare da tramite con organizzazioni come la Fedoweb (gli editori) e la Fcp, i concessionari di pubblicità. Non un’associazione chiusa, ma aperta al dialogo e ai progetti. I miei ringraziamenti vanno innanzitutto all’Assemblea dei Soci che mi ha permesso di entrare nel board, al Consiglio Direttivo che mi ha eletto Presidente e al Presidente Onorario Layla Pavone, che ha contribuito alla crescita e all’accreditamento di IAB Italia in questi anni”, dichiara Binaghi.

“In qualità di nuovo Presidente mi impegnerò in prima persona per la crescita di Iab che potrà continuare a ricoprire un ruolo di primissimo piano, alla luce del crescente sviluppo del digitale nel nostro Paese e del peso sempre maggiore di internet, sia in termini culturali, sia economici”.

Salvatore Ippolito, Sales Director BU Portal & Mobile VAS di Wind, è stato nominato vicepresidente. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media: il medium cambia, cambiamo il messaggio.

CENSIS E MEDIA La crisi seleziona:su i prodotti gratuiti e i social network-di FRANCESCO PICCIONI, Il Manifesto

Il messaggio batte il /medium/, McLuhan non abita più questo mondo.
L’ottavo rapporto del Censis sulla comunicazione («I media tra crisi e metamorfosi») registra e tematizza i cambiamenti più rilevanti nell’arco degli ultimi 10 anni. E decreta, in parte, «la rivincita dello spettatore», che non accetta più di esser preda dell’«ipnotismo televisivo» e passa all’«azione diretta».

I diversi media diventano relativamente indifferenti, di fronte a una ricerca di informazione e socializzazione (sia pure virtuale) che vede il singolo teso a soddisfare i propri interessi saltando a pie’ pari la mediazione del produttore di contenuti. Almeno all’apparenza, perché – nell’indescrivibile quantità di informazioni disponibili – «risulta sempre più difficile cogliere il confine tra verità e finzione, tra eventi del mondo reale e prodotti della fantasia».

Questo individuo-agente, infatti, è a sua volta un prodotto. Di un lungo processo sociale di «affermazione del primato del soggetto», per un verso, della disponibilità a basso costo delle tecnologie digitali, per l’altro. In ogni caso, rappresenta solo una metà della società italiana, per lo più giovanile o con buoni livelli di istruzione; che convive con una quota altrettanto rilevante di «vittime del /digital divide/», escluse per età, reddito o formazione dall’uso di questi media. Ma entrambe le metà convergono nel momento in cui solo un soggetto è chiamato a garantire la «verificabilità» delle informazioni: la tv. La ricerca conferma che «ad orientare le scelte di voto della grande maggioranza degli italiani sono i telegiornali delle tv generaliste nazionali».

La conclusione è solo apparentemente paradossale, perché l’effettiva totale libertà individuale – nel reperimento delle informazioni secondo una personale scala di priorità, nella formazione dell’opinione – si scontra con due limiti ineliminabili: l’individuale /capacità di discernere/ (cultura, livelli di istruzioni, esperienza) e l’/attendibilità/ delle informazioni (comunque «confezionate» da altri).

Proprio la modalità di fruizione dei contenuti digitali (rapide, spesso casuali, im-mediate) brucia quello che Giuseppe De Rita chiama «il prefisso ‘ri’ (riflettere, ritornare, ripensare)», identificato da sempre come «il fondamento della cultura». Tradotto: nella giungla delle informazioni digitali ci si muove senza più una guida. Finché non la si ritrova sullo schermo che tutto riunisce: quello televisivo.

La crisi economica ha accelerato questi processi. Creando ora anche un /press divide/, una massa crescente di persone che ha eliminato la stampa su carta dalla propria «dieta mediatica»: il 39,3%. Non solo analfabeti di ritorno, ma anche giovani e adulti istruiti. Se infatti il numero di quanti usano internet si è stabilizzato (47%, crescerà ormai solo con il normale «tasso di sostituzione generazionale»), si è intensificato il suo utilizzo a scapito della stampa (dal 6 al 12,9%) – e persino della /free press/ – con i quotidiani che hanno visto calare le vendite del 15% in soli due anni. Soprattutto, la crisi ha favorito «l’espansione dei mezzi gratuiti e la sostanziale battuta d’arresto di quelli a pagamento». O meglio, ha favorito quei media che permettono di avere il massimo di servizi informativi col minimo di costi economici.

Quindi sì all’Adsl e alla tv a pagamento (con boucquet che coprono tutti gli interessi familiari, dal calcio ai cartoon, ai serial); sì ai cellulari, ma solo nelle versioni /basic/ (telefonate e sms); sì soprattutto alla radio (+12,4%), che copre in buona parte i bisogni di ben 13 milioni di pendolari. Sopravvivono i libri, ma molto ci sarebbe da dire sullo «spessore» di quelli che «vendono». La tv, si diceva, raggiunge proprio tutti (98%); ma via web ha triplicato gli adepti in due anni. L’ampliamento delle scelte possibili fa della rete il medium ideale di chi vuole «agire». Lo svluppo impetuoso dei /social network/ (Facebook, YouTube, Messenger, ecc) risponde a un’esigenza di socializzazione attiva che è già una reazione all’isolamento individuale.

Ma cambia radicalmente anche il modo di pianificare il marketing (qualsiasi produttore professionale di contenuti, in rete, sopravvive solo grazie alla raccoltà pubblicitaria). Il fenomeno era «preesistente alla crisi economica, che però lo ha sottolineato».

Per Marco Ferri, del Consorziocreativi, «è il momento di capovolgere il paradigma, e lo devono comprendere anche le imprese: quando decidono un budget prima si devono comprare una buona idea, e poi vedere come veicolarla, non viceversa». Vale anche per i quotidiani: «chi indovina la nuova formula fa bingo, gli altri…». (Beh, buona giornata)

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La quarta crisi: è vero che Google voleva comprare il New York Times.

Google voleva comprare il New York Times, parola di Ceo di Gianni Rusconi -sole24ore.com

Non erano speculazioni ma indiscrezioni fondate. Quando nei mesi scorsi i media americani parlavano spesso e volentieri delle intenzioni di Google di investire direttamente nell’editoria non stavano arrampicandosi alla notizia dell’anno. Che il gigante dei motori di ricerca stesse realmente valutando l’opportunità di acquisire una grande quotidiano – il nome più gettonato era il New York Times – l’ha confessato in una lunga intervista al Financial Times il Ceo della società di Mountain View, Eric Schmidt. L’ammissione è stata però accompagnata da un’importante precisazione: Google, oggi, non è più interessata ad investire in alcun media cartaceo per via dei rischi collegati a un’operazione particolarmente dispendiosa. Niente acquisti e nemmeno l’ipotesi di una quota azionaria (per la storica testata si vociferava una possibile cessione del 20% del pacchetto azionario, offerto dal fondo Harbinger Capital Partners) dunque. Il mestiere della compagnia, ha detto in sostanza Schmidt, è quello di sviluppare e vendere tecnologia e non contenuti e quanto al rapporto con i grandi editori (che vivono una fase di grande difficoltà) le collaborazioni sono le benvenute con l’unico obiettivo di fare funzionare bene la pubblicità sui siti Web di questi ultimi (con il Washington Post e altri la partnership è già avviata da tempo).

Arrivata quindi l’ufficiale conferma del passo indietro, molto analisti si sono chiesti cosa sarebbe potuto cambiare per Google se avesse portati avanti il progetto di scalata al New York Times. Non è stata infatti la casa californiana a contribuire alla picchiata delle vendite delle copie stampate dei più grandi giornali d’America? Buttarsi nel mercato dei contenuti, oltretutto con un modello non profit (Google.org, avrebbe sconfessato la missione tecnologica della società e sconvolto i già precari equilibri del settore media? Sarebbe stata solo un’azione speculativa, dettata dalla possibilità di accaparrarsi “a prezzi di saldo”, una quota importante di uno dei giornali più importanti del mondo? O una precisa strategia per fare il botto nell’advertising on line?
Domande a cui ora non ha più senso dare risposte. Google rimane al suo (in fluentissimo) posto e Schmidt pure. Al Financial Times il top manager, che è membro del team economico voluto da Barak Obama, ha confermato che non correrà per un ruolo politico, perché “non c’è una seconda vita dopo Google…”. (Beh, buona giornata).

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