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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il “Financial Stability Plan” di Veltroni.

1. Sistema universale di ammortizzatori sociali, essenziale strumento di protezione sociale e di tutela della vita stessa delle piccole imprese. Il Pd propone alcune misure immediate e in prospettiva la realizzazione di una organica riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo. Nell’immediato: a) l’introduzione di una misura temporanea di sostegno al reddito dei precari e degli altri lavoratori che perdono il lavoro e sono sprovvisti di copertura assicurativa, da associare ad attività di formazione e programmi di reinserimento lavorativo;
b) l’innalzamento della copertura Cassa integrazione ordinaria e straordinaria (CIG e CIGS) per proteggere dalle crisi, insieme ai lavoratori, anche le piccole imprese, che solo così possono sopravvivere e non creare ulteriore disoccupazione;
c) la sospensione del pagamento delle rate del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione di residenza per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. In prospettiva, va realizzata una organica riforma del sistema degli ammortizzatori sociali in modo da arrivare all’istituzione di un sussidio unico di disoccupazione, di cui possa beneficiare chiunque perde il proprio posto di lavoro, inclusi i precari, a prescindere quindi dal tipo di contratto, dal settore e dalla dimensione dell’impresa nella quale veniva svolta l’attività lavorativa, con l’unica condizione dell’impegno alla riqualificazione e ad accettare offerte di lavoro.

5.
Aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture, con priorità alle opere immediatamente cantierabili dei Comuni, a questo scopo parzialmente liberati dal vincolo del Patto di Stabilità Interno; si potrebbe così far partire entro il mese di giugno un programma di piccole e medie opere immediatamente cantierabili, ora bloccate dalla legge 133/2008, e avviare in tempi contenuti un piano straordinario di riqualificazione degli edifici pubblici, scuole soprattutto, per migliorare l’efficienza energetica e la messa in sicurezza. Vanno inoltre ripristinate le risorse sottratte agli investimenti nel Mezzogiorno, in particolare al Fondo per le Aree Sottoutilizzate.

2. Aumento del potere d’acquisto delle famiglie con una riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi. Aumento delle detrazioni sui redditi da lavoro dipendente, autonomo e da pensione, a partire dai redditi e dalle pensioni più basse, per dare, attraverso questa via, alla fine della legislatura, 100 euro in più al mese per i redditi fino a 30.000 euro l’anno. L’intervento, alternativo al bonus famiglia e alla social card, viene erogato anche ai contribuenti incapienti attraverso trasferimenti.

3. Promozione di nuova occupazione femminile: meno costi per l’impresa che assume una donna; meno tasse sul reddito da lavoro delle donne; sostegno all’imprenditoria femminile, anche attraverso il microcredito; accompagnamento degli interventi fiscali con politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e con il potenziamento di servizi di cura per la famiglia (asili nido, assistenza anziani non autosufficienti, ecc).

4. Green economy per rilanciare la nostra economia rendendola più competitiva, per attivare fra nuovi lavori e riqualificazione (o almeno “salvataggio”) di quelli esistenti, un milione di posti di lavoro nei prossimi cinque anni e rispettare gli impegni presi a livello europeo. Il Pd propone una serie di interventi, tra i quali un piano di riqualificazione degli edifici pubblici; rendere permanenti le agevolazioni fiscali del 55% per gli interventi di efficienza energetica delle abitazioni e degli edifici privati, costruzione di 100 mila nuovi alloggi, tra edilizia pubblica e canone agevolato, a bassissimo consumo energetico; incentivi per la rottamazione delle auto vincolati all’acquisto di auto a basse emissioni e bassi consumi e sostegno alla ricerca e all’innovazione dell’industria automobilistica per le auto ecologiche del futuro; favorire investimenti pubblici per il rinnovo del parco mezzi con acquisto di autobus a metano e avviare un piano di 1.000 treni per i pendolari, con 300 milioni di euro all’anno per cinque anni; ecoincentivi per l’acquisto di elettrodomestici a basso consumo; raddoppiare nei prossimi dieci anni l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili e favorire lo sviluppo di una industria nazionale del settore, rafforzando Industria 2015 e promuovendo nuove imprese che producano impianti, tecnologie, pannelli solari, nuovi materiali per l’edilizia; semplificare e dare certezza alle regole, ad esempio, nelle procedure di autorizzazione e nei regolamenti edilizi dei comuni; promuovere una politica agricola organica e favorire le imprese e le economie che puntano sul turismo di qualità, sui prodotti agricoli legati al territorio, alla manifattura italiana; incentivare il riciclo dei rifiuti e l’industria ad esso collegata: un incremento del 15% in dieci anni rispetto ai livelli attuali rappresenterebbe il 18% dell’obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni di CO2 e significherebbe far scendere i consumi energetici di 5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio.

6. Sostegno alle imprese sia rafforzando Confidi, sia garantendo il regolare e tempestivo pagamento delle pubbliche amministrazioni, sia ripristinando l’automatismo dei crediti d’imposta per la ricerca, gli investimenti, le ristrutturazioni; in particolare il Pd propone di accelerare il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese fino a 250 dipendenti attraverso il ricorso, nei limiti di 3 miliardi di euro per il 2009, alle risorse della gestione separata della Cassa Depositi e Prestiti; di potenziare le contro-garanzie per i Confidi – fino a triplicarne l’attuale capacità – di tutte le categorie del lavoro autonomo e delle piccole imprese, anche attraverso l’intervento della SACE; di dare attuazione alle misure previste nei decreti per la stabilità del sistema creditizio e la continuità nell’erogazione del credito alle imprese ed alle famiglie approvati all’inizio di ottobre 2008, ma rimasti inapplicati per l’assenza a tutt’oggi dei regolamenti attuativi, in particolare per la garanzia della raccolta bancaria a medio termine e a garanzia del rischio di credito. Il Pd propone inoltre una serie di interventi fiscali per il lavoro autonomo e le imprese. Tra questi, il potenziamento del forfettone fiscale: per lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e professionisti innalzamento del limite di fatturato a 70.000 euro l’anno e del limite di spesa per la disponibilità di beni strumentali a 45.000 euro nel triennio (circa 2 milioni di soggetti potenzialmente interessati, per i quali si elimina l’Iva, l’Irpef, l’Irap e gli studi di settore e si applica un’imposta sostitutiva complessiva del 20%); la riduzione della ritenuta d’acconto applicata sui ricavi dei professionisti (dal 20 al 10%) per evitare ricorrenti crediti fiscali, soprattutto per i professionisti più giovani; per il biennio 2009-2010; l’introduzione di un moltiplicatore pari a 2 per la deducibilità degli oneri finanziari derivanti dagli investimenti produttivi effettuati nel biennio 2007-2008, aggiuntivi rispetto alla media del triennio precedente; l’azzeramento per il biennio 2009-2010 dell’imposta sostitutiva sul reddito, attualmente prevista al 27,5%, per le ditte individuali e società di persone in contabilità ordinaria per la parte di reddito re-investita in azienda; la sospensione del tetto alla deducibilità degli interessi passivi per il biennio 2009-2010 per i soggetti Ires.

7. Difesa e valorizzazione del made in Italy, con la ricerca e con l’innovazione ma anche tutelando marchi e denominazioni e contrastando il dumping sociale e lo sfruttamento del lavoro minorile. Alla manovra anticiclica, con misure di immediato sostegno all’economia, devono essere unite riforme strutturali che accrescano il PIL potenziale e dunque riforme per la regolazione concorrenziale dei mercati (dalle banche alle assicurazioni, dalle professioni ai servizi pubblici locali, fino all’energia), in modo da mettere il paese in condizione di correre, quando la crisi internazionale sarà superata. Insieme a queste, va tutelato come bene assoluto il merito di credito del paese e quindi la stabilità finanziaria. La riduzione della spesa corrente, attraverso una spending review sulla quale fondare una sistematica operazione di benchmark che faccia emergere le migliori pratiche in modo che verso esse convergano tutti i segmenti della pubblica amministrazione; il controllo delle entrate attraverso una intelligente lotta all’evasione fiscale; la valorizzazione dell’ingente patrimonio pubblico, per ottenere che si trasformi da fonte di costo a fonte di reddito sono essenziali per garantire la stabilità di medio periodo della finanza pubblica. Insieme a queste va poi realizzata la riorganizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi, delle amministrazioni centrali e di ciascuna amministrazione regionale; la digitalizzazione “forzata” di tutta la Pubblica Amministrazione; l’accorpamento, in due anni, di tutti gli uffici periferici dello Stato centrale. Questo insieme di attività – da realizzare attraverso innovazioni legislative e, soprattutto, amministrative – è in grado di realizzare obiettivi di risparmio crescenti nel tempo (dopo due anni, un punto di PIL). Già nel 2009, il costo delle misure anticicliche proposte è coperto, per la metà, da maggiori entrate legate all’innalzamento del Pil, dal riavvio delle politiche antievasione, dall’assorbimento nell’ambito dell’intervento generalizzato delle risorse dedicate al bonus famiglia e alla social card, dai primi risparmi dovuti all’attivazione delle centrale unica per gli acquisti. Possibili risparmi in conto interessi, da valutare in sede di assestamento del Bilancio dello Stato a Luglio 2009, dovrebbero essere utilizzati per migliorare la copertura. L’indebitamento ed il debito aggiuntivo previsto per il 2009 viene più che compensato nel corso del 2010 e 2011, grazie al venir meno degli effetti delle misure di carattere temporaneo, al recupero di risorse dall’evasione, al risparmio di spesa e, soprattutto, alla maggiore crescita conseguente alle riforme strutturali proposte.

Più Europa: nella gestione del debito pubblico, per le infrastrutture, per la vigilanza sul sistema del credito Proprio mentre il modello europeo – con la sua economia sociale di mercato – viene assunto a riferimento in altre aree dell’economia globale, l’Unione Europea fatica a ritrovare slancio e si fanno più seri i rischi di scivolamento verso interventi protezionistici.

Il PD sostiene tre precise proposte: coordinamento, anche costituendo un’apposita Agenzia europea, della gestione delle emissioni di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Eurogruppo; finanziamento dei progetti infrastrutturali con emissione di eurobonds sul merito di credito dell’Unione; affidamento alla BCE del coordinamento della regolazione e della vigilanza sul sistema del credito, ormai perfettamente integrato a dimensione europea. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Il Financial Stability Plan di Obama.

da lavoce.info

Il piano presentato dal Treasury americano o Geithner test, come definito da una parte della stampa economica internazionale, introduce elementi di rilevante novità rispetto al precedente piano Paulson, che continua comunque a rimanere in vigore.
Il Financial Stability Plan si caratterizza innanzitutto per l’intervento dei privati, questa volta non solo auspicato, ma istituzionalizzato. Poi per l’abbandono della logica delle mere iniezioni di capitale, che lascia spazio al controllo statale dei bilanci delle banche e quindi all’acquisto di asset da parte di un fondo. Nonché per il tentativo di andare dritti al cuore del problema, il mercato dei prodotti cartolarizzati, e per ovviare a quella che, nella sua applicazione pratica, era risultata essere una debolezza del programma Paulson: la mancanza di trasparenza e accountability delle banche che ricevevano fondi pubblici.
Il piano, che si ritiene avrà un effetto leva da 2mila miliardi di dollari, prevede cinque linee di intervento: sostegno al capitale bancario, creazione di un fondo misto di investimento, iniziative a sostegno di nuovi prestiti a consumatori e imprese, oneri di trasparenza e responsabilità delle istituzioni creditizie e sostegno ai mutuatari per evitare il pignoramento.

PROGRAMMA DI ASSISTENZA AL CAPITALE BANCARIO (CAP)

Per ottenere una valutazione realistica e di lungo periodo delle effettive condizioni di salute delle banche, il Tesoro americano, di concerto con tutte le autorità di supervisione, condurrà un test di stress sui loro bilanci, per valutare se hanno il capitale necessario a esercitare attività di prestito e se sono in grado di assorbire le perdite potenziali che potrebbero derivare da un declino economico più severo di quello che ci si attende. Al test devono sottoporsi obbligatoriamente tutti gli istituti con asset consolidati superiori a 100 miliardi di dollari e solo così potranno avere accesso ai fondi pubblici. Questi opereranno come una forma di “contingent equity” che servirà da ponte per l’ingresso di capitale privato e assicurerà nel breve termine che le banche continuino o incrementino i prestiti all’economia reale. Il sussidio avrà la forma di azioni privilegiate convertibili, il cui dividendo e prezzo di conversione deve ancora essere stabilito. Il fine è comunque quello di congegnare l’equity in modo che le banche abbiano incentivo a sostituirla con capitale privato o a riscattarla. Su specifica autorizzazione, gli istituti potranno chiedere di “scambiare” le azioni relative al precedente piano con quelle dell’attuale. La gestione dei fondi pubblici investiti sarà affidata a un Trust. La maggiore incognita del Cap riguarda l’esatto ammontare di fondi necessari, che potrà essere stabilito solo dopo che i test siano giunti a compimento. 

CREAZIONE DI UN PUBLIC-PRIVATE INVESTMENT FUND (PPIF)

Nel public-private investment fund saranno convogliati capitali pubblici e privati. Il fondo acquisterà gli asset tossici delle banche, per ridurre la componente di maggior rischio dei loro bilanci e incentivare così l’attività di prestito. Il capitale pubblico, inizialmente 500 miliardi, che potranno arrivare fino a mille, sarà fornito dalla Federal Reserve e dalla Fdic, l’agenzia di tutela dei depositi. Nulla si dice invece su chi siano i “privati” interessati – o meglio, che possano avere incentivo – alla partecipazione al fondo. Ad ogni modo, la presenza di capitale privato farà sì che la valutazione del prezzo degli asset illiquidi sia affidata al mercato. Questo dettaglio ha però due conseguenze. Quella positiva è che si può sperare che venga così fissato un valore “giusto” per tali strumenti e che quindi si ristabilisca la fiducia tra gli operatori finanziari, con beneficio anche per i contribuenti che eviterebbero il rischio di pagare troppo o troppo poco, ipotesi questa che comporterebbe la necessità di ulteriori interventi pubblici. Quella negativa è che in realtà anche il fondo misto può divenire “avverso al rischio”, per cui pagherebbe il prezzo più basso possibile: avrebbe l’effetto di comportare immediate perdite contabili per gli istituti che si intendevano aiutare. Le stesse banche potrebbero mostrarsi dunque riluttanti a partecipare al programma. Non a caso, stante il silenzio del legislatore americano sul modus operandi del fondo, vi è già chi propone soluzioni pratiche al problema. (1)

SOSTEGNO AI PRESTITI A CONSUMATORI E IMPRESE

Il governo americano intende aumentare di 200 miliardi di dollari, con effetto leva fino a mille miliardi, una misura già presente nel piano Paulson, ma sinora inutilizzata: la Talf, Term asset-backed securities loan facility. Si tratta di finanziare l’acquisto da parte di investitori privati di prodotti cartolarizzati (Abs) garantiti da prestiti per l’acquisto di auto, carte di credito, o concessi a studenti e piccole imprese, assistiti da rating AAA, nonché commercial mortgage-backed securities (Cmbs), anch’essi a tripla A. Il Tesoro prevede, dietro consultazione con la Fed, di estendere l’ambito di applicazione della misura anche ai non-Agency residential mortgage-backed securities (Rmbs) e ad asset garantiti da obbligazioni societarie. La Federal Reserve continuerà il precedente programma di acquisto di obbligazioni emesse da agenzie governative (le Gse, come Fannie Mae, Freddie Mac e le Federal Home Loans Banks) e mortgage backed securities, per un totale di 600 miliardi. La misura mira evidentemente a riattivare il mercato dei prodotti cartolarizzati ormai in stallo.

TRASPARENZA, ACCOUNTABILITY E MONITORAGGIO DEI FONDI

Su trasparenza, accountability e monitoraggio dei fondi si registra forse il punto di maggior rottura con il piano Tarp. Anche perché le valutazioni del Troubled Asset Rescue Plan emerse dai primi audit sono state nel complesso negative, pur considerando la frammentaria applicazione e le continue modifiche effettuate. È risultato che parte dei soldi pubblici erogati sono stati utilizzati per pagare bonus ai manager, o sono stati trattenuti in bilancio piuttosto che investiti in attività di prestito. Addirittura, in alcuni casi sono serviti per operazioni di fusioni e acquisizioni che hanno prodotto un ulteriore taglio di posti di lavoro. Il nuovo piano prevede, al contrario, che le banche debbano dimostrare come “ogni dollaro ricevuto” abbia permesso loro di continuare a concedere o a generare nuovi prestiti rispetto a quanto sarebbe stato possibile senza il sostegno pubblico. Inoltre devono presentare un piano dettagliato di utilizzo dei fondi e un resoconto mensile di quanti prestiti hanno concesso a consumatori e imprese e quanti prodotti cartolarizzati (Abs, Mbs) hanno acquistato. I dati verranno resi pubblici sul sito del programma. (2)
Gli istituti partecipanti saranno altresì soggetti a restrizioni sui dividendi trimestrali e sull’acquisto di azioni proprie e sulle acquisizioni di imprese, tutte operazioni che in ogni caso dovranno essere autorizzate dal Tesoro. Si prevedono limiti agli stipendi degli amministratori, incluso il caso di stockoption pagabili solo dopo l’uscita del Tesoro, nonché all’acquisto di beni di lusso da parte delle imprese. Si predispospongono anche misure che evitino ogni ingerenza politico-lobbista nell’utilizzo, nella richiesta o nella restituzione dei fondi. Al fine di garantire la massima trasparenza verso i contribuenti, il Tesoro pubblicherà sul sito tutti i contratti effettuati nell’ambito del piano, compresi dettagli sulla quantità di azioni ricevute, sul prezzo di esercizio delle garanzie e sui tempi di rimborso. I dati dovranno essere comparati con i prezzi di mercato di analoghe transazioni, se disponibili.

EVITARE I PIGNORAMENTI

Evitare il più possibile i pignoramenti: è il filo conduttore che pervade l’ultima parte del piano, che si occupa del sostegno al mercato immobiliare.Èperò anche la più scarna e si attendono maggiori dettagli nelle prossime settimane.
Per aiutare i soggetti che rischiano di perdere la casa, il Tesoro e la Fed, da un lato, investiranno fino a 600 miliardi nell’acquisto di obbligazioni e prodotti cartolarizzati emessi dalle Gse e impegneranno risorse fino a 50 miliardi per prevenire pignoramenti “evitabili” di case già occupate. Dall’altro, obbligheranno tutte le istituzioni che aderiscono al programma a partecipare a piani di rinegoziazione dei mutui-foreclosure mitigation secondo regole stabilite dal Tesoro. È anche previsto di dare maggior flessibilità ai programmi Hope for Homehowners e Fha.
Qui l’interrogativo di fondo riguarda i soggetti specificamente deputati a effettuare la rinegoziazione dei mutui e a evitare i pignoramenti: giudici fallimentari? Camere di conciliazione? E che incentivo sarà dato alle banche per partecipare a tali piani? (Beh, buona giornata).
(1) Si veda Sachs, A strategy of contingent nationalisation, in www.voxeu.org
(2) www.financialstability.gov

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

” l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende.”

da ilmessaggero.it

Oltre ai conti sempre più in picchiata precipita anche l’indice della credibilità delle aziende in Italia: in un solo anno è passato dal 41% al 27%.

È quanto emerge dalla decima edizione del Trust Barometer, l’indagine annuale che Edelman conduce ogni anno fra gli opinion leader di 20 Paesi attraverso l’istituto di ricerche controllato StrategyOne.

Secondo la rilevazione, l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende. A livello globale il 65% degli opinion leader (il 61% in Italia) sono favorevoli ad un maggiore controllo da parte dello Stato nei confronti del mondo aziendale.

La perdita di fiducia nel sistema imprenditoriale è un fenomeno che riguarda molti dei Paesi colpiti dalla crisi economica, ma è più marcata in Italia (meno 14%), mentre cresce la fiducia nel governo, cala la credibilità dei media e nelle Ong rispetto ai dati del 2008.

L’Italia ha più fiducia nelle istituzioni governative (32%) rispetto alle aziende (27%), ed è il Paese nel mondo che ha minor fiducia nel settore aziendale (27%). Il 61% chiede che il Governo imponga regole più strette e un controllo più ferreo su tutti i settori del business. (Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Torna il reato d’opinione.

intervista di Vittorio Zambardino a Marco Pancini – da zambardino.blogautore.repubblica.it

“No, le leggi ad Aziendam che poi hanno un impatto su tutto l’ecosistema non si possono fare. E bisognerebbe evitare di portare l’Italia a livello dei peggiori paesi del mondo in fatto di reati d’opinione”

Al telefono c’è  Marco Pancini, resposabile per le relazioni istituzionali di Google in Italia. L’argomento è l’emendamento “ammazzaFacebook“, approvato il 5 febbraio per iniziativa del senatore D’Alia (Udc). Il parlamentare ieri ha spiegato in questa intervista ad Alessandro Gilioli  le sue posizioni e ripetuto che casi come quello delle pagine che inneggiano a Riina potrebbero portare alla chiusura dell’intero social network…

Non posso parlare a nome di Facebook, ma per quanto ci riguarda per la verità è peggio, se chiedessero a noi di togliere una certa pagina, noi lo faremmo subito, come facciamo con ogni contenuto segnalato come criminoso dall’autorità. Invece con questo emendamento lo chiederanno ai provider, ai fornitori di accesso cioè alle aziende telefoniche

Ma mi sbaglio o il nocciolo dell’emendamento D’Alia è che l’ordine di cancellare un dato contenuto e di eventualmente oscurare la pagina viene dal governo?

Tra l’altro questo è uno degli aspetti cruciali. Si crea una nuova filiera, si parla di controlli preventivi, qualcosa che da noi non è mai esistito.  E poi in questo momento i ministeri non hanno una struttura adeguata a seguire tuttio ciò che si pubblica in rete, quindi dovrebbe esserci un nuovo organismo. Me lo lasci dir bene, su questa faccenda siamo molto preoccupati, davvero…

Dica pure, ma mi pare che già il fatto – questa è una valutazione mia, non sua – che il governo si occupi “personalmente” di colpire i reati di opinione metta la cosa su un’orbita incredibile fino a poco tempo fa

A dire il vero fino a poco tempo fa il governo, con il disegno di legge Cassinelli aveva dimostrato di capire che esistono profili differenziati di responsabilità per chi si esprime in rete, si pensava ad una differenziazione tra blog individuali e siti che riflettono organizzazioni più professionali. Ora invece pare che la tendenza sia ad omologare il signor Rossi, titolare di un piccolo blog, al direttore di Repubblica. Ma come si fa?

Sta invocando anche lei un tavolo di trattative?

Certamente. Sarebbe così folle avere una sede di discussione nella quale esporre, spiegare, far capire? Perché sa, qui si tratta di istituire una filiera del controllo preventivo che è ignota all’ordinamento italiano. Noi possiamo parlare e parliamo con tutti, dalla polizia postale fino al governo, purché ci sia la volontò di ascoltarci…

E invece arriva l’emendamento D’Alia

C’è un orientamento in una parte del mondo politico che riflette una totale separazione dall’industria internet e dal mondo degli utenti

Loro pensano alle pagine su Riina o agli antisemiti

Ma già oggi è possibile individuare e colpire le responsabilità di chi commette un reato, e mi risulta che ci sia ancora scritto nel nostro ordinamento che la responsabilità penale è personale. Qui invece per la responsabilità di uno si vuole oscurare il diritto all’espressione di tutti

Può descrivere in concreto il meccanismo che la preoccupa, cosa intende quando parla di filiera del controllo?

Lei si immagini la Telecom o qualsiasi altro provider  che si vede recapitare l’ordine di rimuovere una pagina “incriminata”. Cosa succede? Chiamano l’autore? Non lo fanno, non possono materialmente farlo in breve tempo. Quindi chiudono tutto il servizio. Per poi riaprirlo a crisi superata… ma ci rendiamo conto a quali paesi stiamo equiparando l’Italia?

La Birmania, la Cina…

Non lo so, ai peggiori della classe in fatto di libertà di espressione: lo ripeto, stiamo parlando del reato d’opinione. A me pare l’abc del diritto. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Più passa il tempo, più sembra che i nostri governanti non sappiano che cosa sia Internet né come funzioni.”

da www.zeusnews.com

La risposta del social network alla recente legge che permette al nostro governo di bloccare qualunque sito a proprio piacimento.

Bloccare l’accesso a tutto Facebook per colpa della presenza di alcuni gruppi discutibili è come chiudere un’intera rete ferroviaria a causa della presenza di alcuni graffiti offensivi in una singola stazione: così Facebook risponde alla proposta censoria avanzata dal governo italiano.

Il problema era nato a seguito della scoperta di alcuni gruppi inneggianti a criminali riconosciuti, da Riina agli stupratori di Guidonia. La soluzione? Mettere il bavaglio a Internet, incuranti di quanti usano lo stesso strumento per fini più che leciti.

I provider, naturalmente, avrebbero dovuto essere lo strumento della censura, applicando i filtri secondo le disposizioni del Ministero dell’Interno, pena una multa salata.

Sembra che per quanti siedono a Roma Facebook sia il ricettacolo – almeno per adesso, fino alla prossima moda – di ogni malvagità. Qualcuno dovrebbe far loro notare, che il social network è complesso quanto il mondo reale, e che a fronte di 433 fan di Provenzano ce ne sono 369.463 di Falcone e Borsellino.

Il senatore Gianpiero D’Alia ha poi cercato di correggere il tiro: non tutto Facebook verrebbe bloccato, ma solo le pagine incriminate.

C’è da chiedersi se il senatore si sia mai chiesto quali difficoltà tecniche la cosa comporterebbe per i provider, i quali potrebbero essere costretti ad ammettere di non poter fare quanto richiesto.

Più passa il tempo, più sembra che i nostri governanti non sappiano che cosa sia Internet né come funzioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

In lotta con la crisi globale, in lotta contro i governi neo-liberisti.

 I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con
un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola
”( Naomy Klein, The Nation, quotidiano canadese).


Il governo inglese ha cercato di rispondere agli operai britannici, scesi in sciopero
generale contro un appalto che vedeva coinvolti operai italiani alla vecchia maniera:
siamo in Europa, niente protezionismo.

Il governo italiano ha risposto niente, perché  niente sa rispondere davvero alla crisi: fosse per loro, si tratterebbe di una semplice sfavorevole congiuntura, da superare, prima negandone la portata, poi affrontandola con fiducia e ottimismo, magari con lo spot di qualche hanno fa che diceva grazie a chi faceva la spesa.
Il governo di Gordon Brown, che pure è intervenuto energicamente e subito contro la crisi finanziaria è rimasto spiazzato dalla reazione delle Unions che hanno chiesto e ottenuto una quota di assunzioni di operai inglesi disoccupati nella raffineria della Total.   In Italia i media hanno parlato di episodi corporativi, evocando lo spettro dell’anti-italianità: il fatto è che chi crede di farla ai romeni, l’aspetti dagli inglesi.
In realtà i sindacati inglesi hanno messo il dito nella piaga: lavora chi ne ha diritto,
non chi accetta paghe inferiori. Vetero- sindacalismo? Averne, in Italia.

Il fatto è che la crisi economica riaccende l’antagonismo di classe.

In Islanda folle di persone  percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade, come se invece che la gelida isola del Nord Europa fosse la bollente Argentina del 2002.
Fatto sta che Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici del governo, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle finanziaria delle banche e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è
contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si
trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una
esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio.

In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all?uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un “aiuto” di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli
agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco
delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori
siano ragionevoli.

In Francia il recente sciopero generale, in parte innescato dal piano del presidente
Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti  ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

In Corea a dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un
molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. I parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani. Se non che i rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento.

Scioperi e manifestazioni contro la crisi e la disoccupazione si sono avute e in Spagna e in Germania. In Russia, la polizia di Putin ha caricato con durezza i manifestanti sulla Piazza Rossa.

In Italia, il “la” alla proteste contro la crisi lo ha dato l’Onda , il nuovo movimento
degli studenti, che ha coniato lo slogan che lega le manifestazioni in tutto il mondo:
La vostra crisi non la paghiamo noi”.
Nei mesi scorsi i sindacati di base hanno riempito le piazze, mentre lo sciopero generale del 12 dicembre scorso ha portato più di un milione e mezzo di lavoratori in tutta Italia.
Il 13 febbraio, altro sciopero generale dei dipendenti pubblici e dei metalmeccanici
promosso dalla Cgil: un grande  successo, nonostante la colpevole defezione delle altre confederazioni. Più di 700 mila operai, impiegati pubblici e privati, donne, precari, cassaintegrati e lavoratori stranieri hanno dato via a tre robusti cortei per le strade della Capitale, riempiendo poi piazza San Giovanni come non si vedeva da tempo. Paolo Ferrero ha giustamente detto che “è la prima volta dal dopoguerra che in Italia il movimento dei lavoratori non è rappresentato in parlamento.
Infatti, la politica fa la sorda, i media guardano da un’altra parte, il Governo cambia argomenti, l’opposizione parlamentare, troppo spesso ridotta a inseguire l’agenda del governo, fatica a capire la portata del disagio sociale e del montare della protesta
anticapitalista. Comica la dichiarazione del ministro del Lavoro che ha detto che la Cgil è isolata. Sembra la berzelletta del soldato italiano che oltre le linee nemiche chiamava a gran voce il tenente per dirgli che li aveva fatti tutti prigionieri, ma che quelli non lo lasciavano andare. Ma è un fatto che la protesta c’è e ribolle ovunque.  Ad essa va data non solo voce, ma sintesi politica. Questo è l’impegno che con urgenza viene dalle istante dei lavoratori italiani: da Milano a Pomigliano, dove è intervenuta la polizia coi manganelli, a Roma, dove il giorno prima dello sciopero generale i lavoratori dell’Alitalia hanno bloccato l’autostrada contro il mancato pagamento da tre mesi della cassa integrazione.

 

Ma se la crisi è globale, i conflitti sociali non possono rimanere locali. Bisogna riprendere l’abitudine politica ad ascoltare le istanze che vengono dal lavoro, ovunque in Europa e nel mondo. E metterle in cima alla lista delle priorità della Sinistra, anche in vista delle prossime tornate elettorali.
Fa bene alla salute delle idee di cambiamento. Aiuta la politica a guardare lontano.
Serve a mettere in crisi la crisi globale. Beh, buona giornata.

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Attualità Pubblicità e mass media

Nielsen Media Research ci dice finalmente quanto sta male la pubblicità italiana. E smentisce tutti coloro che vevano fatto professione di ottimismo.

 

da advexpress.it

 
 
Gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce del +0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo del -1,2% della Televisione e del -7,1% della Stampa. La Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.

 

Gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni con una flessione del -2,8% sull’anno precedente. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%.Nel confronto mensile il calo interessa, con diversa intensità, tutti i mezzi ad eccezione di Internet che cresce del +0,9% sul dicembre 2007. Considerando i primi dieci settori, nel 2008 si registra un trend positivo per Telecomunicazioni (+1,9%), Abbigliamento (+0,8%), Abitazione (+1,2%) e Toiletries (+4,3%); negativo per Alimentari (-2,2%), Automobile (-4,7%), Media/Editoria (-4,4%), Bevande/Alcoolici (-9,8%), Finanza/Assicurazioni (-5,9%) e Cura Persona (-5,5%).

I Top Spender del 2008 sono, nell’ordine: Ferrero, Vodafone, Wind, Unilever, Tim, P&G, Barilla, Volkswagen, L’Oreal e Fiat Div. Fiat Auto .

L’analisi per mezzo evidenzia nell’anno un calo del -1,2% della Televisione e del -7,1% della Stampa. In particolare, i Quotidiani a pagamento registrano il -7,0% con la Commerciale Nazionale a -10,7%, la Locale a -0,8% e la Rubricata/Di Servizio a -4,9%.

Sui Quotidiani sono in forte diminuzione gli investimenti di Auto (-21,5%), Finanza/Assicurazioni (-18,4%) e Distribuzione (-11,3%). E’ positivo, ma in rallentamento, l‘Abbigliamento (+6,9%).

I Periodici sono in flessione del -7,3%. Tra i settori, è positivo l’Abbigliamento (+1,5%), ma diminuiscono Abitazione (-7,5%), Cura Persona (-12,6%), Alimentari (-11,0%), Oggetti personali (-17,1%) ed Automobili (-15,5%).

La Radio mette a segno una crescita del +2,3% superando i 487 milioni di raccolta. Ad eccezione di Internet che cresce del +13,9% superando i 321 milioni, gli altri mezzi nel 2008 sono in sofferenza: l’Outdoor registra il -2,8%, il Cinema il -16,4% e le Cards il -10,6%.

Si aggiungono al mercato fin qui analizzato gli investimenti pubblicitari sui Quotidiani Free/Pay Press e sulle Tv satellitari. Per City, Leggo, Metro, 24 Minuti ed EPolis il fatturato complessivo nell’anno è di 140,2 milioni. Per i canali Sky Sport 1, Sky Cinema 1, Sky Cinema 3, Sky Tg 24, Fox, Fox Life, Fox Crime e National Geographic è di 91,2 milioni.

Beh, buona giornata.

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

“La spesa delle famiglie nel 2009 si ridurrà di un ulteriore 0,5%, dopo il calo dello 0,6-0,7 punti percentuali stimato nel 2008”.

da repubblica.it

Dopo l’avvio positivo dei saldi nelle prime due settimane dell’anno, a partire dalla seconda metà di gennaio si avverte “una marcata recessione su tutto il fronte dei consumi”: lo segnala la Confesercenti secondo la quale i settori più colpiti sono quelli di auto, alimentari, tessile, tabacchi. Stando alle stime, sono i consumatori ad aver cambiato comportamento di spesa con risparmi anche del 20%. Ad esempio, le schede telefoniche da 5-10 euro vengono privilegiate rispetto a quelle di maggiore entità. E si acquistano più pacchetti di sigarette da 10 a discapito di quelli da 20.

Secondo l’associazione, “la spesa delle famiglie nel 2009 si ridurrà di un ulteriore 0,5%, dopo il calo dello 0,6-0,7 punti percentuali stimato nel 2008”. Per la Confesercenti, la crisi dei consumi impatta “immediatamente” sulle vendite del commercio: la spesa delle famiglie è influenzata cioè dalla “diffusa incertezza sulla durata della fase recessiva”, dalle “crescenti preoccupazioni sull’evoluzione del mercato del lavoro”, dal “forte aumento dell’inflazione al consumo”, dalle “conseguenze sulla ricchezza delle famiglie condizionata dalle vicende finanziarie e di borsa”.

La riduzione dei consumi ha già avuto conseguenze molto negative per il commercio, ricorda Confesercenti: il 2008 si è chiuso con un saldo negativo di poco meno di 40.000 imprese nell’intero comparto del commercio (dettaglio e ingrosso). In termini occupazionali, “ciò sta a significare circa 120-130.000 posti di lavoro in meno, tra titolari, collaboratori e dipendenti. E’ facile ipotizzare che anche nel 2009 dovremo registrare un volume di chiusure almeno pari a quello del 2008, se non leggermente superiore, intorno alle 50.000 imprese”.

Quanto agli interventi messi in campo per fronteggiare la recessione, per Confesercenti “l’ammontare delle risorse previste è assolutamente insufficiente per sostenere la ripresa dei consumi e dell’attività produttiva”. Anche perché la pressione fiscale rimarrà ancorata, per i prossimi 5 anni, ad un livello “anche superiore al 43%”.

“Come Confesercenti – si legge nella nota diffusa dall’associazione – chiediamo che per i ricavi del 2008 e del 2009 sia ridotta la soglia almeno del 5%, per tener conto degli effetti della crisi, percentuale che richiama il calo medio delle vendite delle piccole superfici commerciali nel 2008 al netto dell’inflazione”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Sicurezza sul lavoro – Slitta di due anni l’emanazione del testo unico sulla sicurezza sul lavoro.

Solo nel mese di gennaio 2009 i morti sul lavoro sarebbero 91, gli infortuni 91.322, mentre le persone rimaste invalide 2.283.(Fonte: Marco Bazzoni, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza). Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“Anche quelli fra noi che, come me, sono convinti della necessità dell’esistenza della Chiesa per trasmettere il Vangelo, non si sentono più di accettare per questo lo scandalo delle questioni di principio invocate per puro scopo di potere.”

 
 
di GIANNI VATTIMO da lastampa.it
Ma chi ha esercitato un po’ di carità cristiana nei confronti di Eluana Englaro? I fedeli che si riunivano nelle chiese e nelle piazze per scongiurare l’«assassinio», o il padre che, sostenuto da precise pronunce giudiziarie, voleva aiutarla a interrompere la sofferenza inutile della quale era prigioniera? È vero, non c’era un documento scritto di suo pugno in cui lei esprimesse il desiderio d’esser lasciata morire. Anche perché in Italia di testamento biologico non si è mai potuto discutere davvero, per responsabilità precipua di quella Chiesa che diceva di voler difendere la sua vita. Ma in mancanza del documento, i tutori «naturali», la famiglia, meritavano d’essere ascoltati. Non avevano certo nessun interesse a lasciarla morire, a meno che non si consideri interesse il desiderio di non vederla più soffrire e di non lasciarla ridursi a una larva. (E a meno di condividere l’osceno sospetto che il padre volesse liberarsi di un ingombrante fardello). Perché tenerla in vita a tutti i costi? Il diritto alla vita non può essere puramente diritto alla sopravvivenza biologica: respiro, processi digestivi, funzioni vegetative. Scienza e coscienza dei medici che la seguivano da 17 anni concordavano che non ci fosse speranza di recupero, dunque sopravvivere non poteva avere il senso di attesa di una guarigione. Non è comunque vita vegetativa quella di cui parla la tradizione cristiana o anche il buon senso umano. Propter vitam vivendi perdere causas? Pur di sopravvivere, rinunciare alle ragioni stesse della vita? I martiri cristiani accettavano la morte per non rinnegare la fede. Peccavano contro la vita? E i grandi suicidi della tradizione classica che preferivano la morte alla schiavitù sarebbero da condannare? Anche chi crede che la vita sia «un dono di Dio» non può non pensare che si tratta di accettarlo e gestirlo in piena libertà.

Ma se Eluana avesse scritto quel testamento biologico che ancora non esiste nelle nostre leggi, avremmo potuto da cristiani rispettare la sua scelta? Per quel che si è visto in questi giorni, la Chiesa non ammetterebbe mai che qualcuno possa chiedere d’esser lasciato morire, con la sospensione di cibo e idratazione – che, si è scoperto adesso in Vaticano e dintorni, non sono terapie (che il paziente può rifiutare), ma forme di assistenza elementare alla vita. Sono in gioco valori «indisponibili», questioni di principio. Proprio quelle che hanno preteso di legittimare, nei secoli, i tanti delitti ecclesiastici contro la carità: i roghi di streghe, eretici, liberi pensatori. Davvero non si può ammettere che una persona decida se la propria vita è ancora degna di essere vissuta o no? Se si pone questa semplice domanda, si vede come dietro la questione di principio (la vita è un bene indisponibile) si nasconda una pura questione di potere, e specificamente di potere ecclesiastico: nessuno di noi è in grado di conoscere il proprio «vero» bene, solo la Chiesa lo può. E il potere, la storia insegna, si conserva con la forza e il timore. Non è affatto inverosimile che la Chiesa, consapevole di non dominare più le coscienze con il timore dell’Inferno anticipa quelle pene al momento del morire. Oggi che la scienza-tecnica può prolungare la sopravvivenza vegetativa all’infinito, temiamo molto più dell’Inferno l’essere tenuti in vita in uno stato larvale, magari anche con dolore e sofferenza, almeno psicologica (il dolore è sempre «redentivo», e «nessuna lacrima va perduta», dice il Papa). È su questo terrore che la Chiesa non vuole perdere il suo dominio. Anche quelli fra noi che, come me, sono convinti della necessità dell’esistenza della Chiesa per trasmettere il Vangelo, non si sentono più di accettare per questo lo scandalo delle questioni di principio invocate per puro scopo di potere. Forse è vero che «se vuol distruggere qualcuno, Dio prima lo fa impazzire»? Cercare d’esser caritatevoli con Eluana e con tutti quelli che vogliono poter decidere sulla propria vita è anche un modo di aiutare la Chiesa a non distruggersi per delirio di onnipotenza. (Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“Berlusconi e la Lega appaiono come residuati di una guerra perduta, come chi vuole fermare con le mani un fiume che straripa.”

di EMANUELE MACALUSO da lastampa.it
La sfida lanciata da Berlusconi, prima e dopo la morte di Eluana Englaro, al mondo laico sul terreno dei valori che caratterizzano la modernizzazione e la secolarizzazione dell’Occidente è destinata ad accrescere il suo isolamento in Europa e oltre l’Atlantico. La vittoria di Obama segna la sconfitta dell’oltranzismo dei teodem. Non è senza significato il fatto che uno dei primi atti del nuovo presidente sia stato quello di sospendere il divieto, ordinato da Bush, di dare finanziamenti pubblici a organizzazioni private che praticano o sostengono l’aborto. Le reazioni dei vescovi americani e dei cardinali della Curia non hanno certo fatto indietreggiare il Presidente Usa. La campagna di Berlusconi sul «caso Eluana» che ha un netto carattere strumentale, guarda solo alla politica interna, allunga la distanza che separa il presidente del Consiglio italiano da quel vasto e complesso mondo credente ma laico che ha sostenuto Obama.

Il clima, nei confronti di Berlusconi, è cambiato anche in Europa. Oggi la destra di Sarkozy guarda con interesse coloro che pensano a un’alternativa al socialismo democratico europeo su un terreno che oggettivamente costituisce una sfida alla sinistra, non solo sul tema dello sviluppo ma anche su quello dei valori che debbono caratterizzare le società moderne multirazziali e multiculturali. Berlusconi e la Lega appaiono come residuati di una guerra perduta, come chi vuole fermare con le mani un fiume che straripa. Chi pensa che le posizioni laiche di Zapatero fossero un caso isolato in Europa sbaglia. È vero, si tratta della Spagna cattolica, ma la laicità e la legislazione sui diritti individuali che non configgono con quelli della collettività, sono comuni a tutta l’Europa. Quel che Obama ha fatto ora lo aveva fatto, anni addietro, Blair in Inghilterra. In Germania le critiche aperte della cancelliera Merkel al Papa, dopo la riammissione nella Chiesa di Roma dei lefebvriani scomunicati, con loro il vescovo negazionista, è un gesto politico che va in direzione opposta a quella di Berlusconi. Il quale, con la sua storia, assume, rispetto al Vaticano, posizioni che uno, con la storia di Giulio Andreotti, considera inaccettabili.

Chi pensa che al fondamentalismo islamico bisogna opporre il fondamentalismo cristiano, è oggi smentito da ciò che vediamo in Europa e nelle Americhe. Insomma, il mondo cambia non solo in ragione della pesante crisi economica, ma anche per i processi sociali e culturali innescati dalla globalizzazione e l’Italia sembra ferma, paralizzata dalla crisi del suo sistema politico con un presidente del Consiglio che appare fuori del tempo e dello spazio che ci circonda. In questo quadro, la politica e il sistema che l’esprime non riescono ad uscire dalla rissa quotidiana e a riflettere sugli scenari nuovi che ci propone il mondo e l’Italia con esso. Lo spettacolo offerto in Senato dopo la fine di Eluana e il volgare attacco al Presidente della Repubblica di chi rappresenta la maggioranza al governo, è un segno dei tempi. E, purtroppo, non c’è un grande partito che ponga i temi essenziali e urgenti di oggi, del quotidiano, in una prospettiva del domani e del futuro.

Anche i delicati e complicati rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono giocati sulla redditività elettorale immediata. E il Vaticano in questa situazione pensa di avere una rendita di posizione rispetto ai due poli che cercano i suoi favori rendendo favori su temi e questioni che la Costituzione ha regolato anche incorporando i Patti Lateranensi e la loro revisione. Non è un caso che in questi giorni c’è chi ricorda De Gasperi e Togliatti o Craxi e Berlinguer e i papi del tempo, i quali, anche nel caso di un ampio conflitto politico, seppero trovare equilibri adeguati allo svolgimento della lotta politica e al ruolo anche pubblico delle religioni in un Paese in cui, come diceva Gramsci, «c’è una questione vaticana». E non sono certo mancate posizioni critiche laiche (penso ai radicali) a questa linea, ma tutto si è svolto senza mettere in discussione le fondamenta della Costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa.

Oggi sembra che tutti gli argini si siano rotti nelle due sponde del Tevere e prevale una strumentalizzazione ed esasperazione dei temi controversi che si riverberano sulla famiglia di Eluana che ha vissuto e vivrà un dramma che le istituzioni e la Chiesa avrebbero dovuto rispettare. Ma qui, ripeto, sembra di essere fuori dal mondo, in un altro pianeta. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

«La crisi riduce i budget della pubblicità su carta E anche il pluralismo»

di FRANCESCO PICCIONI da Il Manifesto
È uno dei più noti copy writer italiani, con una carriera «all’americana», da semplice fattorino a «presidente e direttore creativo esecutivo» della Tbwa/Italia. Poi, per Marco Ferri, una girandola di incarichi e riconoscimenti internazionali, sempre all’interno del delicato snodo tra pubblicità e media.
Inserti e giornali femminili sono «dimagriti»…
La crisi viene da lontano ed è strutturale. L’Italia, in particolare, non consuma molti giornali. Come per il resto dell’editoria, credo ci siano più testate che lettori. Oggi si aggrava perché la crisi economica fa sì che si taglino budget e posti di lavoro, e quindi ai giornali arriva meno pubblicità, con scompensi gravissimi.
Cala la «torta» complessiva della pubblicità?
C’è un restringimento stimato nell’ordine del meno 3 e qualcosa. Sono dati non confermati e non smentiti, perché tutte le grandi holding di pubblicità – non solo le agenzie, ma anche i centri media – non dichiarano più i dati dall’inizio del 2000, con la crisi della net economy. Un accordo per non pubblicare più le loro classifiche sulla rivista Usa Advertising age, come avvenuto fin lì. All’epoca tutte le holding di pubblicità furono sottoposte a controlli della Sec – la Consob americana – per delle «irregolarità». Furono costrette a rimettere a posto i propri bilanci e in alcuni casi anche a restituire delle over commission ai grandi clienti.
A livello globale?
Sì. Molta della pubblicità prodotta in Italia è legata a holding internazionali; i manager italiani non hanno fatto altro che adeguarsi agli ordini. Noi abbiamo però il grave problema che gran parte dei budget pubblicitari viene assorbito dalla tv; da Mediaset e Rai. In una fase di crisi, con quasi il 70% assorbito dal sistema televisivo, si può immaginare come si sia ridotto il flusso verso la carta stampata. I giornali perdono contemporanemaente copie, diffusione, lettori e pubblicità. Questo assottiglia non solo le pagine, ma – temo – anche la forza lavoro.
E’ possibile un uso selettivo e condizionante della pubblicità in queste condizioni?
Temo di sì. La pubblicità ha già la sua forte influenza sui contenuti giornalistici. In tempi di crisi, «urtare la suscettibilità» di un investitore condiziona chi deve affrontare un’inchiesta. Un esempio di oggi: Carlos Ghosn, da Tokyo, ha dichiarato che taglia il 10% dei costi globali di Nissan. Si potrebbe però obiettare: «ma come, una marca globale si prende gli incentivi in tutto il mondo e licenzia gli operai?» Scrivere una cosa del genere urterebbe gli investitori, che invece vorrebbero invece utilizzare le pagine del giornale per promuovere i propri modelli sottoposti a incentivi governativi. Ma la «stortura» vera riguarda il drenaggio eccessivo della quota di mercato assorbita dalla tv, il peso abnorme della tv commerciale. La Ue ha scritto di recente all’Italia per dire che la «legge Gasparri» non va bene. Ma non ne ha scritto nessuno.
L’inrgresso di Murdoch che effetto ha avuto?
Secondo i dati Fox la presenza è cresciuta dal 3,4% al 9,8. E’ ora un competitor robusto, più appetibile come strumento di comunicazione pubblicitaria. Questo crea malumori e scontri molto forti. C’è stato quel conflitto sull’iva al 20% come risposta, ma anche un cambio di strategia. Con il passaggio al digitale terrestre la tv generalista sta cercando di tematizzare i propri programmi , Sky sta facendo l’opposto. Hanno preso Fiorello, si parla di Celentano, già è in scuderia la Cuccarini. Personaggi tipici che hanno fatto grandi ascolti nell’intrattenimento «generalista». Murdoch sta investendo in Italia, nonostante le perdite globali. Ma il satellitare può essere un competitor della tv in chiaro.
Si va a una concentrazione delle testate?
E’ un ridimensionamento duro, rigido, del mercato. Dolori veri. In Italia è anche venuto meno il finanziamento «su carta» ed è in discussione la legge di riforma dell’editoria. Sono tutti molto cauti, sia l’Fnsi che gli editori.
Un grande futuro, per il pluralismo…
Appunto. E’ come se il pluralismo fosse stato ridotto al telecomando. Ho l’impressione che, nell’editoria, sia tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).
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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“‘Rompiamo il silenzio’ è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione.”

Zagrebelsky: “Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma”.

di GIUSEPPE D’AVANZO da repubblica.it

L’Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ha definito Beppino Englaro “un boia”. Credo che debba partire da qui, da un insulto atroce, il colloquio con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.

Beppino Englaro, “un boia”?”
In un caso controverso dove sono in gioco dati della vita così legati alla tragicità della condizione umana è fuori luogo usare un linguaggio violento, così impietoso, così incontrollato, così ingiusto. Non ho ascoltato, sul versante opposto, che vi sia chi ragiona dell’esistenza di un “partito della crudeltà” opposto a “un partito della pietà”. Credo che in vicende così dolorose debbano trovare espressione parole più adeguate e controllate, più cristiane”.

E tuttavia, presidente, i toni accusatori, le accuse così aggressive e definitive sembrano indicare che cosa è in gioco o a contrasto nel caso di Eluana Englaro. I valori contro i principi, la verità contro il dubbio. Questioni da sempre aperte nelle riflessioni dei dotti che avevano trovato, per così dire, una sistemazione condivisa nella Costituzione italiana. Che cosa è accaduto? Perché quell’equilibrio viene oggi messo di nuovo in discussione dopo appena sessant’anni?
“Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della com-passione, con atteggiamenti e comportamenti concreti. Nella Chiesa cattolica, ovviamente, ci sono entrambe queste posizioni. Nelle piccole cerchie, prevale la carità; nelle grandi, la verità. Quando le prime comunità cristiane erano costituite da esseri umani in rapporto gli uni con gli altri, la carità del Cristo informava i loro rapporti. La “verità” cristiana non è una dottrina, una filosofia, una ideologia. Lo è diventata dopo. Gesù di Nazareth dice: io sono la verità. La verità non è il dogma, è un atteggiamento vitale. Quando la Chiesa è diventata una grande organizzazione, un’organizzazione “cattolica” che governa esseri umani senza entrare in contatto con loro, con la loro particolare, individuale esperienza umana, ha avuto la necessità di parlare in generale e in astratto. È diventata, – cosa in origine del tutto impensabile – una istituzione giuridica che, per far valere la sua “verità”, ha bisogno di autorità e l’autorità si esercita in leggi: leggi che possono entrare in conflitto con quelle che si dà la società. Chi pensa e crede diversamente, può solo piegarsi o opporsi. Un terreno d’incontro non esiste. “.

Che ne sarà allora dell’invito del capo dello Stato a una “riflessione comune” ora che il parlamento affronterà la discussione sulle legge di “fine vita”?
” Una legge comune è possibile solo se si abbandonano i dogmi, se si affrontano i problemi non brandendo quella verità che consente a qualcuno di parlare di “omicidio” e “boia”, ma in una prospettiva di carità. La carità è una virtù umana, che trascende di gran lunga le divisioni delle ideologie e dei credi religiosi o filosofici. La carità non ha bisogno né di potere, né di dogmi, né di condanne, ma si nutre di libertà e responsabilità. Dico la stessa cosa in altro modo: un approdo comune sarà possibile soltanto se prevarrà l’amore cristiano contro la verità cattolica”.

Lo ritiene possibile?
“Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: “Tra tutte le leggi, non ve n’è alcuna più favorevole a’ Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de’sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri”. Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c’è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni “prencipi”. Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: “questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica”. Ora, se l’obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro.

Dobbiamo allora credere che il conflitto di oggi tra mondo laico e mondo cattolico, che ha accompagnato il calvario di Eluana, segnali soprattutto la fine della riflessione del Concilio Vaticano II e, per quel che ci riguarda, la crisi di quella “disposizione costituzionale” che è consistita, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nella Costituzione, e per la Chiesa nella distinzione tra religione e politica?
“Il Concilio Vaticano II ha rovesciato la tradizione della Chiesa come potere alleato dello Stato, ha voluto liberarla da questo legame tutt’altro che evangelico. Non si propose di proteggere o conservare i suoi privilegi, ancorché legittimamente ricevuti, e invitò i cattolici a un impegno responsabile nella società, uomini con gli altri uomini, con la fiducia riposta nel libero esercizio delle virtù cristiane e nell’incontro con gli “uomini di buona volontà”, senza distinzione di fedi. Fu “religione delle persone” e non surrogato di una religione civile. Il cattolicesimo-religione civile sembra invece, oggi, essere assai gradito per i vantaggi immediati che possono derivare sia agli uomini di Chiesa che a quelli di Stato”.

Ieri mentre finiva l’esistenza di Eluana Englaro e il Paese era scosso dalle emozioni, dalla pietà e, sì, anche da una rabbia cieca, dieci milioni di italiani hanno voluto vedere il Grande Fratello. E’ difficile non osservare che l’artefice della macchina spettacolare televisiva del reality e di ogni altra fantasmagorica vacuità – capace di distruggere ogni identità reale, alienare il linguaggio, espropriarci di ciò che ci è comune, di separare gli uomini da se stessi e da ciò che li unisce – è lo stesso leader politico che pretende di dire e agire in nome dell’Umanità, della Vita, addirittura della Verità e della Parola di Dio. Le appare più tragico o grottesco, questo paradosso? Come spiegarsi la dissoluzione di ogni senso critico dinanzi a questo falso indiscutibile?
“Non è questo il solo paradosso. Non è la sola contraddizione che si può cogliere in questa vicenda. Il mondo cattolico enfatizza spesso il valore della dimensione comunitaria della vita, soprattutto nella famiglia. E’ la convinzione che induce la Chiesa a invocare a gran voce la cosiddetta sussidiarietà: lo Stato intervenga soltanto quando non esistono strutture sociali che possono svolgere beneficamente la loro funzione. Mi chiedo perché, quando la responsabilità, la presenza calda e diretta della famiglia, nelle tragiche circostanze vissute dalla famiglia Englaro, dovrebbero ricevere il più grande riconoscimento, la Chiesa – con una contraddizione patente – chiude alla famiglia e invoca l’intervento dello Stato; alla com-passione di chi è direttamente coinvolto in quella tragedia, preferisce i diktat della legge, dei tribunali, dei carabinieri. Sia chiaro: lo Stato deve vigilare contro gli abusi – proprio per evitare il rischio espresso dal presidente del consiglio con l’espressione, in concreto priva di compassione, “togliersi un fastidio” – ma osservo come la legge che la Chiesa chiede assorbe nella dimensione statale tutte le decisioni etiche coinvolte: questo è il contrario della sussidiarietà e assomiglia molto allo Stato etico, allo Stato totalitario”.

Lei è il primo firmatario di un appello che ha per titolo Rompiamo il silenzio. Vi si legge che “la democrazia è in bilico”. Le chiedo: può una democrazia fragile, in bilico appunto, reggere l’urto coordinato di un potere politico invasivo e senza contrappesi e di un potere religioso che agita come una spada la verità?
“Oggi la politica è succuba della Chiesa, ma domani potrebbe accadere l’opposto. Se la politica è diventata – come mi pare – mezzo al solo fine del potere, potere per il potere, attenzione per la Chiesa! Essa, la Chiesa del dogma e della verità, può essere un alleato di un potere che oggi ha bisogno, strumentalmente, di legittimazione morale. Il compromesso convince i due poteri a cooperare. Ma domani? Il potere dell’uno, rafforzato e soddisfatto, potrebbe fare a meno dell’altra. “.

Qual è l’obiettivo del suo appello?
“‘Rompiamo il silenziò è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione. L’appello ha tre ragioni. E’ uno sfogo liberatorio, innanzitutto: devo dire a qualcuno che non sono d’accordo. E’ poi un autorappresentarsi non come singoli, ma come comunità di persone. Il terzo obiettivo è rendersi consapevoli, voler guardare le cose non in dettagli separati, è un volersi raffigurare un quadro. A volte abbiamo la tendenza a evitare di guardare le cose nel loro insieme. E’ quasi un istinto di sopravvivenza distogliere lo sguardo dalla disgrazia che ci può capitare. L’appello prende posizione. Si accontenta di questo. Se mi chiede come e dove diventerà concreta questa presa di coscienza, le rispondo che ognuno ha i suoi spazi, il lavoro, la scuola, il partito, il voto. Faccia quel che deve, quel che crede debba essere fatto per sconfiggere la rassegnazione”.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche

C’è un pessimo clima sulla questione ambientale.

Clima di crisi

di Marzio Galeotti da lavoce.info

Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.

Il 2008 sembrava un anno speciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Il pacchetto europeo sul clima annunciato a gennaio attraversava una fase di discussione turbolenta, durante la quale si era distinto in negativo il nostro paese, ma non tale da comprometterne l’approvazione finale. Dall’altra parte dell’oceano, il candidato democratico Barack Obama viaggiava verso un’elezione alla presidenza degli Stati Uniti che gli eventi successivi avrebbero reso trionfale, sulla base di una piattaforma che della lotta agli sprechi energetici e sul clima aveva fatto uno dei pilastri principali.
Ma poi sul finire dell’estate era arrivata la crisi, una crisi dalla virulenza senza precedenti. Una crisi che dalla sfera finanziaria si era trasferita all’economia reale e che a fine anno cominciava a fare  intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri operatori e una crisi di sfiducia verso il futuro che inceppava il meccanismo del credito, rallentava significativamente l’economia, riduceva i redditi e accresceva la disoccupazione. Le pubbliche finanze venivano sottoposte a tensioni crescenti: a fronte di minore gettito fiscale aumentavano le richieste di intervento a favore di banche, industrie e famiglie. Si affacciava un nuovo statalismo che dilatava i deficit pubblici e nel lessico politico scompariva la parola “tassa”, per far posto a un’altra, “sussidio”.

IL CLIMA NELLA CRISI

E la lotta ai cambiamenti climatici? Quali gli effetti della crisi economica sul clima e sulla politica del clima? La lotta al clima è percepita, a torto o a ragione, come un costo: è un atteggiamento diffuso tra i decisori politici dal momento che i costi sono più vicini, visibili e certi dei benefici. Ed è difficile negare che la profonda crisi economica abbia l’effetto di attenuarne, e di molto, la serietà e l’urgenza.
Prima di affrontare le reazioni della politica potremmo però provare a interrogarci su quali effetti la crisi economica possa avere su energia e clima, in assenza di interventi. Diciamo subito che una risposta nitida è difficile da ottenere, in quanto molteplici appaiono gli effetti, anche di segno opposto, cosicché l’economista ben presto osserverebbe come una disamina in qualche modo soddisfacente sarebbe possibile solo con l’ausilio di un modello di equilibrio economico generale capace di tenere traccia degli effetti principali della crisi.
In assenza di simili strumenti, con mero intento illustrativo, potremmo anzitutto guardare ai mercati dell’energia, a cominciare dal petrolio. Sul mercato internazionale i capitali abbandonano frettolosamente il mercato dei futures, mentre il rallentamento della domanda globale innesca  potenti aspettative al ribasso, che la volontà dell’Opec di restrizione dell’offerta non è riuscita finora a contrastare. Il prezzo crolla e le fonti fossili di energia (il petrolio porta con sé il gas) tornano a essere competitive, mentre le entrate fiscali su combustibili e carburanti si riducono (chi si ricorda più di speculazione tremontiana e Robin tax?).
Se la bolletta energetica per le famiglie ne risente in positivo, ancorché in misura più lenta, il riequilibrio dei prezzi relativi delle fonti energetiche rende relativamente più costose quelle alternative, rinnovabili in testa. Sulla carta questo fatto, unito alla scomparsa del credito bancario, rende più difficoltosa l’auspicata espansione dell’industria della produzione di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica. Se è vero che l’installazione di impianti di generazione di elettricità da eolico e solare, così come interventi di risparmio ed efficienza energetica come quelli sulle abitazioni e gli edifici pubblici e privati, sono intraprese a minimo rischio, resta il fatto che il credit crunch sembra generalizzato.
Un’implicazione di quanto appena detto è che nel nostro paese il nucleare è “rimandato a settembre”. Ciò appare già abbastanza chiaro a livello di dibattito parlamentare: troppe incognite sui tempi e sui costi. Altro che dichiarare che il nucleare è la soluzione per uscire dall’impasse del contenzioso russo-ucraino che con puntualità si ripropone con orizzonte di un anno, massimo due.

DALLE TASSE AI SUSSIDI

Un altro presumibile effetto è lo spostamento delle politiche dalle tasse ai sussidi: questo non fa un favore alla causa del clima, in quanto il principio secondo cui “chi inquina paga” non lascia molto spazio alla fantasia. Ma i tempi sono quelli che sono e i sussidi hanno il pregio di contribuire ad attenuare la recessione e sostenere prima o poi la ripresa. Ma se le tasse ambientali, come tutte le tasse, incontrano una difficoltà nell’accettabilità politica, dall’altro lato procurano gettito. Esattamente l’opposto accade con i sussidi. Specie se questi ultimi prendono verosimilmente direzioni diverse dal finanziamento dell’innovazione in tecnologie pulite e verdi, a causa dell’elevata incertezza circa tempi ed esiti che, pur nella loro cruciale importanza, le caratterizza.
Il rallentamento generalizzato dell’economia induce spontaneamente comportamenti volti al risparmio, a economizzare sui consumi e ciò riguarda anche l’energia, dai trasporti agli utilizzi di elettricità. Naturalmente, qui la questione riguarda l’elasticità al reddito dei consumi energetici, che sembra evidenziare asimmetrie a seconda che si tratti di aumenti ovvero riduzioni. In generale, comunque, si può affermare che il rallentamento della crescita a livello globale porterà a un rallentamento spontaneo nella crescita delle emissioni inquinanti, di gas-serra comprese.

SOTTRARSI DALLA LOTTA?

Il problema più serio che la crisi economica pone per la lotta al clima è l’attenzione che viene distolta dal tema, la tensione che si riduce. Il risultato è che l’emergenza climatica cessa di essere tale di fronte all’emergenza del credito, dei redditi, dell’occupazione e solo una forte volontà politica può impedire questa per certi versi comprensibile tendenza.
Dovremmo dunque abbandonare la lotta? Dare la partita per persa? Rinunciare a prendere l’iniziativa? Ci si chiede se l’ambiente è favorito dalla crisi: in realtà la risposta dipende da noi, dalla nostra volontà – e in qualche misura dal coraggio – di afferrare per le corna il toro della crisi per dirigerla verso un’uscita ad alto tasso di efficienza energetica e basso tenore di carbonio.
Vi sono tre fondamentali ragioni per cui non possiamo e non dobbiamo rimandare l’intervento a un futuro più favorevole (se mai esiste). La prima è che prima o poi la crisi economica passa, mentre il problema climatico no. Anzi, con l’inazione è destinato a diventare ancora più grave. Se le emissioni (anche) quest’anno si ridurranno, sarà comunque un fatto transitorio se non sarà il risultato di politiche attive e consapevoli. Il prezzo del petrolio tornerà a crescere e tenderanno a riproporsi le condizioni precedenti alla crisi, se non avremo colto questa cruciale occasione per presentarci all’uscita dal tunnel in condizioni diverse.
La seconda ragione è che le obbligazioni per il nostro e altri paesi sono sempre lì. Kyoto è ineludibile e così lo sono gli impegni del pacchetto europeo. Dopo la battaglia sul pacchetto, vinta a metà (o vinta dall’industria, ma non dal paese), non abbiamo più sentito nulla dai ministeri interessati su come si pensa di onorare gli impegni assunti. Stupisce un po’ di leggere che si vagheggia di rivedere i termini dell’accordo in anticipo sui tempi previsti (2010), quando in realtà la clausola di revisione non è stata introdotta per tornare indietro, quanto per verificare se vi siano le condizioni per rendere l’impegno di riduzione delle emissioni ancora più stringente. In ossequio al principio di precauzione, i costi da sostenere potrebbero essere tanto più alti quanto più tardiamo a intervenire. Mentre ancora siamo in attesa di sapere come si intende operare per la riduzione delle emissioni per quei settori – trasporti, residenziale, commercio, agricoltura – non coperti dal Sistema europeo di scambio dei permessi di emissione. O si ha il coraggio di pronunciare la parola tassazione, ma crucialmente specificando che si tratterebbe di una riforma dell’intero sistema in senso ambientale, che non porti a nuove tasse, corredandola da una clausola di impiego del gettito a favore della detassazione del lavoro e dell’incentivazione alla ricerca e sviluppo. Oppure si deve spiegare dove il Tesoro reperirà i fondi per acquistare i crediti d’emissione necessari per rientrare nei limiti degli impegni assunti.
Naturalmente, e questa è la terza ragione, si può e si deve intervenire anche sostenendo l’economia con incentivi e sussidi. Qui Obama è d’esempio: incentivi e sussidi servono a contrastare il ciclo economico avverso, ma è cruciale cogliere questa occasione di intervento dello Stato nell’economia per iniziare a cambiare la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. Questo significa la concessione di aiuti condizionati e mirati, come quelli che il governo ha faticosamente deciso a favore dell’auto e degli elettrodomestici, mentre meno si comprende, dal nostro punto di vista, l’intervento a favore dei mobili. Ma naturalmente molto di più si potrebbe e sarebbe necessario fare, a cominciare da tutte quelle opzioni a costo zero di riduzione delle emissioni negative costituite dai vari interventi di efficienza e risparmio energetico. In questo senso, abbiamo registrato il piano “obamiano” presentato dal segretario del Partito democratico Veltroni, di cui solo uno dei grandi quotidiani nazionali ha riferito, e capace secondo il proponente di creare (il famoso) milione di posti di lavoro nel giro di cinque anni. (1)
Sul fronte delle politiche domestiche è necessario essere lucidi e coraggiosi. Nonostante la generale crisi di fiducia, non deve venire meno la fiducia nella lotta al clima, ma è necessario cogliere questa occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile, come osservano le Nazioni Unite con la proposta di un Green Global New Deal e Obama con il suo American Recovery and Reinvestment Plan. Qualche settimana addietro Francesco Giavazzi notava in un editoriale come questa crisi sia l’occasione propizia per procedere in maniera decisa a una riforma radicale del sistema delle relazioni industriali. (2) Quando l’abbiamo letto, abbiamo pensato che poteva anche notare come questa sia una straordinaria occasione per offrire al paese un’ambiziosa fuga in avanti verso un obiettivo comunque ineludibile. (b

 

(1)“Un milione di posti in 5 anni la svolta è la green economy”, La Repubblica 1 febbraio 2009.
(2)“Lo scambio virtuoso”, Corriere della Sera 8 gennaio 2009.

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Attualità Lavoro

Venerdì 13 porta bene o porta male?

di Paolo Ciofi  da Megachip.info

Lo sciopero del 13 prossimo, indetto dalla Fiom e dalla Funzione pubblica Cgil, che vedrà scendere in piazza a Roma in un’unica manifestazione due categorie di lavoratori fondamentali per il presente e il futuro del Paese come i metalmeccanici e i dipendenti pubblici, è di per sé una novità di rilievo, e va sostenuto per tanti motivi. Ma in questo passaggio cruciale dell’Italia, lacerata da una crisi economica e sociale, al tempo stesso istituzionale, politica e morale, emerge soprattutto una motivazione che a mio parere più di ogni altra, proprio in questo momento, si fa apprezzare.

È l’unità conquistata su una piattaforma di lotta alla recessione, per i diritti e per la tutela di occupazione e salari, da due settori del lavoro dipendente in apparenza molto distanti, e spesso giocati l’uno contro l’altro dai governi e dalla Confindustria. Un segnale e una scelta di particolare rilievo perciò, in controtendenza rispetto alla frantumazione del lavoro, alle divisioni tra categorie e interne alle categorie, alla contrapposizione spesso scientificamente praticata tra uomini e donne, tra “garantiti” e precari, tra nativi e stranieri, tra giovani e anziani. In una parola, rispetto alla svalorizzazione del lavoro che, al fondo, è all’origine della crisi globale.

La vicenda clamorosa della Lindsey Oil nel Lincolnshire, dove i lavoratori britannici oppressi dalla disoccupazione ed espropriati del futuro hanno scioperato contro i loro “colleghi” italiani e portoghesi reclutati dalla Total, è indicativa del livello altamente conflittuale che può raggiungere la concorrenza tra operai senza lavoro e in apprensione per sé e per le proprie famiglie. Un fenomeno non nuovo, anzi tipico degli albori del capitalismo, quando i salariati non avevano rappresentanza sindacale e politica, e che oggi si ripete in forme diverse e meno vistose in tante regioni dell’Europa e dell’Italia.

Ma se la competizione spietata tra chi vive del proprio lavoro certifica inequivocabilmente il fallimento della globalizzazione del capitale magnificata come l’epifania della crescita, del benessere e della sicurezza – vale a dire di un modello sociale che si sta risolvendo in una catastrofe umana e ambientale proprio perché fondato su un gigantesco processo planetario di subordinazione e di precarietà del lavoro – , non è pensabile di poter uscire dalla crisi con un ritorno al passato. Le politiche protezioniste e nazionaliste, con l’innalzamento di nuove barriere, finirebbero per rendere esplosive tutte le contraddizioni senza mettere in discussione il modello sociale. Vale a dire che le toppe sarebbero persino peggio dei buchi.

Perciò mi pare di fondamentale importanza il messaggio che la giornata del 13 ci manda: per uscire positivamente dalla crisi, per tutelare diritti, salari e occupazione, ma anche per difendere la Costituzione e la Repubblica democratica, è necessaria la ricomposizione unitaria del mondo del lavoro, una nuova centralità dei lavoratori e delle lavoratrici nelle scelte sindacali e di governo. E per questo è necessario praticare l’esercizio della democrazia e forme di lotta che indichino obiettivi concreti, capaci di guadagnare consensi di massa, non solo sul terreno sindacale ma anche su quello politico.

Ciò vuol dire, per essere chiari fino in fondo, riconoscere i caratteri e gli interessi dei lavoratori del XXI secolo, distinguendoli e separandoli da quelli del capitale, spostando il centro di gravità del conflitto dalla dispersione tutta interna al pluriverso dei lavori sull’asse discriminante della dualità lavoro-capitale. E poiché le scelte del governo, al di là della loro inconsistenza, vanno nella direzione esattamente opposta, sia nella versione più vicina alla Confindustria, sia in quella che si riconosce nella “territorialità” della Lega, esse vanno duramente contrastate.

Depurata della demagogia contro i padroni, la posizione leghista in realtà azzera nei territori la dualità lavoro-capitale, ponendo al centro un duplice conflitto: contro lo Stato che deruba i “padani” delle loro ricchezze, e contro gli “stranieri” non padani che rubano il lavoro. Da una parte, si tende a consolidare un blocco d’ordine che mette insieme padroni e salariati, spostando tutte le contraddizioni all’interno del lavoro dipendente. Dall’altra, si ripristina il vecchio Stato gendarme con funzioni repressive contro gli “altri”. Nell’un caso e nell’altro si diffonde la paura, si piccona lo Stato di diritto, si rafforza in ultima istanza il dominio del capitale sul lavoro, mentre il tessuto sociale si disgrega e il Paese si disunisce.

La retrocessione verso il protezionismo, il nazionalismo, la “territorialità” e il localismo miope, la costruzione di nuove muraglie non solo psicologiche nella fase più drammatica della crisi, quando si perdono milioni posti di lavoro e nel pianeta cresce la miseria, generano solo rancore e odio alimentando i razzismi e la sindrome della lotta di tutti contro tutti. È il brodo di coltura in cui si moltiplicano i bacilli della violenza, delle svolte reazionarie e di destra, di una guerra senza vincitori né vinti perché porterebbe alla dissoluzione del pianeta.

Sono forti le ragioni per raccogliere il segnale di luce che i metalmeccanici e i lavoratori pubblici hanno acceso illuminando la strada della ricomposizione unitaria del lavoro: muovendo dal basso, dalle fabbriche e dagli uffici, come pure dai territori, per innovare sindacati e politica riempiendoli di contenuti, allargando l’orizzonte alla dimensione nazionale, europea e globale. Ormai è chiaro che a livello europeo c’è bisogno di una nuova impostazione sindacale e politica, che faccia del parametro lavoro la misura di riferimento per l’integrazione: massima occupazione come obiettivo strategico da perseguire; contratto europeo per le categorie fondamentali della produzione industriale e agraria, della ricerca e dei servizi; parità di salario tra uomini e donne per parità di prestazione; diritto al lavoro come fondamento della libertà e dell’uguaglianza, e dunque eliminazione del precariato e di ogni restrizione alla libera circolazione delle persone.

Anche a livello nazionale la ricomposizione unitaria del lavoro, al fine della valorizzazione massima delle lavoratrici e dei lavoratori nella società e nella politica, assume il significato di un obiettivo strategico verso il quale occorre con determinazione incamminarsi per tre principali ragioni. Innanzitutto, per uscire dalla crisi attraverso il cambiamento del modello economico-sociale. Senza di che, se si continuano a privilegiare rendite e profitti, non si rimuovono le cause di fondo della crisi e l’Italia rischia di andare a picco. Le misure del governo non sono altro che elargizioni a pioggia, insufficienti nelle quantità  e sbagliate nella sostanza perché prive di una visione strategica e perché non collegano gli incentivi alle imprese con la garanzia dell’occupazione e con il vincolo ambientale.

Ma c’è di più, dal momento che l’accordo siglato da governo e Confindustria con Cisl, Uil e Ugl sul modello contrattuale, nel tentativo di isolare la Cgil si qualifica in realtà come un errore capitale di cui tutti rischiamo di pagare le conseguenze. Perché, colpendo i salari e depotenziando il contratto nazionale, in definitiva si finisce per incentivare il diffondersi della crisi, indebolendo le difese del Paese. Come ha spiegato con dovizia di argomenti sul Corriere della sera del 5 febbraio Robert Reich, ex segretario al lavoro nell’amministrazione Clinton, un moderato abituato a fare i conti con i fatti e non a raccontare favole, la recessione è cosi grave perché si è fortemente ridotto il potere d’acquisto dei salari in conseguenza dell’indebolimento dei sindacati e del calo della sindacalizzazione dei lavoratori. Per cui la ricetta per la ripresa è: salari più alti e maggiore potere contrattuale ai lavoratori. Una ricetta che viene dall’America, alla quale forse non saranno insensibili i signori Bonanni e Angeletti e la signora Polverini, i quali per ora si rifiutano di sottoporre al referendum di tutti i lavoratori gli accordi che hanno firmato. Un’idea strana della democrazia, proprio nel momento in cui la democrazia di questo Paese è messa a rischio.

Forse – e in secondo luogo – ai più sfugge che per la tenuta democratica dell’Italia la ricomposizione unitaria del mondo del lavoro e il protagonismo dei lavoratori è un fattore decisivo. Anche per questa seconda e fondamentale ragione vanno respinte con nettezza le iniziative del governo volte a limitare il diritto di sciopero, come pure la linea convergente Sacconi-Giavazzi-Ichino, che in nome delle “riforme” lavoriste mira a scambiare sussidi con diritti (come l’articolo 18). Pensare che si possano difendere i diritti civili sulle macerie di diritti sociali è fuori dalla logica democratica e da ogni concreta possibilità. A tale proposito, e a maggior ragione in presenza degli sviluppi drammatici della crisi, siamo ancora in attesa che il segretario Veltroni smentisca l’affermazione secondo cui «se l’economia va male, non ci può essere giustizia sociale». Un principio del tutto demodé e difficile da attribuire a chi dichiara di voler combattere la destra.

Infine, ultimo ma non per importanza, il riconoscimento del valore centrale del lavoro nella società e nella politica è il presupposto imprescindibile per la ricostruzione di una sinistra che voglia avere consenso di massa e si proponga di trasformare la società. Un tema che non si può omettere, e su cui bisognerà ritornare. Per ora constatiamo che di fronte alla crisi del capitalismo di questo secolo, la sinistra non dispone di una visione comune e adeguata circa il modo di avviare un modello diverso dell’economia e della società. Ma proprio perciò è di grande valore lo stimolo che potrà venire dalla giornata del 13: ricominciare dal lavoro, fattore costitutivo della persona e coesivo della società, fondamento della libertà e dell’uguaglianza, come del resto la Costituzione prescrive.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Sport

Il Brasile Battisti l’Italia 2-0.

«Il Brasile trovi il modo di ribaltare la sua decisione incomprensibile su Battisti, che non potrebbe che lasciare conseguenze nei rapporti tra Italia e Brasile» La Russa dixit. Il ministro della Difesa che ogni tanto fa il ministro dell’ Interno e stavolta si improvvisa ministro degli Esteri ha perso di nuovo l’occasione di stare zitto. La Russa ha criticato chi «non ha neppure voluto mettere una fascia al braccio, in quella che non è neppure una partita di calcio sportiva, ma che si potrebbe definire una esibizione da globe trotter». Una “partita di calcio sportiva”? Esibizione da “globe trotter”? Povero Gianfranco Fini: pensava di avere allevato colonnelli e si ritrova solo caporali di giornata. Per fianco deee-str, destr! Beh, buona giornata.

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Ciao, Eluana.

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Attualità Leggi e diritto

Il 57% degli italiani è dalla parte di Beppino Englaro. In nome di chi i parlamentari italiani si accingono a votare a favore del ddl: in nome degli elettori o del premier?

(Fonte: Agi).

La maggioranza degli italiani (il 57%)resta favorevole alla sospensione dell’alimentazione forzata nel caso di Eluana Englaro. Ma nelle ultime due settimane la percentuale dei contrari e’ salita dal 19 al 34%. E’ quanto emerge da un sondaggio realizzato per il quotidiano online affaritaliani.it dall’istituto Crespi Ricerche.

Tra il 20 e il 22 gennaio (data dell’ultimo rilevamento) i favorevoli erano il 70%, mentre a dire “non so” o a non rispondere erano l’11%, scesi oggi al 9%. Alla domanda sulla necessita’ di una legge che disciplini il testamento biologico l’86% risponde di essere favorevole (in rialzo rispetto al 75% di gennaio) mentre si dimezza la percentuale dei contrari, dal 12 al 6%. E ancora: alla domanda “In casi come quello di Eluana in cui il paziente non puo’ esprimere la sua volonta’, secondo lei chi dovrebbe assumersi la responsabilita’ di decidere sull’eventuale sospensione di cure o dell’alimentazione forzata?”, il 70% del campione risponde “i familiari e i medici”, il 10% “i medici”, solo il 7% “una legge dello Stato” e il 3% “i giudici e i medici”. Non so/non risponde e’ al 10%.

“Gli italiani hanno le idee chiare su chi deve decidere della vita e della morte nei casi come quello di Eluana – spiega Luigi Crespi -. Mentre nel trend dei dati possiamo vedere con chiarezza l’effetto della campagna di questi ultimi giorni e il peso della presa di posizione del premier, Silvio Berlusconi, che ha spostato milioni di persone, anche se la maggioranza continua ad essere favorevole alla posizione di Beppino Englaro”.

Il sondaggio e’ stato condotto telefonicamente su un campione di 1.000 cittadini maggiorenni, stratificato per sesso, eta’, ampiezza centri ed aree geografiche. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Nel “pacchetto sicurezza” ci sono leggi razziali.

«Le ronde – ha detto il ministro dell’Interno – sono formate da cittadini volontari non armati che girano con il telefonino svolgendo un importante ruolo di controllo del territorio. Esistono da dieci anni e non si sono mai verificati episodi di violenza».

“L’Italia precipita, unico Paese occidentale, verso il baratro di leggi razziali, con medici invitati a fare la spia e denunciare i clandestini (col rischio che qualcuno muoia per strada o diffonda epidemie), cittadini che si organizzano in associazioni paramilitari”. Lo scrive Famiglia Cristiana in merito alle norme contenute nel “pacchetto sicurezza”, fiore all’occhiello del ministro dell’Interno. Beh, buona giornata.

 

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Botte da orbi tra Mediaset e Sky. La pubblicità sta a “guardare”.

Sky non ha fatto nemmeno in tempo ad annunciare ufficialmente l’arrivo di Fiorello  che Mediaset  per rappresaglia sta facendo di tutto perché vengano tolti dalla piattaforma satellitare di Murdoch i suoi canali (Canale5, Italia1 e Rete 4) per essere trasmessi esclusivamente sulla nuova piattaforma satellitare Tivù Sat, Insomma, tra Sky Mediaset sta per scorrere sangue. 

Pare che in questi giorni, ogni tanto succede che dei tre canali Mediaset visibili su Sky uno venga oscurato e su un altro  compaia in modo continuato una scritta che avvisa lo spettatore dell’opportunità di vedere lo stesso canale anche sul digitale terrestre.

Sicuramente il lancio di Tivù Sat, la piattaforma realizzata in collaborazione da Mediaset, Rai e Telecom Italia Media, cioè La 7, riveste un’importanza strategica in particolare per Mediaset, che sta spingendo sulla pay tv. Infatti sul digitale terrestre sta operando nell’ottica di affiancare canali a pagamento a quelli in chiaro, soprattutto allo scopo di diversificare il fatturato. Il gruppo sta cercando di dare una spinta propulsiva agli abbonamenti a importo fisso mensile, proprio sul modello inventato da Sky appunto, in sostituzione alle carte prepagate.

Però, per sfruttare al meglio le potenzialità del modello pay, è innegabile che la piattaforma migliore resti quella satellitare; da qui la fiducia che Mediaset ripone nella nuova Tivù Sat e la decisione di portare su di essa anche i tre canali free, togliendoli alla tv satellitare di Sky.

Che intanto però, colleziona successi, non solo in termini di ascolti ma anche di raccolta pubblicitaria. Pare infatti che, nonostante l’annus horribilis del mercato, il 2008 per Sky si sia chiuso con lo stesso risultato del 2007, se non addirittura con qualche punto in più.

Finalmente un po’ di concorrenza nel mercato televisivo italiano. Anche se c’è da notare come in questo nuovo scenario la Rai appaia “embedded” alle scelte di Mediaset. Beh, buona giornata.

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