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Attualità

Quando è il Capo della protezione civile a provocare un terremoto.

HAITI:CLINTON,PROFONDAMENTE OFFESA DA CRITICHE STRANIERE (fonte: Agi)

Hillary Clinton si e’ detta “profondamente offesa” dalle critiche straniere al modo in cui gli Stati Uniti hanno gestito l’emergenza terremoto ad Haiti, e ha ribadito che Washington sta facendo tutto il possibile per aiutare il Paese caraibico. “Sono profondamente offesa dagli attacchi rivolti al nostro Paese, alla generosita’ della nostra gente e alla leadership del nostro presidente che sta tentando di rispondere alle condizioni disastrose dopo questo terremoto”, ha detto il capo della diplomazia americana. Clinton non ha fatto riferimenti a singole critiche ma ha spiegato che “parte della stampa internazionale ha frainteso o deliberatamente travisato” la decisione dell’amministrazione americana di inviare ad Haiti soldati oltre ai civili. Beh, buona giornata

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democrazia Finanza - Economia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche

“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere

Dopo l’emergenza terremoto, ecco l’emergenza soldi promessi e mai arrivati.

di di Francesco Marcozzi-ilmessaggero.it
GIULIANOVA (21 maggio) – Quello che si temeva potesse accadere, è successo. Ieri, all’ora di pranzo, in un camping di Roseto, gli oltre duecento sfollati aquilani ospiti della struttura sarebbero rimasti senza mangiare se non ci fosse stato l’intervento della Protezione civile. Il titolare della struttura ricettiva si è rifiutato di fornire il pasto ai suoi ospiti in quanto, come ha dichiarato anche ai carabinieri, «non ho ricevuto nemmeno un euro a fronte delle fatture regolarmente inoltrate per il promesso rimborso, ogni quindici giorni, in base all’accordo che era stato sottoscritto».

I carabinieri di Giulianova, coordinati dal capitano Luigi Dellegrazie, hanno raggiunto il campeggio su richiesta di alcuni aquilani che lamentavano l’atteggiamento del gestore, ma non hanno potuto far altro (e questo è stato, comunque, determinante al fini della soluzione momentanea del problema) che avvertire il coordinamento della Protezione civile, nel centro sociale del quartiere Annunziata a Giulianova. Il coordinamento si è messo in movimento ed è riuscito, recandosi in altre strutture, a recuperare dei pasti per gli ospiti del campeggio, e così ha fatto anche ieri sera dal momento che la situazione non sembra destinata a cambiare «se non arriveranno i soldi».

«Sono sotto di oltre 200mila euro – avrebbe dichiarato ai militari il gestore – e non so più come andare avanti. Le banche mi hanno ”chiuso i rubinetti” e, non incassando nulla, non so dove andare a prendere i soldi per continuare a fornire i pasti gratis. Il primo ad essere dispiaciuto sono io, ho resistito, ho pensato di tirare avanti sperando che la situazione si potesse sbloccare, ma a questo punto non ce la faccio più». E adesso i carabinieri temono che ci sia un effetto-domino e che altri titolari di alberghi, campeggi o residence possano fare la stessa cosa: sarebbe davvero una situazione difficile da poter tenere sotto controllo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“Gli abruzzesi hanno preso il decreto, lo hanno letto, lo hanno studiato, e hanno scoperto che quasi metà di loro passerà l’inverno in tenda e che il soldi delle case ci saranno solo a metà”.

Terremoto Abruzzo/ Non ci sono le case, mancano i soldi: solo promesse di cartapesta
di Alessandro Duchi-blitzquotidiano.
Pezzo a pezzo, la cartapesta del mito ricostruzione abruzzese viene giù.

Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi aveva esordito alla grande, con una regia perfetta: nascosto dietro una gigantografia di se stesso in maglioncino blu e sorriso rilassato, che faceva da sfondo al salotto di Bruno Vespa convocato d’emergenza in luogo del consiglio dei ministri, dava ordini a destra e a manca, compreso al ministro dell’interno Roberto Maroni, cui Berlusconi ingiungeva: domattina voglio 1.500 pompieri all’Aquila.

Chi ha una minima idea, e per questo basta leggere i giornali, del tempo che ci vuole a spostare un reparto incluse le truppe d’assalto aviotrasportate americane, per non dire una semplice pattuglia di vigili urbani quando uno li chiama, sa bene che l’eordine era impossibile da eseguire, a meno che non fosse stato già dato ore prima e ripetuto in tv solo per la delizia degli spettatori.

Berlusconi aveva capito che il terremoto era una grande occasione di campagna elettorale, un mega spot gratuito, con i costi di produzione a carico del contribuente: la chiave era dare l’impressione che tutto era sotto controllo, che la macchina dello stato girava come un diesel, per la prima volta dal 1870, meglio anche di come girava quando c’era l’altro Lui, quello dei treni in orario; perché ora c’è un altro Lui, che non è un maestro elementare,ex caporale, ma è laureato e uno degli imprenditori di maggioiri genio e successo della storia d’Italia.

Quello che i pubblicitari chiamano “pay off”, il messaggio finale, era: italiani, dormite tranquilli, non disturbate il manovratore, votatelo e dategli quel 51% dei suffragi che gli permetterà di fare ancor meglio.

Il primo intoppo è venuto con Michele Santoro, il quale, con i suoi modi che non sono studiati per generare simpatia, ha dimostrato una banalità: che mentre all’Aquila tutto girava al meglio, bastava allontanarsi di qualche chilometro per scoprire che c’erano ritardi, che i mezzi di aiuto lasciavano a desiderare, che c’era gente che si lamentava. Gli abruzzesi sono gente di montagna, dura, orgogliosa, grandi lavoratori, testa bassa, denti stretti. I lamenti erano critiche e osservazioni puntuali, precise.

Le spiegazioni erano semplici, ma Berlusconi ha perso la testa, dando una prova di come un liberale del profondo nord può mutare se i voti lo sostengono. Se in quel momento avesse avuto la maggioranza assoluta, Santoro, se ancora fosse stato a libro paga Rai (aveva tra l’altro appena vinto una causa per una precedente estromissione, sempre ordinata da Berlusconi), sarebbe stato cacciato; l’ordine dei giornalisti, meravigliosa invenzione di Benito Mussolini che nemmeno Stalin è stato capace di uguagliare, lo avrebbe convocato, ammonito e espulso.

Berlusconi ha perso la testa perché una piccola macchietta, sotto specie di una trasmissione che non è certo nelle corde della maggioranza degli italiani, e che sarebbe passata sconosciuta ai più se Berlusconi non avesse fatto il diavolo a quattro che ha fatto, gli è schizzata sullo sparato bianco della festa della ricostruzione.

Poi via con i funerali, momento culminante del cordoglio nazionale.

Poi l’assurda pretesa di portare i capi degli otto paesi più ricchi e potenti del mondo in Abruzzo per la già programmata, in Sardegna, riunione di settembre. C’è da prevedere che sarà una catastrofe, e anche una um,iliazione per i poveri abruzzesi esibiti come scimmie allo zoo davanti a decine di migliaia di stranieri al seguito dei potenti della terra.

Infine, gli italiani tornavano alla vita normale, e anche gli abruzzesi della costa si rivolgevano ai loro affari quotidiani, e anche gli abruzzesi del terremoto cercavano di recuperare un minimo di normalità, confidando nelle promesse del Politico numero uno. In quel momento prendeva il via la gestazione del piano per la ricostruzione.

Si era parlato prima di dodici miliardi di euro, scesi a otto ma finanziati non con nuove tasse e imposte, ma con una serie di spostamenti di voci del bilancio, cosa possibile visto che nell’enorme massa di soldi che la macchina dello stato macina, otto miliardi sono poca cosa e ci sono notevoli quantità di soldi che non sono utilizzati.

Ma si era anche parlato, da parte di Berlusconi, di tempi e scadenze. L’impegno più importante riguardava le case: quelle provvisorie, necessarie per togliere gli abruzzesi dalla precarietà delle tende, quelle definitive, che ciascun terremotato si sarebbe costruito sulle macerie della vecchia distrutta o dove più avrebbe gradito, purché sempre, rigorosamente antisismiche.

Berlusconi aveva rinnovato le sue promesse non più tardi di martedì sera, 5 maggio, in Tv, nel solito salotto di Vespa, davanti alla nazione,convocata col pretesto del bilancio di un anno del suo governo, ma interessata soprattutto a sentire la sua versione della sua privata vicenda matrimoniale, tra Veronica, Noemi e le veline.

Incaute affermazioni, clamorosamente smentite. Ora dall’Abruzzo comincia a trapelare la verità sulla ricostruzione. L’Italia è un paese approssimativo, dove dei documenti si leggono solo i titoli, se si leggono. Andiamo per slogan, votiamo per emozioni e quindi siamo esposti a promesse e imbonimenti di ogni genere. Non ci dobbiamo buttare troppo giù, peraltro, perché se pensiamo che gli americani hanno votato George Bush e i francesi Nicolas Sarkozy, allora il nostro Berlusconi è un gigante, purtroppo per lui anche nel volere essere sempre il primo della classe, anche quando non ha studiato.

Gli abruzzesi, però, sono gente seria. Hanno preso il decreto, lo hanno letto, lo hanno studiato, e hanno scoperto che quasi metà di loro passerà l’inverno in tenda e che il soldi delle case ci saranno solo a metà.

È a questo punto che un grande pezzo del fondale di cartapesta, stile western di Hollywood anni ‘50, è venuto giù. Il governo può insistere nelle sue illusioni. C’è ancora tempo per rimediare, siamo in primavera, piani alternativi si possono elaborare, i bisogni elementariu degli abruzzesi possono essere affrontati. Berlusconi, se ci si applica Lui personalmente, ha genio e inventiva per fare le cose bene.

Se no, chiunque ci sia al governo, il potere poltico ancora una volta avrà dimostrato di essere permeato dello stesso spirito sabaudo – borbonico di sempre, che tanto male ci ha fatto. E la scarsa fiducia dei cittadini nello stato, che Berlusconi ha eroicamente cercato di ricostruire, magari personalizzando un po’ troppo, ma con la carta pesta invece che con il cemento. Scenderà ancore di più. E sarà male per tutti. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia

Il terremoto in Abruzzo e il “Decreto Abracadabra”: propaganda elettorale sulle disgrazie dei terremotati?

I trucchi del “decreto abracadabra”ricostruzione diluita in 23 anni di MASSIMO GIANNINI-la Repubblica.

Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c’è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il “Decreto Abracadabra”. Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell’Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest’anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di “non aver messo le mani nelle tasche degli italiani”. Il ministro dell’Economia si è fregiato di aver reperito le risorse “senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all’altra del bilancio”.

Il “Decreto Abracadabra” non aiuta a capire. Il capitolo “Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria” dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 12, intitolato “Norme di carattere fiscale in materia di giochi”) è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall’indizione di “nuove lotterie ad estrazione istantanea”, “ulteriori modalità di gioco del Lotto”, nuove forme di “scommesse a distanza a quota fissa”. E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un “gioco” che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: “La previsione di una crescita del volume di entrate per l’anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi – si legge nella relazione tecnica al decreto – potrebbe risultare in qualche modo problematica”.

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 14, intitolato “Ulteriori disposizioni finanziarie”) è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell’Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per “garantire l’acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer”) al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell’articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle “maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi”. Insomma, entrate scritte sull’acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l’erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel “Pacchetto Ricostruzione”. A parte gli interventi d’emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l’edificazione delle case provvisorie (“a durevole utilizzazione”, secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest’anno, 300 l’anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a “Porta a Porta” di due giorni fa, fa pensare che l’impegno di una “casetta” a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato “un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica”.

Basterà presentare le fatture relative all’opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d’imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell’Umbria e del Friuli, i terremotati d’Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come “limite massimo” dell’erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l’impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell’appartamento da riedificare.

Nel “Decreto Abracadabra”, per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i “soliti comunisti-sfascisti” dell’opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l’esecutivo di trattare gli aquilani come “terremotati di serie B”), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l’altro ieri a L’Aquila ha ripetuto “qui servono soldi veri”. C’è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L’epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

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Attualità

Le visite ufficiali passano, la rabbia rimane: 200 esposti alla magistratura per il terremoto in Abruzzo.

(ANSA) – L’AQUILA, 2 MAG – Man mano che passano i giorni aumentano tra gli sfollati i dubbi, misti a rabbia, sulle cause che hanno determinato i crolli. Sono oltre 200 gli esposti presentati all’autorita’ giudiziaria da cittadini che chiedono espressamente, alla Procura della Repubblica, di verificare se alla base dei crolli ci siano responsabilita’ umane o se, invece, e’ stata la violenza della scossa nella notte tra il 5 e il 6 aprile scorsi a devastare o gravemente danneggiare le abitazioni private. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia Media e tecnologia

La crisi c’è e pesta duro: il finto clima di fiducia su presunti segnali di ripresa coincide con la scomparsa del termine “crisi”dai titoli dei giornali.

LA CRISI SULLA STAMPA
di Francesco Daveri da lavoce.info
Sembra tornare l’ottimismo tra gli imprenditori italiani, almeno secondo l’indagine Isae. E’ vero che la Borsa va meglio, ma l’indagine trimestrale sull’andamento della capacità produttiva mostra che nel primo trimestre 2009 le imprese manifatturiere hanno ulteriormente ridotto l’utilizzo degli impianti e segnalato maggiori difficoltà produttive. E allora da dove nasce il ritrovato clima di fiducia? Coincide con la scomparsa del termine crisi dai titoli dei quotidiani. Per valutare le prospettive economiche future conviene attenersi ai dati.

Secondo l’indagine condotta dall’Isae nei primi giorni di aprile su quattromila imprese, il clima di fiducia del settore industriale mostra un netto miglioramento e sale dal valore di 60,9 di marzo al 64,2 di aprile (+5 per cento rispetto al mese precedente), ritornando dunque a un valore superiore anche a quello registrato nel mese di febbraio.

IL RITORNO DELLA FIDUCIA

Le imprese sono diventate meno pessimiste sull’andamento di ordini e produzione e soprattutto relativamente ai livelli di produzione futura. In parallelo, procede il decumulo delle scorte di magazzino che invece si sono accumulate nei periodi di magra. Migliorano anche i giudizi delle imprese sulle condizioni di accesso al mercato del credito; rimane stabile la quota di imprese che si considerano razionate, con un aumento di coloro che ritengono di essere fortemente razionati e una diminuzione di coloro che hanno rifiutato il finanziamento a causa di condizioni più onerose.
Il pessimismo si va attenuando in modo piuttosto generalizzato, anche se con qualche differenza: particolarmente più fiduciosi sono i produttori di beni intermedi, rispetto ai produttori di beni di investimento, più duramente colpiti dalla crisi nei mesi scorsi, e quelli di beni di consumo, finora meno coinvolti. Anche a livello territoriale le valutazioni delle imprese migliorano ovunque: un po’ di più nel Nord Est, un po’ meno nel Nord Ovest e nel Centro-Sud.
Ci si può chiedere da dove venga tutto questo ottimismo. È vero che la Borsa va molto meglio rispetto al picco negativo di inizio marzo. Ma le Borse hanno previsto undici delle ultime sette riprese del ciclo; insomma, non sono certo immuni da quelle che nelle gare dei100 metri si chiamano “false partenze”. Per ora non abbiamo i dati sul Pil del primo trimestre: saranno pubblicati a metà maggio e tutti si aspettano un dato molto negativo. A conferma di questo, l’indagine trimestrale sull’andamento della capacità produttiva mostra che nel primo trimestre 2009 le imprese manifatturiere hanno ulteriormente ridotto l’utilizzo degli impianti e segnalato maggiori difficoltà produttive. Come minimo, ci sono ragioni di grande cautela sulle prospettive economiche future.

LA CRISI NEI TITOLI

Ventate di ottimismo in presenza di dati ancora molto incerti: chi ci capisce è bravo. Una possibilità è che le aspettative degli imprenditori sul futuro siano influenzate da quello che leggono sui giornali. A parità di quello che succede nella loro azienda, se leggono che le cose vanno male, tendono ad aspettarsi il peggio; se invece leggono che le cose vanno meglio, diventano ottimisti. Di questo, del resto, si lamentava il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei mesi scorsi, quando i titoli dei quotidiani erano pieni di notizie allarmanti sulle prospettive dell’economia. E ora? Cosa sta succedendo al modo in cui la crisi viene trattata sui media? Esiste una correlazione tra il modo in cui si parla di crisi sui giornali e la ventata di ottimismo che pervade gli imprenditori?
Per provare a capire, si può guardare la frequenza con cui ricorre la parola “crisi” nei titoli dei cinque principali quotidiani italiani: Corriere della sera, La Repubblica, Il Sole 24Ore, La Stampa, Il Giornale. (1)
Il grafico “La crisi sui giornali” riporta in un riassunto un po’ rozzo, ma istruttivo, il numero di volte che la parola “crisi” è stata citata ogni settimana sulle cinque testate indicate, a partire dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008) fino a oggi. Anzi, fino al 20 aprile, il giorno in cui l’Isae ha chiuso la sua indagine sulle aspettative degli imprenditori. Nella tabella allegata, sono riportati i dati settimanali alla base del grafico, testata per testata e in totale.
Dalla figura e dalla tabella emergono varie indicazioni utili, certo meritevoli di approfondimento. Il numero di citazioni varia notevolmente di settimana in settimana, con due picchi (pari a più di 50 citazioni) quando è stato approvato il piano Paulson nella prima settimana di ottobre 2008 e quando il governatore della Fed Ben Bernanke ha azzerato i tassi di interesse sui Fed Funds. Il grafico mostra anche quando il numero di citazioni ha raggiunto il minimo: nelle settimane tra il 6 e il 19 aprile, in corrispondenza con l’enorme spazio attribuito dai media al terremoto. Più in generale, il grafico indica un marcato trend decrescente nel numero di citazioni tra il picco (locale) di 40 citazioni nelle settimane precedenti il G20 e le settimane seguenti, in cui il numero di citazioni settimanali scende, rispettivamente, a 32, 34, 29, 16 e 12. (2)
Insomma, tre delle otto settimane dal 15 settembre 2008 nelle quali la “crisi” è stata citata meno di 30 volte sono esattamente le settimane (1-20 aprile) in cui l’Isae ha effettuato la sua ultima rilevazione. In febbraio e fino all’inizio di marzo, invece, quando gli imprenditori si erano mostrati così pessimisti, anche a causa del cattivo andamento delle Borse, la media delle citazioni settimanali è stata di 32 e 35 rispettivamente, contro circa 20 nelle tre settimane antecedenti il 20 aprile.
Per quanto riguarda i singoli giornali, la tabella indica che il Giornale ha dato alla crisi mediamente meno enfasi delle altre testate all’incirca dalla fine di novembre fino all’inizio di marzo: 5,3 citazioni alla settimana contro 7,5 degli altri quattro giornali. Il Corriere e Repubblica hanno mantenuto alta l’attenzione dei loro lettori sull’argomento fino alla fine di dicembre. Più di recente, l’argomento crisi è tornato a apparire nei titoli abbastanza uniformemente su tutte le testate nelle settimane precedenti al G-20.

ATTENERSI AI DATI

I pochi dati qui riassunti sono certo insufficienti per trarre conclusioni definitive sulla relazione tra il modo in cui la crisi è trattata sui media e l’evolversi dell’umore degli imprenditori.
I dati riportati sono parziali perché non includono i giornali locali e, più in generale, perché non includono le citazioni dei Tg. Certamente, i lettori dei quotidiani si stancano di leggere tutti i giorni le stesse cose. Questo può spiegare perché la crisi – come mostra il grafico – ciclicamente scompare dai titoli. Un osservatore malizioso potrebbe vedere nel preponderante spazio mediatico assegnato al terremoto il più recente esperimento nell’applicazione di tecniche di distrazione di massa, care a tutti i governi. Ma il presidente del Consiglio possiede o controlla le Tv e solo uno dei cinque giornali considerati. In generale, rimane che la coincidenza tra il ritorno dell’ottimismo tra gli imprenditori e la scomparsa della crisi dai titoli dei quotidiani del mese di aprile suggerisce l’importanza di attenersi il più possibile ai dati, anziché alle opinioni politiche, nel seguirne l’andamento. (su lavoce.info sono disponibili grafici esplicativi che qui non sono stati riprodotti. Beh, buona giornata)

(1) La fonte è la Rassegna stampa della Camera dei Deputati. Ricerca dati a cura di Davide Baldi e Ludovico Poggi.
(2) Occorre precisare che individuare un trend con una serie così limitata di osservazioni è un esercizio certamente controverso dal punto di vista statistico. Con il tempo, sarà possibile raffinare l’analisi. È tuttavia importante cominciare a esaminare alcuni dati su un tema così ampiamente dibattuto.

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Attualità democrazia

Perché la polizia politica identifica chi contesta il premier?

(fonte: repubblica.it)

“Non devi venire in Abruzzo, ci stai rovinando”. Con queste parole Silvio Berlusconi è stato contestato oggi a Napoli da due giovani abruzzesi, che, davanti alla prefettura, gli hanno gridato contro. I due, trentenni senza precedenti penali, sono stati identificati dalla Digos, e hanno detto di essere venuti a Napoli proprio per la visita del premier. Beh, buona giornata.

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Attualità

A che serve portare il G8 in mezzo ai disagi del terremoto?

Terremoto, Abruzzo/ Lontano dai riflettori, il G8 all’Aquila: esibizione e umiliazione
di Luigi Zanda da blitzquotidiano.it
L’idea di Silvio Berlusconi, il nostro primo ministro, di non tenere più la riunione del G8 in Sardegna, alla Maddalena, ma a l’Aquila, è certamente affascinante e suggestiva, è quel che si dice un colpo di genio. Porta i potenti del mondo dove l’Italia ha più sofferto negli ultimi tempi. Il messaggio, sotto elezioni, è forte e chiaro: I care, sembra voler dire. Tradotto, Berlusconi dice: ora che ci sono io, qualcuno si occupa di voi.

Gli abruzzesi sanno bene come stanno le cose, specie quei terremotati che vivono nelle tende, dimenticati da tutti. Ma il resto degli italiani, per i quali il terremoto è ormai un lontano ricordo, provano sollievo nel pensare che ora loro non si devono più preoccupare, perchè c’è lui che provvede.

Ma se vogliamo ragionare in termini non di colpi di teatro e di campagne elettorali ma di buona e sana amministrazione del paese, allora servono spiegazioni precise, perché i conti non tornano.

Fino all’altro ieri governo e protezione civile invitavano tutti – parlamentari compresi – a non andare in Abruzzo per non intralciare i soccorsi e la risistemazione provvisoria del territorio dopo il disastro. Adesso sappiamo che tra qualche settimana arriveranno alla periferia dell’Aquila otto capi di stato e di governo, tremila delegati, tremila giornalisti e sedicimila uomini delle forze dell’ordine.

In questa decisione, c’è qualcosa che non quadra.

Intanto sul piano dei costi, perché è difficile credere che garantire la sicurezza di tutta quella gente sia più facile e meno costoso tra le tendopoli che non su un’isola, dove peraltro, molto di quel denaro che si asserisce di volere risparmiare è stato nel frattempo speso.

Poi sul piano dell’immagine e della solidarietà. Gli abruzzesi sono gente seria e orgogliosa, come i sardi. Non amano mettere in piazza i loro sentimenti. Sono riservati e misurati. Hanno creduto nelle promesse del governo e aspettano che Berlusconi ora le mantenga. Non si aspettavano certo di essere esibiti, nel disagio che vivono ogni giorno, nelle tante piccole umiliazioni che subisce chi vive in modo precario e provvisorio.

Molto di quel che dice Berlusconi è pura immagine, perché lontano dai riflettori della tv la cose stanno diversamente e la gente sta male, c’è da chiedersi cosa proveranno gli abruzzesi quando vedranno che il frenetico vai e vieni di capi di stato e ministri e attendenti comporterà un ulteriore aggravio del ritardo e dell’abbandono. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Come si chiama il segretario di Rifondazione comunista: Ferrero o Tafazzi?

Terremoto, Abruzzo, Tasse e Imposte/ Ferrero (Prc): tassare i ricchi (cioè quelli sopra i 4.500 euro netti mese) da blitzquotidiano.it

Tassare i ricchi, è lo slogan di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista. Principio sul quale quasi tutti convengono. Ma quando passa a definire chi è ricco, Ferrero indica la soglia di 100 mila euro lordi annuo di reddito lordo. Data l’attuale pressione fiscale diretta oggi in Italia, la cifra si traduce in uno stipendio intorno ai i.500 euro netti al mese. E si dice stipendio, perché di solito le imposte sul reddito colpiscono soprattutto i dipendenti, cui vengono prelevate direttamente dalla busta paga: anzi, i dipendenti, quei soldi manco li vedono. Invece gli autonomi e i commercianti si arrangiano e i padroni pagano solo il 20% sui dividendi. E con i padroni, nemmeno il comunista Vincenzo Visco, che pure ha infierito sui dirigenti d’azienda, non ha avuto il coraggio di prendersela.

E questi sono i concetti di Ferrero, come riportato dall’agenzia di stampa Agi:” Altro che spostare capitoli e voci di spesa. Per finanziare la spesa necessaria per la ricostruzione del post-terremoto in Abruzzo, il ministro Tremonti vuole mettere a repentaglio la spesa pubblica, possibilmente tagliandola ancora di più di quanto non abbia già fatto il suo governo, ma si tratta di una misura del tutto sbagliata e inutile. Per finanziare la ricostruzione c’è una strada, ed è molto semplice: basta aumentare le tasse ai ricchi, introdurre una tassa sui grandi patrimoni, tassare le rendite finanziarie, aumentare le tasse per i redditi sopra i 100 mila euro. Ecco un modo semplice ed efficace per garantire la ricostruzione”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il terremoto, una mano santa per la popolarità di Berlusconi.

Il premier e il sisma. Fiducia in crescita
Le conseguenze politiche del terremoto
di Renato Mannheimer da corriere.it

La tragedia del terremo­to ha avuto inevitabil­mente anche effetti po­litici e ripercussioni sull’opi­nione pubblica. In due direzioni principali. La prima è stata l’improvviso instaurarsi di un clima meno conflittuale tra le forze politi­che. Di fronte a una situazio­ne così drammatica, molte delle tradizionali dispute tra i partiti sono state accantonate dalla necessità di operare di comune accordo per reagire il più rapidamente e il più ef­ficacemente possibile al­l’emergenza. La seconda con­seguenza è costituita dalla forte accentuazione della dif­ferenza di popolarità tra le principali forze politiche, con un netto accrescimento del vantaggio, già consisten­te, acquisito dal presidente del Consiglio. Berlusconi ha confermato le proprie capaci­tà comunicative e la sua abili­tà nell’instaurare, spesso al di là di ogni intermediazione, un rapporto e un colloquio di­retto con la «gente».

Gli ultimi sondaggi confer­mano questo quadro. Quasi metà dell’elettorato (48%) ritie­ne che, al di là del proprio giu­dizio in merito, il Cavaliere sia riuscito oggi a riscuotere più fiducia di prima. Questa opi­nione è relativamente più pre­sente tra chi è politicamente simpatizzante per il centrode­stra: ma anche tra gli elettori del Pd la convinzione che Ber­lusconi abbia ottenuto un van­taggio è assai diffusa (36%).

Se si approfondisce l’anali­si e si interrogano i cittadini non tanto sulle loro conside­razioni di carattere generale, quanto sulla propria reazione alle iniziative del Cavaliere, l’immagine del successo di Berlusconi viene meglio deli­neata e chiarita nelle sue com­ponenti. Più di un quarto de­gli italiani (26%) dichiara di avere incrementato la pro­pria personale fiducia nel Pre­sidente del Consiglio proprio a seguito del suo comporta­mento in Abruzzo. Costoro sono naturalmente in gran parte già elettori del centro­destra e ne riproducono le ca­ratteristiche sociali (anziani, casalinghe, possessori di tito­li di studio medio-bassi). Ma anche una quota — modesta, ma significativa: poco meno del 10% — di votanti per il Pd «confessa» di provare, dopo il terremoto, più fiducia in Berlusconi.

Negli ultimi giorni, insom­ma, il Cavaliere ha visto incre­mentare ulteriormente la pro­pria popolarità, grazie special­mente alla mobilitazione del proprio elettorato già acquisi­to, ma anche attraverso la conquista delle simpatie di un piccolo segmento dei vo­tanti per l’avversario. La con­seguenza è un ulteriore allar­gamento del grado di consen­so goduto nel Paese — oggi superiore al 50% — e, ciò che forse è più importante, un au­mento della percentuale di in­tenzioni di voto per il Pdl che oltrepassano oggi il 45% e, se­condo alcuni, si avvicinano al 50%. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Terremoto tra i costruttori del terremoto de L’Aquila.

di MASSIMO MARTINELI da messaggero.it

L’AQUILA (19 aprile) – L’inchiesta sui crolli del terremoto diventa una battaglia legale tra imprenditori. Almeno per uno dei palazzi-simbolo di questa tragedia nazionale, quello di via XX Settembre 79, dove dieci persone sono state uccise dallo scivolamento di un’ala dell’edificio verso un garage attiguo, costruito di recente. Già domattina, infatti, tre condomini di via XX Settembre 79, e tra questi gli eredi di Domenico Cioni che quel palazzo lo costruì, depositeranno in Procura un esposto dettagliato per chiedere al pm Fabio Picuti di accertare il rapporto di causa-effetto tra il crollo e la costruzione di un garage da parte di un altro imprenditore, Armido Frezza. A firmare l’esposto, insieme ai figli del costruttore Cioni, ci saranno anche l’avvocato Aleandro Equizi e la signora Mannella, entrambi proprietari di appartamenti nel palazzo crollato e scampati miracolosamente al crollo.

A rappresentarli, l’avvocato Giampaolo Filiani, che anticipa: «Chiederemo che un collegio di ingegneri di chiara fama, che non hanno mai lavorato al’Aquila, accerti se i lavori per costruire il garage abbiano compromesso le fondamenta del palazzo, perchè anche solo alterando la crosta rocciosa sottostante alle fondamenta si può amplificare la trasmissione delle onde sismiche». Da parte sua, Frezza aveva già commentato nei giorni scorsi: «Ho il massimo rispetto per chi soffre ma non è con me che devono prendersela. L’emotività è una cosa, la realtà un’altra. Non si può pontificare su cose che non si conoscono, come ad esempio le tecniche di costruzione, il tipo di materiale usato, il ruolo dei progettisti. Qui si rischia di linciare le persone sulla base di un mero imbroglio mediatico».

Intanto proseguono senza sosta gli interrogatori dei testimoni che raccontano come si sarebbe potuta evitare l’altra ecatombe di via XX Settembre, quella dei ragazzi morti sotto le macerie della Casa dello Studente. Dopo l’interrogatorio di Carmela Tomassetti, la studentessa che aveva abbandonato l’ostello una settimana prima del sisma perchè preoccupata dalle crepe e dalle infiltrazioni nei muri già provocate dallo sciame sismico che ha preceduto il terremoto, ieri gli uomini della Polizia Giudiziaria hanno raccolto le deposizioni di altre tre ragazze, amiche della Tomassetti.

Due di loro sono state ascoltate all’Aquila, e hanno confermato l’esistenza di una crepa su un pilastro della sala mensa che produceva un’infiltrazione d’acqua. E ancora, hanno detto che nelle loro camere c’erano vistose fessure, ma che non sono stati fatti sopralluoghi per stabilirne l’eventuale pericolosità. Una terza ragazza è stata rintracciata a Cosenza, dove è tornata dopo il sisma. E anch’essa ha reso una deposizione sovrapponibile a quelle delle sua amiche. Intanto, mentre la polizia giudiziaria ha sequestrato anche quel che resta dello stabile crollato del Convitto Nazionale, altri studenti della Casa dello Studente si sono riuniti in un comitato di parenti delle vittime; e hanno raccontato una serie di circostanze sulle quali la procura dovrà fare luce. Tra queste, c’è il ruolo dell’architetto che verificava la salubrità dell’ostello, che in più occasioni avrebbe tranquillizzato i ragazzi circa la solidità dell’edificio. Intanto, la Cgil ha annunciato che si costituirà parte civile nell’inchiesta sulle presunte responsabilità per i crolli del terremoto, al fianco dei parenti delle vittime. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Terremoto: “Nicola, caro vice ministro Bertolaso, è stato ucciso come tutti gli altri dall’imprudenza delle istituzioni.”

da ilmessaggero.it

Nicola Bianchi era uno studente di 22 anni di Monte San Giovanni Campano, morto nel crollo della palazzina in via Gabriele D’Annunzio 11 distrutta dal terremoto. Il padre, Sergio Bianchi, operatore del 118, ha scritto oggi una lettera aperta al capo della Protezione civile Guido Bertolaso, per chiedere perché, nonostante si registrassero scosse sismiche fin da gennaio, nessuno abbia preso provvedimenti, a partire dalla chiusura dell’università «una settimana prima come hanno fatto le scuole ritenendo la situazione pericolosa».

«Non voglio fare polemiche – scrive Bianchi – ma sono addolorato e non bisogna dimenticare che in questa tragedia ci siamo anche noi: abbiamo perduto i nostri figli perché nessuno ci ha avvertiti del pericolo. Il mio ragazzo, insieme ad altre giovani vite ciociare spezzate, era all’Aquila per costruirsi un futuro. Ho visto i muri del palazzo-tomba di Nicola con alcuni lesioni. Ho chiesto spiegazioni a tutti, dal proprietario ai vicini e mi hanno risposto di stare tranquillo, che la situazione era sotto controllo. I nostri ragazzi che vivevano al civico 11 di via Gabriele D’Annunzio e gli altri che alloggiavano nelle palazzine vicine erano tranquilli, perché noi genitori gli avevamo trasmesso la serenità. Nicola, caro vice ministro Bertolaso, è stato ucciso come tutti gli altri dall’imprudenza delle istituzioni». (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Terremoto: “La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta.”

di Roberto De Marco, ex direttore del servizio sismico nazionale – eddyburg.it

Le macerie dell’ultimo terremoto costituiscono uno scenario immutabile nel tempo, lo sfondo sul quale più o meno si rappresenta lo stesso copione, almeno sul piano della espressione di intenzioni. Si promette il rapido superamento dell’emergenza fino al raggiungimento di normali condizioni di vita; in tempi contenutissimi si garantisce il passaggio dalle tende alle case; infinela ricostituzione del tessuto produttivo ed infrastrutturale come occasione di sviluppo dell’area.

Tutte cose mai avvenute: il ritorno ad una vita normale è lungo e doloroso; il passaggio dalle tende alle case comporta una lunga permanenza in alloggi provvisori per una costosissima ricostruzione quantomeno decennale; per l’Irpinia del terremoto dell’80 si progettò quel tipo di sviluppo che fu poi costellato di illegalità e cattedrali nel deserto. Come ultima cosa si dice che quanto accaduto non dovrà mai più capitare; e si promette un impegno inderogabile sul terreno della prevenzione sismica.

Il 28 dicembre del 2008 si è celebrato l’anniversario del terremoto di Reggio Calabria e Messina. Tante paginate di giornale sulla tragicità di quell’evento, tante commemorazioni, ma la questione su cui concentrare l’attenzione doveva essere soprattutto un’altra.
Il Governo Giolitti, terrorizzato dall’immane sciagura, pochi mesi dopo inaugurò infatti la prevenzione sismica in Italia. Da quel tragico evento in poi, chiunque avesse voluto costruire un edificio in un comune iscritto nella lista di quelli sismici, lo avrebbe dovuto fare rispettando una specifica normativa in grado di conferire una più elevata resistenza agli edifici. Da allora, dopo ogni terremoto più o meno distruttivo, nuove porzioni di territorio nazionale sono state classificate: nel 2001 il territorio nazionale appariva classificato come sismico per oltre il 70%. Ma, ad una così ampia delimitazione delle zone dove le esperienze vissute dimostravano la ricorrenza del fenomeno, non ha corrisposto un analogo riscontro in termini di azione di mitigazione del rischio: dopo un secolo di attivazione dell’unico strumento organico di prevenzione, oggi, solo il 18% degli edifici, rispetto all’intero stock di edificato, risulta sismicamente protetto.

Bene, dalle immagini di L’Aquila e dintorni emerge un’enorme assenza di sicurezza e, in queste primissime ore di post-terremoto, nel rispetto delle vittime e delle strutture di soccorso che stanno cercando di fare il loro meglio per risolvere l’emergenza, emerge una macroscopica mancanza di prevenzione, il che induce ad alcune considerazioni a caldo, salvo poi ritornare, con maggior cognizione di causa, su taluni aspetti.

Il terremoto ha colpito L’Aquila e alcuni piccoli paesi abbarbicati sui versanti della Conca dell’Aterno che danno l’impronta al paesaggio dell’Appennino centro meridionale.
L’edilizia prevalente nel centro storico del capoluogo così come in quelli di Paganica, Fossa, Onna, Barisciano è intrinsecamente fragile, vulnerabile per caratteristiche tipologiche e costruttive. Insomma, rappresenta in modo emblematico l’elevato rischio sismico di cui è affetto il Paese, dovuto al patrimonio edilizio preesistente rispetto all’introduzione della classificazione sismica del territorio che ha iscritto i comuni dell’Aquila e di tutta la sua provincia dal 1915, quando il terremoto di Avezzano causò 30 mila vittime.

E’ necessaria, dopo quest’ultimo disastro, una riflessione sulla politica di prevenzione anche per queste tipologie edilizie, per i centri storici nel loro complesso, rispetto ai quali con tutta evidenza le iniziative intraprese attraverso strumenti di defiscalizzazione a favore degli interventi di manutenzione straordinaria, che hanno riguardato anche aspetti strutturali, non hanno risolto significativamente il problema. Insomma, i centri storici, ormai in modo diffuso, sono realtà che hanno riacquistato in questi ultimi anni una forte capacità attrattiva, sia sul piano residenziale che turistico. Si riqualificano sul piano estetico, si ristrutturano nel senso della vivibilità, recuperando almeno in parte la loro indispensabilità sul piano socio-culturale, mentre purtroppo, sul piano della sicurezza, sembrano mantenere intatta la loro vulnerabilità.

E’ un problema di risorse? Certamente sì. Lo Stato avrebbe dovuto far di più onorando l’impegno, più volte assunto dopo ogni catastrofe, che la messa in sicurezza del territorio sarebbe diventata la più importante opera pubblica di questo Paese. Ma di soldi, per esempio, ai Beni culturali ne sono stati dati, di interventi ne sono stati fatti, anche qui con esiti a dir poco incerti. Allora, di fronte ai disastri delle chiese e dei monumenti del capoluogo abruzzese emerge un problema di progettazione, di capacità tecniche, di giusta sintesi tra l’esigenza di proteggere dalla distruzione ed i vincoli della conservazione.

Ed infine c’è il cemento armato. Perché gli edifici in cemento “moderni” collassano, si impilano su stessi non lasciando nessuno scampo a chi li abita? Come sostiene qualcuno è un problema più da Procura della Repubblica che tecnico. D’altronde, la normativa sismica pretende che la nuova edilizia nei comuni classificati, e quindi soprattutto gli edifici in cemento armato, consenta di salvare la vita degli occupanti, pur subendo danni, e quindi non ammette giustificazioni spendibili in linea generale. Soprattutto di fronte a ciò che è avvenuto a L’Aquila oggi, alla scuola di San Giuliano di Puglia ieri e all’Ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi l’altro ieri.

In senso generale, si può affrontare un ultimo tema legato direttamente al concetto di sicurezza oltre che, evidentemente, alla tutela del territorio. Per chi si occupa di riduzione del rischio sismico, ma in realtà anche di tutte le altre tipologie di rischio naturale, il termine “condono” rappresenta una sorta di anatema, di cupo presagio. L’abusivismo, che i condoni incrementano, soprattutto diffuso nelle aree meridionali del Paese dove più elevata è la pericolosità sismica, ha assunto dimensioni devastanti, e chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità dell’area di sedime né delle caratteristiche strutturali. La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta. Certo, oggi un nuovo condono in Italia è improponibile, ma si affaccia la minaccia di appendici e superfetazioni di ogni tipo. Basta che non superino il 20% di quanto già costruito abusivamente e poi, magari, condonato. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: http://www.eddyburg.it/article/articleview/12983/0/352

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Attualità Popoli e politiche

Quello dell’Abruzzo non è un stato un “grande” terremoto. Perché ha provocato tanti morti?

IL TERREMOTO TRA VERA PREVENZIONE E FALSA FATALITA’
di Lapo Boschi e Elena Fagotto da lavoce.info
I terremoti si possono prevedere. Non alla maniera di Giuliani, però. Si capiscono studiando i movimenti delle placche tettoniche, prendendo in esame una zona che tende a fratturarsi e esaminando la frequenza degli eventi in quella zona. Perché nei terremoti c’è una certa regolarità, un ritmo. Ma la previsione non serve a ordinare un’evacuazione, serve a sapere dove le case vanno costruite secondo criteri antisismici. E il problema più grave dell’Italia è proprio l’inadeguatezza delle infrastrutture anche di fronte a un sisma di dimensioni relativamente modeste.

Quando lunedì il terremoto ha colpito l’Abruzzo, in molti si sono ricordati di Giampaolo Giuliani, il tecnico del laboratorio del Gran Sasso che una settimana prima aveva cercato di allertare le autorità.
Ci si è domandati se gli scienziati che Giuliani chiama “canonici” non avessero clamorosamente sbagliato a ignorare le sue indicazioni: ogni sismologo si è sentito domandare, da colleghi e da profani, se davvero il terremoto non si poteva prevedere.

TRA PROFEZIE E PREVISIONI

Quello dell’Abruzzo non è un stato un “grande” terremoto. In altri paesi, scosse più intense fanno meno danni, meno vittime. Nel 1989 il terremoto di Loma Prieta, a una cinquantina di chilometri da San Francisco, ha rilasciato dieci volte più energia di quello dell’Abruzzo. Quante vittime? Sessantatré i morti, circa 3mila i feriti, 10mila gli sfollati. I dati che arrivano dall’Abruzzo, ancora non definitivi, sono già peggiori. Eppure, la regione che circonda la baia di San Francisco è una delle aree metropolitane più densamente popolate degli Stati Uniti.
Oggi i sismologi che si sentono porre la classica domanda sulla possibilità di previsione, possono rispondere che, sì, i terremoti si possono prevedere. Non alla maniera di Giuliani, però. I terremoti si capiscono studiando i movimenti delle placche tettoniche: vicino all’Italia quella africana sprofonda sotto quella europea; l’attrito provoca fratture che percepiamo sotto forma di terremoti. E si prevedono prendendo in esame una zona che tende a fratturarsi, una zona sismica, e studiando la frequenza dei terremoti in quella zona. Da qualche decennio, esiste in Italia una rete di sismometri che misurano le oscillazioni del suolo, consentendo di misurare accuratamente e in tempo reale posizione e grandezza dei sismi. In questo modo è possibile, tra l’altro, inviare i primi soccorsi nelle località più colpite. Ai tempi del terremoto dell’Irpinia, in Italia questa tecnologia non esisteva. Oggi esiste, funziona e nei giorni scorsi ha salvato delle vite.
Altre misure si estrapolano da resoconti storici che descrivono terremoti vecchi di secoli. Messi insieme i dati, ci si accorge che nei terremoti c’è una certa regolarità, un ritmo: la velocità con cui le placche si spostano rimane uguale a se stessa per tempi “geologici”: milioni di anni. Il ritmo delle fratture è solo approssimativamente costante, però. Il prossimo “big one” potrebbe arrivare tra un mese, un anno, dieci anni. Differenze molto importanti, ma irrisorie nella scala temporale della tettonica a placche. Per colpa di queste differenze, le previsioni dei sismologi sono solo statistiche: mappe di pericolosità sismica, espresse “in termini di accelerazione massima del suolo con probabilità di eccedenza del 10 per cento in cinquanta anni”. Questo significa che un abitante di Messina o di Udine ha il 10 per cento di probabilità di essere colpito, nei prossimi cinquanta anni, da un terremoto grande come quello dell’Abruzzo, o ancora peggiore.
Oggi i terremoti si prevedono così. Questo tipo di previsione non serve a ordinare un’evacuazione, ma serve a sapere dove occorre costruire meglio le case. Meglio non si può fare, perché la frattura è un fenomeno caotico: basta una piccola perturbazione nelle condizioni iniziali e tutto (il luogo e l’ora del sisma, l’energia rilasciata) cambia, anche parecchio: decine di chilometri, mesi, punti di magnitudo. Per questo, anche lo sciame di piccoli terremoti registrati in Abruzzo negli ultimi mesi non è servito a prevedere quello più grande: esistono sciami di terremoti che non preludono a eventi più grandi, e grandi terremoti che arrivano all’improvviso.

DISCUTERE DI RADON NON RAFFORZA LE CASE

I ricercatori studiano, naturalmente, tutti i fenomeni che permettano di diagnosticare l’imminenza di un terremoto. Il radon, ad esempio, è un gas radioattivo sprigionato dalle rocce della crosta terrestre; da almeno trent’anni si sa che le emissioni tendono a essere più intense in corrispondenza di eventi sismici. Ci sono strumenti che rilevano il radon emesso dal suolo in un determinato punto, e su uno di questi strumenti Giampaolo Giuliani ha osservato, la settimana scorsa e in altre occasioni, che il suolo abruzzese stava emettendo più radon del normale. Ma come per gli sciami di piccoli terremoti, anche le emissioni anomale di radon non sono necessariamente segnali premonitori di un terremoto: c’è radon senza terremoti e ci sono terremoti senza radon. In assenza di un preciso modello scientifico, Giuliani non era nelle condizioni di lanciare un allarme.
Ad ogni modo, continuare a dibattere il caso del radon distoglie dal problema ben più grave dell’inadeguatezza delle infrastrutture di fronte a un sisma di dimensioni relativamente modeste. Ènecessario prevenirle adeguando le infrastrutture ai rischi naturali che ben conosciamo. Questa è la priorità numero uno. Una volta adeguate le infrastrutture ci si potrà occupare di early warning systems per attivare una serie di reazioni quando si presenta un sisma. (1)
I terremoti non sono fatalità, ma eventi cui è possibile far fronte preparandosi. Sapendo che la reazione a certi pericoli non è perfettamente razionale, è importante comunicare i rischi sismici in maniera chiara ed efficace alla popolazione, attraverso simulazioni per valutare che impatto avrebbero eventi del passato in condizioni attuali. Ad esempio, come reagirebbero la Messina e la Reggio di oggi a un sisma analogo a quello del 1908? Vi sono organizzazioni, fra cui Geohazard International, che sono impegnate su questo fronte. In zone ad alto rischio, l’educazione dei cittadini è fondamentale per trasmettere attraverso le generazioni l’esperienza e la cultura della prevenzione. Istituzioni che non riescono a prevenire rischi che in altri paesi vengono gestiti in maniera “normale” devono prendere atto del proprio fallimento.Ènecessario che comunichino con i cittadini in maniera trasparente, e stabiliscano meccanismi per far partecipare la popolazione alla gestione della ricostruzione, non solo nella fase progettuale, ma anche nella realizzazione degli interventi. Solo così ci sarà quell’accountability diffusa necessaria perché il prossimo terremoto non abbia conseguenze tanto drammatiche. (Beh, buona giornata).

(1) Attenzione, i segnali partono quando si verifica il sisma, allertando ad esempio i treni, per cui i tempi di reazione sono estremamente compressi.

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Attualità

“I giornali avvisano che la popolarità di Silvio Berlusconi è arrivata al 73 per cento dopo il terremoto. C’è da vergognarsi a riferirlo. Incredibile pensare che sia stato commissionato un simile sondaggio.”

Il dolore e i sondaggi
di Concita De Gregorio da L’unità

La macchinina sulla bara di Lorenzo gliela aveva regalata la maestra Alice, che ora è due file e sei posti a sinistra, il giorno che aveva fatto pace con Matteo. Della classe della maestra Alice nove si sono salvati, otto no. Ecco, quella è Sara. Quello Corrado che si chiamava come il nonno. È un’altra maestra che ci guida in questa incomprensibile geometria del destino. Parla al presente delle persone nelle bare, «Sara è bravissima in matematica». Piange. I vecchi si chiamano Emidio, Panfilo, Maria Incoronata. Le loro badanti Kristina, Carmen, Darika. I fili che li uniscono disegnano una ragnatela nel piazzale. Un secolo di vite, classi sociali, amici e nemici, compagni di scuola, generazioni e intrecci di amori. Una città intera distesa, allineata. Duecento bare. I morti sono quasi trecento, forse molti di più. Dei clandestini, si mormora, nessuno racconta né racconterà mai la storia. Vivevano negli scantinati, non hanno nome, non hanno chi li cerchi. Una sconcezza a cui nella vita ci siamo assuefatti perché conviene, è la morte a restituircela per quello che è: indecente, lercia.

Poi si dice anche: le case non dovevano crollare così, erano fatte di stracci. Questo giornale lo dice fin dal primo giorno, dal momento in cui i vigili del fuoco cominciavano a scavare tra piloni di cemento armato sbriciolato dicendo proprio così: sono fatti di stracci. Di sabbia, di polvere, di gesso, di qualcosa che costa di meno e vale di meno di quel che serve a fare il cemento quello vero, quello che non si sfarina. Speriamo che chi conduce l’inchiesta sia messo in grado di portare a termine il suo lavoro senza essere intimidito o zittito. Punire i colpevoli non resusciterà Lorenzo né Sara ma potrebbe fare in modo che i loro fratelli sopravvissuti abbiano case degne di questo nome. Che quella bambina bionda che rideva tra le bare con un fiore in mano abbia il futuro che le spetta e non il destino già scritto, alla prossima scossa che non sappiamo quando arriverà ma certo arriverà.

I giornali avvisano che la popolarità di Silvio Berlusconi è arrivata al 73 per cento dopo il terremoto. C’è da vergognarsi a riferirlo. Incredibile pensare che sia stato commissionato un simile sondaggio. La sedia del premier vuota, il giorno dei funerali, parlava da sola. Lui non era tra le autorità, era a baciare e carezzare e piangere ad uso di telecamera, a dire «darò le mie case a questa gente». Quali case? Quelle di Antigua o la villa sul Lago Maggiore? È vero. Anche far polemica in giorni così costa fatica. Preferiremmo tacere. Preferiremmo non dover dire faccia silenzio, signor presidente, e stia composto al suo posto. Se desidera rendere un servizio agli abruzzesi faccia in modo che si sappia subito chi ha speculato, raddoppi e triplichi le forze di chi indaga. Poi vigili sulla ricostruzione. Pietra su pietra rifaccia l’Aquila proprio dov’era e ne parliamo dopo. Ci vorranno anni, pazienza. Possiamo aspettare, anzi dobbiamo. Questa volta mostri di realizzare le promesse. Dopo, semmai, potrà anche commissionare un sondaggio. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il Prefetto: non venite a l’Aquila. Ma Berlusconi ci va lo stesso: per i terremotati o per i sondaggi?

Questa mattina il prefetto ha lanciato un appello: “Non venite all’Aquila”. Un invito rivolto a tutti coloro che “per turismo solidale o perchè vogliono vedere di persona i luoghi del sisma” intendono recarsi nella città abruzzese devastata dal terremoto. “Il tempo ci sta favorendo – spiega il prefetto – ma non è ora di gite fuori porta. Preghiamo queste persone di non venire a L’Aquila, perchè qui il lavoro non è finito. Stiamo potenziando e completando le tendopoli, tutte le forze impegnate nel soccorso hanno bisogno di spazio e anche i mezzi non devono avere intralci sul sistema viario”.

Però, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sara’ di nuovo nell’Abruzzo straziato dal sisma. E’ previsto che domani in mattinata Berlusconi assista ai riti pasquali assieme ai terremotati a l’Aquila. (Beh, buona giornata).

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Il sindaco de L’Aquila:«E’ un fatto che interi pezzi di strada, costruti nello stesso periodo e dagli stessi costruttori sono venute giù. Mentre altre, accanto, sono rimaste in piedi».

di Claudia Fusani da unita.it

Un’indagine amministrativa interna, tra i dipendenti del Comune, da avviare il prima possibile per capire chi e come ha truccato le carte all’ospedale S. Salvatore. O alla città giudiziaria, tribunale e procura. E in ogni altro edificio pubblico e scuola dove i tecnici comunali incaricati hanno di volta in volta certificato la congruità dei lavori e dei materiali impiegati. La macchina del comune dell’Aquila rimasta orfana di sede e documentazione, l’archivio di Stato e notarile è perso così come buona parte di tutta la documentazione, sta piano piano ricominciando a funzionare in strutture provvisorie, soprattutto asili, strutture basse, sicure, dove le scosse si fanno sentire ma non fanno danni.

La verità sui crolli
Ma la verità sui crolli è una priorità anche per il sindaco Massimo Cialente e i suoi collaboratori ora tutti suddivisi in “funzioni” essenziali, dai materiali alla logistica, dal censimenti dei danni alla verifica degli stabili, come prevede il Piano anticrisi. Così, lascia trapelare il direttore generale del comune Massimiliano Cordeschi, una delle prime iniziative sarà proprio quella di avviare un’indagine aministrativa sul «rilascio delle congruità dei vari stati di avanzamento dei lavori e dei materiali usati». La città giudiziaria, inagibile e in parte crollata all’interno, risale agli anni settanta e comunque negli anni dovrebbe aver avuto varie verifiche statiche. L’ospedale, storia kafkiana di assurdi e bugie, è iniziato nel ’72, è terminato nel 1996 ed è finito sotto inchiesta più volte per i giri di soldi e i materiali considerati scadenti. «Abbiamo un contenzioso antico con la ditta», spiega l’assessore ai Lavori Pubblici Ermanno Lisi «che non abbiamo mai voluto chiudere. Così adesso potremmo rivalerci noi nei loro confronti per i danni subiti». Per la vergogna, invece, non c’è prezzo. L’ospedale è stato evacuato, definito non agibile, sono venuti giù anche i controsoffitti.

Intanto va avanti l’inchiesta della magistratura sui crolli dei palazzi, come ha spiegato ieri all’Unita il procuratore Rossini, ma anche su eventuali sottovalutazioni del rischio sismico. Rossini ha dato incarico ai vigili del fuoco di repertare pezzi di cemento di ogni palazzo crollato e di quelli più gravemente lesionati costruiti di recente. Ogni singolo reperto sarà poi periziato e sottoposto ad indagine granulometrica. Non è tanto un problema di sabbia di mare («mi sembra strano – dice Livi – per i costruttori da queste parti costa molto meno il materiale inerte che trovano in loco, ad esempio abbondiamo di ghiaia») quanto semmai la composizione del calcestruzzo, la percentuale di acqua, la costituzione granulometrica dell’inerte e il cemento che poi sono le tre componenti del calcestruzzo. E può essere un problema di tipologia del ferro (tondino), il liscio garantisce meno dello zigrinato, e di distanze tra una sbarra e l’altra nel blocco di cemento. Il sindaco Massimo Cialente crede molto nell’inchiesta: «Voglio sapere la verità», dice. «E’ un fatto che interi pezzi di strada, costruti nello stesso periodo e dagli stessi costruttori sono venute giù. Mentre altre, accanto, sono rimaste in piedi». I vigili del fuoco sono al lavoro. Ma anche i cittadini hanno fatto parte del lavoro. Un padre ha raccolto un pezzo di cemento della Casa dello Studente crollata in via XX Settembre. Dove è morto suo figlio. (Beh, buona giornata).

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Il terremoto e le retorica del governo: “Non uccide il terremoto, ma la casa mal costruita o mal posta. Sarebbe bene ricordarlo sempre.”

di Mario Tozzi – da lastampa.it

E’ sempre spiacevole riflettere sulle catastrofi quando ci sono ancora persone da tirare fuori dalle macerie, ma bisogna farlo se si vuole evitare di trovarci ancora nel dolore e nella rabbia.

E rabbia è la parola giusta, quando sono anni che si classifica meticolosamente il territorio nazionale, mettendo in luce quanto sia esposto ai rischi naturali, e sono anni che non se ne tiene alcun conto. Agli italiani sembra di poter vivere in Scandinavia, ma il terremoto dell’Aquila ci ricorda brutalmente che non è così, che da noi ci sono alluvioni, frane ed eruzioni vulcaniche, che in buona misura possono essere previste, e terremoti di cui, invece, non si sa né l’ora o il giorno né tanto meno il mese o l’anno in cui si scateneranno.

È pero certo che lo faranno e ormai si sa bene dove: in Friuli, in Garfagnana, nella dorsale appenninica umbro-marchigiana-abruzzese, in Irpinia, in Calabria, nel Gargano e nella Sicilia orientale. E anche con che tipo di danno: veramente catastrofici nello Stretto di Messina, in Irpinia e nel Catanese. Eppure non viene speso un centesimo nel risanamento antisismico degli edifici pubblici, anzi si progettano faraoniche grandi opere che stornano denari dall’unico uso sensato che se ne dovrebbe fare in un contesto come il nostro. E si ipotizzano «piani edilizi» che permetterebbero la sopraelevazione degli edifici, proprio una delle cause più frequenti di crollo da terremoto, come insegna la storia dei nostri sismi, da quello di Messina e Reggio Calabria del 1908, aggravato dall’aver ignorato – già allora! – le norme antisismiche borboniche che vietavano di innalzarsi a più di 10 metri di altezza e di sovraccaricare gli edifici.

Sarà bene ricordare che non solo le città italiane sono il frutto di ricostruzioni dopo innumerevoli terremoti, ma anche il paesaggio è un paesaggio sismico, prodotto cioè da successivi eventi, come è normale in un paese geologicamente attivo, in cui si può convivere con il rischio solo usando scienza e intelligenza. Non uccide il terremoto, ma la casa mal costruita o mal posta. Sarebbe bene ricordarlo sempre. Dovremmo infine farla finita di parlare di ipotetiche catastrofi naturali, che in realtà non esistono: esiste solo la nostra incapacità, ignoranza o malafede nel rapportarci con il rischio e una delittuosa propensione a perdere la memoria degli eventi passati. Ma in Italia nessun posto è immune dal rischio e la Terra non smetterà di ricordarcelo. (Beh, buona giornata).

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