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Prove tecniche di Terza repubblica: “La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli.”

Il potere apparente della Chiesa

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.

I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo – impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana – è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.

Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.

Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.

È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine – appena seppe quel che faceva – paralizzato.

Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.

Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Poniamo fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro.

Il padre di Eluana, Beppino Englaro, attraverso un comunicato stampa invita il premier e il capo dello Stato a visitare la figlia. Ecco il testo:

“Sono il tutore di Eluana Englaro, ma in questo momento parlo da padre a padre, rivolgendomi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi, ed essi soli, a venire ad Udine per rendersi conto, di persona e privatamente, delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui si sono diffuse notizie lontane dalla realtà che rischiano di confondere e deviare ogni commento e convincimento”. 

Il che dimostra che ministri e cardinali, con l’ausilio di commentatori da strapazzo hanno finora aperto bocca per sentito dire. E’ un atteggiamento “normale” in un paese che ha ridotto l’informazione a propaganda. E’ un fatto semplicemente ripugnante che lo scontro politico avvenga strumentalizzando, in modo sconcio, la vicenda umana di Eluana e di suo padre.

Abbiano il coraggio di dire pubblicamente, apertamente, senza nascondersi dietro dicerie, che il vero obiettivo dello scontro istituzionale  in atto è la modifica sostanziale della nostra democrazia parlamentare. La politica italiana con le sue schiere di mezze calzette  parlanti ci hanno abituato da tempo agli annunci e alle smentite. Anche oggi il premier accusa la lettera del capo dello Stato di essere a favore dell’eutanasia, per poi smentirlo neanche due ore dopo. Anche oggi il Papa allude a fatti che non conosce e che forse proprio non vuole conoscere. E’ già recentemente successo nella brutta vicenda del vescovo Williamson e le sue orribili teorie negazioniste dell’Olocausto degli ebrei. 

I confini del ruolo del capo del governo sono stati giustamente ricordati dalla lettera del Presidente Napolitano: fino a prova contraria, l’Italia è una democrazia parlamentare, la cui architettura costituzionale mal sopporta la continua decratazione d’urgenza. Tanto più se essa è un trucco per invalidare l’esecuzione di sentenze emesse dal Tribunale.

 I confini  di azione del capo dello Stato Vaticano non gli consentono ingerenze nella vita politica dello Stato italiano. I confini di iniziativa del capo spirituale della religione cattolica non gli consentono di invadere, neppure sui temi etici, il terreno della laicità dello Stato.

Se il presidente  della Repubblica ha “deluso” queste aspettative è solo e soltanto perché egli ha fatto il suo dovere di garante della Costituzione. E di questo, anche fosse solo per questo, tutti i cittadini italiani non possono che essergli grati .  

Adesso, però basta. La pantomina della trasformazione di un decreto legge in un disegno di legge da far discutere a tappe forzate dal Parlamento è un’ulteriore provocazione: la quarta carica dello Stato (il presidente del consiglio) vuole imporre il suo volere alla seconda e alla terza carica dello Stato (i presidenti dei due rami del Parlamento) per prendersi una rivincita contro la prima carica dello Stato (il presidente della Repubblica).

Si ribellino a questa sudditanza i parlamentari della Repubblica, eletti democraticamente. Esercitino il loro mandato in piena autonomia dal potere esecutivo. Al Senato è già all’esame un testo di legge sul testamento biologico. Quella è la procedura corretta, quella è la via  maestra per un pronunciamento del Parlamento.

L’invito è esplicito: ponete fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro. Restituite dignità di uomo e di padre a Beppino Englaro. Ma soprattutto, restituite i diritti costituzionali a Eluana e a Beppino: sono due cittadini della Repubblica Italiana, lo Stato ha il dovere di tutelarli. Beh, buona giornata. 

 

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Il pacchetto sicurezza ha preso di mira Internet.

Con il pacchetto sulla sicurezza approvato dal Senato, il Governo italiano dà al ministro degli Interni il potere di chiudere siti Internet, filtrarli e multarli pesantemente.

Infatti, il pacchetto sulla sicurezza appena approvato dal Senato (dovrà ancora tornare alla Camera) prevede che il ministero dell’Interno potrà ordinare l’oscuramento dei siti Internet sui quali si commette il reato di apologia o si istiga a delinquere. Lo stesso ministero potrà chiedere che vi vengano apposti filtri adeguati. I siti “disobbedienti” dovranno pagare una sanzione dai 50mila a 250mila euro.

In pratica il governo si arroga un potere che nei Paesi democratici può essere esercitato solo dall’autorità giudiziaria e mai dal governo per via amministrativa.
Il senatore  Gianpiero D’Alia, dell’UDC, firmatario dell’emendamento anti-internet accolto nel pacchetto sulla sicurezza ha detto: “In questo modo diamo concretezza alle nostre iniziative per ripulire la rete, e in particolare il social network Facebook, dagli emuli di Riina, Provenzano, delle Br, degli stupratori di Guidonia e di tutti gli altri cattivi esempi cui finora si è dato irresponsabilmente spazio.” 

Ripulire? Un verbo che evoca tristi esempi di soppressione delle libertà civili.

E’ la solita vecchia storia della censura di tutti i tempi: fare della libertà di opinione e di espressione una mera questione di ordine pubblico.  

Ecco il testo inserito nel pacchetto sicurezza, con i complimenti ai senatori che lo hanno approvato e a quelli che, pur non condividendolo non lo hanno pubblicamente denunciato come  attentato alla libertà di espressione, di opinione  e al diritto all’ informazione.  Così i complici si sono deliberatamente messi sullo stesso piano  dei colpevoli. (Beh, buona giornata)

Art. 50-bis.

(Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet)

1. Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

2. Il Ministro dell’interno si avvale, per gli accertamenti finalizzati all’adozione del decreto di cui al comma 1, della polizia postale e delle comunicazioni. Avverso il provvedimento di interruzione è ammesso ricorso all’autorità giudiziaria. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengano meno i presupposti indicati nel medesimo comma.

3. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, per l’effetto del decreto di cui al comma 1, devono provvedere ad eseguire l’attività di filtraggio imposta entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000, alla cui irrogazione provvede il Ministro dell’interno con proprio provvedimento.

4. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente legge il Ministro dell’interno, con proprio decreto, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione, individua e definisce i requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio di cui al comma 1, con le relative soluzioni tecnologiche.

5. Al quarto comma dell’articolo 266 del codice penale, il numero 1) è così sostituito: “col mezzo della stampa, in via telematica sulla rete internet, o con altro mezzo di propaganda”.»

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Attualità Leggi e diritto

Prove tecniche di Terza repubblica: il Vaticano contro Napolitano.

di LUIGI LA SPINA da lastampa.it
Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere.

In un momento in cui ogni coscienza si sente dilaniata da una scelta ugualmente terribile e iniqua, in una questione in cui nessuno si può arrogare il monopolio della giustizia e della verità perché è il dubbio che ci tormenta, c’è una sensazione che addolora di più e acuisce tristezza e pena: la consapevolezza che il grave conflitto politico e istituzionale che si è aperto ieri si gioca sulla pelle di una ragazza. Anzi, sul corpo di una ex ragazza divenuta donna nella lunghissima attesa della morte.

Se guardiamo l’incalzare febbrile delle vicende che, in queste ore, si sono susseguite fuori da quella porta che, fortunatamente, ancora separa Eluana dai politici, dai giudici, dai preti, dai dimostranti, dagli schermi tv, si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.

Per i laici è solo una coincidenza, per i credenti un segno provvidenziale. Per tutti, è comunque curioso che proprio nei giorni in cui si celebrano l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa e il quarto di secolo della revisione di quegli accordi, allo scontro tra istituzioni italiane si affianchi il rischio di una dura polemica tra Santa Sede e presidenza della Repubblica. Con ministri vaticani che criticano pesantemente Napolitano.

Nell’augurio che non si apra nella società italiana una «guerra di religione» di cui non si sente davvero il bisogno, né se ne comprende la giustificazione, è interessante notare come, sul caso Eluana, sia stata la Santa Sede a esprimere i toni più forti ed esasperati, sia nella polemica pubblica sia col protagonismo indiscusso del Segretario di Stato, cardinal Bertone, nel dialogo con i leader della nostra scena politica. Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico. Uno Stato che rivendica, o dovrebbe rivendicare, la piena autonomia delle sue scelte contro ogni tipo di ingerenze esterne, sia spirituali che temporali.

Sarebbe un errore, però, scambiare l’indubbio segnale di forza dimostrato dal Vaticano sulla classe politica italiana, con un’accresciuta influenza della Chiesa nella nostra società. Forse alla debolezza dei partiti e delle leadership si affianca, parallelamente, il timore dei vertici vaticani di un crescente distacco tra i sentimenti e i costumi degli italiani e la Chiesa. Un rischio che si cerca di esorcizzare più con fredde dimostrazioni di potere e di autorità che con manifestazioni di vicinanza pastorale ed affettiva ai problemi concreti della nostra popolazione.

Nell’ex residenza dei Papi, al Quirinale, si è vissuta una giornata di altrettanta tensione. È stato evidente il tentativo compiuto da Napolitano di avvertire pubblicamente Berlusconi di quella responsabilità di uno scontro istituzionale che si sarebbe assunta varando il decreto per Eluana. Nel timore di dover esprimere un «no» che lo avrebbe esposto all’accusa di aver voluto firmare una sentenza di morte. Ma il parere preventivo, arrivato proprio durante un consiglio dei ministri che stava decidendo sulla questione, può apparire lesivo di quella piena autonomia e responsabilità che la Costituzione riserva al governo in questi casi.

Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli. Sfogando un risentimento che Berlusconi cova da tempo nei confronti di Napolitano e che, finora, si era acconciato a mimetizzare nella diplomazia istituzionale molto a malincuore. Nella speranza, inoltre, di dimostrare quanto sia necessario un riequilibrio dei poteri a favore della presidenza del Consiglio, manifestatasi così impotente in una questione così delicata. Sarà difficile che una riforma costituzionale quale Berlusconi vagheggia sia realizzabile, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Ma in politica, soprattutto in quella italiana, non sempre servono i risultati. Bastano le intenzioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Prove tecniche di Terza repubblica: l’appello di Libertà e Giustizia.

Firma l’appello su www.libertaegiustizia.it

“Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti.
Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Umberto Eco, Claudio Magris, Guido Rossi, Sandra Bonsanti, Giunio Luzzatto, Simona Peverelli, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca.

Rompiamo il silenzio. Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti  nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero. 

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno. 

Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale,  che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Sono obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se la voce collettiva di Libertà e Giustizia potrà pesare e farsi ascoltare. Per questo chiediamo la tua adesione. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Prove tecniche di Terza repubblica.

“La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato.”

di EZIO MAURO da repubblica.it

UNA questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d’urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a “rivolgersi al popolo” per cambiare la Costituzione.

Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un’esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l’istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.

È uno scontro che segna un’epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un’altra, che ha l’impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'”istituzionalizzazione del carisma” e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all’italiana.

Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all’opportunità di dare alla sua destra senz’anima e senza tradizione un’identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell’alimentazione e dell’idratazione per Eluana.

Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l’insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all’esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all’istituto della “moral suasion”, ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d’urgenza. C’è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c’è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare “il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto” tra poteri dello Stato, c’è la norma costituzionale dell’uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c’è la funzione di “garanzia istituzionale” che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l’invito al governo di “evitare un contrasto”, riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.

Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l’occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali (“Non mi voglio sentire responsabile di un’omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita”) ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi (“Lo stato vegetativo potrebbe variare”), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: “Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio”.

Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d’urgenza è l’unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato “decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita”, non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento “a riunirsi ad horas” per approvare “in due o tre giorni” una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l’esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. “Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo”.

La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di “caricarsi della responsabilità di una vita”. Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.

La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L’assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all’esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i “lodi” che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l’eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.

Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l’immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall’altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua “profonda delusione” per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Dalla parte del Presidente della Repubblica.

Il testo completo della lettera inviata a Silvio Berlusconi
dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da repubblica.it

 

“Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale – scrive Napolitano -. Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti. I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche. Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate – prosegue il capo dello Stato -, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente. Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge, piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica, appare soluzione inappropriata”.

“Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare – sottolinea Napolitano – non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.

Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.

Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo”.

“Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato – aggiunge – ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori. Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto

Scontro istituzionale tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica.

Una domanda.

 

di HANS SUTER

 

Dove era il giornalista che tirava una scarpa a Berlusconi nella conferenza stampa ? (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Crisi finanziaria globale: “tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.”

QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

di Daron Acemoglu da lavoce.info

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).

 

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Legge Alfano contro le intercettazioni: “muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.”

 
di GIAN CARLO CASELLI* da lastampa.it
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale. (Beh, buona giornata).

*procuratore capo di Torino

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.”

di Roberto Natale* – da liberainformazione.org

La minaccia del carcere per i giornalisti è venuta meno, ma la sostanza non cambia: anche dopo gli emendamenti presentati dal governo il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.

Non solo perché le sanzioni rimangono comunque pesanti: diecimila euro di ammenda massima per il singolo cronista, che diventano però quasi cinquecentomila per l’editore che ospiti il pezzo; con l’ovvia conseguenza – giustamente denunciata dalla Fieg – che i proprietari dei giornali sarebbero indotti ad intervenire sui contenuti, violando le prerogative dei direttori ed attuando quella “censura preventiva” contro la quale ha messo in guardia il Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

Il disegno di legge si conferma incompatibile con il diritto ad informare e ad essere informati perché il governo ha scelto di non modificare la scelta di fondo: quella di impedire la cronaca giudiziaria, vietando la pubblicazione (“anche parziale, o per riassunto o nel contenuto”, e “anche se non sussiste più il segreto”) degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare. E’ qui l’attacco più grave, dissimulato sotto gli insistenti richiami alla riservatezza. La privacy è diritto caro anche a noi giornalisti, ed abbiamo dato piena disponibilità a rendere più incisive, se necessario, le norme di autoregolamentazione per salvaguardarla.

Ma non ha senso invocare la sfera privata quando parliamo di scalate bancarie, del crack Parmalat, dello scandalo del calcio, della clinica Santa Rita: tutte vicende che, se la proposta Alfano fosse stata già legge, i cittadini italiani avrebbero potuto conoscere soltanto mesi o anni dopo.

E’ questo il gigantesco esproprio che si prepara, ai danni di noi giornalisti e ai danni dell’intera comunità civile: verrà mutilato il suo diritto di conoscere fatti di assoluta rilevanza sociale, che solo un’interessata mistificazione politica può cercare di spacciare per pettegolezzo o gossip.

Ne va proprio della qualità della nostra democrazia. E dunque dobbiamo sapere sviluppare ogni possibile alleanza. Con gli editori c’è un’ampia concordanza, che attende di essere tradotta in visibili, incisive iniziative comuni: consapevoli entrambi, giornalisti e imprenditori, che per la vita dell’informazione il diritto di fare cronaca è essenziale almeno quanto nuovi ammortizzatori sociali per il settore. E insieme ci sono i nostri lettori, spettatori, ascoltatori: pochi altri temi ci consentono di presentarci loro come titolari e difensori di un diritto di tutti.

Il Presidente del Consiglio ama ripetere che, nei suoi comizi, nessuno alza la mano quando lui chiede chi sia sicuro di non essere intercettato. Gli proponiamo di aggiungere un’altra domanda: chiedere alla piazza chi avrebbe rinunciato a sapere di Moggi, di Antonio Fazio, di una truffa ai danni dei piccoli risparmiatori, dei trapianti disposti da medici senza scrupoli. Abbiamo la forza di essere dalla parte dell’interesse generale. Perciò nessuno strumento sindacale andrà risparmiato, nelle prossime settimane, se servirà per evitare una legge-bavaglio. (Beh, buona giornata).

* Presidente Fnsi

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Attualità Leggi e diritto

A me non mi ferma Nettuno.

“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Maroni dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La tolleranza zero, il boomerang lanciato in campagna elettorale torna indietro e colpisce in pieno il governo di destra.

Lo sceriffo senza stelladi MARCELLO SORGI da lastampa.it
Chissà se il ministro Maroni e il sindaco Alemanno un filo di pentimento non ce l’avranno per il modo in cui finora si sono occupati di sicurezza. Due stupri in due giorni – tre dalla fine dell’anno – nella Capitale non sono solo «fatti gravissimi», come li ha definiti il governo. Con tutto quel che sta capitando in Italia, tra criminalità, ordine pubblico e immigrazione clandestina, sono un chiaro segno che la strada per rendere il Paese sicuro è ancora lunga.E ai successi, innegabili, di questi primi mesi di vita dell’esecutivo, si accompagnano duri richiami e durissime smentite della realtà. Maroni, ieri, annunciando un più forte utilizzo dei militari a difesa delle città, ha detto che con questo il Viminale intende aprire la «fase due» del piano per la sicurezza. Ora, senza nulla togliere all’impegno del ministro dell’Interno, non è che gli effetti della «fase uno» siano stati così positivi.

La sicurezza, la paura di vivere in città dove è pericoloso aggirarsi la sera, restano in cima alle preoccupazioni dei cittadini. La prontezza con cui è stato catturato Giuseppe Setola, il boss dei casalesi sfuggito una prima volta attraverso le fogne, non vuol dire che la camorra sia stata sconfitta. La linea dura annunciata e praticata contro l’immigrazione clandestina non ha evitato l’ingorgo del cosiddetto centro di accoglienza di Lampedusa, dove attualmente ben 1800 disperati venuti dal mare sono ristretti in celle che potrebbero contenerne meno della metà.

Né sta dando migliori risultati il negoziato e l’irrigidimento dei rapporti con la Romania, per arginare il fiume di criminalità che quotidianamente – e purtroppo regolarmente, dato che si tratta di un giovane partner della Comunità europea – riversa sulle nostre strade. La sensazione degli addetti ai lavori è che un flusso di ritorno si sia stabilito, ma che a tornare siano i romeni che trovano lavoro nel loro Paese d’origine, mentre restano qui quelli che non hanno voglia di lavorare.

Non è migliore il bilancio del primo cittadino di Roma: Gianni Alemanno, che con un’abile campagna sulla sicurezza e con uno spregiudicato uso politico di uno stupro avvenuto proprio nei giorni che precedevano il voto, s’è ritrovato a sorpresa sindaco di Roma battendo Rutelli, fa adesso i conti con lo stesso odioso tipo di reato che non sono riuscite a sradicare né la strategia anticrimine né la «tolleranza zero» annunciate in campagna elettorale.

Benché gravissimi, i due stupri avvenuti ieri e mercoledì alle porte di Roma non sono tali da mettere in discussione l’impegno di Alemanno per la sicurezza. Finora, anzi, il primo cittadino della Capitale ha cercato in tutti i modi di avvicinarsi al modello del «sindaco sceriffo» che era piaciuto ai suoi elettori. Appena eletto, aveva fatto saltare la testa del prefetto Carlo Mosca, che si era schierato contro le schedature degli extracomunitari. Durissimo con gli immigrati clandestini, s’era poi recato di persona nelle baraccopoli, all’ombra delle quali spesso nascono gli episodi di violenza più sordida. Poi ha proibito la vendita di alcolici da portare per strada, ripulendo così, da giovani avariati, alcune delle più belle piazze del centro, e riducendo anche il numero delle risse tra ubriachi. Ancora, ha ottenuto dal governo 700 soldati per pattugliare le vie più malfamate della città. Inoltre, incurante delle polemiche, ha voluto affiancare ai vigili urbani un limitato, ma molto specializzato, dipartimento, guidato da un generale ex agente segreto rotto a tutte le esperienze, come l’ex direttore del Sisde Mario Mori.

Con tutto ciò, sarà la sfortuna, sarà che una megalopoli come Roma non è controllabile fino in fondo, il sindaco e il suo apparato di sicurezza si son beccati due stupri in due giorni e tre in tre settimane. Naturalmente questo incide sulle reazioni dei cittadini e sul nervosismo dei loro amministratori: i romani, anche ad onta del loro tradizionale scetticismo, erano stati convinti con una campagna martellante che la nuova amministrazione avrebbe messo a posto la situazione. Ma a malincuore, dopo pochi mesi, hanno dovuto rendersi conto che non è così.

Anche se ieri il primo dei tre stupratori (una bestia, che aveva abusato di una ragazza ventenne in un cesso chimico di una festa-rave) è stato arrestato e fatto confessare, la sequela di stupri ha lasciato molta impressione. È terribile che in una città che vive in movimento, ventiquattr’ore su ventiquattro, una donna non possa sentirsi sicura quando torna a casa. A volte, basterebbe solo migliorare l’illuminazione delle strade, che al buio diventano luoghi ideali per gli agguati. Ma soprattutto, è penoso – sia detto per inciso – che un problema serio come quello della sicurezza, invece di essere affrontato con la serietà e i tempi che richiede, a meno di un anno dalla fine della campagna elettorale, diventi ancora motivo di scontro, tra il sindaco sceriffo che ha perduto la stella e i suoi oppositori caduti poco prima sullo stesso fronte. (Beh, buona giornata)

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Bombe al fosforo, armi a microonde e al plasma? Che armi sono state usate nell’Operazione Piombo Fuso?

di Fernando Termentini – da www.paginedidifesa.it

La battaglia a Gaza è terminata ma ancora molte fonti di informazione, ricorrendo anche ad immagini di repertorio degli scontri, ripropongono il problema di armi al fosforo bianco.
Munizionamento illuminante al fosforo sicuramente è stato utilizzato nel corso degli scontri, anche bombe d’aereo o proietti di artiglieria pesante, ma affermare con decisione che questo particolare materiale sia stato usato su larga scala per scopi offensivi, potrebbe essere forse azzardato e comunque semplicistico.

A Gaza le operazioni militari sono state caratterizzate da episodi tattici di combattimento degli abitati come ormai avevamo dimenticato dalla fine del secondo conflitto mondiale, a stretto contatto con la popolazione civile e in zone densamente abitate. In queste condizioni utilizzando munizionamento a caricamento speciale come gli ordigni illuminanti caricati con il fosforo bianco, diventa difficile gestire la ricaduta al suolo delle gocce incandescenti, concentrandole su obiettivi areali come, ad esempio, un bunker o una postazione avversaria.

In queste condizioni, quindi, si potrebbe verificare che qualcuno o qualcosa possa essere colpito da fosforo che brucia e che non è possibile spegnere con l’acqua. In questo caso però le parti di materiale che brucia lascerebbe tracce profonde su qualsiasi cosa venisse a contatto.

Le immagini che sono arrivate dal teatro di guerra non confermano in maniera incontrovertibile queste ipotesi, né lasciano pensare a un uso estensivo e generalizzato di fosforo bianco né contro i combattenti né contro la popolazione palestinese.

Se, invece, come sembra, molti dei feriti e molti cadaveri presenterebbero (la forma ipotetica è d’obbligo non disponendo di riscontri certi) lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli, allora si potrebbe pensare che forse siano state utilizzate ancora armi a microonde e/o al plasma.

Strumenti che dovrebbero essere stati sperimentati in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City. Armi che invece dei proiettili sparano fasci di energia più o meno potente. Sistemi a suo tempo studiati e realizzati per conto dell’amministrazione americana fin dai tempi della presidenza Clinton per disporre di efficaci dispositivi anti-sommossa non letali (l’arma Sceriffo costruita dall’industria americana Raytheon), successivamente trasformate in vere e proprie armi offensive agendo sulla potenza irradiata.

La materia colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida e si accartoccia diminuendo di volume. Fenomeno che aumenta in maniera esponenziale quando l’obiettivo è un uomo. Cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni. Condizioni che hanno caratterizzato molti cadaveri trovati a Falluja dopo i combattimenti casa per casa e in Libano nel corso della guerra del 2006.

A Gaza, peraltro, sembra che la scorsa estate, organi istituzionali della Sanità palestinese, riferendosi alla tipologia delle lesioni di molti feriti fra i manifestanti, hanno ipotizzato l’uso da parte degli israeliani di armi non convenzionali. In quella occasione si parlò seppure in modo superficiale di persone con gravi effetti ustionanti, con feriti o cadaveri quasi fusi con muscoli e organi interni distrutti. Di fatto, tessuti prosciugati dell’acqua, come avviene sulle sostanze organiche sottoposti all’azione delle microonde.

Sistemi del tipo la pistola Taser capace di uccidere a otto metri di distanza irradiando energia elettrica di oltre 60.000 volt, diffusissima in Usa e anche in Francia. Armi corte che nei combattimenti negli abitati, negli spazi stretti, nei cunicoli, nei locali sotterranei e di notte potrebbero essere molto più efficaci rispetto alle armi convenzionali.

Molto più sicuri anche per chi le ha in dotazione, in quanto si abbatte il rischio dei colpi di rimbalzo ricorrente quando si opera in locali stretti e circondati da mura, pericolosi anche per le truppe amiche. Sistemi sicuramente più selettivi nella scelta del bersaglio rispetto ad armi leggere automatiche o a bombe a mano offensive.

Un’ipotesi di cui si è già scritto in occasione della guerra in Libano e forse più condivisibile sul piano tecnico rispetto a ipotesi che invece fanno riferimento all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

La riforma del modello contrattuale: il sindacato deve rappresentare gli interessi dei lavoratori presso le imprese o gli interessi delle imprese presso i lavoratori?

dichiarazione di Fabrizio Tomaselli

coordinatore nazionale SdL intercategoriale

 

La sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl dell’accordo quadro che riforma il modello contrattuale invigore apre un nuovo ciclo nelle relazioni sindacali in questo Paese.

L’intesa sancisce il passaggio dalla filosofia “concertativa” che ha caratterizzato l’azione sindacale di Cgil-Cisl e Uil negli ultimi due decenni, ad una letteralmente “collaborazionista”.

Finisce in soffitta il contratto nazionale unico di categoria e l’idea stessa di rivendicare condizioni

salariali almeno in linea con l’aumento del costo della vita. Il tutto a favore di un ipotetico secondo livello di contrattazione “differenziato” per posto di lavoro.

 

L’intesa prevede tra l’altro che i contratti abbiano durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa, ritardando di fatto il recupero salariale oggi fissato ogni 2 anni. Gli incrementi salariali saranno basati su un indice di inflazione prevista molto più bassa di quella reale e depurati dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati: la benzina potrà così schizzare alle stelle senza che il salario venga adeguato.

 

La produttività in più si trasformerà tutta in profitto per i padroni.

Siamo ben oltre la tradizionale politica della mediazione al ribasso tanto cara ai sindacati firmatari e anche alla Cgil! Il piano inclinato che tante volte abbiamo denunciato non poteva che portare a questa situazione. Le responsabilità della Cgil rispetto alla situazione con cui oggi ci troviamo a fare i conti sono enormi e sconcerta un po’ il risveglio “sorpreso” della Confederazione di Epifani se pensiamo al comportamento tenuto dalla stessa in Alitalia.

 

Il “modello CAI” – accordi separati firmati senza sentire il parere dei lavoratori e contro la volontà di organizzazioni sindacali fortemente rappresentative tra i lavoratori – viene riproposto oggi al livello di accordo quadro generale da Cisl, Uil e Ugl.

 

SdL intercategoriale non ci sta e continuerà la lotta già intrapresa con gli scioperi nazionali del 17 ottobre e del 12 dicembre 2008 per rivendicare veri aumenti salariali ed il ripristino della scala mobile. Non resta che …. rimboccarci le maniche ed opporci a quest’accordo! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Primo sì del Senato al federalismo: “non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata.”

IL COMPROMESSO VIRTUOSO

di Fabio Scacciavillani da lavoce.info

Una politica economica efficace dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi, in termini di ammortizzatori sociali e riduzioni di imposte, controbilanciato da risparmi strutturali nel medio periodo. Risultato che si può ottenere aumentando gradualmente l’età pensionabile già dal 2009 e riducendo i privilegi di cui godono ancora troppe categorie. Ma esistono le condizioni politiche per un simile compromesso? Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future.

L’articolo di Luigi Guiso del 3 dicembre 2008 coglie con molta efficacia le deficienze della politica economica del governo. Non so se Tremonti sia rimasto folgorato sulla via di Maastricht, dopo le regalie alla Cai e l’abolizione dell’Ici, ma in ogni caso il problema della sostenibilità del debito pubblico tenderà ad aggravarsi per le ripercussioni della crisi internazionale.

CONSEGUENZE DELLA CRISI

I governi che in tutto il mondo stanno accollandosi le passività del settore finanziario e tentano di sostenere l’economia reale con stimoli fiscali, immetteranno sul mercato una tale valanga di titoli da rendere lecito il dubbio se esista oggi al mondo un massa di risparmio sufficiente a coprire questo fabbisogno, a tassi ragionevoli. I paesi con forti surplus di partite correnti e quindi di risparmio, in primis Cina e paesi del Golfo arabico, devono fronteggiare i loro problemi interni e non saranno in grado di assorbire trilioni di dollari (o di euro) di nuovo debito pubblico. Per attirare risparmio i tassi a lunga dovranno, prima o poi, risalire dai livelli di oggi. Per di più gli investitori saranno estremamente selettivi con gli emittenti sovrani. Già oggi gli spread sul debito pubblico italiano sono a livelli preoccupanti, e dunque non è il caso di aggravare la posizione già precaria dei nostri conti pubblici, (visto anche il persistente nervosismo che accompagna le aste di bond in alcuni paesi di Eurolandia).
Il punto cruciale, tuttavia, come sottolineava Guiso, è che “il governo non ha né una politica fiscale proporzionata al ciclo che si sta attraversando né una politica fiscale di stabilizzazione strutturale per il medio termine adeguata al gravissimo indebitamento del paese”. In altri termini, una politica economica efficace e non estemporanea dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi controbilanciato da risparmi certi e strutturali nel medio periodo.

RIVEDERE IL SISTEMA PENSIONISTICO

Esiste un modo efficace e credibile per conseguire questo equilibrio inter-temporale: rivedere il sistema pensionistico. Una tale scelta certo richiederebbe notevole coraggio politico, dati i precedenti, ma i tempi e la gravità della crisi potrebbero indurre alla ragionevolezza. Gli oltranzismi potrebbero essere superati se si legasse questa riforma a un taglio robusto delle imposte dirette e a una estensione degli ammortizzatori sociali per chi ne è sprovvisto. L’aumento graduale dal 2009 dell’età pensionabile per arrivare ai livelli prevalenti nel resto d’Europa, nel giro di due o tre anni ad esempio, si potrebbe realizzare in tempi brevi. In seguito, si potrebbe procedere a eliminare i privilegi di cui ancora godono molte categorie e infine rivedere formule e coefficienti in modo da assicurare da subito l’equilibrio tra contributi e benefici. Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future, ma quantomeno contribuisca a pagare il conto.
Sembrerebbe che il sindacato si renda conto della gravità della situazione, visto che suoi autorevoli esponenti lanciano allarmi sui 400mila posti di lavoro precari a rischio immediato, e i molti altri il cui contratto scadrà nel 2009, quando la recessione dispiegherà gli effetti più gravi. Quindi si potrebbe azzardare che oggi esistano le condizioni politiche favorevoli a un compromesso, se al sindacato stesse effettivamente a cuore la situazione dei precari, e di tutti i lavoratori che rischiano il posto, e non si arroccasse nella difesa di un sistema pensionistico insostenibile. Oltretutto, la crisi non risparmierà certo chi è protetto dallo Statuto dei lavoratori. Quando le aziende falliscono non c’è articolo 18 che tenga.
Un ultima postilla sul federalismo fiscale e l’equilibrio dei conti pubblici: non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata. L’attuazione dei principi vaghi e contraddittori approvati dal governo rischia di innescare un contenzioso di durata imprevedibile tra vari pezzi dello Stato e di conseguenza introduce una forte incertezza circa le ripercussioni sul bilancio dello Stato. Non sembra proprio il caso di intestardirsi. (Beh, buona giornata). 

 

 
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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Nella Russia del “mio amico Vladimir” si continua impuniti ad ammazzare giornalisti.

Russia e diritti, omissione di soccorso

di PAOLO LEPRI da corriere.it

Mentre il mondo è giustamente in ansia per le imprese di un eroe di carta—il reporter svedese Mikael Blomkvist, protagonista della Trilogia Millennium, braccato e minacciato dai poteri forti e dai servizi segreti di Stoccolma—c’è un luogo reale, la Russia, dove i giornalisti che cercano di sfidare il potere vengono uccisi in mezzo alla strada.

È accaduto ancora ieri a Mosca. È successo molte altre volte nell’era del putinismo. Sembrano essersene accorti solo i radicali italiani, qualche intellettuale controcorrente, come Bernard-Henry Lévy o André Glucksmann, e alcune organizzazioni umanitarie internazionali. Due anni fa Anna Politkovskaya, la donna che denunciava sulla Novaya Gazeta i soprusi delle autorità russe e del governo installato dal Cremlino in Cecenia, fu assassinata nell’ascensore del suo palazzo. Il killer fuggì sulle scale, come Raskolnikov dopo aver colpito a morte la vecchia usuraia. Era l’8 ottobre 2006. Putin tacque. Solo due giorni dopo la richiesta di una «indagine approfondita». Per l’opinione pubblica mondiale Anna è diventata un simbolo, per lui una persona «che non aveva influenza nella vita politica russa».

Nel novembre scorso è iniziato un processo farsa che ha coinvolto alcuni pesci piccoli. Ieri è stata la volta di Anastasia Barburova, 25 anni, considerata l’erede della Politkovskaya, uccisa mentre tentava di inseguire il killer dell’avvocato Stanislav Markelov, difensore dei ceceni finiti nella morsa rabbiosa e implacabile delle milizie filorusse. Ma delitti e trame oscure non sono che il segnale più evidente della malattia di un Paese dove quello che si può chiamare, in sintesi, il «deficit democratico» sta toccando livelli di pericolosità allarmante. Revival di volontà di potenza, aggressività economica, nostalgie autoritarie, indulgenze post-sovietiche, disprezzo per le regole delle società aperte sono le caratteristiche del regime guidato dall’ex agente del Kgb: un uomo che ha cambiato negli ultimi tempi solo il taglio dei suoi vestiti.

Il nuovo presidente americano Barack Obama è chiamato da oggi a tentare di risolvere tutti i problemi del mondo. Non sarà facile riuscirci, ma gli va subito chiesto di mettere il dossier Russia in testa alle pratiche da sbrigare con urgenza. Il successore di Bush sa che i diritti umani sono un valore universale e che i loro principi sono vincolanti anche se tradotti in cirillico. Se necessario, come ha scritto Lévy, imparando a trattare Putin non come un partner ma come un avversario. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Salute e benessere

Caso Eluana:”La decisione d’un ministro ha la forza di impedire che una sentenza abbia corso.”

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

(…………)

La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l’intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall’intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.

La decisione d’un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d’un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l’opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l’esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.

Non c’è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell’ordinamento costituzionale. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Human Rights Watch denuncia “l’aumento in Italia di incidenti a sfondo razzista e xenofobo, così come una crescente discriminazione nelle politiche governative nei confronti di Rom e Sinti.”

da ilmessaggero.it

WASHINGTON (14 gennaio) – L’amministrazione Bush ha prodotto «enormi danni» nel mondo per quanto riguarda la tutela dei diritti umani, e l’imminente amministrazione Obama dovrà mettere il rispetto dei valori fondamentali dell’uomo al centro delle sue politiche se davvero vorrà migliorare la situazione oggi esistente al mondo. Ma anche in Italia, con le politiche seguite sull’immigrazione, la situazione è peggiorata in tema di rispetto dei diritti fondamentali.

L’accusa viene da Human rights watch (Hrw), una delle più importanti organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani, che ha presentato oggi a Washington il suo ultimo Rapporto sulla situazione mondiale. Il Rapporto 2009 è un atto di accusa senza appello nei confronti della politica americana degli ultimi anni. Per far fronte a emergenze oggettive, come quelle poste dal terrorismo, secondo Hrw ha seguito un linea di condotta tale per cui, nel mondo, sono aumentati e si sono aggravati i casi di ingiustizia, repressione, violazione dei fondamentali diritti dell’uomo, e nei fatti i continui appelli rivolti dall’Onu sono rimasti inascoltati, compresi gli ultimi per Gaza.

Peggiorata la situazione mondiale. Il mondo, secondo Hrw, sta peggio. Gli attacchi di militari (regolari e non) nei confronti di civili continuano a verificarsi in diversi Paesi del mondo «dall’Afghanistan alla Colombia, dal Congo alla Georgia, da Israele ai territori Palestinesi» sottolinea il Rapporto. Repressioni politiche sono in corso in Birmania, Sri Lanka, Cina, Cuba, Corea del Nord, Iran, Arabia Saudita, Zimbabwe. «Abusi su donne, bambini, rifugiati, lavoratori, omosessuali» sono all’ordine del giorno in decine di Paesi nei cinque continenti, e violazioni continue avvengono anche da parte dei Paesi impegnati nella lotta contro il terrorismo, in particolare Francia, Gran Bretagna e Usa.

Le critiche all’Italia. Nel suo Rapporto HRW non risparmia critiche anche all’Italia. Ricorda, per esempio, che in un memorandum del luglio scorso il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani, Thomas Hammarberg, ha messo in evidenza «l’aumento in Italia di incidenti a sfondo razzista e xenofobo, così come una crescente discriminazione nelle politiche governative nei confronti di Rom e Sinti». Il Rapporto ricorda che gli incidenti del maggio scorso di cui furono vittima alcune le comunità nomadi, in seguito ai quali fu proclamato uno stato d’emergenza in Lazio, Campania e Lombardia «dando alle autorità locali poteri speciali. In seguito a questi episodi, il Parlamento europeo – scrive Human Rights – adottò una risoluzione chiedendo all’ Italia di bloccare il provvedimento sulle impronte digitali ai Rom. La Commissione europea mutò il suo atteggiamento critico dopo che seguirono da parte del governo italiano assicurazioni che non erano in corso schedature di dati di tipo etnico».

I casi Abu Omar e Saber. Hrw critica poi il governo italiano per l’atteggiamento avuto in due vicende specifiche: la vicenda legata al sequestro dell’ex Imam di Milano Abu Omar (nell’ambito della quale il governo ha posto il segreto di Stato) e la vicenda riguardante il tunisino Essid Sami Ben Khermais, detto Saber, espulso dall’Italia nel giugno scorso nonostante fosse pendente un pronunciamento da parte della Corte Europea, che aveva a suo tempo accolto un suo ricorso. Viene citata invece in termini positivi l’Unione europea, soprattutto per quanto riguarda l’intervento messo in atto in estate in occasione della crisi tra Georgia e Russia. (Beh, buona giornata).

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