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La politica e la morte a Manchester.

Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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democrazia Dibattiti Guerra&Pace libertà, informazione, pluralismo, Popoli e politiche

No, non fate i furbi, non siamo in guerra.

La guerra noi la bombardiamo dall’alto, cercando di non lasciare uomini sul terreno. Noi facciamo i guerrafondai con i morti degli altri. Noi le chiamiamo missioni umanitarie. Noi non spariamo, no, noi facciamo attività di peacekeeping. In Afghanistan, in Iraq, in Siria lo facciamo da quindici anni, che significano centinaia di migliaia di morti civili, per i quali non versiamo lacrime, eh no!, sono danni collaterali, mica lo abbiamo fatto apposta. Gli mandiamo anche cerotti con le organizzazioni non governative, che volete di più?

I nostri nemici non hanno diritto agli onori militari, manco rientrano nelle Convenzioni internazionali: sono terroristi, no!? Bisogna farli parlare, come ad Abu Ghraib o deportare senza processo a Guantánamo.

Ad ogni detonazione, fa eco lo sconcio mantra secondo cui solo i buonisti pensano che non bisogna armarsi e partire, che non bisogna torturarli. “Ci vogliono le palle”, altercano nei salotti televisivi.

I civili inermi che fuggono da lì e vengono da noi? Aiutiamoli a casa loro, quelle stesse case che bombardiamo, radendole al suolo. Rendiamoci conto della sproporzione tra i fatti e la propaganda.

No, loro non sono in guerra contro di noi; semmai, siamo noi che lo siamo contro di loro, da quasi due secoli. Ci servono le loro ricchezze naturali, le fonti di energia vitali per il nostro modo di produrre ricchezza, quella che godono in pochi, ma che distrugge il pianeta di tutti.

Gli attentati che hanno insanguinato Parigi e Bruxelles non sono atti di guerra. Sono gesti disperati di un’organizzazione estremista basata in Belgio. Che è stata evidentemente sottovalutata, magari infiltrata e che poi comunque è sfuggita di mano. Che però fa comodo, perché un po’ di morti europei possono venir utili: aiutano i parlamenti a varare spese militari e leggi speciali, fanno ingoiare alle opinioni pubbliche la militarizzazione del territorio, fanno prendere voti alla destra xenofoba, il cui polverone è utile a mascherare le politiche liberiste contro il welfare.

Bruxelles è insanguinata perché è la capitale del fallimento delle politiche sociali della Eu. È la capitale della disoccupazione, quella giovanile, soprattutto. È la capitale di un’Europa capace solo di aiuti alle banche, nella mistica cieca del mercato. È la capitale del fallimento degli accordi sull’accoglienza delle grandi migrazioni. È la capitale del declino dei grandi ideali.

È la capitale del disastro in cui una cellula ultra-estremista fa da anni cose che si potevano prevedere e prevenire, se il Belgio non fosse una democrazia impazzita, se non avesse più polizie che politiche di sicurezza.

No. Non è contro di noi che Daesh combatte: combatte contro altro che per mettere in discussione le nostre libertà. Al califfo di Isis di noi interessa nulla: combatte contro i governi arabi fantoccio, è in gioco una guerra di supremazia tra sunniti e sciiti. Supremazia come quella in gioco tra valloni e fiamminghi in Belgio.

Non siamo in guerra, non facciamo vittimismo. Che di vittime la nostra sciagurata politica le sta facendo. Non siamo in guerra, ma abbiamo nemici pericolosi: sono nei governi, nei parlamenti, nei talk show televisivi. Sono la destra xenofoba, sono i governi conservatori totalmente supini al capitalismo finanziario e la sinistra che crede nei poteri magici del neoliberismo, sull’altare del quale sacrificare il welfare.

Ma secondo voi, se un ragazzo di 26 anni, magrebino di seconda generazione, cittadino belga con passaporto europeo avesse avuto le opportunità sancite e garantite dalle costituzioni democratiche si sarebbe mai arruolato nelle fila di Daesh, per difendere un’idea astratta di califfato? O si farebbe saltare in aria nella metropolitana della città in cui è nato e cresciuto, urlando disperatamente Allah akbar?

Questo nichilismo è l’urlo di dolore contro l’esclusione sociale, che nessuno ha raccolto, se non qualche predicatore senza scrupoli. Come succede nei sobborghi delle città di provincia degli Usa, dove gli ultimi sono le prime vittime del fanatismo religioso a mano armata: lì cristiano, qui musulmano.

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Crollato il mito del socialismo dei mezzi di produzione, ci siamo incamminati sul sentiero della barbarie. È un vicolo cieco. Di rabbia, di violenza, di morte.

Non ci sono soluzioni facili, semplicemente perché siamo una parte consistente del problema. La sola certezza è che più tardi invertiremo la rotta, più a lungo piangeremo i nostri morti. Beh, buona giornata.

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Guerra&Pace

Parigi e l’autunno d’Europa.

Parigi e l’autunno d’Europa.

epa05024526 A man looks outside the Carillon cafe with bullets holes on the glasses, in Paris, France, 14 November 2015. At least 120 people have been killed in a series of attacks in Paris on 13 November, according to French officials. Eight assailants were killed, seven when they detonated their explosive belts, and one when he was shot by officers, police said. French President Francois Hollande says that the attacks in Paris were an 'act of war' carried out by the Islamic State extremist group.  EPA/YOAN VALAT
epa05024526 A man looks outside the Carillon cafe with bullets holes on the glasses, in Paris, France, 14 November 2015. At least 120 people have been killed in a series of attacks in Paris on 13 November, according to French officials. Eight assailants were killed, seven when they detonated their explosive belts, and one when he was shot by officers, police said. French President Francois Hollande says that the attacks in Paris were an ‘act of war’ carried out by the Islamic State extremist group. EPA/YOAN VALAT

Quando scopriremo chi sono gli uomini -che hanno messo a ferro e fuoco Parigi e fatto strage di inermi cittadini con bombe e fucilate a sangue freddo- allora sapremo come sia stato possibile che nessuno si sia accorto in tempo del piano terroristico.

Per il momento possiamo solo dire che il tentativo chiaro è quello di trascinarci a forza in un salto mortale di qualità della guerra contro il Califfato. Costringerci all’invio di truppe sul terreno. È contemporaneamente chiuderci in uno stato di perenne auto assedio, di impedire l’agibilità sociale dei cittadini di origine araba dentro i confini degli stati europei, sul modello israeliano verso i palestinesi.

In questo c’è una convergenza tra gli scopi del terrorismo di stampo islamista e la destra razzista e xenofoba in Europa. In Italia alcune cornacchie, in effetti le solite, hanno già cominciato a gracchiare di bellicose rappresaglie. Da questo punto di vista, gli uccelli del malaugurio indicano nel Giubileo il prossimo possibile eclatante obiettivo, con un’ottusità propagandistica che ha il sapore beffardo di un suggerimento.

L’icona della gravità della situazione sta lì nelle strade di Parigi: prima le bombe, gli spari, il sangue; poi i militari e lo stato d’assedio. Che sembra la grottesca prima vittoria del terrorismo, il cui scopo e significato, tattica e strategia sono proprio innalzare sempre di più paura e allarme. È una coazione a ripetere schemi psicologici che non hanno portato nulla di buono, mai.

Non possiamo fare molto in queste ore. Chi ha potuto si è sincerato che amici o parenti che vivono a Parigi stessero bene. Di grande utilità sono stati i social: nel giro di pochi minuti, chi ha potuto è riuscito a tranquillizzarsi. Meglio non osare neppure a pensare cosa possa essere stato per chi, con la stessa rapidità tecnologica è stato raggiunto da drammatiche notizie personali: possiamo solo moltiplicare questa orrenda intuizione per il numero dei morti e dei feriti, in una serata parigina, coccolata da un clima mite, prima di venire stuprata dal terrore.

Ma proprio la vicinanza immediata che ci hanno permesso Facebook o Twitter è stata la cifra del nostro coinvolgimento in presa diretta con quei fatti terribili, come successe con le immagini che ci coinvolsero negli scoppi prima e il crollo poi delle Torri Gemelle, quel maledetto pomeriggio dell’11 settembre 2001.

La storia ci ha raccontato di errori, bugie, scandali e crimini che contrassegnarono la risposta militare degli Usa e degli alleati, tra cui il nostro paese, sotto le truci e truffaldine insegne dell’ “esportazione della democrazia.” Recentemente lo stesso Tony Blair uno dei più attivi sostenitori della “Guerra al terrorismo” ha riconosciuto apertamente che quella avventura fu non solo sbagliata, ma talmente malaugurata da essere diventata di fatto l’incubatrice dell’attuale Isis, il califfato probabilmente mandante dei crimini terroristici di ieri a Parigi.

Ecco allora che il timore di nuovi attentati si lega a doppio filo col timore che lo schema si ripeta in quel salto mortale di qualità, verso cui spingono le azioni del terrorismo islamico in Europa, congiuntamente alla propaganda xenofoba e razzista della destra europea. Beh, buona giornata.

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democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

George W. Bush,Donald Rumsfeld e Dick Cheney dovrebbero essere deportati a Guantanamo. Senza processo. Manco quello di Norinberga.

GUANTANAMO: BUSH SAPEVA DI CENTINAIA PRIGIONERI INNOCENTI-Agi
Malgrado George W. Bush, il capo del Pentagono Donald Rumsfeld e il vicepresidente Dick Cheney sapessero che centinaia di innocenti erano stati deportate a Guantanamo non fecero nulla per liberarli. Il tutto per non compromettere la legittimita’ dell’invasione dell’Iraq e della guerra al terrorismo. E’ quanto sostiene, secondo Il Times, il colonnello Lawrence Wilkerson, capo dello staff dell’allora segretario di Stato, Colin Powell . Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Un popolo spaventato si governa meglio. Ecco come Bush ottenne il secondo mandato alla Casa Bianca. (Ogni allusione alle politiche sulla sicurezza del governo Berlusconi è assolutamente intenzionale).

Usa/ L’amministrazione Bush voleva alzare il livello di allerta contro il terrorismo alla vigilia delle elezioni 2004, una mossa politica più che di sicurezza-blitzquotidiano.it

Escono nuove rivelazione sulla politica di George W. Bush e soprattutto su come l’ex presidente degli Stati Uniti usasse la paura per gli attentati terroristici come mezzo per ottenere consensi. L’ex capo della Sicurezza degli Stati Uniti, Tom Ridge, infatti, rivela, nel suo libro “The Test of Our Times” (Un’indagine sui nostri tempi) che nel 2004 Bush tentò di far innalzare il livello di allerta sul terrorismo. Una richiesta che Ridge e altri della Sicurezza ritennero ingiustificata, tanto che la proposta venne bocciata.

Secondo quanto scrive Ridge, anche il Generale John Ashcroft e il segretario della Difesa Donald Rumsfeld appoggiarono la proposta di Bush, sostenendo che gli eventi internazionali, le minacce di Bin Laden e le elezioni alle porte avrebbero portato ad un incremento delle possibilità di attacchi terroristici.

Ma Ridge sostiene, come sostenne all’epoca opponendosi alla proposta, che le motivazioni che spinsero Bush a voler alzare il livello di allerta erano più politiche che di sicurezza. L’ex governatore della Pennsylvania, infatti, sottolinea come non ci fosse nessun dato concreto che potesse far temere un attacco terroristico.

Un’ipotesi che l’ex consulente alla Sicurezza, Frances Townsend, rimanda al mittente sostenendo che sulla proposta di Bush «vi fu un dibattito e Tom Ridge non era l’unica persona contraria all’incremento del livello di allerta, ma non ci furono mai discussioni di stampo politico».

A guardare il risultato di quelle elezioni e delle motivazioni che spinsero la maggior parte degli Americani a votare per Bush, qualche dubbio viene che Ridge avesse ragione. Proprio nell’agosto 2004 Bush tornò a parlare del pericolo di attentati terroristici e due mesi dopo i sondaggi dicevano che per un elettore su cinque il terrorismo era l’argomento che aveva maggiormente influenzato il voto. L’86 per cento di quegli elettori votò per Bush, consacrandone la vittoria, solo il 14 per cento preferì il candidato democratico John Kerry. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Ma è stato sventato davvero un attentato terroristico a New York?

di Pino Cabras – Megachip

“Attentato sventato a New York”, strombazzavano i media il 20 maggio 2009. La notizia ha meritato titoloni e tanti commenti che hanno riempito le “breaking news” e qualche paginone, ma finora si è indagato poco.

Per la maggior parte dei media è scattato il riflesso di chi dice “non abbassiamo la guardia”. E Dick Cheney, l’anima nera della precedente amministrazione USA, ne ha approfittato per l’ennesima tirata contro chi vuole smantellare il sistema da lui messo in piedi. Ma cosa è successo davvero a New York? Un’analisi appena più approfondita rivela sorprese clamorose.

Le vicende di “attentati sventati” degli ultimi anni mostrano in comune il ruolo ambiguo dei servizi di sicurezza.
Non fa eccezione l’ultimo caso newyorchese.

Scopriamo che i quattro «terroristi islamici» hanno una biografia da sfigati ricattabili, delinquenti abituali statunitensi di facile manipolabilità, e dal profilo jihadista improbabile. Il loro ordigno al plastico disposto dinnanzi a una sinagoga non è esploso, era “inerte”. Gli era stato fornito da un quinto elemento, un agente dell’FBI infiltratosi con la promessa di fornire un kit del perfetto terrorista che comprendeva anche un falso missile (per abbattere un aereo). Le mosse erano seguite passo dopo passo, di fatto governate, da molti mesi, in sinergia con altre agenzie federali.

Un importante elemento di raccordo fra i quattro e l’FBI era il cinquantaduenne pakistano Shahed Hussain, diventato informatore dell’agenzia federale dopo che nel 2002 era stato incriminato per banali reati legati a questioni d’immigrazione, e reso così prono ai ricatti. Hussein si presentava ai quattro con molta disponibilità di denaro e con promesse di procurare armi e ordigni speciali.

Ma il pezzo grosso dell’FBI è un altro. Risponde al nome di Robert Fuller. È un agente che ricompare in diverse vicende controverse, sin dalle circostanze legate agli eventi dell’11 settembre 2001.

new-york-four-muckFuller nell’agosto del 2001 ebbe l’incarico di rintracciare e arrestare due persone molto sospette, Khalid al-Mindhar e Nawaf al-Hamzi. La segnalazione era giunta dalla CIA il 23 agosto dopo che i due erano giunti sul suolo USA. Qualche settimana ancora, e i loro nomi sarebbero stati ricompresi nella lista dei presunti dirottatori dell’11/9. La ricerca di Fuller fu talmente svogliata, che finanche la Commissione sull’11/9 ebbe a menzionarne l’indolente inefficacia.

Fuller riappare in cronaca nel novembre 2004. A Washington, sul marciapiede davanti alla Casa Bianca, un uomo si dà fuoco. È lo yemenita Mohamed Alanssi. Sopravvive con il trenta per cento del corpo coperto di ustioni. Nel frattempo emerge un documento di suo pugno nel quale spiega in qualche modo l’insano gesto. È una lettera per Robert Fuller, eccolo lì di nuovo, il quale lo aveva reclutato come informatore. Alanssi scrive di voler vedere la sua famiglia in Yemen prima di dover testimoniare in un tribunale USA su spinta di Fuller perché si dice certo che, dopo quella deposizione, la sua famiglia e lui stesso moriranno. Al «Washington Post» rivela: «Ho fatto un grosso errore a collaborare con l’FBI. L’FBI ha distrutto la vita mia e della mia famiglia, intanto che mi prometteva l’ottenimento della cittadinanza e di pagarmi 100 mila dollari». La somma fu erogata, ma Alanssi non acquisì la cittadinanza USA. La moneta di scambio era una testimonianza a carico di svariati imputati islamici.

Robert Fuller lo rivediamo in Afghanistan, all’aeroporto di Bagram, dove interroga – con i metodi disumani consentiti in questi anni di torture e pressioni – un quattordicenne afghano, Omar Khadr, orbo di un occhio dopo il combattimento in cui è stato catturato. A Khadr sono mostrate diverse foto di presunti guerriglieri, e gli viene chiesto un qualche riconoscimento. Fuller riesce a estorcere al giovane l’identificazione di un uomo canadese di origine mediorientale, Maher Arar, che a quel punto deve rispondere all’accusa di essere stato fra i guerriglieri afghani. Arar è arrestato sul suolo canadese e diventa uno dei tanti casi di «extraordinary rendition». Nell’incertezza giuridica sul grado di copertura sulle pratiche di tortura, Arar è consegnato alla Siria, dove ci sono meno esitazioni costituzionali sui supplizi di Stato (e questo è uno dei più stupefacenti casi di collaborazione fra paesi che altrimenti non si risparmiano atti ostili). Lì Arar viene torturato per mesi e mesi, come è avvenuto in tanti altri casi. Il ragazzo che lo ha accusato finisce intanto nel campo di Guantanamo, dove la commissione militare speciale lo processa nel gennaio 2009. Fuller è chiamato a testimoniare e l’agente FBI ribadisce che il riconoscimento di Arar è avvenuto sulla base di una foto. Il controesame del testimone spinge Fuller ad ammettere che all’inizio il riconoscimento non era stato così netto, anzi era proprio vago, e che solo una protratta «intensa pressione» aveva spinto Khadr a ricomporre in modo più assertivo il ricordo.

Peccato che nel frattempo gli inquirenti canadesi trovano le prove che il loro concittadino, proprio nel periodo in cui secondo Khadr e Fuller si trovava in Afghanistan, era invece in patria. Le autorità si rivolgono alla Siria per riavere Arar, evidentemente innocente. La sua storia viene raccontata dalla cronista Kerry Pither in un libro (Dark Days: The Story Of Four Canadians Tortured In The Name Of Fighting Terrorism).

E poi arriviamo all’ultima vicenda.
I quattro terroristi “islamici” fatti arrestare da Robert Fuller nel 2009 sono: James Cromtie, 44 anni, di cui 12 in prigione, un bugiardo patologico, un violento; David Williams, 28 anni, pluripregiudicato, il quale possiede una pistola da quando se ne compra una coi soldi datigli dall’FBI; Onta Williams, 32 anni, una vita dentro e fuori le prigioni; Laguerre Payen, 27 anni, pregiudicato, schizofrenico sottoposto a trattamento con psicofarmaci.
I quattro hanno incontrato questa caricatura di jihadismo soltanto perché un agente provocatore glielo ha proposto, con insistenze e azioni perseveranti, prospettando loro denaro e armi. Li ha messi insieme lui, insomma. L’allegra compagnia “islamista” non si priva di droghe, banchetti e sontuose bevute.

Il ritratto che emerge somiglia a quello di altri personaggi bizzarri che abbiamo imparato a riconoscere anche nelle cronache sulle deviazioni dei servizi segreti italiani nel corso degli anni, anche di recente, come nei casi di Mario Scaramella o Igor Marini. Sempre oltre il filo dell’impostura e della millanteria, questi soggetti compiono atti che si muovono macchiettisticamente lungo le frange esterne delle trame dei servizi segreti, con coperture, depistaggi, manovre che creano confusione, ma sempre disseminate di riconoscibili contatti con autorità governative. La commistione di vero e falso dei loro racconti e delle schede che li riguardano sembra indicare anche una loro strutturale indifferenza psicologica rispetto al confine tra verità e inganno. Basterebbe poco a smascherare le trame.

Tutta la vicenda dei quattro balordi di New York somiglia maledettamente a un sistema messo in piedi qualche anno fa nell’ambito della Guerra al Terrore. Un comitato di consulenti in seno al Pentagono, il Defense Science Board, nell’estate del 2002 ha proposto la creazione di una squadra di un centinaio di uomini, il P2OG (Proactive, Preemptive Operations Group, ossia Gruppo azioni attive e preventive), con il compito di eseguire missioni segrete miranti a ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici, spingendoli a commettere azioni violente che poi li metterebbero nelle condizioni di subire il ‘contrattacco’ delle forze statunitensi (1).

Il paradosso di una simile operazione è spinto fino a limiti estremi. Pare che il piano debba in qualche modo opporsi al terrorismo causandolo.

In base al documento prodotto presso il Dipartimento della Difesa statunitense, altre strategie comprendono il furto di denaro a delle cellule di terroristi o azioni di depistaggio attraverso comunicazioni false. Viene subito alla mente il caso del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro, nel lontano 1978, uno dei tanti depistaggi degli ‘anni di piombo’, quando erano in incubazione su scala limitata i metodi poi estesi alla globalizzazione della paura.

Gli atti precisi cui ricorrere per ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici non sono stati svelati, il tutto in ragione della riservatezza di fonti e contatti da non compromettere.

Un’organizzazione come questa è perfetta per creare confusione e depistaggi, quel genere di caos che si determina nel passaggio dall’«infiltrazione» alla «provocazione».

Il documento del Pentagono si spinge poi a spiegare che l’uso di questa tattica consentirebbe di considerare responsabili degli atti terroristici provocati quei paesi che ospitassero i terroristi, a quel punto considerati dei paesi a rischio sovranità.

Il grande giornalista investigativo Seymour Hersh, una mosca bianca fra la grande stampa, ha rivelato già all’inizio del 2005 che il P2OG è stato rimesso all’opera. Cosa svelava Hersh?

«Sotto il nuovo approccio di Rumsfeld, mi è stato riferito (da fonti interne ai servizi americani, ndr) che agenti militari USA sarebbero stati autorizzati all’estero a fingersi uomini d’affari stranieri corrotti, intenti a comprare pezzi di contrabbando che possano essere utilizzabili per sistemi d’armamento atomici. In certi casi, stando alle fonti del Pentagono, dei cittadini locali potrebbero essere reclutati per entrare a far parte di gruppi guerriglieri o terroristici. Ciò potrebbe comprendere l’organizzazione e l’esecuzione di operazioni di combattimento, o perfino attività terroristiche.»
Evidenziamo: «perfino attività terroristiche».

Anche il prossimo libro di Hersh, di imminente pubblicazione, sarà incentrato sull’esistenza di un mondo pseudo-terroristico e para-terroristico che ha pericolosi punti di contatto con strutture dotate di una qualche patina di legalità.

La recente vicenda di New York, così come le vicende degli attentati londinesi reali o sventati tra il 2005 e il 2007, e altri episodi ancora, sembrano indicare un metodo di lavoro molto consolidato, in grado di inquinare la scena pubblica con una paura indotta. (Beh, buona giornata).

__________________

(1) Russ Kick (a cura di), 50 cose che forse non sai, San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 2005. Una descrizione della losca operazione ‘P2OG’ è presente anche in Bruno Cardeñosa, 11-S. Historia de una infamia, las mentiras de la versión official, Malaga, Corona Borealis, 2003.

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Popoli e politiche

Quando Bush voleva militarizzare tutto il Nord America.

di Stephen Lendman – GlobalResearch.ca

Il titolo si riferisce alla Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità (il cui acronimo in inglese è SPP), conosciuta anche come North American Union. Questa organizzazione ebbe origine il 23 marzo del 2005 a Waco, in Texas, durante una conferenza a cui parteciparono George Bush, il presidente messicano Vincente Fox e il premier canadese Paul Martin. Il suo obiettivo è la promozione di un accordo che stimoli l’integrazione economica e politica delle nazioni coinvolte, nonché la collaborazione dei rispettivi servizi di sicurezza. Le sue attività si svolgono senza clamore mediatico, attraverso gruppi governativi che architettano direttive politiche vincolanti bypassando l’opinione pubblica ed il normale dibattito parlamentare.

In sintesi, è un colpo di stato corporativo spalleggiato dall’esercito, che affossa la sovranità delle tre nazioni partner, la loro popolazione e i loro organismi legislativi. E’ un pugnale infilzato nel loro cuore democratico, anche se il pubblico è in gran parte inconsapevole delle sue attività.

L’ultimo summit dell’SPP si è tenuto a New Orleans lo scorso aprile. Da allora, la sua azione è stata in gran parte intralciata dalla gravità della crisi economica globale, che richiede la completa attenzione dei leader coinvolti. Ciononostante, le decisioni prese finora saranno riportate nelle righe che seguono, insieme a qualche informazione addizionale.

Lo scorso settembre, l’«Army Times» ha riportato che il terzo Team d’Assalto della prima Brigata (al tempo dispiegato in Iraq) sarebbe stato trasferito sul suolo americano entro il primo ottobre, per entrare in una «forza federale pronta all’azione in caso di emergenze o disastri di origine umana o naturale, attentati terroristici inclusi».

«E’ la prima volta che un’unità attiva viene messa sotto il comando della NorthCom, un comando congiunto creato nel 2002 per coordinare e controllare le iniziative di difesa federali e le azioni di supporto alla difesa delle autorità civili».

Poi, il primo dicembre, il «Washington Post» ha dichiarato che il Pentagono avrebbe dispiegato 20mila soldati sul suolo statunitense entro il 2011, con l’obiettivo di «aiutare gli ufficiali statali e locali in caso di attacco nucleare o altre catastrofi». Sono state impostate tre unità di combattimento capaci di una reazione rapida. Altre due potrebbero aggiungersi al progetto. Saranno integrate con 80 unità della National Guard, addestrate per rispondere ad attentati di natura chimica, biologica, radiologica, nucleare, con esplosivi ad alto potenziale o altri attacchi di natura terroristica. In altre parole, si pensa di usare plotoni addestrati ad uccidere per militarizzare ed occupare gli Stati Uniti.

Il pretesto è la sicurezza nazionale. Queste unità saranno operative in caso di attentato terroristico, genuino o no, e anche in caso di tumulti da parte della popolazione, provata dalla crisi economica. Considerando la portata e la gravità della crisi, esiste una discreta probabilità che qualcuno, prima o poi, si decida a reagire. In questo caso, pattuglie armate di soldati si affiancheranno alla polizia locale (già militarizzata) non appena sarà dichiarata la legge marziale o arrivi l’ordine di effettuare azioni di sicurezza repressive.

Secondo il documento “Essere pronti al prossimo disastro catastrofico”, pubblicato nel 2008 dalla DHS/FEMA, dono state sviluppate procedure di “Emergenza Catastrofica” per reagire a situazioni “naturali” o “causate dall’uomo”. Se le condizioni lo richiederanno, si parla di sospensione della Costituzione e legge marziale. Si propone anche di militarizzare gli Stati Uniti per proteggere il mondo degli affari.

Lo scorso primo ottobre, in conseguenza all’annuncio che l’amministrazione Bush intendeva dispiegare pattuglie di soldati sul suolo americano, con un budget di “100 miliardi di dollari (di bailout)”, il Partito d’Azione Canadese ha pubblicato un post intitolato “ALLARME: GOLPE NEGLI USA”.

Probabili esiti

Gli sforzi dell’SPP si sono arrestati durante il periodo di transizione da Bush a Obama, ma il progetto di “integrazione profonda” rimane in piedi.
Il 19 gennaio, il Centro per la Politica Commerciale dell’Università di Ottawa ha tracciato le linee direttrici per un progetto di approfondimento dei rapporti tra Canada e USA. Il loro documento afferma che una «cooperazione repentina e sostenuta nel tempo» in questo periodo di crisi globale, avrebbe dovuto includere le forze di sicurezza e di difesa, il commercio e la competitività.

Il testo, inoltre, sostiene «che l’argomento cruciale è la necessità di ripensare l’architettura di gestione degli spazi economici comuni del Nord America, inclusa la liberalizzazione del commercio». Il linguaggio impiegato è ricco di espressioni come «ripensare (e) modernizzare le frontiere» e il loro significato contestualizzato sembra alludere ad un annullamento delle stesse. Sia quelle canadesi che quelle messicane. Allo stesso modo, il documento raccomanda di «integrare i regimi regolatori in un unico sistema che si possa applicare ad entrambi i lati della frontiera». Sostiene che l’arrivo di una nuova amministrazione a Washington è «un’opportunità d’oro» per forgiare un «programma che porti ad un mutuo beneficio e ridisegni la governance nordamericana e globale negli anni a venire».

Il testo sventola lo spettro del protezionismo e la necessità di evitarlo, dato l’attuale clima economico. Propone una «partnership USA-Canada più ambiziosa», che superi il NAFTA, in accordo con il Messico.

Un altro documento, prodotto dal Centro Nord Americano per gli Studi Transfrontalieri dell’Università Statale dell’Arizona ed intitolato “North America Next”, chiede una «competitività sostenibile nella sicurezza» ed una maggiore integrazione tra USA, Canada e Messico attraverso «una sicurezza sostenibile, un commercio ed un sistema di trasporti efficace» per rendere «le tre nazioni nordamericane più sicure, più economicamente funzionali e più prospere».

Sia il progetto dell’Università dell’Arizona che quello di Carleton mirano a rafforzare le iniziative dell’SPP grazie alla collaborazione della nuova amministrazione di Washington, specialmente in un clima di crisi economica globale che porta il problema in primo piano.

Altre tematiche in discussione

Il giornalista Mike Finch, in un articolo intitolato “North American Union Watch”, pubblicato sul quotidiano «The Canadian», riferisce che esistono organizzazioni statunitensi e canadesi il cui obiettivo è porre fine al libero flusso d’informazione su Internet.
Cita la scoperta di un «progetto per la eliminazione della libertà su Internet entro il 2010 in Canada» ed entro il 2012 in tutto il mondo, effettuata da un «gruppo di attivisti a favore della neutralità della rete».

Secondo la sua ricostruzione dei fatti, i due più grandi ISP canadesi, la Bell Canada e la TELUS, intendono limitare il browsing, bloccare alcuni siti e rendere a pagamento la maggior parte degli altri, in un’iniziativa articolata dal SPP che avrà inizio nel 2012. Reese Leysen, del servizio di web hosting I-Power, lo definisce un progetto «oltre la censura: vogliono uccidere il più grande ecosistema di libera espressione e libertà di parola mai esistito nella storia dell’uomo». Cita fonti interne a grandi aziende, che l’hanno informato su «accordi di esclusività tra gli ISP e i grandi fornitori di contenuti (come le TV e le case editrici di videogiochi) per decidere quali siti saranno inclusi nel Pacchetto Standard offerto agli utenti, mentre il resto della rete sarà irraggiungibile se non dietro una tariffa supplementare.»

Per Leysen, le sue fonti sono «affidabili al 100%». Anzi, indica che un quadro analogo è emerso da un articolo pubblicato su «Time» ad opera di Dylan Pattyn. Anche le fonti di quest’ultimo sarebbero interne alla Bell Canada e la TELUS. Secondo queste, si pensa di far rientrare solo i 100-200 siti più visitati nel pacchetto d’abbonamento base che, con tutta probabilità, includerà le agenzie di notizie più blasonate e terrà fuori tutto il circuito della stampa alternativa. «Internet diventerebbe un parco giochi per creatori di contenuti miliardari» come le TV via cavo, a meno che non si mettano in atto azioni per fermare questo processo.

Leysen pensa che gli Stati Uniti e gli ISP mondiali hanno idee simili sulla limitazione alla libertà di parola e le invasioni della privacy. Se ha ragione, la posta in gioco è altissima. Ma anche il margine di profitto è sostanzioso e, quindi, i governi amichevoli potrebbero essere d’accordo. Si parla anche di usare «marketing ingannevole e tattiche terroristiche» (come, ad esempio, sventolare la minaccia della pornografia infantile) per ottenere il consenso pubblico a queste norme liberticide mascherate da regole per la sicurezza della rete. È necessario fermarli immediatamente.

Progetti per ribattezzare l’SPP/NAU

Lo scorso marzo, il Fraser Insistute canadese lo ha proposto in un articolo intitolato: “Salvare la Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità” a causa dell’ondata di critiche suscitata dall’organizzazione. Suggerisce di scartare la sigla SPP/NAU, optando per NASRA (North American Standards and Regulatory Area) per nascondere il suo vero obiettivo. Secondo l’articolo, il “brand SPP” è ormai infangato, quindi è necessario sostituirlo per proseguire le iniziative che il NAFTA ha lasciato orfane: integrare la sicurezza a tematiche riguardanti la qualità della vita, come la sicurezza alimentare, il riscaldamento globale, il cambiamento climatico e le pandemie. Reclama anche un maggiore sforzo comunicativo per blandire la pubblica opinione. Vogliono ingannare il maggior numero di persone possibile, finché non sarà troppo tardi per intervenire.

Malcontento in America a livello statale

Il 23 febbraio, obiettando al concetto di “integrazione profonda”, il giornalista Jim Kouri di «News with Views» (NWV) ha pubblicato un articolo intitolato: “Che i singoli stati dichiarino la propria sovranità”. Il testo ripropone le parole dello stratega politico Mike Baker, quando disse: «Gli americani sono sempre più disillusi dalla mancanza di prospettiva a lungo termine dimostrata dal governo federale su tematiche come l’immigrazione clandestina, il crimine ed il caos economico. Il governo federale intende addirittura insinuarsi nella vita privata dei cittadini, attraverso leggi sul controllo della circolazione delle armi da fuoco ed altre iniziative», temi che i Padri Fondatori «relegavano alla discrezionalità dei singoli stati».
È anche preoccupante che gli stati non riescano a finanziare i loro progetti a causa di budget troppo ristretti e siano costretti a fare tagli. Oltre a questo, anche l’intrusione di Washington nell’amministrazione della giustizia locale è preoccupante.

Finora, nove stati hanno dichiarato la loro sovranità ed un’altra dozzina sta pensando di farlo. Le leggi già approvate o proposte variano dai diritti generali a quelli selettivi, come il controllo della circolazione delle armi da fuoco e l’aborto.

Il 30 gennaio, lo stato di Washington si è schierato con loro ed ha approvato la legge HJM-4009, che dichiara:
«Il Decimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “i poteri non delegati dagli Stati Uniti ad opera della Costituzione, e non proibiti da essa, sono riservati rispettivamente ai singoli Stati, o alla popolazione”. Lo stesso emendamento definisce la portata totale del potere federale, stabilendo che esso è limitato a ciò che è esplicitamente scritto nella Costituzione.»
All’inizio di gennaio, anche il New Hampshire ha approvato una norma simile, la HCR-6, “che afferma i diritti degli Stati basandosi sui principi jeffersoniani”. Gli altri stati che, parzialmente o totalmente, concordano su questa linea sono la California, l’Arizona, il Montana, il Michigan, il Missouri, l’Oklahoma e la Georgia. Oltre a questi, i seguenti stati stanno attualmente dibattendo misure di questo tipo: il Colorado, la Pennsylvania, l’Illinois, l’Indiana, il Kansas, l’Arkansas, l’Idaho, l’Alabama, il Maine, il Nevada, le Hawaii, l’Alaska, il Wyoming e il Mississippi.

Oltre al dibattito sui diritti dei singoli stati, le tematiche principali di questo movimento sono:
— la crisi economica;
— il controllo nocivo che Wall Street esercita sulla politica;
— il suo effetto sul sistema dei Checks & Balances;
— i bailout eccessivi concessi ad un sistema bancario insolvente e corrotto a scapito dei budget degli stati individuali e dei loro diritti;
— la spesa pubblica spudorata ed insostenibile. Il debito pubblico che sta portando la federazione alla bancarotta, ponendo un peso insostenibile sulle spalle degli stati.

In linea di massima, ci si preoccupa che Washington sia complice nella crisi che attanaglia il paese e che voglia sbarazzarsi delle sue responsabilità oppure che, almeno, tenda ad assumere comportamenti di questo tipo. Se questo movimento si rafforza, servirà a rallentare il processo di “integrazione profonda” o a bloccarlo per un periodo considerevole, ma è improbabile che lo fermi del tutto. L’America delle corporazioni lo vuole, e generalmente ottiene ciò che vuole.

Potrebbe volerci più tempo, molto più tempo, a causa della crisi globale e del periodo necessario a superarla. Alcuni esperti annunciano a breve un’altra Grande Depressione peggiore della precedente ed addirittura peggiore dei “decenni perduti” del Giappone, dal 1990 ad oggi.
La priorità nel mondo dell’alta finanza e nei CdA delle grandi aziende è sfuggire alla crisi, se possibile. Eccetto che per motivazioni di “sicurezza nazionale”, tutto il resto viene in secondo piano. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: SPP: Updating the Militarization and Annexation of North America.
Traduzione per Megachip a cura di Massimo Spiga

Stephen Lendman is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization. He lives in Chicago and can be reached at lendmanstephen@sbcglobal.net

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Popoli e politiche

Terrorismo: alla nuora perché la suocera intenda.

Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, le autorità yemenite hanno autorizzato il rilascio di un uomo sospettato di essere un membro di al Qaida.

Le accuse contro l’uomo, accusato di pianificare un attentato nel centro della capitale Sanaa, si sono rivelate infondate.

Lo ha riferito una fonte della sicurezza. “Si è scoperto che stava trasportando medicine. Sembra che sia stata la suocera a denunciarlo”, ha detto la fonte.

Roba da “la sai l’ultima?” Nell’era della guerra al terrorismo, delle teorie della sicurezza preventiva, dello scontro di civiltà, della guerra religiosa e chi più ne ha più ne metta, si rischia di passare guai seri per colpa della suocera.

Poi dice che c’è la crisi della coppia. Neanche il compianto Gino Bramieri, barzellettiere formidabile, ne avrebbe raccontata una così. Fin qui il risvolto comico.

Il dramma è che le forze di sicurezza alle barzellette ci credono. E che in tutto questo, qualcuno se l’è vista davvero brutta. Più brutta di quella suocera, pettegola e vendicativa.

A proposito delle fobie antiterroristiche che ci attraversano la vita da qualche tempo a questa parte, chissà se possa valere anche in questo caso l’antico detto di parlare alla nuora perché intenda la suocera.

Vale a dire: la finiamo di renderci ridicoli, e finalmente ripristiniamo un minimo di dialogo? Il che è un altro modo per dire che, in questo caso, la nuora è il buon senso. Lo capirà anche la suocera? Beh, buona giornata.

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