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La storia si ripete, si ripete, si ripete.

Nessuna grande potenza si muove secondo parametri, o presupposti, ideologici ma, unicamente, di ‘realismo politico’: ovviamente ammantato di obiettivi nobili e idealità ‘alte’.

Tutti ingredienti indispensabili, anzi vitali, per la propaganda.

Della quale non è il caso di rimarcare qui l’importanza cruciale.

La pervasiva ‘macchina’ del Dott. Goebbels nella prima metà del Novecento e la retorica bolsa del ‘mondo libero’ nella seconda metà resero appetibile qualunque intruglio, anche il più rancido.

La parola d’ordine con cui Sparta nel 431 optò per la guerra e invase l’Attica era, ben si sa, portare ‘la libertà’ ai Greci. (Luciano Canfora, “La grande guerra del Peloponneso”, Laterza.)

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Dedicato al governo italiano, sostenuto da un maggioranza che dice di credere nei valori del cristianesimo, ma poi fa finta di non sapere che dare armi significa fomentare le guerre.

CELESTINO V Il mio primo dovere, come papa, è di salvaguardare un’altra continuità, quella della fede cristiana. Se ora acconsentissi ad alcune esigenze del re, la tradirei.

L’AIUTANTE Vi riferite all’invito di benedire le truppe in partenza per la Sicilia?

CELESTINO V Avete indovinato.

L’AIUTANTE Voi sapete che è una spedizione legittima. Persistete nel vostro rifiuto?

CELESTINO V A qualunque costo. Ve lo ripeto una volta per sempre: non posso benedire alcuna impresa di guerra. Sapete a che cosa si riduce l’insegnamento morale di Cristo? Dovreste saperlo, poiché anche voi vi dichiarate cristiano; ma ve lo ricordo per il caso l’abbiate dimenticato. Si riduce a due parole: vogliatevi bene. Vogliate bene al prossimo, e anche ai nemici. Noi uomini siamo tutti figli dello stesso Padre.

L’AIUTANTE Santità, nessuno intende censurare i vostri pensieri e sentimenti nell’atto della benedizione. Ma per il re, come per l’esercito, è importante ch’essa abbia luogo. Essa sarà significativa anche per gli altri regnanti d’Europa.

CELESTINO V Cercate di capirmi, vi prego. Perfino se in un momento di debolezza io consentissi a impartire la benedizione che mi chiedete, mi sarebbe poi fisicamente impossibile eseguirla. Perché? Figlio mio, non dovrebbe essere difficile immaginarlo. Il segno della benedizione cristiana è quello della Croce.

Voi sapete, vero, che cos’è la Croce? E le parole della benedizione sono: in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Se ho ben inteso, voi mi avete suggerito di dare la benedizione ai soldati in procinto di partire per la guerra, pensando ad altro. Avete voluto scherzare? Sarebbe un orribile sacrilegio.

Col segno della Croce e i nomi della Trinità, si può benedire il pane, la minestra, l’olio, l’acqua, il vino, se volete anche gli strumenti da lavoro, l’aratro, la zappa del contadino, la pialla del falegname, e così di seguito; ma non le armi. Se avete un assoluto bisogno di un rito propiziatorio, cercatevi qualcuno che lo faccia in nome di Satana. È stato lui a inventarle le armi.

L’AIUTANTE Voi sapete che altri papi, prima di voi, hanno benedetto delle guerre.

CELESTINO V Non sta a me di giudicarli. Io posso solo pregare Iddio di avere misericordia di essi.” (da “L’avventura d’un povero cristiano” di “Ignazio Silone”).

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Che fine hanno fatto i fatti?

Secondo i dati ufficiali, nel 2024 il Tg1 ha perso 163.414 ascoltatori, pari a meno 3,79%, mentre il Tg2 sprofonda a meno 8,88%, pari a 96.782 telespettatori in meno.

Anche il Tg3, scende dello 0,44% e perde 7.522 spettatori. Sembra poco, tuttavia risulterebbe che Rai 3 perda complessivamente molti telespettatori. Quanti?

Lo chiediamo a ChatGpt che cosi risponde:

“Non dispongo di dati aggiornati in tempo reale, compresi quelli sui telespettatori di Rai 3. Tuttavia, la perdita di telespettatori è un fenomeno che può verificarsi per vari motivi, come la concorrenza di altre reti, il cambiamento delle abitudini di visione, o la popolarità dei contenuti offerti. Ti consiglio di controllare fonti affidabili come articoli di notizie o rapporti di analisi sui media per avere informazioni aggiornate e precise.”

Ecco. Hai bisogno di fatti e ricevi commenti, addirittura consigli. È questa sarebbe intelligenza artificiale? O forse è solo artificiosa, per non dire arrogante. Insomma, sembrerebbe intelligenza col nemico, cioè la disinformazione.

Come quella che ci ha offerto, per esempio, Il Mattino di Napoli, rilanciato da Google, che scrive: “Il Tg1 diretto da Gian Marco Chiocci resta il telegiornale più seguito in Italia nel 2024”. Ci siamo scordati quei 163 mila telespettatori persi? Cose che succedono quando il direttore (Roberto Napolitano) vuole compiacere l’editore (Gaetano Caltagirone) che a sua volta non vuole interferenze con Telemeloni.

Chissà perché poi i quotidiani perdono lettori, proprio come i telegiornali del servizio pubblico. Comunque sia, non provate nemmeno a chiederlo all’AI.

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Morire di lavoro durante le feste natalizie.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Filippo Masi, 59 anni, capoturno del comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Milano, è morto nella serata di venerdì 27 novembre mentre tornava a casa dal lavoro.

Un incidente stradale sulla provinciale 11, nel territorio di Settimo Milanese, dai contorni ancora non chiari. Masi, al quale mancavano poche settimane alla pensione, si è schiantato in moto contro il guardrail.

Il primo a soccorrerlo è stato un collega, poi sono arrivati i medici che ne hanno disposto il trasferimento all’ospedale San Carlo, dove il vigile del fuoco è deceduto poco dopo il ricovero.

Giovanni Paolo Giordano, 52 anni, moglie e 4 figli, è morto venerdì 27 dicembre a Isola Capo Rizzuto (Crotone), a causa del ribaltamento di un muletto.

Trasportando materiali da utilizzare nella casa estiva (viveva nelle Marche), l’uomo ha imboccato una strada in discesa e ha perso il controllo del muletto, che si è ribaltato e lo ha schiacciato, uccidendolo sul colpo.

Un 26enne di cui non conosciamo ancora le generalità, è morto venerdì 27 dicembre a Nettuno (Roma), tentando di fermare l’automobile rimessasi in marcia mentre apriva il cancello per andare al lavoro. Il ragazzo è rimasto schiacciato tra la macchina e il cancello.

Maurizio Mazzeo, 52enne dipendente dell’Amsa di Milano, è morto martedì 24 dicembre schiacciato dal mezzo di servizio contro un’automobile, mentre procedeva alle ultime pulizie stradali prima della fine del turno.

Gerardo De Letteriis, 73enne di San Severo (Foggia), è morto alle prime ore di martedì 24 dicembre in un incidente stradale sulla statale 106 a Massafra (Taranto).

Tornava a San Severo dalla Sicilia con un furgone carico di frutta quando si è scontrato frontalmente con l’automobile di un uomo risultato poi positivo ai test per cannabis e cocaina.

Carlo Calvagna, 39enne di Misterbianco (Catania), autista del corriere Ingo Trasporti, è morto lunedì 23 dicembre sulla tangenziale del capoluogo etneo.

Calvagna è finito in testacoda con il furgone aziendale, che è stato poi investito da un’autocisterna.

#filippomasi#gianpaologiordano#mauriziomazzeo#gerardodeletteriis#carlocalvagna#mortidilavoro

Dicembre 2024: 60 morti (sul lavoro 54; in itinere 6; media giorno 2,2)

Anno 2024: 1128 morti (sul lavoro 860; in itinere 268; media giorno 3,1)

162 Lombardia (114 sul lavoro – 48 in itinere)

112 Campania (95 – 17)

104 Veneto (73 – 31)

90 Sicilia (65 – 25)

88 Lazio (58 – 30)

87 Emilia Romagna (66 – 21)

70 Puglia (46 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

26 Calabria (21 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Friuli V.G. (18 – 4), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Come al solito gli americani ci mettono nei guai.

(Courtesy by Makkox, Il Foglio).

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Secondo il New York Times, che ha indagato su come sia stato possibile arrivare a oltre 45 mila morti in 14 mesi di guerra nella Striscia di Gaza, “Israele ha cambiato le regole di ingaggio, ammettendo la possibilità di 20 ‘vittime collaterali’ per ogni raid su Hamas”. Dunque, ecco la ‘variante Netanyahu’, cioè il nuovo paradigma politico-militare che sancisce il capovolgimento delle regole: il vero obiettivo da colpire e annientare sono i civili, i miliziani di Hamas sono solo ‘danni collaterali’.

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“La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili”.

Barbarie o ecosocialismo. Perché sinistra ed ecologia hanno bisogno l’una dell’altra.

di Caterina Orsenigo, Treccani

A denunciare la crisi climatica al governo americano ci hanno pensato in molti negli ultimi settant’anni. Fra i tanti esempi che si potrebbero citare, una delle voci più critiche è sicuramente quella di James Hansen, climatologo di fama mondiale ed ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. “Il pianeta Terra, la creazione, il mondo in cui si è sviluppata la civiltà, il mondo con le norme climatiche che conosciamo e con spiagge oceaniche stabili, è in pericolo imminente”, scriveva Hansen in un libro del 2009, tornato in stampa con il titolo Tempeste (Edizioni Ambiente, 2023). E continuava, con senso di urgenza e preoccupazione: “la conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili della Terra minaccia non solo i milioni di specie sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo”.

Sono passati quindici anni da quel grido di allarme e questo oscuro 2024 ha visto alcune delle manifestazioni finora più dure della crisi climatica, fra alluvioni, uragani e ondate di calore. Poche settimane fa il servizio di osservazione climatico europeo Copernicus ha annunciato che sarà non solo l’anno più caldo mai registrato ma anche il primo interamente oltre la soglia dei +1,5°C. Questo stesso oscuro 2024 ha visto anche un susseguirsi di elezioni espressamente “contro il clima”: l’ultima, quella di Donald Trump negli Stati Uniti, si promette già come un grande passo indietro nel contrasto al riscaldamento globale. E intanto sono calate le forze dei movimenti, mentre si sono irrigidite le misure di repressione.

È proprio in questo momento così buio che escono una dopo l’altra edizioni e riedizioni di manuali di ecosocialismo, le quali rivendicano con altrettanta urgenza la necessità di uscire dal sistema economico capitalista, considerato la vera grande causa della minaccia per la civiltà umana annunciata da Hansen. Tra questi testi, spiccano in particolare Ecosocialismo del sociologo francese Michael Lowy (Ombrecorte, 2024), Manifesto ecosocialista del politologo e Presidente del partito socialista belga Paul Magnette (Treccani, 2024), così come L’ecosocialismo di Karl Marx (Castelvecchi, 2023) e Il capitale nell’Antropocene (Einaudi, 2024) del filosofo giapponese Kohei Saito. Ma cos’è dunque l’ecosocialismo? Lowy risponde definendolo come “una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre lo libera dalle sue scorie produttiviste”.

Tutt’altro che di nuovo conio, l’ecosocialismo viene da lontano: sul piano teorico si è sviluppato in particolare a partire dagli anni Settanta, mentre il termine si cominciò a usare soprattutto dagli anni Ottanta, quando una corrente interna al partito dei Verdi tedesco si definì in questo modo, mentre negli Stati Uniti l’economista James O’Connor fondava la rivista Capitalism, Nature, Socialism. È interessante notare come il discorso sull’ecosocialismo abbia iniziato a diffondersi proprio negli anni Ottanta: sono quelli di Regan negli Stati Uniti e della Tatcher in Inghilterra, delle privatizzazioni, del culto dell’individuo che scalzava le lotte e l’impegno politico dei due precedenti decenni. È il momento in cui almeno in questa parte di mondo si tagliarono i lacci con tutto ciò che di socialista ancora permaneva nell’Europa capitalista.

Furono fatte scelte politiche ed economiche e soprattutto furono affermati valori politici ed economici da cui ormai sembra impossibile liberarsi. Valori che a un certo punto la sinistra ha fatto suoi, rinunciando al welfare in nome del profitto, abdicando a se stessa e perdendo così di consenso tra i lavoratori e le classi sociali vulnerabili. Poco dopo, nel 1992, fu firmata la Convenzione quadro della Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: da allora le emissioni sono quasi raddoppiate. Insomma si rivendicava l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo vinceva la propria battaglia. L’urgenza con cui oggi almeno in piccole bolle si torna a leggere Marx e ad affermare la necessità di mettere fine al capitalismo, proprio mentre politica ed economia vanno in tutt’altra direzione, ha forse qualcosa di simile.

Oggi come negli anni Ottanta si torna a rivendicare l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo sembra vincere la propria battaglia.

La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili, che in una società di disuguaglianze non possono essere diritti di tutti. Ha accettato l’eredità degli anni Ottanta e ha creduto di doverla difendere. Non potendo più parlare di welfare e di lavoro, si è concentrata appunto sui diritti civili, spogliandoli però di ogni traccia di conflitto. Ha cancellato la parola “classe” dal proprio vocabolario e ha smesso di contestare il capitalismo, con il produttivismo, l’estrattivismo e il colonialismo che esso si porta appresso, ed è diventato quasi impossibile distinguerla dalla destra. Allo stesso modo, l’ambientalismo più recente ha faticato molto a introiettare questi concetti. L’accusa di Lowy in questo senso è lapidaria:

Gli ecologisti si sbagliano se pensano di poter ignorare la critica marxiana del capitalismo: un’ecologia che non si rende conto del rapporto tra “produttivismo” e logica del profitto è votata al fallimento – o peggio, al recupero da parte del sistema. Non mancano gli esempi. La mancanza di una coerente posizione anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei – della Francia, della Germania, dell’Italia e del Belgio – a diventare dei semplici partner “ecoriformisti” della gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra. Considerando i lavoratori come irrimediabilmente condannati al produttivismo, alcuni ambientalisti tendono a ignorare il movimento operaio e hanno scritto sulla loro bandiera: “Né di sinistra né di destra”. Ex marxisti convertiti all’ecologia dichiarano frettolosamente “addio alla classe operaia” (André Gorz), mentre altri (Alain Lipietz) insistono sul fatto che dobbiamo lasciare il “rosso” – cioè il marxismo o il socialismo – per aderire al “verde”, un nuovo paradigma che fornirebbe una risposta a tutti i problemi economici e sociali.

Per Lowy, in sostanza, se “il socialismo non ecologico è un vicolo cieco”, allora “l’ecologia non socialista è incapace di affrontare le sfide attuali”. Leggere queste righe dopo la disfatta di Kamala Harris e l’ondata di green backlash che ha invaso l’Europa nella prima metà del 2024 (per sfociare anche qui in elezioni vinte da ecoscettici), è particolarmente significativo. Forse per questo proprio ora si avvicendano tutte queste pubblicazioni sull’ecosocialismo e la sua riattualizzazione: la situazione attorno è spaventosa, e allora c’è chi sente la necessità di ripartire dalle radici e tornare a occuparsi di economia. E partire dalle radici, come spesso succede, è ripartire da Marx.

Il lavoro di Saito è soprattutto questo, confrontarsi con il pensiero marxiano per riappropriarsene oggi, mostrando come l’insostenibilità ambientale fosse divenuta, a un certo punto, addirittura centrale nel suo pensiero. Lowy non condivide del tutto questa lettura: in Marx a suo avviso mancava una visione ecologica d’insieme, perché non era possibile averla agli albori della civiltà capitalistico-industriale. E tuttavia c’era in Marx, innegabilmente, una profonda consapevolezza: dal discorso della rottura metabolica all’accento sulla contraddizione fra tempi del capitalismo e dell’agricoltura, fino a una lettura del consumo di suolo in termini molto vicini al concetto di estrattivismo (l’“arte di rapinare la terra” è messa in relazione all’“arte di rapinare l’operaio”). Certe questioni non venivano poste direttamente, ma in nuce c’erano già molti dei fondamenti dell’ecologismo e molto del pensiero di cui abbiamo bisogno oggi per costruirne uno nuovo.

Dal canto suo, Paul Magnette si concentra soprattutto sul presente, mostrando come l’ecologismo sia la nuova lotta di classe. È la nuova lotta di classe perché sono le classi più ricche a emettere di più e le classi più svantaggiate a essere più esposte alla crisi climatica, ma anche perché lottare contro la crisi climatica significa necessariamente intervenire sulle disuguaglianze. Lowy prova invece a disegnare una traccia di quello che può essere un sistema economico ecosocialista in una democrazia oggi: affrontare la crisi climatica non può ridursi a una scelta fra il capitalismo verde, con una crescita garantita dal progresso tecnico, o al contrario una decrescita che metta in discussione l’uso di qualsiasi tecnologia, della medicina, della possibilità di spostarsi, e la democrazia stessa. Si tratta piuttosto di operare una trasformazione non quantitativa ma qualitativa dello sviluppo, in cui si metta fine prima di tutto alla produzione di beni inutili o dannosi come le armi, riconvertendo la produzione verso prodotti utili e sostenibili in quantità che non superino il fabbisogno reale. Non tanto e non solo ridurre il tenore di vita delle popolazioni del nord globale, ma sbarazzarsi di ciò che non serve, dal più piccolo ammennicolo di plastica fino al jet privato e lo yacht. E in mezzo il trasporto su gomma delle merci per tratte molto lunghe, l’agribusiness e la pubblicità (che “non potrebbe sopravvivere un solo istante in una società post-capitalista”).

La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili.

Ma nell’entropia di decisioni a breve termine prese da innumerevoli rappresentanti politici e dirigenti di azienda, fare scelte con una coerenza e una ricaduta positiva sul piano climatico e sociale è difficilissimo. Per questo Richard Smith, economista citato Lowy, osserva che “se è impossibile applicare delle riforme al capitalismo al fine di mettere i benefici al servizio della sopravvivenza umana, quale alternativa c’è se non optare per una sorta di economia pianificata a livello nazionale e internazionale? Problemi come il cambiamento climatico richiedono la ‘mano visibile’ della pianificazione diretta”. Pianificazione è la parola chiave: una pianificazione democratica che implicherebbe innanzitutto di sopprimere tutti i settori produttivi dannosi, a partire da una rivoluzione nel sistema energetico. E quindi, necessariamente se l’obiettivo torna a essere il bene comune, avremmo un controllo pubblico dei mezzi di produzione, in modo che le decisioni di politica pubblica relative a transizione tecnologica e grossi investimenti non siano in mano a banche e imprese.

Lowy immagina un’organizzazione razionale e dal basso, che abbia come timone il bene comune e non il profitto di pochi e risponda non al valore di scambio ma al reale valore d’uso: “in questo senso, l’intera società sarà libera di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare e il livello delle risorse che dovranno essere investite nell’istruzione, nella sanità o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderebbero più alla legge della domanda e dell’offerta, ma sarebbero determinati il più possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici”. Una pianificazione non dispotica ma democratica proprio perché libera “da ‘leggi economiche’ e ‘gabbie d’acciaio’ alienanti che sono le strutture capitalistiche e burocratiche”. Per fare un esempio concreto, sarebbe pubblica una scelta come la conversione della produzione di un’azienda da auto private a mobilità pubblica o cargobike, ma l’organizzazione interna invece spetterebbe agli stessi lavoratori: è quello che sta cercando di fare il collettivo di fabbrica ex-GKN, dove la scelta di transizione è arrivata dagli operai stessi proprio perché nell’attuale sistema economico scelte così coraggiose non riescono a venire dallo stato. Per Lowy, Saito e Magnette i movimenti operai sono fondamentali, anzi primari, per una transizione verso una società giusta e sostenibile.

Certo l’ecosocialismo costa, o almeno costa arrivarci, ma di proposte in merito non ne mancano. I fondi pubblici che ora vanno in armi e sussidi per auto a combustione, per esempio, potrebbero invece essere destinati a investimenti sulle rinnovabili e formazione dei lavoratori. Paul Magnette calca la mano soprattutto sul sistema fiscale. Un sistema fiscale redistributivo ha funzionato persino negli Stati Unti e in Inghilterra fino agli anni Ottanta, per poi essere progressivamente smantellato, facendo aumentare la quota di ricchezza dei super ricchi, mentre i nove decimi della popolazione hanno visto diminuire la propria. Farne a meno è stato un errore, ma se è già esistito si può fare di nuovo. Non solo: tassare i “super ricchi” vuol dire tagliare le emissioni, proprio perché sono coloro che emettono di più. Se poi oltre ai salari minimi si stabilissero dei redditi massimi, in modo che non possano superare più quattro volte quello necessario per avere una vita dignitosa, solo il 2% della popolazione vedrebbe diminuire il suo reddito ma si eviterebbero grosse forbici di disuguaglianza e ingiustificabili concentrazioni di ricchezza.

Utopie? Piuttosto, direzioni. Il capitalismo ha creato la crisi climatica e gli inutili tentativi di finanziarizzazione della natura hanno dimostrato che non sarà il capitalismo a risolvere il problema, anzi. Magnette, in parte Saito, ma soprattutto Lowy provano a immaginare concretamente una società alternativa ed è esattamente quello di cui abbiamo bisogno. Un’immaginazione fervida e concreta per dipingere una società realistica e completamente diversa da quella in cui siamo immersi. Solo se una larga schiera di politici si riconciliasse con concetti come questi – lavoro, pianificazione, proprietà pubblica dei mezzi di produzione, welfare – smettendo di cercare voti imitando la destra e mostrificando un avversario a cui somigliano sempre di più, torneranno forse a vincere le elezioni e a poter fare la differenza, che non fanno quasi mai.

Caterina Orsenigo è editor e giornalista. È laureata in filosofia a Milano e in letterature comparate a Parigi. Scrive di letteratura, crisi climatica e mitologia per diversi giornali e riviste. Organizza passeggiate letterarie con l’associazione piedipagina e con Prospero Editore ha pubblicato il romanzo di viaggio “Con tutti i mezzi necessari”.

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C’è una via d’uscita da questo futuro sempre più nero?

Le sfide e le incognite del 2025

di Unione sindacale di base

A dispetto dei toni trionfalistici del governo Meloni le previsioni per il prossimo anno sono di un serio peggioramento di tutti gli indici economici. C’è una crisi industriale che ha già prodotto più di 50milioni di ore di cassaintegrazione e che è destinata a franare sul sistema produttivo italiano a causa di due fattori difficilmente aggirabili: la politica dei dazi più volte annunciata da Trump (+20% sui prodotti europei) e il peso dei costi aggiuntivi dell’energia, che continuerà a gravare su tutto il sistema economico e sul settore manifatturiero in particolare. Se a questo poi si aggiunge il diktat del nuovo presidente americano di innalzare fino al 5% del PIL le spese per la difesa dei paesi europei, con effetti facilmente immaginabili sui bilanci pubblici degli Stati UE, le prospettive diventano allarmanti.

Il 2025, quindi, sarà molto probabilmente un anno di forte crisi industriale per l’Italia e per tutta l’Europa. Nella concorrenza internazionale sempre più accesa i paesi della UE sono arrivati in forte debito d’ossigeno sia rispetto alla Cina che agli USA e sono in ritardo in tutti i settori di punta del sistema produttivo, a cominciare dall’automotive. Per decenni hanno confidato nella politica dei bassi salari e nell’economia dell’export, ma oggi che esportare è diventato molto più complicato e che i mercati sono in forte contrazione non hanno molte vie d’uscita.

Draghi ha proposto da tempo la sua ricetta: rafforzare la tecnocrazia europea con il voto a maggioranza e investire in sicurezza, a cominciare dagli armamenti, e nei settori strategici.  È l’idea che serva un capitalismo politico e autoritario, che superi lo stato di diritto e promuova un forte intreccio tra grande impresa e organi dello Stato, e prepari la UE ad assolvere al ruolo di grande potenza. Una dottrina che sembra ispirare tutto l’Occidente e che a Washington assume la forma del DOGE, il nuovo Dipartimento per efficienza amministrativa, guidato da Musk e creato da Trump, per mettere tutta la pubblica amministrazione sotto il controllo della grande azienda privata.

La proposta di Draghi risente della scelta di legarsi al carro dell’Occidente, ai voleri degli USA e alle dinamiche delle economie europee più forti, che è esattamente la scelta che ha condannato il nostro paese ad una condizione di subalternità. In questa proposta c’è un sottinteso che non viene esplicitato e cioè che l’unico modo per reggere la fortissima competitività internazionale è ancora una volta la compressione dei salari e la privatizzazione di tutto ciò che può essere sottratto all’economia pubblica.

Questa proposta, per ora l’unica organicamente formulata a scala continentale, che raccoglie l’approvazione non solo della Commissione Europea ma anche del governo Meloni, è destinata a scontrarsi con numerose incognite. Innanzitutto, gli effetti della nuova leadership statunitense, che lascia presagire una relazione meno amichevole che in passato con i paesi europei e il desiderio di stabilire relazioni con i singoli Stati piuttosto che con la UE. Poi l’instabilità politica che sta investendo i maggiori membri della stessa UE, Germania e Francia, che potrebbe portare ad una vera e propria crisi degli equilibri continentali. E infine, ma non certo meno importante, gli effetti della crisi sociale che le ricette di Draghi sono destinate a produrre e che potrebbe aprire a nuovi scenari.

Gli unici dati certi di questa direzione di marcia nella quale siamo incanalati sono il peggioramento delle condizioni di vita, l’aumento delle disuguaglianze sociali e la corsa al riarmo, con il coinvolgimento crescente del nostro Paese dentro gli scenari di guerra. La Meloni è appena tornata da un vertice in Lapponia nel quale ha condiviso il rinnovato interesse italiano per l’Africa e non a caso i vertici militari del nostro esercito prefigurano l’apertura di nuovi scenari di guerra proprio in quel continente. 

Non c’è dubbio che la crisi nella quale stiamo precipitando non è assimilabile a quelle che abbiamo vissuto nel recente passato. È innegabile il suo carattere globale e l’intreccio molto forte con la guerra mondiale a pezzi nella quale siamo immersi già da due anni. La ristrutturazione che sta investendo il sistema produttivo continentale non è dettata quindi solo da esigenze di competizione economica ma risponde anche a calcoli geopolitici e ad una logica di guerra. La saturazione dei mercati mondiali ha acceso una competizione senza limiti su scala globale e questo sta spingendo il pianeta verso la proliferazione dei conflitti. La corsa al riarmo risponde proprio a questa dinamica: investire capitali eccedenti in un settore protetto come quello della difesa, dove le risorse sono assicurate dai bilanci statali, e sostenere il proprio esercito nello scontro globale.

In questa situazione sono in movimento altri due fattori: la repressione del dissenso e il rafforzamento della propaganda patriottica, indispensabili entrambi a garantire una compattezza del fronte interno, mentre ci si prepara a sempre nuove “avventure” per garantire gli interessi delle grandi imprese italiane ed europee. Mentre sul primo fronte operano le nuove leggi repressive come il ddl 1660, la messa sotto controllo della magistratura, i progetti di nuove riforme costituzionali, l’idea ricorrente di rendere ancora più restrittiva la legge sugli scioperi, il secondo fronte, quello della propaganda, spazia a tutto campo e investe il mondo della cultura, della scuola, dello spettacolo e delle libertà private. Un brutto vento di restaurazione culturale soffia forte nel nostro paese e mostra il suo vero volto nel sostegno che il governo Meloni continua a dare a Netanyahu.

C’è una via d’uscita da questo futuro sempre più nero? E che ruolo può giocare la nostra organizzazione sindacale per invertire la rotta?

La via d’uscita è un cambio di prospettiva, puntare sul mercato interno e il rilancio dei consumi, la reindustrializzazione del paese finalizzata però non all’export né tantomeno alla guerra ma alla crescita del benessere della nostra popolazione. Noi non dobbiamo conquistare i mercati ma dare una risposta alle tante difficoltà del nostro paese, dalla prevenzione dei disastri naturali alla sanità pubblica, dalla valorizzazione del nostro paesaggio e delle tante risorse storiche e culturali all’ammodernamento del sistema dei trasporti ferroviari che in alcune regioni quasi non esiste, dal rilancio dell’edilizia popolare alla messa in sicurezza di tanta parte del nostro sistema immobiliare pubblico. E aprirci allo scambio economico con tutti i paesi che sono disposti a farlo su un piano di parità, guardando innanzitutto a sud e alle sponde del Mediterraneo

Ma il primo punto di questo programma, che oggi non ha interlocutori in Parlamento, è la battaglia vitale per far alzare i salari. Senza una forte ripresa delle retribuzioni, delle pensioni e degli stessi ammortizzatori sociali, che sono diventati ormai per tantissimi l’unica fonte di sopravvivenza, non c’è verso di rilanciare consumi e mercato interni e innescare così un cambio di marcia.

Proprio sul salario, quindi, si gioca la partita cruciale del 2025. Vale per i lavoratori pubblici, dove nelle Funzioni centrali si è già consumato uno strappo molto pesante della Cisl e del sindacalismo autonomo che hanno deciso di firmare al ribasso in solitaria. Vale per i lavoratori del trasporto pubblico locale, che hanno recentemente scioperato in massa e si sono visti beffare da una pre-intesa sul contratto che vale 122 euro a scadenza. E vale per il settore delle ferrovie dove si preparano a promuovere altra flessibilità in cambio di paghe in discesa.

La partita del salario investe in realtà tutte le categorie. Dai settori sottoposti ad una pesante ristrutturazione, che sono in particolari quelli operai, a tutte le categorie povere dei servizi, che sono quelle che in questi anni hanno perso di più in termini di potere d’acquisto, non potendo nemmeno usufruire della contrattazione di secondo livello. I padroni trascurano di raccontare i favolosi guadagni di questi anni, la loro unica preoccupazione è che i margini di profitto sembrano destinati a contrarsi nei prossimi anni. E corrono ai ripari adottando la strategia di sempre, far pagare a noi, a chi lavora, il costo di questa ennesima crisi. Questo spiega i contratti al ribasso, l’aumento dei carichi di lavoro e della flessibilità oraria, l’indisponibilità ad affrontare in modo serio la questione della sicurezza sul lavoro, l’inserimento di nuova tecnologia al solo scopo di risparmiare lavoro piuttosto che di favorire una forte e generalizzata riduzione degli orari.

Un filo logico lega la questione del salario alla possibilità di cambiare l’indirizzo che ha preso il Paese. Innanzitutto, è questione generale, riguarda tutti i lavoratori ed ha quindi la potenzialità di essere un fattore che accomuna. Parla di una questione molto concreta, il diritto a non vedersi sottrarre altre risorse da parte di chi in questi anni si è arricchito e lo ha fatto aumentando il tasso di sfruttamento. Propone di investire sul benessere interno e la cura del territorio piuttosto che in armamenti e conquista di mercati esteri. E allude quindi all’unica via d’uscita dalla crisi che stiamo vivendo che non sia l’incubo di uno scenario di guerra.

Questa è la sfida che abbiamo davanti nel prossimo anno e per la quale vale la pena investire tutte le nostre forze.

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C’era una volta la disuguaglianza. La notizia è che c’è ancora.

di Ignazio Silone

La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su questi due piuoli si spartiscono anche gli artigiani: un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno una botteguccia e qualche rudimentale utensile; per strada, gli altri.

Durante varie generazioni i cafoni, i braccianti, i manovali, gli artigiani poveri si piegano a sforzi, a privazioni, a sacrifici inauditi per salire quel gradino infimo della scala sociale; ma raramente vi riescono.

La consacrazione dei fortunati è il matrimonio con una figlia di piccoli proprietari.

Ma se si tiene conto che vi sono terre attorno a Fontamara dove chi semina un quintale di grano, talvolta non ne raccoglie che un quintale, si capisce come non sia raro che dalla condizione di piccolo proprietario, penosamente raggiunta, si ricada in quella del cafone.

(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.)” (da “Fontamara” di “Ignazio Silone”).

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Il 2025 non sarà un buon anno.

di Francesco Piccioni, contropiano.org.

I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.

Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.

Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee. 

Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.

Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.

I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali ad esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).

Il tutto è riassumibile nell’assenza totale di qualsiasi orientamento pubblico (statale o comunitario) che andasse al di là dell’occhiuta sorveglianza di “regole di bilancio” così perfette – sulla carta – da esser sempre state violate da quasi tutti i paesi membri. Ora che tocca anche alla Germania, come si dice, il re è nudo.

Come sintetizza Karnitschnig, tutto questo “ha funzionato… finché non ha funzionato più”. “Il pilota automatico”. alla fine, ci ha portato contro gli scogli…

Molto interessante, ancorché detta di sfuggita, la valutazione di quanto questo modello economico, nel riuscito tentativo di prolungare la propria esistenza senza grandi cambiamenti, abbia contribuito a conquistare l’Est europeo veicolando anche l’allargamento della Nato. Fino ad incontrare la barriera russa…

Nelle analisi sull’espansione della Nato, fatte a sinistra, ci si concentra in effetti fin troppo spesso sul bisogno degli Stati Uniti di rafforzare la propria egemonia portando sempre più ad est le proprie basi militari. Karnitschnig – certo involontariamente – rimette invece al centro quelle ragioni “strutturali” che ogni allievo di Marx dovrebbe ricordare a memoria.

La “conquista dell’Est” è avvenuta secondo il format messo a punto nella riunificazione tedesca (l’Anschluss, secondo la brillante definizione di Vladimiro Giacché), e il suo successo era fondato su pochi ma decisivi pilastri: basso costo dell’energia grazie al gas russo, bassi salari per popolazioni di lavoratori comunque istruite e immediatamente inseribili nel ciclo produttivo, immagine vincente dell’Occidente sul resto del mondo (rafforzato da guerre asimmetriche contro avversari troppo più deboli), superiorità tecnologica (ma solo nei settori maturi, come l’automotive).

Il legame tra successo ed espansione è quindi solare: solo allargando ulteriormente lo spazio da annettere all’Europa capitalistica (e dunque anche alla Nato) quel modello poteva prolungare la propria vita senza troppi scossoni.

Si comprende meglio, a questo punto, cosa volesse dire Mario Draghi a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, quando affermava quasi ogni giorno “La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile, ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica, ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”.

Sfrondata dalla retorica sui presunti “valori” (si è visto quanto fossero concreti quando Israele, con il supporto di tutto l’Occidente, ha cominciato la sua opera di genocidio in Palestina e di aggressione a tutto il Medio Oriente), Draghi faceva coincidere il successo della UE con la possibilità di proseguire l’espansione ad Est, annettendo anche l’Ucraina… e poi si sarebbe visto.

Si comprende dunque meglio, anche, la “strana” condiscendenza europea verso l’aggressività statunitense persino quando questa demoliva asset e relazioni fondamentali per quel “modello europeo” (ad esempio il silenzio e il depistaggio di fronte alla distruzione del gasdotto North Stream, i cui autori sono stati individuati dalla magistratura tedesca nei servizi segreti ucraini, supportati da Usa, Norvegia e Gran Bretagna).

In altri termini la competizione latente tra Usa ed “Europa” poteva svilupparsi solo se la seconda poteva continuare a crescere… ma sempre sotto l’ombrello militare statunitense. Fermata l’espansione, finita anche la competizione, resta solo la subordinazione. 

Ciò contribuisce in parte anche a spiegare perché, all’interno dell’Unione Europea, la sofferenza popolare venga capitalizzata per ora soprattutto dall’estrema destra sotto gli slogan di un nazionalismo d’altri tempi e perché questa crescita venga catalogata come “filo-putiniana” anche quando si divide in modo decisamente netto tra “atlantisti-europeisti” (Meloni, l’olandese Wilders, i polacchi di quasi tutti i partiti, ecc) e ben poco attendibili”pacifisti” (Orbàn, Afd tedesca, il rumeno Georgescu, ecc).

Orbàn, da questa angolazione, ha fatto davvero scuola mentre i “democratici” guerrafondai lo criticavano soltanto per il controllo sulla magistratura o le idiozie contro la “cultura gender”.

Se il sedicente “progressismo liberale” ha condotto sull’orlo del baratro e della guerra, e continua a spingere sul trinomio “austerità, guerra e svuotamento della democrazia”, non c’è da troppo da stupirsi che gli ultradestri peggiori conquistino un ruolo importante.

Anche perché i difetti strutturali del modello export oriented sono usciti alla luce del sole: fine della superiorità tecnologica nel principale dei settori maturi (l’automotive cinese è di anni più avanti, ormai), crescita esponenziale del costo dell’energia, restrizione fatale del mercato interno (i bassi salari vanno bene per esportare, ma quando l’export si ferma nessuno lo può sostituire), inesistenza nei settori-guida del presente e del futuro (informatica, piattaforme, intelligenza artificiale, ecc).

Il tutto sotto la spada di Damocle di una popolazione che invecchia, una conclamata crisi demografica (in Italia nascevano oltre un milione di neonati nel 1964, solo 380mila nel 2023), del declino cognitivo di gran parte della popolazione (il 33% non comprende quello che legge), della “fuga dei cervelli”…

Nonché dell’impossibilità di compensare con un’immigrazione che non mette a disposizione competenze già formate altrove (com’era avvenuto con l’Est post-sovietico), non viene accolta con politiche di formazione-integrazione e dunque si trasforma in un ulteriore “problema di ordine pubblico” che ha favorito il risorse del razzismo fascista (specializzato nel risolvere a chiacchiere i “problemi di cronaca”, ma senza soluzioni per quelli “di sistema”).

Su questo continente alle corde si abbatterà ora anche il “ciclone Trump”, ovvero il bisogno degli Stati Uniti di “confermare il proprio standard di vita” sottraendo risorse ad altri. Lo stop nell’espansione ad Est vale però anche per Washington, che reagisce imponendo dazi o minacciandone di nuovi, pretende un aumento delle spese militari (a tutto vantaggio delle proprie industrie) e acquisti più massicci di petrolio e gas (a prezzi quadrupli rispetto a quelli russi). Insomma, declassando l’Europa da predatore secondario a preda.

Non stupisce perciò l’altra sintesi proposta da Karnitschnig: “bloccati nel XIX secolo”, quindi destinati a soccombere.

Sappiamo bene come l’establishment europeo presuma di uscire da questa tenaglia: trasformando ogni cittadino del continente in un “soldato” della produzione e/o dell’esercito (con parecchi problemi derivanti proprio dalla crisi demografica, che non mette a disposizione “forze fresche” da gettare nelle trincee né nelle fabbriche che chiudono), salutando definitivamente ogni pretesa di “democrazia” e concentrando tutti i poteri verso l’esecutivo.

Che però a livello europeo non c’è, visto che la “Commissione von der Leyen” non può essere considerata tale neanche con uno sforzo di fantasia hollywoodiana…

Crisi nera, dunque. Ma è nell’esplodere delle crisi, nei “collassi di sistema”, che si crea lo spazio sociale e politico per rovesciare i rapporti di forza tra le classi e iniziare perciò a cambiare davvero il mondo.

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Quando parliamo di economia parliamo di politica, cioè di chi ha il potere e di chi lo subisce.

di Clara E. Mattei

Quando i Jerome Powell e le Christine Lagarde (attuale presidente della Bce) di questo mondo si accaniscono ad alzare i tassi di interesse ben sapendo che causeranno una recessione economica, lo fanno per una preoccupazione, oserei dire un’angoscia: se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. […]

Prendiamo il nostro Paese come esempio: se guardiamo alla spesa «aggregata» dello Stato italiano, non vedremo alcuna traccia di austerità.

Infatti lo Stato sta spendendo moltissimo in ambito militare e nel sostegno delle imprese (le banche per esempio) che mettono così in sicurezza i propri profitti.

I numeri della spesa pubblica non calano. Ma la questione rilevante è un’altra. Non si tratta semplicemente di vedere se lo Stato spende, quanto piuttosto dove lo Stato spende o, meglio, per chi lo Stato spende.

L’austerità non è una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, è invece un’azione politica che agisce sulla capacità di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualità della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’élite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti. […]

Se lo Stato italiano, come la maggior parte degli Stati del mondo, aumenta la spesa militare o quella per salvare e sostenere banche e imprese in difficoltà e al contempo taglia la spesa sociale (sanità, scuola, trasporti, edilizia pubblica, sussidi di disoccupazione e via dicendo), sta trasferendo strutturalmente le risorse dai molti cittadini che dipendono dai salari che guadagnano ai pochissimi che vivono dei redditi da capitale generati dalla ricchezza posseduta. […]

In altre parole, non si tratta per gli Stati di non spendere, ma di «spendere» nella maniera «corretta», ovvero a favore dell’élite economico-finanziaria e a discapito della maggioranza della popolazione.

Mentre ci curiamo in ospedali fatiscenti, studiamo in classi pollaio e facciamo file chilometriche per rinnovare la carta d’identità, i forzieri di Leonardo, produttore di armi, e Autostrade per l’Italia (i cui azionisti sono per metà asset manager stranieri come Blackstone e Macquarie) traboccano di soldi delle nostre tasse.

Queste manovre economiche non sono solo decisioni tecniche, sono scelte profondamente politiche.

Meno risorse sociali abbiamo, meno diritti abbiamo in quanto cittadini e più siamo costretti a comprare tali diritti con il denaro.

Così la nostra dipendenza dal mercato aumenta. Se vogliamo garantire una buona istruzione ai nostri figli, assicurarci cure mediche adeguate, una casa dignitosa, il diritto al trasporto, siamo sempre più vincolati alla necessità di avere soldi a sufficienza, che ci possiamo procurare in un solo modo, vendendo la nostra capacità di lavorare in cambio di un salario. […]

Lo stesso vale per l’altro lato della medaglia dell’austerità fiscale, quello che riguarda le entrate dello Stato: non si tratta di vedere se lo Stato aumenta le tasse ma piuttosto a chi le aumenta.

Oggi la maggior parte dei Paesi fanno riforme del fisco in senso regressivo, ovvero continuano a tagliare le tasse a coloro che hanno redditi da capitale e le aumentano a chi ha redditi da lavoro. (“L’economia è politica: Tutto quello che non vediamo dell’economia e che nessuno racconta” di “Clara E. Mattei”).

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L’apocalisse economica dell’Europa è ora

di Matthew Karnitschnig, politico.eu

L’Europa sta finendo il tempo.

Con Donald Trump pronto a tornare alla Casa Bianca tra poche settimane e l’economia del continente in una crisi sempre più profonda, le fondamenta su cui si basa la prosperità della regione non stanno solo mostrando crepe: rischiano di crollare.

L’economia europea ha dimostrato una notevole resilienza negli ultimi decenni grazie all’espansione verso est del blocco e alla forte domanda dei suoi prodotti da parte di Asia e Stati Uniti. Ma con il rallentamento del boom economico cinese e le tensioni commerciali con Washington che offuscano il quadro dei rapporti transatlantici, i tempi d’oro sono chiaramente finiti.

I venti contrari economici che soffiano sul continente rischiano di trasformarsi in una tempesta perfetta nel prossimo anno, mentre un Trump senza freni punta l’Europa. Oltre a imporre nuovi dazi su tutto, dal Bordeaux ai Brioni (i suoi completi italiani preferiti), il nuovo leader del mondo libero è certo di rafforzare la sua richiesta che i paesi della NATO contribuiscano di più alla loro difesa o perdano la protezione americana.

Ciò significa che le capitali europee, già impegnate a contenere deficit in crescita in mezzo a un calo delle entrate fiscali, dovranno affrontare ulteriori pressioni finanziarie, che potrebbero innescare nuove turbolenze politiche e sociali.

Le recessioni e le guerre commerciali possono andare e venire, ma ciò che rende questo momento così pericoloso per la prosperità del continente riguarda la più grande verità scomoda: l’UE è diventata un deserto dell’innovazione.

Sebbene l’Europa abbia una ricca storia di invenzioni straordinarie, comprese scoperte scientifiche che hanno dato al mondo tutto, dall’automobile al telefono, dalla radio alla televisione e ai prodotti farmaceutici, si è ridotta a un ruolo di comprimaria.

Un tempo sinonimo di tecnologia automobilistica all’avanguardia, oggi l’Europa non ha nemmeno un modello tra le 15 auto elettriche più vendute. Come ha sottolineato l’ex primo ministro e banchiere centrale italiano Mario Draghi nel suo rapporto recente sulla perdita di competitività dell’Europa, solo quattro delle 50 principali aziende tecnologiche mondiali sono europee.

Se l’Europa continuerà sulla traiettoria attuale, il suo futuro sarà anche quello dell’Italia: quello di un museo a cielo aperto, decadente, per quanto bello, pieno di debiti, destinato ai turisti americani e cinesi.

Stiamo vivendo un periodo di rapido cambiamento tecnologico, guidato in particolare dai progressi nell’innovazione digitale, e, a differenza del passato, l’Europa non è più all’avanguardia,” ha detto a novembre la presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde.

Parlando presso il medievale Collège des Bernardins a Parigi, Lagarde ha avvertito che il modello sociale europeo, tanto celebrato, sarà a rischio se non si cambia rapidamente rotta.

«Altrimenti, non saremo in grado di generare la ricchezza necessaria per affrontare l’aumento delle spese indispensabili per garantire la nostra sicurezza, combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente», ha detto.
Draghi, che ha presentato il suo rapporto alla Commissione Europea a settembre, è stato più diretto: «Questa è una sfida esistenziale

Infrastrutture inadeguate

Sfortunatamente, riparare l’infrastruttura economica dell’Europa è più facile a dirsi che a farsi.

Con Donald Trump alla Casa Bianca e i Repubblicani al controllo di entrambe le camere del Congresso, l’Europa non è mai stata così esposta ai capricci della politica commerciale americana.

Se Trump darà seguito alla sua minaccia di imporre dazi fino al 20% sulle importazioni dal continente, l’industria europea subirebbe un colpo devastante. Con oltre 500 miliardi di euro di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti dall’UE, l’America è di gran lunga la destinazione più importante per i beni europei.

Per qualche motivo, l’Europa sembra aver fatto poco per prepararsi al ritorno di Trump. La prima risposta della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen alla sua rielezione è stata quella di suggerire che l’Europa acquisti più gas naturale liquefatto (LNG) dagli Stati Uniti. Questo potrebbe compiacere Trump per un po’, ma non rappresenta certo una strategia.

«Il fallimento dei leader europei nell’imparare le lezioni dalla prima presidenza Trump ora ci sta perseguitando», dice Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo con sede a Monaco, un importante think tank economico.

Fuest avverte che Trump potrebbe non essere una cattiva notizia su tutta la linea per l’UE. Se, ad esempio, darà seguito ai suoi piani per rinnovare massicci tagli fiscali per i ricchi e imporre nuovi dazi, l’inflazione negli Stati Uniti potrebbe aumentare, costringendo a un rialzo dei tassi di interesse. Questo rafforzerebbe il dollaro, favorendo gli esportatori europei quando convertono i loro ricavi americani in euro.

Trump potrebbe anche essere aperto a una più ampia negoziazione commerciale con l’Europa per evitare del tutto un nuovo giro di dazi.

Tuttavia, il sentimento generale dell’industria europea nei confronti del nuovo presidente è di apprensione, in gran parte perché i dirigenti ricordano bene il passato.

Nel 2018, Trump ha imposto dazi su acciaio e alluminio europei che sono ancora in vigore. L’attuale presidente americano Joe Biden ha concordato di sospendere tali dazi fino a marzo 2025, preparando il terreno per un nuovo scontro con Trump nelle prime settimane della sua nuova amministrazione. I banchieri centrali europei stanno già avvertendo che un nuovo ciclo di dazi potrebbe riaccendere l’inflazione e minare in modo fondamentale il commercio globale.

«Se il governo degli Stati Uniti darà seguito a questa promessa, potremmo assistere a un punto di svolta significativo nel modo in cui viene condotto il commercio internazionale», ha detto recentemente Joachim Nagel, presidente della Bundesbank tedesca.

Problemi di fondo

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi.

Anche se l’UE è concentrata su Trump e su cosa potrebbe fare in futuro, per quanto riguarda l’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, con le sue continue minacce di dazi e il suo stile ‘bombastico’, non fa altro che sollevare il velo sul fragile modello economico dell’Europa.

Se l’Europa avesse basi economiche più solide e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poco margine di manovra sul continente.

Il divario tra Europa e Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è impressionante. Il gap del PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato, secondo alcune metriche, arrivando al 30%, principalmente a causa della più bassa crescita della produttività nell’UE.

In parole semplici, gli europei lavorano troppo poco. Un lavoratore tedesco medio, ad esempio, lavora oltre il 20% di ore in meno rispetto ai suoi omologhi americani.

Un’altra causa della scarsa produttività europea è il fallimento del settore aziendale nell’innovare.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi investono in ricerca e sviluppo più del doppio rispetto alle loro controparti europee. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività nel settore tecnologico europeo è rimasta stagnante.

Questo divario si riflette anche nel mercato azionario: mentre le valutazioni di mercato statunitensi sono più che triplicate dal 2005, quelle europee sono aumentate solo del 60%.

«L’Europa sta perdendo terreno nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura», ha detto Lagarde nel suo discorso a Parigi.

È un eufemismo. L’Europa non sta solo perdendo terreno, non è nemmeno davvero in gara.

Al vertice UE di Lisbona nel 2000, i leader si impegnarono a rendere «l’economia europea la più competitiva al mondo». Un pilastro chiave della cosiddetta Strategia di Lisbona era «un salto decisivo negli investimenti per l’istruzione superiore, la ricerca e l’innovazione».

Un quarto di secolo dopo, l’Europa non solo non ha raggiunto il suo obiettivo, ma è rimasta ben indietro rispetto a Stati Uniti e Cina.

L’Europa non è mai riuscita nemmeno a raggiungere il suo scopo di spendere il 3% del PIL del blocco in ricerca e sviluppo (R&D), il principale motore dell’innovazione economica. Di fatto, la spesa per la ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ferma al 2% circa, lo stesso livello del 2000.

Le università europee sarebbero un luogo naturale per dare slancio a innovazione e ricerca, ma anche qui il continente è in ritardo.

Tra le migliori università globali valutate da Times Higher Education, solo un’istituzione dell’UE è entrata nella top 30: la Technical University di Monaco, che si è classificata al 30° posto.

L’investimento europeo in R&D «non è solo troppo basso, ma una parte sostanziale fluisce nelle aree sbagliate», ha detto Clemens Fuest dell’Ifo.

Il segreto nascosto

È qui che entra in gioco la Germania. Il segreto poco noto della spesa europea per l’R&D è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti si concentra in un solo settore: l’automotive.

Sebbene ciò possa sembrare ovvio dato il peso del settore (il fatturato annuale dell’industria automobilistica tedesca sfiora i 500 miliardi di euro), non è lì che si ottengono i maggiori ritorni sugli investimenti. Questo perché le innovazioni nel settore automobilistico, come il miglioramento dell’efficienza del motore, sono incrementali.

In altre parole, le aziende stanno letteralmente reinventando la ruota, invece di creare nuovi prodotti, come un iPhone o Instagram, che aprirebbero nuovi mercati.

Se non altro, l’Europa è stata coerente. Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in R&D nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens. Nel 2022, erano Mercedes, VW e Bosch.

Nel complesso, puntare tutto su un unico settore ha funzionato… finché non ha funzionato più. Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in R&D nel settore automobilistico, i rinomati produttori tedeschi hanno comunque perso il treno delle auto elettriche.

Questo fallimento è al centro della crisi economica tedesca, come dimostra il recente annuncio di VW di chiudere alcuni impianti tedeschi per la prima volta nella sua storia.

Il dominio del settore automobilistico tedesco è a rischio poiché la riluttanza a investire nei veicoli elettrici ha spinto altri — in particolare Tesla e numerosi produttori cinesi — a colmare il vuoto. Mentre queste aziende hanno investito pesantemente nella tecnologia delle batterie e acquisito preziosi brevetti, i tedeschi hanno lavorato per perfezionare il motore diesel. Non è andata bene.

La crisi nell’industria automobilistica tedesca è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per affrontare altre sfide complesse che stanno prosciugando il suo potenziale economico. La più grande: una combinazione devastante di una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati.

Molti in Germania speravano che l’afflusso di rifugiati degli ultimi anni avrebbe alleviato questa pressione. Il problema è che pochi rifugiati hanno il background educativo e le competenze necessarie per occupare posti di lavoro altamente qualificati nelle aziende tedesche.

Detto ciò, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in modo positivo. Nelle ultime settimane, VW, Ford e ThyssenKrupp, tra gli altri, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti.

Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti al mondo, a manodopera costosa e a normative gravose, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente trasferendosi in altre regioni. Secondo un recente sondaggio della DIHK, quasi il 40% delle aziende industriali tedesche sta considerando di trasferirsi altrove.

Veronika Grimm, membro del Consiglio di esperti economici tedeschi, un panel apartitico che consiglia il governo tedesco, sostiene che l’unico modo per invertire il declino del paese sia perseguire riforme strutturali fondamentali per incoraggiare gli investimenti.

«La situazione è piuttosto cupa», ha detto Grimm il mese scorso dopo la pubblicazione dell’analisi annuale del Consiglio sullo stato dell’economia tedesca.

Bloccati nel XIX secolo

Come economia più grande dell’UE, le difficoltà economiche della Germania si ripercuotono su tutto il blocco. Questo è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni è diventata di fatto il piano produttivo per i produttori tedeschi di auto e macchinari.

Se acquistate una Mercedes, una BMW o una VW, è probabile che il motore o il telaio siano stati prodotti in Ungheria, Slovacchia o Polonia.

Ciò che rende così difficile da risolvere la crisi dell’industria automobilistica tedesca per l’Europa è che il continente non ha altri settori su cui fare affidamento.

Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.

Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in ricerca e sviluppo negli USA erano Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, sono Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook).

Dato il dominio di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo tecnologico, è difficile immaginare come il settore tecnologico europeo possa mai competere nello stesso campionato, per non parlare di recuperare terreno.

Una ragione è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il venture capital. Ma il pool di venture capital in Europa è una frazione di quello statunitense. Nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Invece di investire nel futuro, gli europei preferiscono lasciare i propri soldi in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro dei risparmi degli europei vengono lentamente erosi dall’inflazione.

«I modesti pool di venture capital in Europa stanno privando le startup innovative di investimenti, rendendo più difficile stimolare la crescita economica e migliorare gli standard di vita», hanno concluso un team di analisti dell’FMI in una recente analisi.

Se quindi automobili e IT sono esclusi, l’UE potrebbe affidarsi alle tecnologie del XIX secolo in cui ha sempre eccelso, come macchinari e treni, giusto?

Purtroppo, qui entrano in gioco i cinesi.

Il numero di settori in cui le aziende cinesi competono direttamente con quelle della zona euro, molte delle quali produttrici di macchinari, è passato da circa un quarto nel 2002 a due quinti oggi, secondo una recente analisi della BCE.

Peggio ancora, i cinesi sono estremamente aggressivi sui prezzi, il che ha contribuito a una significativa riduzione della quota dell’UE nel commercio globale.

La politica dello struzzo

Con l’Europa alle prese con una crescita stagnante, una competitività in calo e tensioni con Washington — solo per citare alcuni dei problemi — ci si potrebbe aspettare un vivace dibattito pubblico su un’ampia agenda di riforme.

Magari fosse così. Il rapporto di Draghi ha ottenuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente per poi essere rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, i continui allarmi lanciati da FMI e BCE cadono nel vuoto.

Probabilmente perché gli europei non stanno realmente avvertendo il dolore — almeno, non ancora.

Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, guida tutte le classifiche globali quando si tratta della generosità dei sistemi di welfare dei suoi membri.

Tuttavia, con il peggiorare delle prospettive economiche della regione, gli europei potrebbero ricevere una brusca sveglia. Paesi come la Francia, che quest’anno affronta un deficit di bilancio del 6% e del 7% nel 2025 — più del doppio del limite consentito nella zona euro — avranno difficoltà a mantenere uno stato sociale generoso.

Parigi spende attualmente oltre il 30% del PIL in spesa sociale, una delle percentuali più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono lontani.

Se le fortune economiche dell’Europa non cambieranno presto, quei paesi si troveranno a dover prendere decisioni difficili, proprio come ha fatto la Grecia nel 2010, con l’aumento dei costi di indebitamento.

Il probabile risultato è una radicalizzazione della politica, come accaduto in Grecia durante la crisi del debito, con i populisti di estrema destra e sinistra che colgono l’opportunità di attaccare l’establishment.

Questa radicalizzazione è già in atto in diversi paesi, il più preoccupante dei quali è la Francia. Il successo delle frange estremiste è tanto più inquietante se si considera che il peggio della sofferenza economica deve probabilmente ancora arrivare.

Il problema è che, quando gli europei si sveglieranno di fronte alla nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa.

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A Gaza niente doni, se i bimbi potessero scrivere a Babbo Natale chiederebbero solo di poter morire

, Repubblica

La vignetta, pubblicata su La Nuova Sacrofano, giornale dei cambiamenti (lanuovasacrofano.it), è di Roberto Conti

La testimonianza: più di 444 giorni di vita sospesa, e mentre il mondo festeggia, nella Striscia i più piccoli cercano avanzi di cibo marcio tra i rifiuti. Le loro mani non si alzano per festeggiare, ma per proteggersi dai missili

DEIR AL BALAH – Più di 444 Giorni di Vita Sospesa a Gaza. Qui, il tempo ha smesso di scorrere. Niente scuole, niente lavoro, niente speranza. Solo giorni che nel loro dolore si rispecchiano l’uno nell’altro, come infinite repliche della stessa catastrofe. Giorni sospesi nel vuoto, appesantiti dall’eco delle esplosioni e dal suono incessante dei proiettili, costante promemoria che la vita qui è diversa da qualsiasi altra vita, in qualsiasi altro luogo. A migliaia di chilometri di distanza dai mercati affollati, adornati di luci scintillanti e dal suono delle campane natalizie, esiste un altro mondo—un mondo che non conosce né il calore delle feste, né la benedizione della pace. Qui a Gaza, dove il rombo degli aerei e delle esplosioni non cessa mai, la gioia del Natale è assente, sostituita da una realtà cupa che sfugge a ogni umana descrizione.

In questi giorni, mentre il mondo accende alberi di Natale e innalza preghiere per la pace, noi alziamo le mani, non in segno di festa, ma in un disperato tentativo di proteggere i nostri figli dal terrore dei missili. Nelle strade della mia città, non ci sono decorazioni, né risate—solo resti di case distrutte e sogni infranti. In mezzo a questo inferno, l’inverno arriva come un ospite indesiderato, portando solo altra sofferenza. 

Gaza non è estranea al dolore, ma a dicembre diventa ancora più insopportabile. Qui, i regali non si scambiano sotto gli alberi; invece, si distribuiscono razioni di cibo scarse in lunghe file, accompagnate dalla paura che le scorte finiscano prima di arrivare a tutti. Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra perso nelle sue celebrazioni, sommerso dal bagliore delle sue festività.

In inverno, la sofferenza del popolo di Gaza si raddoppia. Le famiglie si ritrovano intrappolate tra il freddo pungente dell’inverno e muri fatiscenti che non offrono protezione. I bambini dormono sul terreno ghiacciato, i loro volti pallidi raccontano storie di fame e freddo. L’inverno qui non è solo un’altra stagione; è un’ulteriore prova di resistenza contro l’insopportabile.

I vicoli stretti, ora inondati di fango dopo le piogge, costringono i bambini scalzi a percorrere sentieri mentre i loro piccoli corpi tremano. Le famiglie vivono in tende strappate circondate da pozze d’acqua dopo le tempeste, mentre i bambini cercano di accendere fuochi usando spazzatura solo per scaldarsi le mani.

Ieri sera, mentre camminavo tra i vicoli del quartiere, cercando di comprare del cibo dal costo esorbitante e scarso fino alla disperazione, ho chiesto ai bambini che ho incontrato: “Cosa desiderate?” I loro volti erano stanchi, le loro espressioni raccontavano storie di esaurimento che non dovrebbero appartenere all’infanzia. Le loro risposte andavano dal desiderare calore, al voler morire, al desiderare la fine di questo genocidio che soffoca Gaza.

Ma c’è stata una bambina, non più grande di cinque anni, che mi ha colpito più di ogni altra cosa. Portava sulla spalla una scatola di cartone in cui raccoglieva avanzi di cibo marcio che aveva recuperato da cumuli di immondizia. La sua immagine da sola sarebbe bastata a spezzare qualsiasi cuore. Le ho chiesto: “Cosa desideri?” Si è fermata per un momento, poi ha risposto con una voce dolce che portava il peso del mondo: “Vorrei trovare cibo per nutrire i miei fratellini. Mio padre ha perso gli arti, e mia madre è stata martirizzata. Sono io la responsabile di loro.”

Non ho potuto rispondere. Le parole mi sono mancate mentre la guardavo. In quel momento, la mia ricerca di cibo non aveva più importanza. Tutto sembrava insignificante rispetto al dolore in quegli occhi piccoli.

In tutto il mondo, i bambini scrivono lettere a Babbo Natale, chiedendo giocattoli e regali. Decorano alberi di Natale e riempiono le loro case di risate e gioia. Ma a Gaza, non ci sono lettere e non ci sono feste. Qui, se i bambini scrivessero qualcosa, non sarebbe per chiedere giocattoli o regali. Chiederebbero solo una cosa: la morte, come fuga da una vita che ha rubato loro l’infanzia e distrutto i loro sogni.

A Gaza, la vita non è vita. È una serie infinita di crisi che iniziano e non finiscono mai, mettendo alla prova anche i bambini più piccoli prima che possano capire il significato dell’innocenza. Sperano che oggi sia l’ultimo giorno, perché i giorni futuri non portano altro che più fame, paura e silenzio assordante. Migliaia di chilometri lontano, i bambini accendono candele e si riuniscono intorno a tavole piene di amore e cibo. Ma qui, le candele si accendono solo per vedere cosa rimane delle nostre case, e la tavola è vuota tranne che per un’attesa dolorosa.

Ogni volta che sento parlare delle lettere che i bambini inviano a Babbo Natale, mi chiedo: e se i bambini di Gaza scrivessero lettere? Chiederebbero qualcosa di diverso dalla morte? Chiederebbero un giocattolo per riportare una gioia che non hanno mai conosciuto? Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra averla completamente dimenticata, sommerso nel bagliore delle sue festività.

A Gaza, tutto è fermo: niente elettricità, niente acqua potabile, nessuna parvenza di vita normale. Persino sognare, un tempo un rifugio semplice, è diventato un lusso che nessuno osa concedersi. Ma lontano da questo angolo di mondo, la vita va avanti. Le città si illuminano con i colori del Natale, i mercati sono affollati e le persone si scambiano regali. Altrove, il tempo vola, e il mondo si occupa delle sue routine quotidiane, mentre qui a Gaza, ogni minuto porta un peso insopportabile.

Più di 444 giorni, e il mondo non si è fermato nemmeno per un momento a chiedersi: come sopravvivono due milioni di persone senza alcun orizzonte? Come continuano a vivere in mezzo alla completa assenza di tutto?

Più di 444 giorni, senza risposte.

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Attualità

È morto schiacciato da un automezzo dell’Amsa. Se un operaio stasera non torna a casa per la vigilia di Natale, non date la colpa al destino.

Un uomo di 52 anni è morto a Milano in un impianto dell’Amsa, la società che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani della città.

Secondo una prima ricostruzione dell’incidente avvenuto alle 18 nell’impianto di via Zama, l’operaio che stava lavorando a bordo di un mezzo sarebbe rimasto schiacciato tra il suo camion e un’autovettura, i vigili del fuoco hanno estratto il corpo purtroppo privo di vita.

Sul posto anche polizia di Stato, ATS e 118. L’operaio era residente a Cernusco sul Naviglio. (Fonte: repubblica.it).

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Attualità

Anche in mare si muore di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

I pescatori Massimo e Claudio Di Biase, 62 e 29 anni, padre e figlio, una pescheria a Ostia, domenica 22 dicembre sono usciti in mare dal porto di Fiumicino con il loro “Sette fratelli”, una vongolara di 13 metri.

C’era da soddisfare la forte richiesta prenatalizia. Il tempo di spingersi qualche miglio a nord e le condizioni meteo sono peggiorate bruscamente, con onde di due metri e mezzo.

I due hanno fatto dietrofront e intorno alle 14 erano ormai in vista di Fiumicino quando l’imbarcazione si è ribaltata ed è andata in pezzi. Un fenomeno improvviso e violento, 900 metri al largo di Focene.

Dalla costa chi ha assistito all’evento ha lanciato l’allarme, mobilitando guardia costiera e vigili del fuoco. Intorno alle 19 è stato recuperato in mare il corpo di uno dei due pescatori, mentre l’altro è stato trovato poco più tardi sulla spiaggia di Focene.

Alan Baisi, 28 anni, moglie e due figli, carrozziere a Reggio Emilia, venerdì 20 dicembre è uscito di casa intorno alle 19,30 per riconsegnare una Mini Cooper a un cliente.

È stata una telefonata di quest’ultimo a mettere in allarme la moglie: chiedeva il perché del ritardo nella consegna. La donna, altri due figli da una precedente relazione, è uscita per cercare Alan e a San Bartolomeo, frazione di Reggio Emilia, ha fatto la terribile scoperta: il 28enne era rimasto coinvolto in uno scontro frontale con un furgone, ed era morto sul colpo. Deceduto in ospedale l’83enne alla guida del furgone.

Marco Fuccaro, 65enne di Dogna (Udine), venerdì 20 dicembre è stato trovato senza vita in un bosco di sua proprietà nel quale stava facendo dei lavori. Un malore improvviso la causa della morte.

#claudiodibiase#massimodibiase#alanbaisi#marcofuccaro#mortidilavoro

Dicembre 2024: 54 morti (sul lavoro 49; in itinere 5; media giorno 2,5)

Anno 2024: 1120 morti (sul lavoro 853; in itinere 267; media giorno 3,1)

160 Lombardia (112 sul lavoro – 48 in itinere)

112 Campania (95 – 17)

104 Veneto (73 – 31)

89 Sicilia (64 – 25)

87 Emilia Romagna (66 – 21), Lazio (58 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Friuli V.G. (18 – 4), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Sette indagati della Procura di Genova per la morte del portuale Giovanni Battista Macciò nel terminale di Prà.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Si tratta di un’iscrizione tecnica, per dare modo ai sette di nominare gli avvocati che li rappresentino lunedì 23 dicembre, quando è fissata l’autopsia della vittima.

Si tratta di Patrizio Randazzo, alla guida del mezzo investitore e, tra gli altri, di Antonio Benvenuti, Console della Culmv, del general manager di Psa Roberto Goglio, di Paolo Casali, head of services di Psa e di Marco Ferrari, direttore ingegneria civile di Psa Italy Services.

Il quadro delle indagini è complicato, perché la dinamica dell’incidente appare incompatibile con il colpo di sonno di cui ha parlato Randazzo, che era comunque al secondo turno di lavoro consecutivo.

Sullo sfondo c’è lo scambio di accuse incrociate tra le varie componenti che agiscono nel Porto di Genova. La vedova di Macciò parla apertamente di favoritismi all’interno della Culmv, sostenendo che vengono fatti lavorare soci in condizioni psicofisiche non buone o addirittura sotto l’effetto di stupefacenti.

Randazzo ad esempio è risultato positivo ai cannabinoidi: scrive Repubblica che nel 2021 gli era stata ritirata la patente e che ha potuto continuare a lavorare nei terminal solo grazie all’intervento diretto di Benvenuti.

Non ci vanno leggeri nemmeno gli autotrasportatori, secondo i quali i soci Culmv guidano i trattori portuali con molta leggerezza e ampio uso dei telefonini.

Volano gli stracci, insomma, e in una situazione del genere è difficile accertare cosa è vero e cosa no. Anche perché non esiste un controllo dei carichi di lavoro nel porto, il cui eccesso viene indicato da Randazzo come causa dell’investimento di Macciò.

Sta di fatto che i terminalisti non sanno se un socio Culmv è reduce da un turno di lavoro precedente, né l’Autorità di sistema portuale è mai riuscita a fare ordine nella materia. Su tutto questo dovranno lavorare gli inquirenti, coordinati dal pm Arianna Ciavattini.

#giovannibattistamacciò#mortidilavoro#Culmv#portodigenova

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Ha detto al Wall Street Journal che lui non firma nessun accordo per porre fine alla guerra a Gaza finché non li “sradica” tutti. La domanda che si ripropone è quella di sempre: i kibbutznikim rapiti, ormai di chi sono ostaggi, di Hamas o di Netanyahu?

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Il Tribunale di Palermo ha condannato Meloni: dovrà continuare a sopportare Salvini al governo. Fine pena mai?

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“Non rispetta gli standard europei in materia di diritti umani”. Lo dice anche la Ue: il Ddl Sicurezza è una vera schifezza.

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“Se almeno avessimo lottato, ci saremmo sentiti uniti dalla speranza, invece che dalla paura”(*)

“La lotta degli operai della ex Gkn, condotta con creatività e resistenza pacifiche, ha risvegliato in molti quel senso di giustizia soffocato dal fatalismo rassegnato, portando a galla questioni esistenziali che non riguardano soltanto i 422 licenziati ex abrupto, ma l’intera collettività.

Che si tratti di un negozio, di una fabbrica, di un’agenzia di viaggi o di comunicazione, di un pezzo dell’industria mediatica-culturale o persino dello Stato nei suoi mille impieghi, non c’è quasi persona che non si sia trovata a lavorare in condizioni irregolari, con contratti che non corrispondono alle reali mansioni o al tempo dedicato, oppure sottopagata, senza possibilità di mettere in discussione scelte sbagliate e ingiuste, che non abbia subito ricatti più o meno aperti.

Nei cortei e sul palco delle moltissime manifestazioni del Collettivo sono state fatte le domande che tutti dovrebbero porsi, e ancora di più coloro che vogliono per mestiere, missione o coscienza essere interpreti del presente.

La volontà di non capitolare di fronte all’abuso e alla presunta assenza di alternative ha aperto gli occhi sugli abusi che tutte e tutti, ognuno a proprio modo, subiscono, e sull’atomizzazione dell’azione che è ricetta per la sconfitta del gruppo.

Antonio Gramsci scriveva nel 1917 – a 26 anni – parole che appartengono pienamente al presente, al ruolo della cittadinanza, di ogni lavoratrice e lavoratore, del sindacato, dei media.

“L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.

È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza.

Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti.

Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.

Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.

I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.

Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.

E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?” (Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti”, Chiarelettere, Milano 2011.)

(*) Marco Ferri, “Dannazione donna”, 2017).

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