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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

In tempi di crisi anche il lusso piange miseria.

La crisi investe anche la moda, e il Made in Italy lascia a terra marchi presigiosi
Ieri, Ittierre Spa, unità della It Holding, ha annunciato che chiederà l’amministrazione controllata. Ma l’intero gruppo – che possiede anche il marchio Gianfranco Ferrè – sarebbe sull’orlo della bancarotta.

It, la holding quotata in Borsa, controlla le Spa Ittierre, licenziataria di marchi prestigiosi come Just Cavalli e Versace jeans couture, Malo e Gianfranco Ferrè. 

Stamattina, i titoli sono stati sospesi a tempo indeterminato da Borsa Italiana. La società aveva annunciato martedì scorso di aver ricevuto una proposta da un fondo estero che includeva un aumento di capitale e il riacquisto delle obbligazioni. L’indebitamento di IT Holding era di 295 milioni a fine settembre e la società ha un valore di mercato di circa 43 milioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Prove tecniche di Terza repubblica: “Stiamo vivendo una vicenda che sta a metà tra ‘Napoleone il piccolo’ (Victor Hugo) e ‘La resistibile ascesa di Arturo Ui’ (Bertolt Brecht).”

Lo tsunami costituzionale

di STEFANO RODOTA’ da repubblica.it

1) La turbolegge. Berlusconi vuole imporre in tre giorni una norma che cancella ogni traccia di divisione dei poteri, per impedire l’attuazione di un provvedimento giudiziario passato in giudicato e inventando un nuovo circuito istituzionale, che affida a un Parlamento incatenato il compito d’essere il killer dei giudici. Ma la strada scelta è, tecnicamente, non percorribile.

Nella relazione che accompagna il disegno di legge del Governo si sostiene che non siamo di fronte ad una sentenza passata in giudicato, perché i giudici non hanno accertato un diritto, ma si sono limitati ad integrare la volontà di un privato, quella di Eluana Englaro, con un semplice provvedimento di”volontaria giurisdizione”. Non è così.

Quando la Cassazione ha ammesso il ricorso straordinario contro il decreto della Corte d’appello, che autorizzava la procedura di interruzione dei trattamenti, lo ha potuto fare proprio in considerazione del fatto che si trattava di un provvedimento relativo a diritti, che assume i caratteri del giudicato e che, quindi, detta una disciplina immutabile del diritto considerato. Ed è principio indiscutibile in tutti gli ordinamenti che la legge sopravvenuta non può influire sul diritto sul quale il magistrato si è pronunciato con un provvedimento passato in giudicato.

Il Governo tenta una ennesima forzatura, pericolosa e inutile. Pericolosa, perché insiste su una soluzione che, con rigore tecnico, era stata ritenuta non percorribile dal Presidente della Repubblica: si vuole, dunque, mantenere aperto il conflitto con Napolitano. Inutile, perché non sarà possibile intervenire in modo legittimo per bloccare l’attività già avviata di interruzione dei trattamenti sulla base di una legge su questo punto chiaramente incostituzionale.
Quali altri atti di forza, allora, si escogiteranno per espropriare i cittadini della possibilità di condurre “la lotta per il diritto” – è questo il titolo d’un classico del liberalismo ottocentesco, del giurista Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato negli anni del fascismo – e per impedire che possano avere ancora “giudici a Berlino”? Questa era l’orgogliosa sfida del mugnaio di Sans-Souci in presenza di Federico il Grande. Mugnai e giudici stanno perdendo diritto di cittadinanza in Italia?

2) L’inammissibile libertà. Dice il cardinale Ruini: “Preferisco parlare di una legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto”. Il mutamento linguistico, dunque, rivela un capovolgimento concettuale e politico. Per quante perplessità il ricorso al termine “testamento” possa suscitare dal punto di vista tecnico-giuridico, esso esprime bene il fine che si vuol raggiungere. Testamento biologico, testament de vie, living will ci parlano di un “atto personalissimo”, in cui è sovrana la volontà dell’interessato.

Certo, la vita non è un oggetto, ma appartiene sicuramente alla sfera più intima dell’interessato che, com’è ormai chiaro, giuridicamente può disporne e ne dispone. Quando, invece, si parla di una legge sulla fine della vita, il legislatore non si fa signore della morte, perché questo è un evento naturale sul quale nessuno può intervenire. Si impadronisce del morire, che è vicenda umana, alla quale si pretende di imporre regole autoritarie, incuranti delle ragioni della coscienza di ciascuno.

La coscienza, allora, che in politica compare soprattutto come diritto al dissenso. Diritto già negato dal Presidente del Consiglio ai suoi ministri, che avrebbero potuto manifestarlo in quest’ultima vicenda solo dando contestualmente le dimissioni. E che i tempi imposti e la minaccia della fiducia negano anche ai parlamentari della maggioranza, perché il dissenso non è solo dire un sì o un no, ma la possibilità di argomentare, di discutere in quel foro democratico che continuiamo a chiamare Parlamento.

Il fatto che il diktat berlusconiano non si estenda direttamente ai parlamentari dell’opposizione non esclude che anche nei loro confronti si commetta un sopruso. Ma bisogna guardare più a fondo. Quando le decisioni legislative incidono direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita, la libertà di coscienza non è solo quella dei parlamentari. La libertà di coscienza da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi deve stabilire le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: quando si affrontano i temi eticamente sensibili la libertà di coscienza dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.

3) Un “pieno” di diritto. Si è detto, e si continua a ripetere, che una legge è comunque necessara, perché bisogna colmare un pericoloso vuoto legislativo. Per l’ennesima volta invito a leggere la sentenza della Corte di Cassazione dell’ottobre 2007, la decisione centrale per il caso Englaro, che mostra rigorosamente come il diritto al rifiuto di cure, anche per il futuro, sia solidamente fondato su norme costituzionali, su convenzioni internazionali ratificate dall’Italia (non quella sui disabili, abusivamente richiamata nell’atto di indirizzo del ministro Sacconi), su articoli della legge sul servizio sanitario (e del codice civile, come quelli sull’amministrazione di sostegno per gli incapaci).

Siamo di fronte a un “pieno” di diritto, che si vuole “svuotare” con una mossa restauratrice, invece di integrarlo con poche, semplici norme che rendano più agevole e sicuro l’esercizio di un diritto che, lo ripeto, già esiste, non è un’inaccettabile creazione giurisprudenziale.

L’argomento del far west lo conosciamo e ha sempre prodotto danni, come dimostra tra l’altro la pessima legge sulla procreazione assistita, che davvero ha prodotto un far west legato ad un “turismo procreativo”, che nasce da un proibizionismo cieco e rende più difficile la vita delle persone, delegittimando ai loro occhi una legge che sono obbligati ad aggirare.

Se la turbolegge passerà, ponendo le premesse per una normativa proibizionista sulla fine della vita, si daranno incentivi al turismo “eutanasico”, alle pratiche clandestine già tanto diffuse. Verrà così santificata la doppia morale – fate, ma senza clamore e scandalo. E saranno sconfitti tutti quelli che vogliono rimanere nel solco della legalità e dello Stato di diritto, come ha dolorosamente voluto Beppino Englaro, un eroe civile al quale nessuno dedicherà un film come ha fatto la civilissima America per le storie di Erin Brockovich e Harvey Mills.

4) La Costituzione “sovietica”. Con la nuova dottrina costituzionale del Presidente del Consiglio si precipita in un abisso culturale, in mare di contraddizioni. Non si accorge, il Presidente del Consiglio, del grottesco di una argomentazione che lamenta la debolezza dei suoi poteri costituzionali, e poi accusa la stessa costituzione d’aver preso a modello quella sovietica, che appartiene ad uno dei regimi più violentemente dittatoriali che la modernità abbia conosciuto? Sa che la Costituzione italiana ha inventato un modo nuovo di parlare dell’eguaglianza?

Che ha anticipato tutti gli sviluppi successivi su temi come quelli della salute o del paesaggio, all’epoca ignorati da tutti i grandi documenti costituzionali, la costituzione francese e quella tedesca, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo?

Sarebbe vano ricordare al Presidente del Consiglio la bella frase con la quale Piero Calamandrei descriveva la nostra come una “Costituzione presbite”, dunque capace di guardare lontano e di inglobare il futuro. Risponderebbe senza esitazioni che Calamandrei era “un comunista”. E sarebbe pure vano ricordargli che “i principi supremi” della Costituzione non possono essere modificati neppure con il procedimento di revisione costituzionale, e che tra questi principi supremi vi è proprio quello di laicità, perduto in questo clima di sottoposizione della Costituzione alla tutela vaticana. E che esiste un principio che impone al Governo di “coprire” il Presidente della Repubblica, sì che ci si doveva attendere una protesta ufficiale per la dichiarazione ufficiale vaticana di “delusione” per il comportamento di Giorgio Napolitano.

L’obiettivo è chiaro. Rompendo con la Costituzione, Berlusconi infrange il patto civile tra i cittadini e non ci porta verso una Terza o una Quarta Repubblica, ma verso un cambiamento di regime, ad una sovversione, ad una radicale sostituzione del governo della legge con quello degli uomini (Platone, non Stalin).

Ha colto nel segno Ezio Mauro quando ha parlato di una palese deriva bonapartista. Stiamo vivendo una vicenda che sta a metà tra “Napoleone il piccolo” (Victor Hugo) e “La resistibile ascesa di Arturo Ui” (Bertolt Brecht). Resistibile, Ma bisogna resistere davvero e subito o non vi sarà tempo per ripensamenti e pentimenti. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

L’equazione immigrazione=criminalità è una invenzione della politica.

CRIMINI E IMMIGRATI *

di Milo Bianchi  , Paolo Buonanno e Paolo Pinotti  da lavoce.info

L’allarme sociale destato dal presunto aumento dei crimini legati all’immigrazione domina ormai il dibattito politico e sociale nel nostro paese. Tuttavia, i dati mostrano una realtà diversa. Dal 1990 al 2003 il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente si è quintuplicato, mentre non c’è alcun aumento sistematico della criminalità, che anzi mostrerebbe una lieve flessione. Gli stessi dati sembrano inoltre escludere l’ipotesi di una relazione causale diretta tra immigrazione e criminalità.

 Nell’immaginario collettivo, l’immigrazione è da sempre associata alla criminalità. I risultati dell’indagine “National Identity Survey” confermano che, in quasi tutti i paesi europei, la maggior parte dei cittadini è convinta che gli immigrati aumentino il tasso di criminalità. (1)

IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ

L’evidenza empirica, tuttavia, perlomeno in ambito economico, si concentra prevalentemente sugli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro (salari, occupazione) e sulla spesa per lo stato sociale, trascurando completamente l’impatto sulla criminalità. Abbiamo perciò cercato di colmare questo divario e di ancorare il dibattito pubblico ad alcuni dati statistici. Per analizzare l’evoluzione di immigrazione e criminalità nelle province italiane dal 1990 al 2003, abbiamo dunque incrociato le informazioni sui permessi di soggiorno e sul numero di crimini denunciati, provenienti rispettivamente dagli archivi del ministero dell’Interno e della Giustizia. (2)
Ovviamente, questi dati sottostimano l’effettiva entità sia dell’immigrazione che della criminalità per la presenza di immigrati irregolari e di crimini non denunciati. Si può tuttavia mostrare che, sotto alcune ipotesi, la componente osservata dei due fenomeni fornisce una buona approssimazione di quella non osservabile. Per quanto riguarda l’immigrazione, abbiamo verificato che l’approssimazione è estremamente accurata utilizzando le domande di regolarizzazione, presentate durante le sanatorie del 1995, 1998 e 2002, per stimare il numero di immigrati irregolari e la loro distribuzione sul territorio.
L’analisi rivela alcuni risultati in controtendenza rispetto al comune sentire. (3) Durante il periodo preso in esame, il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente è quintuplicato, da meno dello 0,8 a quasi il 4 per cento. A tale crescita non è tuttavia associato alcun aumento sistematico della criminalità, che mostrerebbe invece una lieve flessione. A livello nazionale, dunque, non emerge alcuna correlazione significativa tra immigrazione e criminalità.

Una correlazione positiva emerge invece a livello locale. In particolare, le province che hanno attratto un maggior numero di immigrati, in rapporto alla popolazione, hanno registrato anche tassi di criminalità più elevati. Distinguendo tra le principali categorie di reato emerge che la correlazione è dovuta esclusivamente ai reati contro la proprietà, che rappresentano quasi l’80 per cento dei crimini denunciati. I crimini violenti (e in particolare gli omicidi) si concentrano infatti nel Mezzogiorno, dove l’immigrazione è a livelli minimi. Le province del Centro-Nord si caratterizzano invece per una più alta presenza straniera e, al contempo, per una maggiore incidenza di reati contro la proprietà.

L’associazione potrebbe essere dovuta all’esistenza di una relazione causale tra i due fenomeni oppure ad altri fattori che incoraggiano sia la presenza straniera che i furti, come ad esempio la maggiore ricchezza e urbanizzazione delle province settentrionali.
Per distinguere tra le due ipotesi, abbiamo utilizzato dati sulla migrazione dai principali paesi di origine verso il resto d’Europa. Identifichiamo così la componente dei flussi migratori che dipende esclusivamente da shock esogeni nei paesi di origine, come guerre, crisi politiche ed economiche. Questi fenomeni aumentano l’emigrazione, e quindi potenzialmente l’immigrazione in Italia, senza essere correlati con fattori che influiscono direttamente sull’attività criminale nelle province italiane. La correlazione tra tale componente esogena e il tasso di criminalità nelle province italiane non è significativamente diversa da zero.
Il risultato suggerisce che, nel periodo preso in esame, l’immigrazione in Italia non ha avuto un effetto causale significativo sul livello di criminalità.

(1) La percentuale varia tra il 40 per cento in Gran Bretagna e l’80 per cento in Norvegia. In Italia, nel 2003, la percentuale si collocava intorno al 65 per cento. I risultati dell’indagine sono integralmente disponibili all’indirizzo http://www.issp.org/data.shtml 
(2) Non è possibile estendere le serie storiche ad anni più recenti perché nel 2004 è stata introdotta una nuova classificazione dei crimini che rende i dati pre e post-2004 non comparabili. Inoltre, dai nostri dati, non è possibile risalire alla nazionalità del denunciato né al suo status di immigrato regolare o irregolare.
(3) Tutti i risultati sono presi dal nostro articolo “Do immigrants cause crime?” – Paris School of Economics Working Paper No. 2008-05. (Beh, buona giornata).

* Le idee e le opinioni espresse sono da attribuire esclusivamente agli autori e non impegnano la responsabilità dell’Istituto di appartenenza.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Prove tecniche di Terza repubblica: “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”?

Il veleno nichilista che anima il regime.

di GUSTAVO ZAGREBELSKY da repubblica.it

Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire – secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera – “modo di reggimento politico” e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c’è “il regime”. Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.

Alla certezza – viviamo in “un” regime che ha suoi caratteri particolari – non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il “principio” o (secondo l’immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l’intima natura e per prendere posizione.

Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell’unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.

Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d’un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un’illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l’orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente “berlusconismo”, dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.

Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un’essenza – giusti o sbagliati che siano – si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l’essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c’è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.

A meno di credere a parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa – libertà, identità nazionale, difesa dell’Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere – il fine non si vede affatto, forse perché non c’è. O, più precisamente, il fine c’è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un’aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d’essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.

A parte forse l’autore della massima “il potere logora chi non ce l’ha”, nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della “ragione strumentale” nella politica.

Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all’occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.

Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l’uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l’uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch’egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là.

Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un “centro” senza contorni; si può avere un’idea, ma anche un’altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, “si è alla ricerca”; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il “politico” di successo, in questo regime, è il profittatore, è l’uomo “di circostanza” in ogni senso dell’espressione, è colui che “crede” in tutto e nel suo contrario.

Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d’arresto può essere l’inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo.

La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell’essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere “disturbato”. L’uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di “tipo ideale”, cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).

Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L’abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l’ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d’essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato “relativismo” non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Walter Veltroni come Nick Mallett?

Il folle esperimento politico del Pd, che alle ultime elezioni politiche ha praticamente messo fuori gioco la sinistra  appare molto simile alla conduzione della nazionale italiana di rugby, che ha appena subito una pesante debacle nel torneo delle Sei nazioni.

Sul sito della Bbc, l’esperto di palla ovale Ben Dirs scrive dei «folli esperimenti di Nick Mallett».
«Nel 1962 – ricorda sul sito dell’emittente – lo psichiatra Louis Jolyon West ed i suoi colleghi dell’Università dell’Oklahoma iniettarono 297 milligrammi di LSD ad un elefante chiamato Tusko, solo per vedere cosa sarebbe successo. Cinque minuti dopo l’animale, scosso da un attacco epilettico, ebbe un collasso e crollò a terra sul fianco destro. Mi sono ricordato di questa storia ieri, quando ho visto giocare Mauro Bergamasco da mediano di mischia. Così come non bisogna essere un laureato in psichiatria per capire che se inietti droga a un elefante non gli fai certo un favore, allo stesso modo non bisogna essere un grande tecnico di rugby per capire che la mossa di Bergamasco in quel ruolo si sarebbe rivelata un disastro. Infatti dopo nemmeno due minuti l’Inghilterra era già andata in meta.  Avrei voluto scendere in campo e dare un abbraccio a Bergamasco per incoraggiarlo».

C’è però una differenza sostanziale tra Walter Veltroni e Nick Mallet. Mallet ha riconosciuto pubblicamente il suo errore. Veltroni no, tanto che reitera il folle esperimento, accordandosi col Governo per lo sbarramento al 4% nelle prossime elezioni europee. Col risultato che Berlusconi andrà a meta anche il 6 e il 7 giugno prossimi. E l’Italia, non solo nel rugby sarà candidata al cucchiaio di legno. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi globale: la Nissan taglia il 10 per cento della forza lavoro complessiva.

(Fonte: ilmessaggero.it)

TOKYO (9 febbraio) – Nissan annuncia un maxi piano di ristrutturazione per fronteggiare la crisi e taglia 20.000 posti di lavoro. È quanto emerso nel corso della presentazione dei dati trimestrali da parte del numero uno della compagnia Carlos Ghosn. In questo modo, i dipendenti della Nissan a livello globale passeranno da 235.000 a quota 215.000 entro marzo 2010.

Nissan stima poi una perdita netta per l’esercizio in corso che terminerà il 21 marzo 2009 di 265 miliardi di yen (2,2 miliardi di euro) a causa della «frenata dell’economia globale registrata dalla seconda metà del 2008», e per «la rivalutazione dello yen, abbinata al rapido declino della fiducia dei consumatori in tutti i principali mercati». La compagnia franco-nipponica afferma inoltre che la perdita netta del terzo trimestre è di 83,2 miliardi di yen (circa 700 milioni di euro). «Guardando in avanti le nostre priorità restano la protezione del nostro cash flow e tutte le misure necessarie per migliorare la performance del nostro business», ha commentato Ghosn.

L’alleggerimento degli organici, vicino al 10% della forza lavoro complessiva, avverrà principalmente con il taglio delle assunzioni, l’eliminazione dei contratti a termine e gli incentivi alle uscite e ai pensionamenti. «È presto per dire dove e come ci saranno queste misure – ha detto Ghosn – visto che sono appena partite le discussioni, ma posso dire che non ci saranno chiusure di impianti». Il numero uno del gruppo, infatti, ha spiegato di ritenere che «il mercato ritroverà la ripresa e dobbiamo essere pronti». Allo studio, inoltre, ipotesi come la settimana lavorativa ridotta a 4 giorni e il taglio delle retribuzioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Qualcuno spieghi al ministro dell’Interno che la maggior parte delle violenze sulle donne avviene tra le mura domestiche. Grazie.

«Se ci fossero state le ronde là dove ci sono stati recenti episodi di stupri, forse questi stupri non sarebbero avvenuti». Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nel corso del programma L’Elefante su Radio24. L’elefante è il nuovo programma condotto da Giuliano Ferrara, il capo del servizio d’ordine dello schieramento pro-life. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Prove tecniche di Terza repubblica: le pie illusioni de Il Corriere della Sera.

Berlusconi e la sfida sulla Costituzione

Oltre la misura

di (apparso su Il Corriere della Sera di ieri, non firmato, attribuibile al direttore) da corriere.it

 

Dopo la giornata nera di uno dei più duri scontri istituzionali del dopoguerra repubblicano, avremmo auspicato il momento della ricucitura. Purtroppo il presidente del Consiglio ha scelto la strada opposta, e ha finito per parlare della nostra Costituzione come di un documento in parte ispirato da chi aveva l’Unione Sovietica come «modello». Un giudizio oltre ogni misura.

Le circostanze storiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana sono note. E la nostra Carta costituzionale è ovviamente emendabile nelle sue parti che più sono esposte all’usura del tempo (come il Corriere ha sempre sostenuto). Ma non si può sottacere l’apprezzamento che le è riconosciuto in modo pressoché unanime. La speranza è che l’enormità imprudentemente formulata dal nostro premier non comprometta il tentativo di ricreare un clima meno tempestoso nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Questi sono i giorni in cui ci si deve responsabilmente adoperare per sanare una grave frattura tra le istituzioni. Strapazzare la memoria della Costituzione otterrebbe il risultato contrario. (Beh, buona giornata).

08 febbraio 2009

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Attualità Leggi e diritto

Caso Englaro: “Il dibattito in Parlamento sarà stato soffocato utilizzando, con una certa violenza, gli strumenti previsti dai regolamenti parlamentari.”

 
Dalla parte delle regole

di CARLO FEDERICO GROSSO da lastampa.it

Ciò che sta accadendo attorno alla vicenda Englaro suscita perplessità e tormenti. Non intendo affrontare il problema etico. Non sarei titolato a farlo. Soprattutto, sono convinto che sui temi dell’inizio e della fine della vita ciascuno deve fare, in silenzio, soltanto i conti con la propria coscienza e non imporre agli altri le proprie eventuali certezze. Intendo invece porre alcuni interrogativi concernenti le questioni di diritto.

La prima questione suscitata dalle più recenti iniziative del governo riguarda la legittimità del decreto legge approvato venerdì mattina. Su questo punto non sono possibili discussioni. Come ha valutato il Presidente della Repubblica, il decreto era costituzionalmente illegittimo per mancanza del requisito della necessità e urgenza. Allo scopo di non violare il principio secondo cui la legge è, necessariamente, generale e astratta, il governo aveva proposto un testo destinato a regolare «tutti i casi» in cui si fosse posto un problema di alimentazione e idratazione artificiale. Ma, con riferimento alla regola generale enunciata, non vi era nessuna ragione di urgenza.

Tanto è vero che il Parlamento, nonostante giacessero da tempo davanti alle sue commissioni disegni di legge che ipotizzavano lo stesso principio, aveva discusso per mesi senza giungere ad alcuna decisione. Nessun dubbio, per altro verso, che al Capo dello Stato competa una valutazione di merito in ordine alla sussistenza dei requisiti che legittimano l’adozione della decretazione d’urgenza e non una semplice funzione di avallo notarile delle valutazioni del governo. Napolitano aveva d’altronde, in passato, più volte richiamato l’attenzione sulla necessità di utilizzare con attenzione lo strumento del decreto legge. Il caso di cui si discute si è inserito, pertanto, in questa prospettiva di rigoroso rispetto presidenziale della legalità costituzionale, ampiamente rilevato da questo giornale.

Di tutt’altro segno sono le questioni giuridiche che solleva il disegno di legge, di uguale contenuto, approvato dal governo venerdì sera, e che si vorrebbe votato dal Parlamento nel giro di pochi giorni. Nei suoi confronti cadono, ovviamente, le menzionate ragioni d’illegittimità. Cionondimeno, non credo che ogni motivo di perplessità venga meno.

Per ragioni di brevità, mi limiterò ad accennare a tre profili che mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Il primo riguarda i tempi preventivati per l’approvazione del disegno di legge: oggi o domani al Senato, fra domani e dopodomani alla Camera. Non si è mai assistito a una simile sequenza temporale su di un tema di tanto rilievo. Se davvero il programma sarà rispettato, significherà che il dibattito in Parlamento sarà stato soffocato utilizzando, con una certa violenza, gli strumenti previsti dai regolamenti parlamentari. Gli eventuali oppositori non avranno, di fatto, avuto diritto di parola. Mi domando: è consentita, in uno Stato di diritto, una prevaricazione tanto profonda della dialettica parlamentare?

Il secondo concerne il contenuto del disegno di legge. Esso stabilisce che, in attesa dell’approvazione di una disciplina legislativa organica, «l’alimentazione e l’idratazione non possono, in alcun caso, essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi». E se la persona interessata, quando era ancora consapevole, avesse manifestato la sua contrarietà a trattamenti medici diretti a mantenerla artificialmente in vita? Costituisce principio di diritto pacifico, riconosciuto da numerose sentenze della Cassazione, che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà: lo stabilisce, ancora una volta, la Costituzione. Ma, allora, lo stesso contenuto del disegno di legge è fortemente sospetto d’illegittimità, poiché imporrebbe un trattamento di mantenimento artificiale in vita anche a chi ha dichiarato di rifiutarlo.

C’è d’altronde un terzo profilo sul quale, ritengo, occorre ragionare. La Cassazione, come è noto, ha «definitivamente» riconosciuto a Eluana Englaro, o a chi per lei, il diritto di staccare il sondino nasogastrico attraverso il quale si realizza il suo mantenimento artificiale in vita. Ebbene, di fronte a un diritto ormai definitivamente riconosciuto dall’autorità giudiziaria, davvero si può ritenere che una legge successiva sia, di per sé, in grado di cancellare il giudicato?

Si badi che, curiosamente, lo stesso governo, sul punto, deve avere avuto i suoi dubbi. Infatti nella relazione di accompagnamento al decreto ha scritto che è vero che, nel caso di specie, c’è stata una sentenza della Cassazione, ma essa, data la particolare natura del provvedimento assunto (di mera «volontaria giurisdizione»), non avrebbe dato vita ad alcun «accertamento di un diritto». Così facendo, lo stesso governo ha ammesso che se, invece, fosse stato riconosciuto un diritto, esso sarebbe ormai intangibile anche di fronte alla legge. Ebbene, poiché, a differenza di quanto sostenuto dal governo, la Cassazione ha, in realtà, riconosciuto un vero e proprio diritto individuale a non essere più medicalmente assistiti contro la propria volontà comunque manifestata, è lecito dubitare che il legislatore possa davvero, ormai, interferire, con una legge, su tale situazione giuridica costituita.

A maggior ragione, non potrebbero, d’altronde, essere considerati legittimi ulteriori interventi a livello amministrativo diretti a ostacolare, o eventualmente impedire, l’esercizio del diritto ormai definitivamente riconosciuto. Lo impone, ancora una volta, la salvaguardia del principio costituzionale della divisione dei poteri. Un’ultima riflessione. Il presidente del Consiglio, nella concitazione degli ultimi giorni, ha dichiarato che la Costituzione verrà presto cambiata. Trascurando le sue considerazioni, storicamente errate, sull’asserita matrice di parte dei principi costituzionali fondamentali, è comunque utile ricordare che, fino al momento di una eventuale loro modifica, le regole attualmente scritte non dovranno essere, in ogni caso, infrante. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola.”

di Naomi Klein – «The Nation»

Vedere in Islanda folle di persone che percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade mi ha ricordato un slogan popolare nei circoli anticapitalisti del 2002: «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».

Un messaggio abbastanza semplice. Voi – politici ed amministratori delegati assembrati in qualche summit del commercio – siete come gli spericolati dirigenti della Enron che se la scampano (e di certo non ne sapevamo neppure la metà). Noi – la plebaglia qui fuori – siamo come il popolo d’Argentina che nel bel mezzo di una crisi economica tremendamente simile alla nostra, scese in strada battendo pentole e padelle (il cacerolazo appunto, ndt). Gridavano “¡Que se vayan todos!” (“Che se ne vadano via tutti!”) e imposero una successione di quattro presidenti in meno di tre settimane. Ciò che rese unico il sollevamento del 2001-2002 in Argentina fu che non era indirizzato ad uno specifico partito politico né alla corruzione in termini astratti. Il bersaglio era il modello economico dominante: quella fu la prima rivolta nazionale contro lo sregolato capitalismo contemporaneo.

C’è voluto un bel po’, ma dall’Islanda alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, i paesi del resto del mondo stanno finalmente avendo il loro ¡Que se vayan todos!

Le stoiche matriarche islandesi che battono le loro pentole mentre i loro ragazzi saccheggiano i frigoriferi alla ricerca di proiettili (uova, certo, ma yogurt?) riecheggiano le tattiche rese famose a Buenos Aires. Così pure la rabbia collettiva contro le élites che hanno gettato via un paese un tempo florido pensando di potersela scampare. Gudrun Jonsdottir, trentaseienne impiegata islandese dice: «Ne ho avuto fin troppo di tutto ciò. Non ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, né nei partiti politici né nel Fondo Monetario Internazionale. Eravamo un bel paese e l’hanno rovinato.»

Un’altra eco: a Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio. Come in Islanda, i lèttoni sono allibiti dal rifiuto dei loro leader di prendersi alcuna responsabilità della crisi. Alla domanda fattagli da Bloomberg TV su cosa abbia causato la crisi, il ministro delle finanze della Lettonia ha scrollato le spalle dicendo: “Niente di speciale”.
Ma i problemi della Lettonia in realtà sono speciali: le politiche che permisero alla “Tigre Baltica” di crescere ad un tasso del 12% nel 2006 sono le stesse che stanno causando la violenta contrazione del 10% prevista per quest’anno: il denaro, liberato da tutti i paletti, va via tanto velocemente quanto viene, e grandi quantità di esso vengono dirottate verso le tasche dei politici. Non è un caso che molti dei casi disperati di oggi siano i “miracoli” di ieri.

Ma c’è qualcos’altro di argentinesco nell’aria. Nel 2001 i leader dell’Argentina risposero alla crisi con un pacchetto di austerità prescritto dal Fondo Monetario Internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli alla spesa, molti dei quali colpirono la sanità e l’istruzione. Questo si dimostrò un errore fatale. I sindacati organizzarono scioperi generali, gli insegnanti spostarono le loro lezioni nelle strade e le proteste non si fermarono più.

Questo stesso rifiuto dal basso di sostenere il peso maggiore della crisi unisce molte delle proteste odierne. In Lettonia molta della rabbia popolare si è rivolta contro le misure di austerità del governo: licenziamenti in massa, riduzione dei servizi pubblici e abbattimento dei salari nel settore pubblico; tutto per poter essere ideonei ad un prestito d’emergenza del Fondo Monetario Internazionale (no: non è cambiato niente). In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all’uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un bailout di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori siano ragionevoli. Allo stesso modo in Francia il recente sciopero generale – in parte innescato dal piano del presidente Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti – ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

Forse il maggiore filo conduttore di questa forte ribellione globale è il rigetto della logica delle “politiche straordinarie”: la frase coniata dal politico polacco Leszek Balcerowicz per descrivere come, nel corso di una crisi, i politici possono ignorare le regole legislative e precipitare verso “riforme” impopolari. Un trucco che ormai mostra le corde, come ha scoperto di recente il governo sudcoreano. A dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Spingendo le politiche a porte chiuse verso nuovi estremi, i parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani.

I rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento. Il voto è slittato, permettendo così un maggiore dibattito: una vittoria per un nuovo tipo di “politiche straordinarie”.

Qui in Canada la politica è marcatamente meno “stile YouTube”, tuttavia è stata sorprendentemente ricca di eventi. Ad ottobre il Partito Conservatore ha vinto le elezioni nazionali su una piattaforma poco ambiziosa. Sei settimane più tardi il nostro primo ministro conservatore, trovato il suo ideologo interiore, presenta una manovra che ha spogliato i lavoratori del settore pubblico del loro diritto di sciopero, che ha cancellato il finanziamento pubblico dei partiti e che non conteneva alcuno stimolo economico. I partiti di opposizione hanno risposto formando una storica coalizione a cui fu impedito di prendere il potere solo per una brusca sospensione del parlamento. I Conservatori sono appena ritornati con un piano di budget rivisto: le politiche di destra dapprima coltivate sono scomparse, ed ora il piano è infarcito di stimoli economici.

Il modello è chiaro: i governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola. Come gridavano gli studenti nelle piazze italiane: «Non pagheremo noi la vostra crisi!» (Beh, buona giornata).

traduzione di Paolo Maccioni per Megachip

Articolo originale:

http://www.thenation.com/doc/20090223/klein?rel=hp_currently
4 febbraio 2009

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Attualità

Berlusconi nega di aver ricevuto una lettera degli Englaro nel 2004. Eccola.

(da repubblica.it)

Ecco il testo (dal sito www.desistenzaterapeutica.it) della lettera che Beppino Englaro e sua moglie Saturna Minuti, scrissero alle più alte cariche dello Stato compresi l’allora presidente Ciampi e l’allora premier Berlusconi nel 2004. Nella lettera spiegavano nei particolari la situazione di Eluana e chiedevano quello che per anni hanno continuato a chiedere allo Stato senza avere risposte. Solo Ciampi rispose.

Al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi
Al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi
Al Presidente del Senato Marcello Pera
Al Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini
Al Ministro della Salute Girolamo Sirchia
Al Presidente della Federazione Nazionale Ordine dei Medici Giuseppe Del Barone

Ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente della Repubblica e agli altri destinatari di questa lettera aperta per portare a Vostra conoscenza quanto è accaduto, e continua ad accadere, al bene personalissimo “vita” di Eluana.

Noi siamo i suoi genitori: Saturna e Beppino Englaro. E quel che segue è la sintesi d’una storia fatta di dolori, battaglie, illusioni, in nome di una libertà fondamentale che ci pare negata e maltrattata.
Tutto è cominciato la mattina del 18 gennaio 1992, quando nostra figlia Eluana a bordo della sua automobile è entrata in testacoda e si è schiantata contro un muro.

L’impatto violentissimo le ha causato un gravissimo trauma encefalico e spinale: Eluana non era più in grado di intendere e di volere e versava in uno stato di coma profondo. Dal momento in cui è giunta in queste condizioni all’Ospedale di Lecco è scattato un inarrestabile meccanismo di tutela del bene “vita” di Eluana, meccanismo che noi genitori abbiamo considerato inumano ed infernale.

I medici dell’Unità Operativa di Rianimazione dell’Ospedale di Lecco, diretta dal professor Riccardo Massei, in assoluta ottemperanza al giuramento di Ippocrate, hanno dato inizio alla rianimazione ad oltranza di Eluana.

Diamo atto ai medici che l’assistenza data a Eluana è corrisposta ai criteri della più evoluta letteratura scientifica internazionale e si è svolta in una struttura perfettamente adeguata, con il massimo sostegno possibile ed immaginabile da parte di tutte le persone ritenute idonee ad essere chiamate in causa per il bene di Eluana, genitori compresi.

Il prof. Massei fu da subito molto umano, semplice e chiaro, tanto che ci disse che il sapere scientifico, per un caso grave come quello di Eluana, era di poco superiore allo zero per quanto concerneva la sua evoluzione futura. La rianimazione non poteva in alcun modo essere sospesa per volontà di nessuno al mondo, finché non fosse avvenuta la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo di Eluana, ovvero finché non fosse intervenuta la sua morte
cerebrale.

Eluana non è morta: è caduta in uno stato vegetativo persistente e, dopo due anni, in uno stato vegetativo permanente nel quale si trova tuttora. Oggi è in un letto d’ospedale, senza alcuna percezione del mondo intorno a sé: non vede, non sente, non parla, non soffre, non ha emozioni, insomma, è in uno stato di morte personale. Ha bisogno d’assistenza in
tutto e per tutto: viene lavata, mossa, girata, nutrita ed idratata da una sonda supportata da una pompa.

I medici sono riusciti a salvarle la vita, ma la vita che le hanno restituito è quella che lei aveva sempre definito assolutamente priva di senso e dignità.
Eluana, sin da bambina, in più occasioni ci aveva manifestato un concetto molto definito della libertà e della dignità, che l’adolescenza e la maggiore età avevano sempre più rafforzato e reso limpido. La libertà di disporre della propria vita secondo la sua coscienza e la sua ragione era un valore irrinunciabile per Eluana, il quale non sarebbe mai potuto venir
meno perché faceva parte, per così dire, del suo DNA.

Il tema del bene personalissimo “vita” era stato affrontato in famiglia molte volte, anche in occasione di svariate situazioni-limite che i mezzi di comunicazione avevano portato alla ribalta pubblica.
Era così emerso un valore di fondo molto forte ed univoco: solo la coscienza e la ragione di Eluana, di Saturna e di Beppino potevano decidere se le rispettive vite fossero da considerare ancora vite e se avessero un senso ed una dignità.

Il caso ha voluto che la nostra famiglia approfondisse anche il tema della rianimazione senza ripresa di coscienza dopo giorni e settimane, come pure quello dell’essere tenuti in vita in stato vegetativo permanente. La sospensione dei sostegni vitali per queste due estreme condizioni, in modo da non essere tenuti in vita forzatamente oltre determinati limiti di
tempo e così poter finalmente essere lasciati morire, era per Eluana, Saturna e Beppino la cosa più ovvia e naturale del mondo.

L’orrore di vedere uno di noi tre privo di coscienza, tenuto in vita a tutti i costi, invaso in tutto e per tutto da mani altrui anche nelle sfere più intime, non sarebbe stato in alcun modo sopportabile e ammissibile: Eluana ha sempre considerato
ciò una barbarie.

Questa era la volontà di Eluana e noi genitori volevamo e vogliamo che venga rispettata. Mettere al corrente i medici della volontà di nostra figlia, purtroppo, non è stato sufficiente, perché proprio loro che avevano fatto di tutto per tenere in vita Eluana, non avevano più il potere di sospendere i trattamenti.
Siamo stati costretti ad iniziare una lunga battaglia legale: ci siamo rivolti ai giudici affinché, nel rispetto della volontà di Eluana, autorizzassero i medici a sospendere i trattamenti di sostegno vitale. Riteniamo semplicemente contro lo spirito della nostra Costituzione venire così palesemente discriminati del diritto inviolabile alla libertà di terapia e cura fino
alle più estreme conseguenze, possibile nella condizione personale capace di intendere e di volere, ed impossibile in quella non più capace di intendere e di volere.

A oltre 10 anni dallo scioglimento della prognosi nel senso dell’irreversibilità delle condizioni di Eluana, la seconda sentenza della Corte d’Appello di Milano, pronunciata nel dicembre 2003, ha ritenuto inammissibile e da rigettare la richiesta di sospensione delle misure di sostegno vitale, con la quale il papà Beppino (che ne è il tutore) dà semplicemente voce
a quanto Eluana avrebbe deciso nel caso le fosse capitato di trovarsi in una simile situazione.

Già in seguito alla prima sentenza della Corte d’Appello di Milano, che risale al dicembre 1999, il Ministro della Salute Umberto Veronesi si era reso conto che le istituzioni avevano dei precisi doveri per arrivare al chiarimento dei problemi irrisolti e si era mosso con l’atto concreto di istituire una Commissione di studio che ha prodotto un importante documento
pubblicato nel maggio 2001 (Gruppo di Studio Oleari). Noi genitori di Eluana ci aspettiamo che le istituzioni si muovano di nuovo in tal senso, anche dopo la seconda sentenza della Corte d’Appello di Milano, che non ha neanche ritenuto doveroso approfondire il concetto di dignità della vita che aveva Eluana. Concetto, in questo dramma, per nulla secondario.

Competenza, chiarezza e trasparenza, documentate e documentabili da parte di tutti, non sono mai venute meno dal lontano 18 gennaio 1992 durante tutto l’iter clinico, umano e giuridico che riguarda Eluana.

Pertanto tutti dovranno assumersi le loro responsabilità fino in fondo, senza nessuna possibilità di eluderle. Ci auguriamo che Lei, Signor Presidente, e gli altri destinatari di questa lettera, vogliano trovare gli atti opportuni per dare uno sbocco alla vicenda di nostra figlia Eluana, che da 4.430 giorni è costretta dalle istituzioni e dai medici a una non-vita.
Chiediamo in particolare al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di essere ricevuti, per poter esporre meglio la nostra situazione.

I nostri rispettosi saluti.
Lecco, 4 marzo 2004
Saturna Minuti Beppino Englaro
 

(Beh, buona giornata)

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Attualità Società e costume

Parole sante.

“Il magistero della Chiesa è morale, lo Stato è laico e in esso convivono anche i cattolici. Quello che dice la Chiesa riguarda solo loro, non noi che non professiamo questa confessione”. (Beppino Englaro). Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Gli aiuti governativi al settore automobilistico sono uno spreco di risorse.

Rottamazione: chi ci guadagna?

di Paolo Manasse da lavoce.info

Il governo vara il piano di aiuti al settore automobilistico: circa 750 milioni. Ma un sussidio comporta uno spreco di risorse perché il prezzo pagato dal consumatore diventa inferiore al costo che la società sostiene per produrre il bene. Inoltre, se aumentano gli acquisti di auto diminuiscono quelli di altri beni. E i settori penalizzati si sentirebbero autorizzati ad avanzare richieste simili. In una rincorsa all’aiuto di Stato i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda e che potrebbe compromettere la sostenibilità del debito pubblico.

Dopo il crollo delle vendite di automobili registrato a gennaio (-32,6 per cento su base annua), anche il nostro governo, come quelli di Usa, Francia e Germania, sta predisponendo un piano di aiuti al settore. Si tratterebbe di circa 750 milioni di euro, destinati a finanziare un bonus-rottamazione di 1.000 o 2.000 euro per ciascuno acquisto, a seconda delle emissioni inquinanti dell’auto. L’obiettivo: arginare la perdita di posti di lavoro nel settore (300mila posti a rischio, a detta della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia).

COSTI E BENEFICI DELL’AIUTO

Secondo il Centro Studi Promotor (Csp) di Bologna, l’operazione avverrebbe a costo zero: “(…) con l’erogazione di 1.500 euro per ogni acquisto (…) si può stimare che le persone che usufruiranno degli incentivi nel 2009 saranno 500mila di cui 300mila (…) gli acquisti indotti dal sussidio (…). Si può ipotizzare che le vetture acquistate in più abbiano un prezzo medio di 15mila euro e siano di conseguenza gravate di Iva mediamente per 2.500 euro. Ne consegue (…) che il maggior introito per l’Erario sarà pari al numero delle auto acquistate in più (300mila) moltiplicato per l’Iva media (2.500 euro)”. Cioè proprio i 750 milioni dell’esborso previsto.(1)
La teoria microeconomica suggerisce che un sussidio produce alcuni effetti sul settore interessato: 1. riduce il prezzo pagato dai consumatori, accrescendone la domanda; 2. aumenta il prezzo percepito dalle imprese produttrici, la quantità offerta e i profitti; 3. genera un esborso di denaro pubblico pari al sussidio unitario moltiplicato per le vendite. La cosa interessante è che quanto pagato dallo Stato eccede quanto ottenuto da consumatori e imprese. Un sussidio comporta cioè uno spreco di risorse (una “perdita secca”), e questo perché il sussidio fa sì che il prezzo pagato dal consumatore, che misura quanto egli valuti il bene, diventi inferiore al costo che la società sostiene per produrlo: la società utilizza in modo inefficiente le risorse. Dobbiamo poi tener conto anche di altre ripercussioni di carattere generale: 4.il sussidio genera nuovo gettito, dagli extra-profitti e dalle nuove vendite; 5. la domanda di altri beni durevoli cade: si comprano meno tv al plasma o lavatrici, e dunque cadono le entrate tributarie da queste fonti; 6. si riduce la domanda futura di auto perché il sussidio è temporaneo; 7. le lobby di altri settori hanno buone ragioni per battere cassa col governo, dichiarandosi altrettanto meritevoli nonché danneggiate.

SI APRE UN VASO DI PANDORA

Qual è, approssimativamente, l’ordine delle grandezze in gioco? Supponiamo che, a causa di capacità in eccesso, le imprese siano in grado di aumentare la produzione senza incorrere in aumenti di costo, e prendiamo per buone le previsioni, temo ottimistiche, del Csp circa l’aumento delle vendite ottenute da bonus (medio) di 1500 euro, le 300mila unità. Si ottiene che il sussidio comporta un onere diretto di 600 milioni e beneficia gli acquirenti di nuove auto per 420 milioni. (2)
Aggiungiamo poi le entrate addizionali dell’Iva sulle auto acquistate in più, e deduciamo le minori entrate fiscali sul minor consumo degli altri beni, in particolare quelli durevoli. La letteratura suggerisce che per ogni 100 euro di maggior spesa per un’auto di piccola-media cilindrata, se ne spendano tra i 25 e i 90 in meno per tutti gli altri beni, a cominciare da lavatrici, hi-fi e così via. (3)Nel primo caso, poco plausibile a causa della crisi e della restrizione del credito al consumo, gli oneri per il bilancio sarebbero bassi, 15 milioni, e la società ne trarrebbe un “guadagno netto” di 405 milioni (= 420 dei consumatori -15 di oneri per lo Stato). Nel secondo caso, temo molto più verosimile, gli oneri per il bilancio sarebbero ingenti, 522 milioni di euro, e la società avrebbe una perdita secca per 102 milioni di euro (522-420).
Resta poi l’argomento “strategico” che non sussidiare il settore automobilistico quando tutti gli altri paesi lo fanno danneggerebbe la nostra economia. Èlo stesso identico argomento usato per sostenere il protezionismo, e richiederebbe molto spazio. In breve, sprecare le risorse pubbliche non è consigliabile neppure se gli altri paesi lo fanno. Infine, il problema forse più serio del sussidio alla rottamazione (tralascio congestione, inquinamento acustico e dell’aria) è questo: con la misura si apre il vaso di pandora della corsa agli aiuti settoriali di Stato. Aiuti i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda, e che potrebbero compromettere, questi sì, la sostenibilità del debito pubblico. (Beh, buona giornata).

(1) http://www.tgcom.mediaset.it/tgfin/articoli/articolo440073.shtml
(2)Per i dettagli dei conti si veda il mio blog.
(3) Si veda Berry, Levinsohn e Pakes, “Automobile Prices in Market Equilibrium”, Econometrica, 1995, pp. 841-890.
(4) http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/auto_sostegno/cartella_stampa.pdf

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Mentre in Italia si blocca il Parlamento sul caso Englaro, nelle stesse ore in Europa si discute che fare per la crisi che ha tagliato 130 mila posti di lavoro e prodotto un crollo della produzione di 150 miliardi di euro.

(Fonte: corriere.it)

In Europa dall’inizio dell’ultimo trimestre del 2008 a tutto il mese di gennaio 2009 si sono persi 130.000 posti di lavoro nel settore industriale – soprattutto l’auto e il suo indotto – e in quello delle costruzioni. Due settori che nel corso dell’ultimo anno hanno fatto registrare un crollo della produzione pari a 150 miliardi di euro.

Sono le cifre contenute in un documento riservato della Commissione europea, anticipato dall’Ansa, che molto probabilmente sarà all’esame dei ministri finanziari europei che lunedì e martedì si ritroveranno a Bruxelles per le riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, chiamati a valutare quanto fatto per contrastare la crisi e quando fare in futuro. 

 La situazione nel settore dell’auto e in quello dell’indotto è «drammatica», anche per la persistente stretta creditizia che «colpisce particolarmente» non solo le case automobilistiche, ma anche il settore delle costruzioni. Nel documento si sottolinea come «la contrazione della produzione nel settore dell’industria automobilistica ha un immediato effetto negativo anche sull’occupazione nelle aziende dei fornitori».  Beh, buona giornata.

 

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La guerra-lampo di Berlusconi in Parlamento, con l’appoggio aereo del Vaticano: prima il caso Englaro, poi attacco all’aborto.

(fonte: ilmessaggero.it)

Giovedì 12 febbraio è una delle date possibili per l’approvazione definitiva, da parte delle Camere, del disegno di legge predisposto dal governo sul caso di Eluana Englaro, in base all’iter parlamentare che si sta prefigurando. Il ddl, ricevuta sabato sera l’autorizzazione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per la presentazione alle Camere, è stato immediatamente trasmesso a Palazzo Madama. Il presidente del Senato, per accorciare i tempi, lo ha subito assegnato alla commissione Sanità in sede referente, dove si voterà il testo lunedì 9 per poi essere discusso dall’Assemblea, presumibilmente, la sera stessa. Renato Schifani, infatti, ha convocato per le ore 12 di lunedì 9 febbraio la Conferenza dei capigruppo, con l’intento di proporre l’immediato esame del provvedimento da parte dell’Aula del Senato, la cui convocazione è stata anticipata alle ore 19 dello stesso giorno.

Probabilmente la maggioranza, per snellire la procedura, respingerà o accorperà gli eventuali emendamenti per procedere subito al voto, che potrebbe tenersi entro martedì 10 febbraio, senza escludere il ricorso alla fiducia.

Ottenuto il via libera da parte del Senato, il ddl passerà all’esame della Camera. Il presidente, Gianfranco Fini, convocherà la Conferenza dei capigruppo tra la sera di lunedì 9 e la mattina di martedì 10. Il testo dovrebbe quindi essere inviato alla commissione Affari sociali. Il ddl potrebbe arrivare in aula mercoledì sera o la mattina di giovedì 12 febbraio, dove l’annunciata, forte opposizione dei Radicali e di parte del Pd lascia presupporre la presentazione di un cospicuo numero di emendamenti che ne potrebbe rallentare l’approvazione finale. Ma, così come per Palazzo Madama, l’esecutivo potrebbe porre la fiducia appena il testo andrà in aula, dando una forte accelerazione all’iter fino al voto finale.

Dopo la legge su Eluana «toccherà all’aborto, con Berlusconi e Sacconi pronti a compiacere le tesi di Eugenia Roccella e delle organizzazioni cattoliche». Lo afferma Silvio Viale, il medico torinese che ha promosso la sperimentazione della pillola RU486.

«Il blocco ad oltranza all’Aifa della RU486 – sostiene Viale – è solo l’inizio di uno scontro annunciato, con prevedibili scrupoli di coscienza del premier e del neo-credente Sacconi. Gli ingredienti sono gli stessi. In primo luogo un premier distratto e strabico, con un occhio rivolto al governo ombra del Vaticano e con una coscienza usa e getta. In secondo luogo, un gruppo agguerrito di manipolatori, capitanato da Eugenia Roccella, che si occupa di diffondere false notizie scientifiche all’insegna del dubbio metafisico, ma con molta documentata convinzione, assunta dai siti pro-life. In terzo luogo un fronte “pro-choice” timido e rinunciatario, scarsamente informato, che si fa condizionare persino nel linguaggio dai pro-life e da tempo ha perso ogni spinta propulsiva in difesa della pluralità delle scelte. In quarto luogo, come per Eluana, conquistato il premier, scatta un richiamo all’appartenenza politica che tende a recuperare una parte dell’opinione pubblica contraria». Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Prove tecniche di Terza repubblica: “Il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza.”

Non poteva esserci scempio più atroce

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it
Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all’evolversi delle tecnologie. Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l’attuazione.

Ma il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.

Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.
Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che “al di là dell’obbligo morale di salvare una vita” egli sente “il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi”.

Gli strumenti necessari per realizzare quest’obiettivo indispensabile sono “la decretazione d’urgenza e il voto di fiducia”; ma poiché l’attuale Costituzione semina di ostacoli l’uso sistematico di tali strumenti, lui “chiederà al popolo di cambiare la Costituzione”.

La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.
Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l’occasione che cercava.

Un’occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull’appello alle pulsioni elementari e all’emotività plebiscitaria.

Qui c’è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l’anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall’altra i “volontari della morte”, i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.

Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all’odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.

Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.

Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l’altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.

Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.

Ci sono altri due obiettivi che l’uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.
Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d’aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto.

Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l’occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un’economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l’attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica “La Quiete” dà un po’ di respiro ad un governo che naviga a vista.

Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire “con cattiveria”.

Il Vaticano si oppone a quella “cattiveria” ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall’Occidente multiculturale e democratico.

Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.

Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l’instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.

Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ’22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.

Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent’anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.
In quel passaggio del 3 gennaio ’25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel “rinsavimento” sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l’altro ieri.

E tutto è sciaguratamente avvenuto sul “corpo ideologico” di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Prove tecniche di Terza repubblica: “La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli.”

Il potere apparente della Chiesa

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.

I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo – impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana – è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.

Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.

Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.

È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine – appena seppe quel che faceva – paralizzato.

Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.

Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Non si esce dalla crisi se non si esce dal neoliberismo.

di Duccio Cavalieri – da www.economiaepolitica.it

La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.

Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.

Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.

In tali condizioni, chi comprende come stanno andando le cose e dispone di liquidità non la investirà più, ma la tratterrà, ripromettendosi di farne uso in seguito, quando la crisi avrà prodotto i suoi effetti più devastanti, per acquistare le attività patrimoniali superstiti a prezzi stracciati. Viene in essere cioè una situazione abbastanza simile a una trappola della liquidità, ma in presenza di tassi di interesse non ancora ridotti al minimo. Tale situazione non può tuttavia durare a lungo. Essa è destinata a cambiare non appena sul mercato dei capitali i tassi scendono ulteriormente e diventa possibile compiere operazioni vantaggiose di acquisto di capitale azionario, anche finanziandole a credito. Ossia creando degli appositi consorzi finanziari che si indebitano per acquistare imprese (è il cosiddetto leverage buyout) e che possono conteggiare il debito come un costo detraibile dalle tasse, scaricandone l’onere sulle società acquistate (che non di rado vengono poi abbandonate al loro destino di bad companies).

Questo contribuisce ad aumentare la scarsità di liquido e tende a determinare una crisi del mercato interbancario. Per l’eccessivo livello dell’indebitamento, le banche non si fidano più l’una dell’altra e non si prestano denaro tra loro. La crisi è aggravata dal fatto che nel frattempo si diffondono voci allarmanti sull’esito di investimenti troppo rischiosi effettuati dalle banche e i risparmiatori tendono di conseguenza a ritirare i loro depositi e a compiere spostamenti di capitali dai titoli privati a quelli pubblici, ritenuti più solidi, anche se non del tutto sicuri in una situazione di rischio sistemico.

Ne risulta appunto una sorta di trappola anomala della liquidità, che penalizza chi ha bisogno di prestiti per motivi non speculativi. E quindi danneggia in primo luogo le imprese, che possono essere costrette dapprima a ridurre e poi addirittura a cessare la loro attività. A questo punto la crisi diventa generale e coinvolge l’economia reale, a ulteriore dimostrazione della non neutralità della moneta. E attraverso nuovi meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari sulle variabili reali, che meriterebbero di essere ulteriormente indagati, la crisi si scarica per intero sui lavoratori e sulle loro famiglie.

Le principali cause della fragilità strutturale del sistema finanziario possono a questo punto facilmente individuarsi. Sono la tendenza a un eccessivo ricorso al finanziamento esterno da parte delle imprese; la diffusa pratica bancaria consistente nell’utilizzare credito a breve termine, continuamente rinnovato, per finanziare impieghi di capitale a medio e lungo termine;  la facilità con cui vengono realizzate operazioni finanziarie e creditizie ad alto rischio; la scarsa trasparenza di molte operazioni finanziarie, che alimenta la possibilità di compiere vere e proprie frodi nel trasferimento dei rischi. Frodi che sono messe in atto dagli intermediari finanziari ai danni dei risparmiatori e vengono non di rado avallate da compiacenti agenzie di valutazione (rating companies), che, male interpretando le proprie funzioni, mettono in grado alcune società di indebitarsi per somme molto superiori al loro effettivo valore di mercato.

In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo e di riconosciuta necessità di ricorrere ad interventi pubblici per salvare banche e aziende in difficoltà, anziché lasciare che il mercato penalizzi l’insuccesso delle iniziative economiche meno efficienti. Al vecchio paradigma dell’efficienza allocativa del mercato oggi credono ancora solo pochi epigoni della Mont-Pélerin Society, della scuola di economia di Chicago e della London School of Economics. Quelli che hanno sempre insistito nel presentare il neoliberismo come antitesi al keynesismo e al dirigismo economico degli anni ’30; e che hanno ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e quello di Ronald Reagan negli USA, l’uno e l’altro favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e a un contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica per finalità sociali.

E’ un duro colpo per il neoliberismo, un indirizzo di pensiero che ha cercato di affossare le conquiste dello Stato sociale e ha inquinato il quadro teorico con la supply side economics e la ‘critica di Lucas’ all’efficacia della politica economica. Dopo la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l’interventismo statale di tipo keynesiano. Ma oggi il neoliberismo subisce una dura lezione dalla storia. Perfino i più tenaci assertori di questo indirizzo di pensiero, posti di fronte alla drammatica alternativa tra aiutare Wall Street a uscire dalla crisi, sovvenzionando un sistema capitalistico dimostratosi largamente corrotto, o lasciare che esso precipitasse nel caos finanziario più assoluto, sono stati indotti a invocare un intervento straordinario dello Stato nella sfera economica per salvare dal fallimento grandi banche ed imprese. Con l’intenzione di addossare al Tesoro, ossia ai contribuenti, l’onere dell’acquisto dei crediti inesigibili. Senza quindi arrivare a delle vere e proprie nazionalizzazioni.

Ma non è stata, a ben guardare, una vittoria del keynesismo. L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo in un certo senso il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. Ma l’aumento della spesa pubblica, che oggi da tante parti si invoca, non riguarda la spesa sociale in istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione. Riguarda il sostegno di banche e società finanziarie in difficoltà e il salvataggio di grandi imprese industriali. Un salvataggio che ci si propone di realizzare continuando a comprimere i salari reali e le pensioni. E’ quindi un sostegno non alla domanda, ma all’offerta.

Tutto questo ha ben poco di keynesiano. E può accrescere il divario tra l’offerta e la domanda, anziché aiutare a superare le difficoltà di realizzo della produzione sul mercato. Difficoltà dovute alla maldistribuzione del reddito e tipiche di un sistema in cui il capitale non riesce a porsi fini diversi da quello del proprio continuo accrescimento. Tali difficoltà oggi non presentano più carattere esclusivamente ciclico, ma tendono ad assumere carattere strutturale. Segno che il capitalismo resta un problema (il problema di fondo) e che il problema tende ad aggravarsi. (Beh, buona giornata).

 

*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.

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Attualità Leggi e diritto

Poniamo fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro.

Il padre di Eluana, Beppino Englaro, attraverso un comunicato stampa invita il premier e il capo dello Stato a visitare la figlia. Ecco il testo:

“Sono il tutore di Eluana Englaro, ma in questo momento parlo da padre a padre, rivolgendomi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per invitare entrambi, ed essi soli, a venire ad Udine per rendersi conto, di persona e privatamente, delle condizioni effettive di mia figlia Eluana, su cui si sono diffuse notizie lontane dalla realtà che rischiano di confondere e deviare ogni commento e convincimento”. 

Il che dimostra che ministri e cardinali, con l’ausilio di commentatori da strapazzo hanno finora aperto bocca per sentito dire. E’ un atteggiamento “normale” in un paese che ha ridotto l’informazione a propaganda. E’ un fatto semplicemente ripugnante che lo scontro politico avvenga strumentalizzando, in modo sconcio, la vicenda umana di Eluana e di suo padre.

Abbiano il coraggio di dire pubblicamente, apertamente, senza nascondersi dietro dicerie, che il vero obiettivo dello scontro istituzionale  in atto è la modifica sostanziale della nostra democrazia parlamentare. La politica italiana con le sue schiere di mezze calzette  parlanti ci hanno abituato da tempo agli annunci e alle smentite. Anche oggi il premier accusa la lettera del capo dello Stato di essere a favore dell’eutanasia, per poi smentirlo neanche due ore dopo. Anche oggi il Papa allude a fatti che non conosce e che forse proprio non vuole conoscere. E’ già recentemente successo nella brutta vicenda del vescovo Williamson e le sue orribili teorie negazioniste dell’Olocausto degli ebrei. 

I confini del ruolo del capo del governo sono stati giustamente ricordati dalla lettera del Presidente Napolitano: fino a prova contraria, l’Italia è una democrazia parlamentare, la cui architettura costituzionale mal sopporta la continua decratazione d’urgenza. Tanto più se essa è un trucco per invalidare l’esecuzione di sentenze emesse dal Tribunale.

 I confini  di azione del capo dello Stato Vaticano non gli consentono ingerenze nella vita politica dello Stato italiano. I confini di iniziativa del capo spirituale della religione cattolica non gli consentono di invadere, neppure sui temi etici, il terreno della laicità dello Stato.

Se il presidente  della Repubblica ha “deluso” queste aspettative è solo e soltanto perché egli ha fatto il suo dovere di garante della Costituzione. E di questo, anche fosse solo per questo, tutti i cittadini italiani non possono che essergli grati .  

Adesso, però basta. La pantomina della trasformazione di un decreto legge in un disegno di legge da far discutere a tappe forzate dal Parlamento è un’ulteriore provocazione: la quarta carica dello Stato (il presidente del consiglio) vuole imporre il suo volere alla seconda e alla terza carica dello Stato (i presidenti dei due rami del Parlamento) per prendersi una rivincita contro la prima carica dello Stato (il presidente della Repubblica).

Si ribellino a questa sudditanza i parlamentari della Repubblica, eletti democraticamente. Esercitino il loro mandato in piena autonomia dal potere esecutivo. Al Senato è già all’esame un testo di legge sul testamento biologico. Quella è la procedura corretta, quella è la via  maestra per un pronunciamento del Parlamento.

L’invito è esplicito: ponete fine a questa indecente danza macabra attorno al capezzale di Eluana Englaro. Restituite dignità di uomo e di padre a Beppino Englaro. Ma soprattutto, restituite i diritti costituzionali a Eluana e a Beppino: sono due cittadini della Repubblica Italiana, lo Stato ha il dovere di tutelarli. Beh, buona giornata. 

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Gli italiani e la crisi dei consumi. Un monito per la pubblicità italiana: meno tv, più comunicazione; meno emozioni, più concrete informazioni. Insomma: meno blàblàblà, più creatività.

di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

STARBUCKS, la leggendaria catena del caffè e degli yuppies, taglia 7 mila posti e 300 negozi. McDonald’s, il re degli hamburger, apre 300 ristoranti e assume 12 mila persone. Non è solo la storia divergente di due aziende, ma di come la crisi che scuote il mondo stia stravolgendo i nostri stili di vita. Alle spalle le luci soffuse, l’atmosfera rilassata, la scelta tra un (costoso) caffè della Colombia e un (costoso) caffè dell’Ecuador, con il Mac sulle ginocchia a chattare con gli amici. E’ il momento delle luci crude, i tavoloni di formica affollati, i panini politicamente scorretti, da consumare in fretta, ma spendendo poco. Dal superfluo al necessario.

Come dicono sconsolati gli analisti di Goldman Sachs, esaminando il bilancio sconfortante di Polo Ralph Lauren, un simbolo del vestire con classe, nei consumatori l’aspirazione (“con questa cosa faccio un figurone”) è stata sostituita dalla disperazione (“ma davvero devo spendere tutti questi soldi?”). Un rapporto sui consumi di una grande banca, Credit Suisse, sottolinea che l’unico comparto che regge è l’alimentare: a mangiare non si rinuncia.

Tutto intorno, la spirale della deflazione è nel suo giro più maligno: i prezzi scendono, ma non abbastanza da stimolare la domanda. In Inghilterra, a dicembre, le vendite di beni non alimentari sono aumentate del 4 per cento. Ma i relativi incassi sono diminuiti dell’1,4 per cento, devastando i bilanci delle aziende e avvitando di più verso il basso la spirale della deflazione.

Non c’è da sorridere, comunque, per nessuno. Negli Stati Uniti, Saks e Neiman Marcus, gli Starbucks dell’abbigliamento, hanno visto a dicembre le vendite scendere fra il 20 e il 30 per cento, nonostante i saldi iniziati, spesso, il pomeriggio della vigilia di Natale. Wal-Mart, il McDonald’s della grande distribuzione, le ha aumentate, ma solo dell’1,7 per cento. Dice Giorgio Santambrogio, direttore generale al marketing di Interdis, una grande catena di supermercati italiana, con quasi 3 mila punti vendita: “Un fatturato che regge è già un successo”.

L’esempio più immediato lo troviamo nei luoghi che del risparmio – la carta vincente, oggi, per i consumatori – fanno la loro ragion d’essere. I mercatini dell’usato, online e sulle bancarelle, vanno alla grande e soddisfazione c’è anche nel più grande dei mercati dell’usato: l’auto. L’anno scorso, gli italiani hanno comprato quasi 3 milioni di macchine usate, contro poco più di 2 milioni di macchine nuove. Ormai, si vendono (comprese quelle cedute ai concessionari quando si acquista un’auto nuova) 138 macchine usate ogni 100 nuove.

Anche l’usato, in realtà, dall’autunno, secondo le stime di CarNext, una società del settore, ha subito una flessione nei numeri venduti, ma meno di un terzo, rispetto a quanto è avvenuto nel nuovo. E, intanto, la quota del fatturato, rispetto al nuovo, si allarga: nel 2008, i rivenditori di auto usate hanno incassato 24 miliardi di euro, il 56 per cento del giro d’affari delle auto nuove. Dove, a salvarsi, sono state solo le superutilitarie e quelle che, almeno, con gpl o metano, risparmiano sul carburante. Piano, però, a generalizzare l’effetto-risparmio.

Se, in effetti, il parametro decisivo è l’incrocio fra prezzo e necessità, sembrerebbe logico dedurre che, anche al di là dell’auto, i meglio attrezzati a galleggiare sulla crisi siano i profeti del discount, gli alfieri del prezzo scontato, spesso giganti globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco, Metro. E le loro repliche locali. Ma la psicologia dei consumatori è più complicata di così e la crisi morde in modo più selettivo. In termini generali, questa è l’era del discount: secondo i dati della Nielsen, nella prima metà del 2008, il 63,5 per cento degli italiani è andato a fare la spesa nei discount. Dallo scorso luglio, questa quota è salita al 72 per cento.

Eppure, un gigante degli ipermercati, paradiso del prezzo basso, come Carrefour, nel 2008 ha visto diminuire di quasi il 2 per cento le sue vendite in Italia e ha dovuto ridimensionare drasticamente il suo grande ipermercato della Romanina, nella capitale.

Metro sta tagliando il personale. Che succede? Ce lo fa capire Alessandro, direttore del discount Tuo a Roma, nel quartiere Gianicolense: “Noi – dice – più o meno vendiamo come prima. Ma sa qual è la differenza, rispetto ad un anno fa?” Con il mento indica i clienti che si muovono fra gli scaffali spartani: “Vediamo ogni giorno le stesse facce. Prima venivano una volta a settimana e riempivano il carrello. Adesso, vengono ogni giorno e se ne vanno con una bustina”. “E’ finita – spiega Santambrogio – l’epopea della shopping expedition, quando si partiva per riempire il bagagliaio della macchina con la spesa per un mese”.

Il consumatore italiano non pensa di potersi permettere progetti di spesa per più di due-tre giorni. “Noi – dice Santambrogio – facciamo più scontrini, ma ognuno per una cifra inferiore a prima”. Nielsen conferma: lo scontrino medio dei discount è passato da 69,7 a 63,6 euro. A soffrirne sono proprio gli ipermercati alla periferia delle città: il viaggio non vale più la pena. Le analisi di mercato di Infoscan dicono che, a novembre (ultimo dato disponibile prima che le vendite venissero drogate dallo shopping natalizio), gli ipermercati hanno venduto l’1,6 per cento in meno, rispetto ad un anno prima, e incassato il 3,1 per cento in meno. I supermercati, secondo Santambrogio che, da Interdis, segue marchi come Dimeglio e Sidis, in particolare quelli di quartiere, sono meglio in grado di adattarsi alle caratteristiche della clientela locale, ad una prevalenza di clienti anziani, piuttosto che di coppie con figli. Infoscan registra che, a novembre, gli incassi dei supermercati sono cresciuti dell’1,7 per cento rispetto al 2007.

Il consumatore italiano, insomma, pensa in piccolo e tira la cinghia. Tuttavia, i contorni della crisi italiana sono ancora fluidi e incerti. Gennaio è il mese dei saldi e delle tredicesime ancora in tasca, la massa dei precari tagliati il 31 dicembre ha ancora un mese di stipendio, le ondate di licenziamenti e di cassa integrazione si stanno materializzando solo adesso. Il picco della crisi deve, forse, ancora arrivare. Oppure la crisi italiana sarà diversa da quella dei paesi dove, oggi, sta colpendo più duro.

Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-Oviesse, ha un osservatorio privilegiato: i negozi Oviesse hanno un’offerta economica, mentre l’offerta di abbigliamento Coin si rivolge ad un segmento di mercato più alto. “Francamente – dice Beraldo – io non vedo differenze. Natale 2008 è andato, più o meno, come il 2007 e, anzi, forse Coin è andata meglio di Oviesse. Anche i saldi sono andati bene in tutt’e due le catene. Certo, non ci sono più i turisti russi e giapponesi a tenere su le vendite, le donne si concedono meno sfizi e tutti sono più attenti al rapporto qualità/prezzo. Fare il nostro mestiere è diventato più difficile. Ma niente di paragonabile al massacro cui assistiamo su mercati come quello americano, inglese o spagnolo. Magari il consumatore italiano è più resistente. Oppure stava peggio già prima”.

In effetti, in Italia non c’è stato ancora nulla di paragonabile allo “sboom” dei paesi in cui lo sgonfiarsi della bolla immobiliare prima, del credito al consumo e delle carte di credito, poi, ha determinato un crollo repentino, verticale, devastante delle vendite. Non c’è stato lo sboom, perché, prima, non c’era stato il boom: da anni, redditi e consumi italiani sono ai limiti dell’asfittico. Questo, tuttavia, vuol dire che la ripresa, quando arriverà, sarà più lenta ed incerta e che la crisi, se arriverà a colpire duro, troverà un organismo già indebolito. Soprattutto, perché il malessere dell’economia italiana, che viene da lontano e che la crisi globale può solo aggravare, ha già intaccato la resistenza di quelle classi medie che sono il nerbo dell’esercito dei consumatori.

Una ricerca condotta da Interactive Market Research ci fornisce un panorama degli umori e delle paure di queste classi medie. Come tutti i sondaggi on line, il campione non è rappresentativo della realtà nazionale. Ma, in questo caso, è un vantaggio. Perché un campione con il 30 per cento di laureati e il 50 per cento con un reddito sopra i 2 mila euro mensili è l’immagine della classe media attiva e, se da questa esce un sentimento univoco di pessimismo e rinuncia, i prossimi mesi saranno duri per tutti. E, qui, quasi metà degli intervistati ha difficoltà ad arrivare a fine mese e tre quarti si dichiarano molto preoccupati, al pensiero di un acquisto imprevisto che costi quanto un mese di stipendio. La lista delle rinunce e delle cose indispensabili ci fornisce una guida per capire chi soffrirà di più e chi meno, per la crisi.

Via libri, dvd, giornali, sigarette, cinema e teatro. Più televisione? Rai e Mediaset, però: metà del campione dichiara di aver rinunciato a Sky. Niente videocamera o videogames. Anche la tv a schermo piatto può attendere. Tagliati la palestra e l’estetista. Niente abiti eleganti, borse, attrezzature sportive. Neanche il cappotto nuovo. Al supermercato, basta con i dolci, l’acqua minerale, pesce, vino e birra. In generale, basta con i prodotti di marca: chi se ne frega dell’abito griffato e, per mangiare, vanno benissimo i prodotti con il marchio del supermercato locale.

Se ogni crisi, come dicono gli economisti, è anche un’opportunità, questa è l’ora dei terzisti, delle etichette anonime e un incubo per che si è preoccupato soprattutto di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio. E, poi, chi si salva? Sulla tavola delle classi medie continueranno ad esserci pane, pasta, olio, latte, uova e carne. I bambini avranno i loro giocattoli. Se proprio bisogna spendere, agli interventi di piccola manutenzione per la casa non si può rinunciare. Ai gadget tecnologici, invece, sì. La decimazione è quasi totale. Quasi. Per Nokia, Dell, Ericsson, Samsung, Asus, c’è un po’ di luce, in fondo al tunnel. Computer e telefonino restano due must. La classe media affonda, ma comunica. (Beh, buona giornata). 

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