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Perché in Italia politici, banchieri, giornalisti economici e imprenditori dicono cazzate? “Si tratta di una forma di auto-illusione nazionale, nel tentativo di sfuggire alla dolorosa realtà.”

Le bugie sui conti dell’Italia, di BILL EMMOTT -La Stampa

E’ normale aspettarsi dai politici mezze verità quando non addirittura bugie: in questo l’Italia non è unica, anche se resta un’eccezione la capacità del suoi leader di dire qualcosa un giorno per negarlo il giorno dopo, nella peraltro giustificata convinzione che le loro parole verranno comunque rapidamente dimenticate. Ma non mi aspettavo che questo fenomeno riguardasse anche l’economia, campo dove è facile verificare come stanno davvero le cose. Eppure, andando in giro per l’Italia, mi sono accorto che dichiarazioni false sull’economia nazionale vengono prodotte ogni giorno non solo dai politici, ma anche da banchieri, imprenditori e perfino esponenti del governo.

E’ vero che alcune di queste dichiarazioni potrebbero venire catalogate più come opinioni che come constatazioni dei fatti, in quanto l’economia possiede aspetti soggettivi e spesso il dibattito riguarda un futuro imprevedibile sul quale non si dispone di certezze. Eppure mi sembra che ci sia qualcosa di più, visto che il ricorso a dichiarazioni false, anche sul presente e sul passato, resta così diffuso. Così ho prodotto una teoria: si tratta di una forma di auto-illusione nazionale, nel tentativo di sfuggire alla dolorosa realtà.

Permettetemi di spiegarla. Il primo mito che ho sentito decine di volte ripetere agli imprenditori è che l’Italia è nell’ottima posizione della seconda «economia d’esportazione» d’Europa, dopo la Germania.

L’ultima volta l’ho sentito il 3 marzo, quando il Sole – 24 Ore ha organizzato un dibattito con me e Marco Fortis della Fondazione Edison sull’economia italiana, e nella loro introduzione all’articolo in merito i giornalisti del quotidiano economico hanno scritto: «Le esportazioni, invece, viaggiano a ritmo sostenuto, seconde soltanto a quelle della Germania». Ciò nonostante il fatto che durante il dibattito io e Fortis ne abbiamo parlato e abbiamo convenuto che non era vero.

L’idea è bella, ma purtroppo le esportazioni annue dell’Italia la collocano non al secondo, bensì al quarto posto nell’Ue, con il sorpasso della Francia e dei Paesi Bassi. Se poi, come si dovrebbe fare se si misurano le entrate reali dalle esportazioni, si includono nel calcolo anche i servizi, l’Italia scende al quinto posto, battuta anche dal Regno Unito. Si potrebbe anche ammettere che nel caso dei Paesi Bassi alcune esportazioni sono in realtà re-esportazioni in quanto si tratta di prodotti trasportati su per il Reno e lavorati laggiù, ma anche con questa correzione l’Italia non riesce a riguadagnare il secondo posto.

Si potrebbe obiettare che sono soltanto dettagli statistici, che le esportazioni italiane restano forti e che i giornalisti del Sole si riferivano alla loro variazione di crescita piuttosto che al loro livello in termini assoluti. Questa affermazione è stata recentemente fatta nientemeno che da Antonio Vigni, presidente della terza banca italiana, Monte dei Paschi di Siena, in un’intervista («View from the Top», 15 aprile 2011) al Financial Times. In questo breve colloquio ha opportunamente ripetuto tre dei miei miti preferiti sull’economia italiana. Ha detto che la crisi economica ha «messo alla prova la forza del nostro sistema industriale», che stiamo assistendo a «un balzo del livello delle esportazioni e della ripresa», e che la situazione delle famiglie italiane è «positiva per l’economia» a causa del loro basso livello di indebitamento e alto tasso dei risparmi.

Non voglio prendermela con Vigni: ha solo ripetuto quello che dicono in tanti, anche se da un banchiere mi sarei aspettato che ogni tanto desse un’occhiata ai numeri. Per quanto riguarda la prima affermazione, che il sistema industriale italiano ha dimostrato la sua forza, basta andare a guardare l’ultimo Bollettino economico prodotto dalla Banca d’Italia, dove si dice che «la crescita del settore manifatturiero è stata meno robusta rispetto ai principali Paesi della zona dell’euro: rispetto al livello pre-crisi, nel febbraio 2011 la produzione industriale in Italia era scesa circa del 18%, contro il 9% in Francia e il 5% in Germania». Numeri che fanno apparire il «sistema industriale» italiano debole più che forte.

Ma tanto le esportazioni sono tornate a crescere, no? E’ vero che l’export di beni e servizi dall’Italia è aumentato nel 2010 dell’8,9%. Ma nello stesso periodo la Francia ha visto un aumento del 10,1%, il Belgio del 10,2% e la Germania del 14,1%. A essere onesti, Vigni ha dato questa risposta alla domanda se fosse possibile paragonare l’Italia al Portogallo, alla Grecia, all’Irlanda e alla Spagna, le economie della zona euro che non fanno dormire gli investitori. Diamo però un’occhiata ai tassi di crescita delle esportazioni portoghesi (8,7%) e spagnole (10,3%) del 2010, e la presunta potenza esportatrice dell’Italia non appare più così convincente. Senza poi menzionare il fatto che l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto un deficit commerciale, in quanto importa più di quanto esporta.

Allora Vigni ha ragione ad affermare che le famiglie italiane sono un fattore positivo, con i loro debiti bassi e i risparmi cospicui? E anche quando dice che il sistema bancario italiano è più stabile di quello di molti altri Paesi europei? Entrambe queste affermazioni così diffuse sono vere, ma non contano molto. Potevano suonare rassicuranti durante la tempesta finanziaria del 2008-9, quando l’alto indebitamento delle famiglie, il basso tasso di risparmio o banche propense ad avventure internazionali erano fattori di rischio, minacciando la riduzione dei consumi o il collasso del sistema bancario. Ma oggi, la tempesta è passata.

Le famiglie italiane possiedono un patrimonio di ricchezza impressionante. Ma le loro spese di consumo non sono molto positive per l’economia, per la semplice ragione che le entrate in termini reali (tenendo conto dell’inflazione) e dopo il pagamento delle tasse sono scese per tre anni consecutivi, dal 2008 al 2010. Il consumo delle famiglie si è ridotto meno delle entrate nel 2008-9 e si è rianimato nel 2010, in quanto la gente ha deciso di mettere da parte meno di prima. Di fatto, il famigerato tasso di risparmio delle famiglie italiane (un autentico fattore di forza nel passato) sta scendendo dal 2002, e nel 2010 è stato – secondo i dati dell’Istat – inferiore sia a quello della Germania che a quello della Francia. L’abitudine a spendere i risparmi può mantenersi, ma in questo caso in breve tempo l’Italia non vanterà più un alto tasso di risparmio. E’ quello che è accaduto in Giappone negli ultimi 20 anni.

La questione della forza e del peso dei risparmi delle famiglie ci fa capire perché le illusioni sull’economia italiana sono così diffuse e radicate. Esse sono un modo per non vedere le debolezze, in questo caso il fatto che i redditi delle famiglie stanno scendendo e sono deboli ormai da più di un decennio. Questo è stato vero perfino nei periodi di riduzione del tasso di disoccupazione, in quanto era dovuto essenzialmente alla creazione di milioni di impieghi precari e a bassa retribuzione. Ora che la disoccupazione è tornata a crescere, e per ora non accenna a diminuire, la politica e l’opinione pubblica dovrebbero concentrarsi proprio su questa incapacità di creare posti di lavoro che producano un aumento del reddito delle famiglie.

Lasciamo in pace il signor Vigni, l’ho torturato abbastanza. La mia prossima vittima sarà un rappresentante molto importante del Tesoro, di cui non posso fare il nome in quanto le parole che sto per citare sono state pronunciate «off the record» a un seminario per giornalisti britannici tenutosi a Venezia in gennaio. La sua dichiarazione comunque è apparsa in un articolo sull’economia italiana nella rivista di cui sono stato direttore, The Economist, e naturalmente ha attratto la mia attenzione. Questo signore ha detto ai giornalisti che l’economia italiana dovrebbe venire calcolata come divisa nel Nord, che cresce del 3% l’anno, e il Sud che scende del 2% annuo, risultando nell’apparentemente debole tasso annuale dell’1%.

Questa dichiarazione è assurda comunque la si guardi, ma soprattutto è pericolosa e fuorviante. E’ assurda in termini matematici: in quanto il Sud ha un Pil minore, ci vorrebbe molto più di una riduzione del 2% annuo per neutralizzare su scala nazionale l’effetto della crescita del 3% del Nord. Ma è assurda anche in termini fattuali: nell’ultimo decennio, il Pil del Sud è sceso solo due volte: di poco nel 2003, e poi nel biennio 2008-9, quando comunque si è ridotto meno di quello del Nord. In nessun anno dell’ultimo decennio il Centro-Nord è cresciuto più del 2%.

Tutto questo non è per negare che il Sud resta un problema. La sua crescita economica dovrebbe in effetti essere più rapida di quella del Nord, in quanto ha un minore costo del lavoro e parte da una posizione più bassa. Ma il punto è un altro: questo funzionario molto importante del Tesoro ha usato questo falso per dire che non era richiesto alcun intervento nel cuore dell’economia italiana, il cui tasso di crescita e la ricchezza sono già a livelli tedeschi. In realtà questo si può affermare soltanto per alcune zone dell’Italia settentrionale, escludendo non solo il Sud, ma anche il Centro e pure diverse regioni del Nord. Metterla in questi termini equivale a dire che l’America sta andando bene perché Silicon Valley ha ricchezza e successo, o che l’economia britannica è sana perché Londra è una città ricca.

E’ un modo di distrarsi, intento ad auto-ingannarsi. Perfino il settore manifatturiero non sta andando bene quanto i corrispettivi in altri Paesi europei, ma concentrarsi solo su questo significa perdere di vista il quadro generale: che non vengono creati posti di lavoro, che la produttività non sale, così come non aumentano il reddito e gli standard di vita. Questa debolezza è evidente sia nel settore dei servizi che in quello manifatturiero. Diverse società incontrano troppi ostacoli per crescere, burocrazia, legislazione sul lavoro, accordi sindacali, tasse, privilegi di varie categorie, monopoli, istruzione mediocre e tanti altri.

Questi fattori rendono statisticamente falsa anche la fondamentale asserzione sull’Italia, che la sua forza maggiore sono i suoi imprenditori: il tasso di nascita di nuove imprese in Italia negli anni precedenti alla crisi è stato inferiore sia a quello della Francia che a quello della Germania. Ma decidere di rimuovere questi ostacoli, rischiando di infastidire quelli che ne beneficiano, sarebbe difficile, forse anche doloroso. Dunque, meglio attaccarsi alle illusioni di forza ed elasticità come virtù nazionali. (Beh, buona giornata9.

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La lobby del nucleare (e Publitalia) vittime del conflitto di interessi.

A quelli del Forum nucleare deve essere preso un attacco di bile. Lo si capisce dalle dichiarazioni di Chicco Testa che, sorvolando sulle motivazioni politiche che hanno fatto dire stop al nucleare al neo ministro dello Sviluppo economico, si è limitato a osservare che così vince il petrolio e i suoi derivati.

Certo è che a quelli del nucleare gli devono girare forte. Come ha avuto modo di dire Massimo D’Alema ,con il suo consueto cinismo, il governo Berlusconi si rimangia, in un boccone solo, l’unica vera innovazione della sua travagliata legislatura: il ritorno al nucleare , con tanto di accordi firmati con i francesi, la gran cassa mediatica, il cavallo di battaglia dell’ex ministro Scajola, il quasi riuscito sfondamento a sinistra in fatto di energia atomica, con i possibilisti pronti all’avventura, per non dire dei neoconvertiti già partiti all’attacco, di cui Chicco Testa è stato alfiere.

Adesso che tutto è andato in vacca, ci si chiede ma chi è che ha portato sfiga? E’ stato il Forum che ha gettato sul piatto della comunicazione quattro o cinque milioni di euro per la famosa campagna degli scacchi? L’operazione di comunicazione sollevò un vespaio, beccandosi anche una censura dal parte degli organi di autodisciplina della pubblicità italiana. E’ come se quella campagna avesse evocato il disastro di Fukushima, come dire che il Forum se l’è tirata: si è fatto scacco matto da solo.

Oppure, chi ha portato sfiga è stato Scajola? Scajola è quello che faceva il ministro degli Interni quando si scatenò l’inferno a Genova per quel G8 che vide morire ammazzato Carlo Giuliani, che vide la “macelleria messicana” alla Diaz e alla Caserma Bolzaneto. Non pago, Scajola qualche settimana dopo in barca se se esce con i giornalisti che Marco Biagi, ammazzato della nuove Br a Bologna era (testuale) “un rompicoglioni”. Bufera e Scajola si dimette. Tornerà al governo con il nuovo governo Berlusconi, ma si deve dimettere dopo la scoperta della cricca dei costruttori, quelli che si sfregavano le mani non solo per il terremoto de L’Aquila, ma anche al pensiero delle tonnellate di cemento armato che servono per costruire le centrali nucleari. Ma per via dell’acquisto di quella famosa casa “che se scopro che qualcuno me l’ha pagata a mia insaputa…..”, ecco che è proprio Scajola che ha portato sfiga al nucleare, lui che gli tsumani politici se li crea e se li scatena addosso.

Oppure a portare sfiga al ritorno al nucleare è stato Marcello Andreani, amministratore delegato di Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset. Le reti del Biscione si leccavano i baffi, avevano già offerto spazi a tutte le aziende dell’energia, che, in occasione del Referendum, avrebbero potuto inondare le tv di spot a favore del nucleare. Forse l’eccessiva sicurezza di avere il portafoglio già pieno di inserzioni pubblicitarie ha giocato un brutto scherzo alle reti del Cavaliere: succede il disastro a Fukushima, tutti loro dicono che non bisogna farsi prendere dall’emotività, poi però ci sono le elezioni amministrative, si rischia di perderle. Le aziende dell’energia mangiano la foglia e cominciano a disinvestire. A Publitalia sfuma l’affare pubblicitario, che avrebbe potuto salvare un anno difficile anche per loro.

C’è da pensare che Andreani, se potesse, ammazzerebbe Berlusconi, ma ovviamente non può. Anche se è proprio Berlusconi l’unico vero colpevole della fine del sogno nucleare. Deve aver pensato, che sfiga: se quelli vanno a votare contro e vincono, il governo va in minoranza nel Paese e addio sogni di gloria dell’”eletto dal popolo”. Col pericolo che magari vince anche il referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e, sciagura delle sciagure, magari già che ci sono gli elettori mettono una bella croce sul Sì all’abrogazione della legge sul legittimo impedimento.

Insomma, ‘sta volta Berlusconi è stato vittima del suo stesso conflitto di interessi. E’ diventata una scoria radioattiva, che ha portato sfiga alla stessa lobby dell’atomo made in Italy. Beh, buona giornata.

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Lavoro

Lettera di una commessa contro l’apertura dei negozi il Primo Maggio.

(fonte: repubblica.it).

“Caro Alemanno ti scrivo.
Sì, ti scrivo per esprimere il punto di vista di un’addetta vendita (laureata, che parla 3 lingue), in merito alla decisione di tenere i negozi aperti domenica 1 Maggio, Festa dei Lavoratori. Forse tu non sai cosa voglia dire lavorare nel commercio. Provo a spiegartelo io.

Vuol dire dimenticarsi di cenare a un orario normale con la tua famiglia, perché se il negozio chiude alle 21.00 o alle 22.00 arrivi a casa in “seconda serata”.

Vuol dire non avere un weekend col proprio fidanzato, col proprio marito, coi propri figli perché il sabato e la domenica per te non esistono. In compenso hai il tuo giorno di riposo in mezzo alla settimana quando invece tuo marito lavora e i tuoi figli sono a scuola.

Vuol dire sorridere davanti ai telegiornali, quando senti che in parlamento si discute animatamente se tenere o meno gli uffici chiusi per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Sai già che tu non rientri in questo discorso. Sai già che se gli altri italiani festeggiano, tu, italiana come i parlamentari, lavorerai. Magari con una coccarda tricolore appesa alla divisa, ma lavorerai.

E questo discorso vale per molte altre festività civili o religiose che siano (1 novembre, l’8 dicembre, il 6 gennaio, il 25 aprile, il 2 e 29 giugno, il 15 agosto). Per te queste sono solo date. Quasi ti scordi che cosa simboleggiano. Per alcuni rientra in questo elenco anche il 26 dicembre e il lunedì dopo Pasqua.

Questo è il settore del commercio: dove la vendita è lo scopo, il cliente è la preda, il dipendente è lo strumento. E lo strumento deve essere sempre disponibile. Io l’ho accettato, consapevole di questi sacrifici, per necessità. Non ho mai detto nulla e mai mi sono lamentata. Fino ad oggi

Il 1 Maggio a Roma c’è la beatificazione di Papa Giovanni Paolo II. Evento eccezionale, certamente, ma che altrettanto certamente non deve intaccare la possibilità di festeggiare l’unica festa nazionale civile rimasta al lavoratore commesso: la festa del lavoro. E il mio non può considerarsi di certo uno di quei mestieri che non conoscono riposo in quanto fortemente necessari al cittadino come può essere il medico, l’infermiere, il poliziotto. Il mio è quello di commessa di abbigliamento. Un bene che non è certo di prima necessità. Io non offro servizio al cittadino. Io offro lo sfizio. E il 1 maggio un turista può rinunciare allo sfizio.

Liberalizzare il 1 maggio non significa “favorire quel lavoratore che vuole lavorare”, come ritiene il presidente della Confcommercio capitolina Cesare Pambianchi. Significa favorire il datore di lavoro che fa lavorare il dipendente. E se è vero che il dipendente può rifiutare la prestazione lavorativa richiesta dal datore di lavoro, è altrettanto vero che come effetto quest’ultimo ci metta un attimo a porre fine al tuo contratto quasi sempre malato di precarietà cronica.

Grazie a te, caro Alemanno, magari i turisti saranno più contenti ma metà dei tuoi cittadini, quegli anonimi invisibili commessi del centro storico, a cui voi politici chiedete ogni volta se per loro c’è qualche “convenzione” straordinaria per avere degli sconti… ecco, loro lo saranno un po’ meno.

Auguri e buone feste”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

La madre di Vittorio Arrigoni: “Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi.”

di Egidia Beretta Arrigoni-ilmanifesto.it

Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani? Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.

Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»

Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.

Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani. (Beh, buona giornata).

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Il 2011 peggio del 2010: pessimo inizio d’anno per la pubblicità italiana.

SECONDO NIELSEN MEDIA RESEARCH, IN ITALIA L’ ADVERTISING E’ IN CALO NEL PRIMO BIMESTRE 2011. NEGATIVI TV E STAMPA, POSITIVI, INTERNET, RADIO E DIRECT MAIL.

Il mercato

Inizio non particolarmente brillante per il mercato pubblicitario italiano che chiude il primo bimestre in negativo: a totale pubblicità il cumulato gennaio – febbraio 2011 mostra una variazione del -2,0% rispetto allo stesso periodo 2010.

I risultati di televisione e stampa, rispettivamente – 0,5% e -7,4% (considerando pubblicità nazionale, locale e altre tipologie rilevate), influenzano la variazione totale del bimestre,
buone notizie arrivano dagli altri principali mezzi in particolare internet (+15,5%), radio (+1,0%) e direct mail (+2,1%).

Per i primi due mesi dell’anno buoni risultati nei settori automobili e distribuzione. Il primo dopo la crescita moderata del 2010 registra un +9,9%, il secondo nonostante una variazione più bassa rispetto al 2010 cresce del +7,6%. Arrancano altri importanti settori quali alimentari e telecomunicazioni.

I mezzi

La televisione mostra un rallentamento nei primi due mesi dell’anno, dovuto soprattutto
alla diminuzione dei livelli di investimento di importanti aziende inserzioniste dei settori
alimentari (-7,3%), telecomunicazioni (-8,5%) e farmaceutici/sanitari (-4,3%).
La stampa in generale raggiunge un -7,4%, con una periodica particolarmente colpita dalla
riduzione degli investimenti di settori strategici quali abbigliamento (-4,1%) e abitazione (-
14,8%) che hanno influito sull’andamento del mezzo portandolo al -4,3% rispetto all’anno
precedente.
Variazione positiva invece per la radio, che sostenuta dal suo settore core, quello
automobilistico (+10,9%), ottiene una variazione del +1,0% rispetto al primo bimestre
2010, ma rimane sempre internet, il mezzo più dinamico e in evoluzione, con un +15,5%
di variazione data soprattutto dall’aumento di investimenti nei settori automobilistico

(+13,5%), media/editoria (+15,6%), distribuzione (+211,8%) e tempo libero.
Calano gli investimenti per cinema (-15,3%) e affissioni (-24,1%), mentre buoni risultati
ottengono out of home tv (+4,0%) e cards (+1,0%), nonostante rimangano ancora
marginali nel mercato pubblicitario italiano.

I settori

Nel 2011 il mercato pubblicitario parte sottotono anche guardando ai singoli settori
merceologici con poco più della metà dei settori analizzati con variazioni negative. Tra i
primi cinque settori top spender spicca però il risultato positivo del settore automobilistico
(+9,9%) che tenta di riprendersi dalle ancora cattive performance di vendita con un buon
livello d’investimento pubblicitario.
Negativi i risultati invece per gli alimentari (-6,6%) cosi come per gli altri componenti del
largo consumo (toiletries -2,9% e gestione casa -7,1%) ad eccezione di bevande/alcoolici
che ottengono un buon +13,0%.
Tra i primi spender risultati poco brillanti anche per le telecomunicazioni, che già nel 2010
avevano avuto difficoltà di ripresa, e media/editoria. Beh, buona giornata.

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Attualità Cinema Società e costume

Habemus Papam di Moretti ovvero la messa in scena di una crisi altrettanto reale e minacciosa.

In sala con il filosofo: Paolo Virno commenta Moretti. “Habemus Papam”: rito e abisso dell’apocalisse culturale. Da “Palombella rossa” alla “palla prigioniera” dei porporati
di RICCARDO TAVANI -3Dnews/Terra

Paolo Virno si lascia trascinare volentieri alla proiezione per la stampa dell’ultimo film di Nanni Moretti. Virno insegna filosofia del linguaggio a Roma ed è uno dei nostri pensatori più stimati e citati, soprattutto all’estero. Una stima che si è conquistato con anni di studi e pubblicazioni di importanza decisiva e crescente.

A fine proiezione, Virno deve subito tornare ai suoi impegni universitari e appena fuori la sala comincia già a svolgere il rullo delle impressioni che ha ricavato da “Habemus Papam”. A non essere scambiato per uno che cela il proprio giudizio dietro pomposi riferimenti speculativi, afferma subito che gli è sembrato un film riuscito.

Dice che ha pensato a Ernesto De Martino, alla sua definizione di “apocalisse culturale”, che è una sorta di messa in scena, o forse di “messa in abisso” degli elementi reali di una crisi altrettanto reale e minacciosa. L’apocalisse culturale è quella rappresentazione nelle forme profonde di un rito collettivo che serve a impedire l’avvento di una apocalisse vera e incombente. È ciò che De Martino ha osservato nei suoi cruciali studi antropologici: quando un aggregato umano sente che una crisi sta mettendo in discussione le premesse e le condizioni stesse alla base dell’esperienza umana, ricorre al rito. Rappresenta tutte le tappe che hanno condotto alla catastrofe e cerca di invertirne il segno, di trovare un contravveleno.

“Habemus Papam”, rappresentando un particolare e originale stato di crisi, in quanto film, prodotto cinematografico si carica esso stesso del ruolo di apocalisse culturale tesa a scongiurarne una reale. Nel conclave per eleggere il Papa, ogni cardinale implora Dio per non essere eletto proprio lui; così la scelta cade su uno dei meno favoriti. Ma questi, di fronte all’enormità del compito che lo aspetta rimane paralizzato, incapace di proferire una sola parola alla folla che lo attende sotto la famosa finestra e, anzi, fugge, senza farsi neanche vedere.

La psicanalisi, dice Virno, cui si tenta di far ricorso per risolvere la crisi del Papa si dimostra del tutto impotente, anzi, grottesca perché non di una crisi individuale si tratta ma di quella di un intero organismo collettivo. Il Papa non soffre di alcuna crisi riguardante la propria fede, non ha alcun trauma infantile del tipo “deficit da accudimento” da parte della madre. Sente solo la sproporzione tra sé e la necessità di una rottura di continuità storica che la chiesa dovrebbe segnare ma che è incapace di determinare.

Anche i prodromi di un’analisi collettiva all’intero corpo cardinalizio, però, si dimostrano grottescamente infecondi, perché né i porporati e tanto meno l’analista conoscono la regola dello “spariglio”, della rottura di continuità, sia a carte che nella vita reale. Così la “palombella rossa” della crisi della vecchia chiesa comunista, dice Virno, diventa qui la palla a volo tormentata dei cardinali, i quali, però, sono rimasti alla “palla prigioniera” del secolo e del millennio scorso.

Il Papa prigioniero di un ruolo mummificato e sprofondante sotto il proprio sovraccarico è egli stesso elemento fondamentale della crisi, della catastrofe incombente. Per questo fugge davanti al compito assegnatogli, evade dalle mura vaticane, tenta un esodo paradossale sulle strade, sui tram, nei supermercati, nelle cornetterie notturne, negli hotel di terz’ordine, come nelle piccole chiese della città. Fino a imbattersi nella passione vera della sua vita: il teatro.

Si mette a seguire una compagnia che sta rappresentando “Il gabbiano” di Checov. La vera rappresentazione, però, a cui assiste è quella della crudele follia di un suo “doppio”, ovvero di quella degenerazione patologica costituita dall’incapacità di sottrarsi alla coazione a ripetere un ruolo svuotato di senso. Quando i porporati, nota Virno, fanno irruzione nel teatro con tutto il loro austero e cupo apparato scenico abbiamo come un raddoppiamento del tema della rappresentazione apocalittica: il delirio autentico che colpisce l’attore principale è esattamente l’orlo dell’abisso reale su cui stiamo pericolosamente oscillando.

Il disordine, l’incertezza, il caos magmatico che ci minacciano non possono essere assolutamente limitate alla vicenda della chiesa, anche se Virno comprende le necessità di un’efficacia narrativa del film circoscritta a questo particolare ambiente. La chiesa, il Papa hanno sì rappresentato nel passato quello che San Paolo chiamava il katechòn, ovvero la forza che abbraccia il male, il disordine, la confusione per impedire loro di dilagare completamente.

Oggi, però, è l’intero ordine economico, politico, istituzionale mondiale a rappresentare su vasta scala la pericolosa “crisi di presenza” di cui parlava De Martino. La fuga, la sottrazione, l’esodo dai ruoli sociali prefissati e ormai insensati, soffocanti diventano esse stesse forme attuali del katechòn. Non riguardano, però, solo un Papa, immaginario o reale che sia, ma tutti noi.

Ma intanto, il papa immaginato e messo in scena dal film di Moretti mantiene aperta l’apocalisse culturale nell’unico modo tormentosamente eppure coraggiosamente conseguente a impedire l’inabissamento in quella reale.
(Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La dittatura mediatica.

Avete presente quando le orche marine fanno le loro evoluzioni e poi sbattono, gettandosi di peso, fragorosamente sulle onde del mare producendo copiosi schizzi d’acqua? Esattamente come quando l’altra sera Giuliano Ferrara dai microfoni di Radio Londra, luogo televisivo che continua a occupare, nonostante gli ascolti lo puniscano, come continuano a punire il Tg di Minzolini, esattamente come Giuliano Ferrara, quando si è buttato a pesce sulle tesi sostenute su Il Manifesto da Alberto Asor Rosa.

Asor Rosa dice cose giuste: la nostra democrazia è al collasso, il berlusconismo che si compra tutto, si è comprato anche la democrazia parlamentare, la situazione di impotenza istituzionale è paragonabile alla presa del potere di Mussolini e di Hitler. I quali non andarono al potere con un golpe, ma sfruttando la totale debolezza politica delle istituzioni del tempo, si fecero incaricare, sfruttando le pieghe delle regole istituzionali.

E qui la similitudine tra la debolezza dell’attuale opposizione con l’inconsistenza delle opposizioni sia nell’Italia del ’24 che nella Germania del ’33 è, ahinoi, lampante.

Asor Rosa suggestiona l’idea che lo Stato scateni le forze dell’ordine contro il berlusconismo. Idea balzana, ma che la dice lunga sulla totale sfiducia nella possibilità di un cambiamento. Asor Rosa dice che non è prevedibile un cambiamento promosso dal “basso”, vale a dire promosso dai cittadini, le associazioni, dalla base popolare dei partiti, dalle forze del lavoro, dello studio, della cultura.

Forse, piuttosto che attardarsi sulle ipotesi di “golpe istituzionale”, bisognerebbe capire perché l’indignazione per le porcherie del governo Berlusconi non riesce a diventare forza di trasformazione, che metta in moto un processo di superamento di questi partiti, di queste forze politiche, per arrivare a prefigurare una vera alternativa alla crisi della democrazia italiana.

Una delle ragioni è sicuramente la dittatura mediatica, esercitata contro la democrazia del nostro Paese. Una dittatura feroce, capillare, letale per le coscienze. Quella dittatura che si esplicita all’insegna del semplice “se vuole fare carriera, sposi un uomo ricco”, oppure se da precario cerchi lavoro, cerca di fare il provino per “Non è mai troppo tardi”, talent show prossimamente condotto da Signorini, uno dei lacché del signor B. La vicenda delle sconsiderate nottate del capo del Governo ci ha spiegato con dovizia di particolari che il bunga-bunga è un modo per far carriera nel mondo dello spettacolo e che anche la politica, in Italia, fa parte del mondo dello spettacolo. D’altro canto, “I responsabili”, il gruppo parlamentare di Mimmo “monnizza” Scilipoti non sembra forse il titolo di un programma tv?

Il fatto è che questa dittatura mediatica si esercita soprattutto quando si distrae il pubblico dalla politica vera, dal reale disagio sociale, dalle proteste di massa che hanno invaso le piazze del Paese. Secondo l’Osservatorio di Pavia, le reti televisive italiane hanno dedicato nel 2010 alle vicende di nera e processuali nei rispettivi telegiornali: 867 servizi all’omicidio di Avetrana, 204 al caso Claps; 98 al delitto di Perugia, 55 al delitto di Garlasco. Senza contare i talk show, con tanto di criminologi, plastici, e ospiti tuttologi a comando. Il collasso di cui parla Asor Rosa non è solo istituzionale, è sistemico.

Il conflitto di interessi è stato superato brillantemente dai fatti: oggi in Italia la politica è solo una questione di interessi personali, la tv è ormai solo una commodity di quegli interessi. Beh, buona giornata.

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“C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà.”

Il grande imbroglione,di GIUSEPPE D’AVANZO-La Repubblica.

BERLUSCONI mente con costante insolenza. È una consuetudine che da sempre sollecita molte attenzioni per afferrarne le ragioni, per così dire, costitutive. Per dirne una. C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà. Lungo questa via è suggestiva l’interpretazione di chi avvista Berlusconi afflitto da “pseudologia phantastica”.

«Una forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede – scrive Carl G. Jung – che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi». Sono accostamenti utili e intriganti, ma rischiano di annebbiare quel che è semplice e chiaro da tempo: se l’imbroglione è, come si legge nei dizionari, «una persona che ricorre al raggiro come espediente abituale», Berlusconi è innanzitutto un imbroglione.

È un imbroglio, un abituale inganno l’ultimo flusso verbale del capo del governo – che come sempre parla soltanto di se stesso, soltanto del suo prezioso portafoglio, soltanto dei complotti che gli impedirebbero di governare e arricchirsi. Berlusconi manipola fatti, eventi e contingenze della sua storia di imprenditore e di politico per mostrarsi vittima di un’aggressione, nell’una come nell’altra avventura. Deve farlo, il Cavaliere, poverino.
Non solo per una fantasia di potenza adolescenziale (anche per quello), ma (soprattutto) per la consapevole accortezza di dover nascondere il catastrofico fallimento della sua leadership e i sistemi che ne hanno fatto un uomo di successo.

Dice il Cavaliere: «Mi trattano come se fossi Al Capone». Il fatto è che Berlusconi, con Al Capone, condivide il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l’avidità, una capacità di immaginazione delirante. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta – ne è il simbolo – l’Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. Berlusconi è tutt’uno con quella storia e senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato un “delinquente abituale”.

Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. La fortuna del premier è il risultato di evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il dominio nell’informazione e il controllo pieno dei “dispositivi della risonanza”, sarebbe chiaro a tutti come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell’illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

Deve farlo dimenticare e deve mentire per tenere in vita la mitologia dell’homo faber e il teorema vittimistico. È quel che fa per nascondere il passato e salvare il suo futuro. Confondendo come sempre privato e pubblico, Berlusconi ora denuncia anche un assalto al suo patrimonio, la sola cosa che ha davvero a cuore. Si lamenta: «Contro di me tentano anche un attacco patrimoniale: a Milano c’è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti, per un lodo a cui la Mondadori fu costretta. È una rapina a mano armata».

Si sa come sono andate le cose. La Cassazione dice colpevoli il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora (assistono la Fininvest nella guerra di Segrate): hanno barattato la sentenza del 1991 sul cosiddetto “Lodo Mondadori” che, a vantaggio di Berlusconi, ha sottratto illegalmente la proprietà della casa editrice a De Benedetti (editore di questo giornale). Sono i soldi della Fininvest che corrompono il giudice, ma Silvio Berlusconi si salva per una miracolosa prescrizione.

Per il suo alto incarico (nel 2001 è capo del governo) gli vanno riconosciute – sostengono i giudici – le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio per le sue pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini che, nel suo interesse, truccarono il gioco. «Corresponsabile della vicenda corruttiva», il Cavaliere con Fininvest deve ora risarcire – come ha deciso la Cassazione – i danni morali e patrimoniali quantificati in primo grado in 750 milioni di euro. Troppo o troppo poco, lo dirà il giudice dell’appello che deciderà degli interessi di due privati e non, come vuole far credere l’Imbroglione, di due fazioni politiche.

È altro quel che qui conta ripetere, una volta di più semmai ce ne fosse bisogno. Come dimostra il tentativo di gettare nel calderone delle polemiche anche un suo affare privato, dietro la guerra scatenata dal capo del governo contro la magistratura ci sono soltanto gli interessi personali del premier. Null’altro. Riforma costituzionale, riforma della giustizia, asservimento del pubblico ministero al potere politico, che oggi paralizzano la vita pubblica del Paese, sono soltanto gli espedienti ricattatori di Berlusconi per ottenere un salvacondotto che lo liberi dal suo passato illegale, da una storia fabbricata, oggi come ieri, con l’imbroglio. (Beh, buona giornata).

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“Egli può agitare pubblicamente contro l’accertamento dei fatti una politica corrotta, Camere diventate bottega sua, parlamentari diventati servitù.”

Abuso di Parlamento, di GIUSEPPE D’AVANZO-la Repubblica

IL PARLAMENTO, senza arrossire di vergogna per il degradante disonore che gli viene inflitto, sostiene che Berlusconi davvero crede che Karima El Mahroug (“Ruby”) sia la nipotina minorenne del rais egiziano Hosni Mubarak. Così, nella notte tra il 27 e 28 maggio 2010, il buon uomo si muove per evitare al Paese un conflitto internazionale nella sua funzione di premier, primo responsabile della politica estera della Repubblica. È la grottesca frottola che nemmeno un sempliciotto butterebbe giù senza riderne.

Nominati o comprati, i rappresentanti del popolo devono bere l’intruglio per sostenere che il Cavaliere quella notte e nelle conversazioni con il funzionario della questura (il capo del governo chiede l’immediata liberazione della sua giovanissima concubina, accusata di furto) esercita addirittura l’autorità ministeriale. Quindi, se reato c’è stato, è ministeriale e di competenza del Tribunale dei Ministri, conclude l’aula di Montecitorio. Accettato di trangugiare senza turbamento la favoletta buffonesca di un premier sprovveduto e credulone – insomma, uno sciocco di 75 anni che crede alla prima balla che gli racconta una ragazzina di diciassette – il Parlamento deve muovere un passo abusivo: sostenere che è potere esclusivo delle Camere decidere se un reato sia ministeriale o meno. In questo caso lo è – sragiona Montecitorio – e solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale cui la Camera chiede di sottrarre al tribunale di Milano il processo per concussione e sfruttamento
della prostituzione contro il Cavaliere.

I giuristi ridono degli sgorbi che vedono raccolti nella decisione di un Parlamento ubbidiente alla volontà e agli interessi del presidente del Consiglio. Lo ha già scritto qui Franco Cordero: “Finché esiste l’attuale Carta, la giurisdizione non ammette interventi esterni”. Naturalmente è legittimo porre la questione della competenza del giudice, ma non spetta a un corpo politico sbrogliare la matassa, ma ai giudici e nel processo. Come ha deciso anche recentemente la Cassazione (3 marzo), “rientra nelle attribuzioni dell’autorità giudiziaria verificare i presupposti della propria competenza” e sarà il giudice ordinario a decidere se un reato ha natura ministeriale.

Questi pochi segni liquidano la questione giuridica (la Camera rivendica un potere che non ha) e rivelano la qualità politica della questione o, detto in altro modo, le potenzialità eversive di questa stagione italiana. Berlusconi non può affrontare il processo, non può argomentare e soprattutto provare l'”eleganza” dei convegni di Arcore, la correttezza dei suoi comportamenti, l’invulnerabilità o la non ricattabilità della sua persona. Davvero qualcuno ha creduto che l’uomo che ci governa avrebbe accettato di farsi processare? Come ci è già apparso chiaro a gennaio, Berlusconi deve rinserrarsi nel ridotto di Montecitorio e, protetto dalla sua maggioranza, rifiutare il processo, ricattare le più alte istituzioni dello Stato, scatenare la politica contro la magistratura, gridare al coup d’Etat – addirittura ieri al “brigatismo” delle toghe – perché ogni controllo che lo sfiora è già un colpo di Stato giudiziario che impone, dice, la punizione dei giudici, il castigo per magistratura, la sacralizzazione della sua persona con un’impunità definitiva (sono l’eletto del popolo). Anche a costo di demolire le istituzioni e trascinare il Paese in un conflitto senza vie di uscita, Berlusconi pretende di essere legibus solutus. Il Cavaliere è già al lavoro. Fin d’ora avvelena i pozzi dell’opinione pubblica con cadenza quotidiana e, come sempre, rifiuta ogni domanda e ogni contraddittorio, senza coraggio. Organizza piazze. Ordina figuranti. Sistema il suo esercito mediatico per la manipolazione che, cancellati i fatti e soprattutto la violenza su una minore, dovrà trasformare il “caso Ruby” in uno spettacolino plausibile come il Grande Fratello e il responsabile delle torsioni di un corretto gioco democratico nella vittima di un complotto politico.

È il pericoloso incrocio in cui ci ha portato un premier incapace di controllare la sua vita, determinatissimo a non accettare alcuna responsabilità e giudizio. Ma se ieri, per evitare ogni responsabilità e giudizio, il presidente del Consiglio comprava i giudici (Mondadori) e corrompeva i testimoni (All Iberian), oggi queste manovre non sono più necessarie per allontanarsi dall’incomodo giudiziario. Non ha più bisogno giocare con baratti sotto il banco perché, per cancellare oneri e obblighi, egli può agitare pubblicamente contro l’accertamento dei fatti una politica corrotta, Camere diventate bottega sua, parlamentari diventati servitù. È la partita finale che stringe in un solo nodo tutte le questioni che ha posto al Paese il potere di Silvio Berlusconi. È la stagione che ci dirà se nel nostro futuro ci sarà ancora uno Stato con una pluralità di poteri divisi o ai quattro poteri accumulati oggi dal Cavaliere (esecutivo, legislativo, economico, mediatico) si aggiungerà presto il dominio incontrollato del quinto (giudiziario). (Beh, buona giornata).

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L’appello alla mobilitazione apparso sul sito di Libertà e Giustizia, firmato dal presidente onorario dell’associazione, Gustavo Zagrebelsky.

L’ora della mobilitazione di GUSTAVO ZAGREBELSKY

Navi affollate di esseri umani alla deriva, immense tendopoli circondate da filo spinato, come moderni campi di concentramento. Ogni avanzo di dignità perduta, i popoli che ci guardano allibiti, mentre discettiamo se siano clandestini, profughi o migranti, se la colpa sia della Tunisia, della Francia, dell’Europa o delle Regioni. L’assenza di pietà per esseri umani privi di tutto, corpi nelle mani di chi non li riconosce come propri simili. L’assuefazione all’orrore dei tanti morti annegati e dei bambini abbandonati a se stessi. Si può essere razzisti passivi, per indifferenza e omissione di soccorso. La parte civile del nostro Paese si aspetta – prima di distinguere tra i profughi chi ha diritto al soggiorno e chi no – un grande moto di solidarietà che accomuni le istituzioni pubbliche e il volontariato privato, laico e cattolico, fino alle famiglie disposte ad accogliere per il tempo necessario chi ha bisogno di aiuto. Avremmo bisogno di un governo degno d’essere ascoltato e creduto, immune dalle speculazioni politiche e dal vizio d’accarezzare le pulsioni più egoiste del proprio elettorato e capace d’organizzare una mobilitazione umanitaria.

“Rappresentanti del popolo” che sostengono un governo che sembra avere, come ragione sociale, la salvaguardia a ogni costo degli interessi d’uno solo, dalla cui sorte dipende la loro fortuna, ma non certo la sorte del Paese. Un Parlamento dove è stata portata gente per la quale la gazzarra, l’insulto e lo spregio della dignità delle istituzioni sono moneta corrente. La democrazia muore anche di queste cose. Dall’estero ci guardano allibiti, ricordando scene analoghe di degrado istituzionale già viste che sono state il prodromo di drammatiche crisi costituzionali.

Una campagna governativa contro la magistratura, oggetto di continua e prolungata diffamazione, condotta con l’evidente e talora impudentemente dichiarato intento di impedire lo svolgimento di determinati processi e di garantire l’impunità di chi vi è imputato. Una maggioranza di parlamentari che non sembrano incontrare limiti di decenza nel sostenere questa campagna, disposti a strumentalizzare perfino la funzione legislativa, a rinunciare alla propria dignità fingendo di credere l’incredibile e disposta ad andare fino in fondo. In fondo, c’è la corruzione della legge e il dissolvimento del vincolo politico di cui la legge è garanzia. Dobbiamo avere chiaro che in gioco non c’è la sorte processuale di una persona che, di per sé, importerebbe poco. C’è l’affermazione che, se se ne hanno i mezzi economici, mediatici e politici, si può fare quello che si vuole, in barba alla legge che vale invece per tutti coloro che di quei mezzi non dispongono.

Siamo in un gorgo. La sceneggiatura mediatica d’una Italia dei nostri sogni non regge più. La politica della simulazione e della dissimulazione nulla può di fronte alla dura realtà dei fatti. Può illudersi di andare avanti per un po’, ma il rifiuto della verità prima o poi si conclude nel dramma. Il dramma sta iniziando a rappresentarsi sulla scena delle nostre istituzioni. Siamo sul crinale tra il clownistico e il tragico. La comunità internazionale guarda a noi. Ma, prima di tutto, siamo noi a dover guardare a noi stessi.

Il Presidente della Repubblica in questi giorni e in queste ore sta operando per richiamare il Paese intero, i suoi rappresentanti e i suoi governanti alle nostre e alle loro responsabilità. Già ha dichiarato senza mezzi termini che quello che è stato fatto apparire come lo scontro senza uscita tra i diritti (legittimi) della politica e il potere (abusivo) magistratura si può e si deve evitare in un solo modo: onorando la legalità, che è il cemento della vita civile. Per questo nel nostro Paese esiste un “giusto processo” che rispetta gli standard della civiltà del diritto e che garantisce il rispetto della verità dei fatti.

Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado. Non è vero che se non si abbocca agli ami che vengono proposti si fa la parte di chi sa dire sempre e solo no. In certi casi – questo è un caso – il no è un sì a un Paese più umano, dignitoso e civile dove la uguaglianza e la legge regnino allo stesso modo per tutti: un ottimo programma o, almeno, un ottimo inizio per un programma di governo. Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale. Lo è la demagogia. La democrazia richiede però cittadini partecipi, attenti, responsabili, capaci di mobilitarsi nel momento giusto – questo è il momento giusto – e nelle giuste forme per ridistribuire a istituzioni infiacchite su se stesse le energie di cui hanno bisogno.

Libertà e Giustizia è impegnata a sostenere con le iniziative che prenderà nei prossimi giorni le azioni di chi opera per questo scopo, a iniziare dal Presidente della Repubblica fino al comune cittadino che avverte l’urgenza del momento. (Beh, buona giornata).

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Il burlesquoni show a Patacca Italia.

La performance di Berlusconi a Lampedusa segna una tappa nuova nella vita politica italiana. Lampedusa come l’Isola dei Famosi è stato il set televisivo dello show del capo del Governo: un programma di tipo nuovo, un cocktail preparato con un terzo di reality, un terzo di infomercial, un terzo di videomessaggio in salsa web.

Il programma-pilota era andato in onda su tutti gli schermi qualche giorno prima a Milano, durante lo show del processo, che non c’era, perché era solo un’udienza preliminare, però c’era il pubblico, il predellino, e il “cuscino” antiproiettile sulla schiena del nostro eroe. Ora bisognerebbe chiedere aiuto a eminenti critici televisivi per dare un nome a questo nuova forma di intrattenimento: nel frattempo, la chiameremo provvisoriamente “burlesqu-oni show”.

Bisogna dire che il ”burlesquoni show” ha fatto subito scuola. E così succede che il ministro della Difesa, attorniato da poliziotti si mette a provocare i manifestanti davanti a Montecitorio come fosse ancora ai tempi del Fronte della gioventù nella Milano degli anni Settanta. Poi entra in Aula e dà in escandescenze. Richiamato dal presidente, che una volta era anche il “suo” presidente, il fascistello attempato non trova di meglio che mandare affanculo la terza carica dello Stato.

Il giorno dopo, tocca al ministro della Giustizia che arriva trafelato sui banchi del governo per votare, e mentre il presidente della Camera chiude le votazioni, il ministro perde la testa e getta il tesserino parlamentare verso i banchi dell’opposizione. Un comportamento degno di Cassano o Balotelli verso l’arbitro.

Comunque sia, la vera forza del “burlesquoni show” sta nel fatto che è una forma estrema di intrattenimento, che supera anche i vasti confini della tv. Il “burlesquoni show” è multimediale, multicanale. Pensate all’on. Nicole Minetti, parlamentare della Regione Lombardia. Ha detto a Vanity Fair e poi a Repubblica che lei sta mica tanto a preoccuparsi per quella storia del bunga bunga, ma che scherziamo, lei aspira a ben altri traguardi, che vi credete che un giorno non riesca a diventare ministro degli Esteri? La notizia non ha solo fatto il giro del mondo dei media italiani, ma è come se la cosa si fosse davvero materializzata: che differenza farebbe una Minetti al posto di un Frattini? Vista il peso relativo che ormai la nostra diplomazia ha in Europa, non si capisce perché la sorte non dovrebbe accontentare i sogni della più famosa igienista dentale italiana.

Insomma, il “burlesquoni show” ha una forza comunicazionale inedita: niente a che vedere con i reality. Per tenerli in piedi, quelli bisogna pomparli: mandare la Ventura in Honduras e poi magari anche un citrullo di ex Casa Savoia. Niente a che vedere con roba decotta come Forum, dove una finta terremotata viene smascherata in quattro e quattr’otto.

Il “burlesquoni show” è genuino, perché i personaggi non fingono, sono proprio così: Berlusconi che compra casa a Lampedusa, vuole un campo da golf e un casinò è lui, lui in persona. Lo si capisce quando promette che Lampedusa sarà un paradiso fiscale. La Russa è lui, proprio lui, quando scatena una gazzarra fascista in Aula, è se stesso. Il ministro Alfano è lui, proprio lui, quando, nel tentativo di confutare i dati diffusi dall’associazione dei magistrati, secondo i quali col processo breve salterebbero il cinquanta per cento dei processi per gravi reati, il ministro sostiene invece che la norma che salverebbe Berlusconi dal processo Mills potrebbe riguardare solo l’uno per cento dei processi in Italia. Dal che si evince, per ingenua confessione che il provvedimento non è affatto strategico per la giustizia in Italia, lo è solo per il capo del Governo. Anche la Minetti è lei, proprio lei, quando alza la posta in gioco della sua carriere politica, in vista della testimonianza al processo Rubygate.

Eccola, allora la forza del “berlusquoni show”: fa rabbia, fa ridere, fa un po’ schifo, fa anche molta pena. Ma una cosa è drammaticamente certa: è tutto vero. È l’ultimo regalo della vulcanica inventiva del Berlusca ( ovvero, Burlesca): il “burlesquoni show” è sinonimo, all’interno e all’esterno del Paese di un’Italia molto speciale.

Ci rende famosi nel mondo, siamo ormai a pieno titolo nell’epoca di Patacca Italia. Beh, buona giornata.

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L’incerta primavera della pubblicità italiana.

Secondo l’Istat, la benzina aumenta del 3,4% su mese e del 12,7% su anno, il gasolio del 4,3% e del 18,5%, il gpl +0,1% e +20,7%, il gasolio da riscaldamento +4,3% e +19,1%. Nel settore regolamentato, i prezzi salgono dello 0,2% su mese e del 3,4% su anno, a causa del rialzo del costo del gas (+0,3% su febbraio e +8,5% tendenziale).

Ed ecco riapparire l’inflazione: a febbraio il costo della vita aveva registrato un incremento dello 0,3% rispetto a gennaio e del 2,4% su base annua. Ed ecco un’accelerazione a marzo: i prezzi sono saliti dello 0,4% mensile per un incremento tendenziale del 2,5%, massimo da novembre 2008.

Com’è facile prevedere, questa situazione non favorisce i consumi, dunque fa male alla pubblicità. Non solo. Fa male alla pubblicità anche il fatto che l’aumento dei prezzi all’ingrosso dei prodotti derivati dal petrolio, utili al confezionamento di beni di largo consumo sta determinando una situazione critica: per non aumentare i prezzi al dettaglio si tagliano i budget pubblicitari, in modo da riequilibrare i relativi business plan.

Gli effetti di questa politica commerciale, che potremmo definire di resistenza alla crisi petrolifera da parte delle aziende italiane comincia a farsi sentire a partire da i centri media e non tarderà ad attraversare tutta la filiera.

Ma non sono solo le turbolenze geopolitiche del nord Africa, con le conseguente corsa al rialzo dei prezzo del petrolio, a turbare i sonni già da tempo molto agitati della pubblicità italiana. Il terremoto e lo tsunami che hanno sconvolto il Giappone stanno diventando un incubo per le concessionarie di pubblicità, soprattutto delle tv commerciali italiane.

La catastrofe nucleare di Fukushima ha provocato un’ondata di generale disapprovazione nei confronti delle politiche nucleariste. La cosa ha provocato una vera e propria catastrofe nella raccolta pubblicitaria.

Se in previsione del referendum erano stati prenotati spazi, soprattutto televisivi, da parte delle aziende del settore energia per sostenere il No al referendum, l’effetto Fukushima ha azzerato tutto: ha costretto il governo a ipotizzare una moratoria di un anno sulla legge che prevedeva il ritorno al nucleare.

E così le aziende del comparto energia hanno disinvestito, annullato le prenotazioni, gettando nel panico le concessionarie. Così è in questa incerta primavera. Beh, buona giornata.

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