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Attualità

Patriarcato compassionevole.

Perché gli uomini dedicano i loro premi alle donne?

“Il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale.”

A Stoccolma, Dario Fo dedicò il Nobel a Franca Rame; a Los Angeles, Ennio Morricone l’Oscar a sua moglie; e da ultimo, Roberto Benigni il Leone d’oro a Nicoletta Braschi. Tre esempi di talento, tre ambiti diversi dello spettacolo, tre figure rispettabilissime, prese solo ad esempio, che però hanno in comune il senso di colpa, quello di aver potuto usufruire, senza remore e per tutta la vita, del lavoro delle donne che gli sono state vicine. 

Ma il paradosso è che la dedica è di nuovo un gesto di supremazia patriarcale, – benevola, poetica, se volete anche appassionata-, ma pur sempre un gesto di potere: la dedica alla donna è un premio di seconda mano, di consolazione, una specie di risarcimento simbolico, utile a quella “captatio benevolentiae” che tanto gratifica l’esercizio del potere di un genere sull’altro. 

Siamo un paese con lunghe, solide e molto ben radicate tradizioni maschiliste, tanto da aver imparato a esercitarle in tutte le salse, in tutte le occasioni, in tutte le stagioni della vita: parafrasando, direi che il maschio latino nasce predatore, – del corpo ma anche dell’esistenza della femmina – e invecchia come patriarca compassionevole, che si auto gratifica della propria benevolenza, come premio alla carriera virile. 

Insomma, nasciamo maschi e, nella speranza di essere ricordati come veri uomini, escogitiamo il più banale trucco ipocrita: ringraziamo impunemente – e soprattutto pubblicamente – chi non ha potuto esprimere se stessa al meglio perché dedita al successo dell’eroe, che è tale solo per grazia, femminile, ricevuta. Una doppia gratificazione per lui, ma una doppia frustrazione per lei, che deve risplendere ancora una volta solo di luce riflessa. 

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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