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Aspettando Pommidoro.

Una storia romana de Roma.

Da bambino sono stato più volte a pranzo da Pommidoro.

Succedeva la domenica, quando i miei portavano me e le mie sorelle a vedere Roma, poi si andava a San Lorenzo, in piazza dei Sanniti, da Pommidoro. Durante la settimana ci andavano operai e artigiani. Pomodoro è stato sempre uno dei luoghi di Roma.

Nel passato, era una trattoria frequentata dai dirigenti della federazione romana del Pci, che allora era in via dei Frentani. E dai giornalisti dell’Unità e di Paese Sera, che erano in via dei Taurini. Nel tempo è stata anche frequentata da professori della Sapienza, l’Università. E da scrittori e intellettuali. Pasolini, che era a cena con Moravia, mangiò lì per l’ultima volta della sua vita.

Pommidoro era la sicurezza che la genuinità c’era ancora, non solo nei piatti.

Negli anni ci sono stato più volte, come fosse andare a trovare un parente, e subito sentirsi a casa. Senza troppe cerimonie, bastava uno sguardo, una parola giusta nel momento giusto, e mangiare e sentirsi complici di quella serena riluttanza che è una caratteristica dei romani. Ricordo quella volta che, dopo la presentazione di una campagna pubblicitaria per un’azienda che aveva la sede in via Tiburtina, – incontro che non andò affatto bene -, per scacciare la delusione proposi a tutti di andare a pranzo da Pommidoro.

Era il 1 agosto del 1995, ci sedemmo fuori a mangiammo cose buone, gustose e scacciapensieri. I musi lunghi si sciolsero in sorrisi prima e poi in vere e proprie risate.

Il cibo buono mette sempre allegria.Ricordo di aver mangiato, tra l’altro, una eccellente pajata alla brace, – che se me la ricordo ancora dev’essere stata davvero buona.

Cibo e vino sciolsero il ricordo della brutta esperienza, tanto che alla fine del pasto, dopo il dolce e il caffè, con un gesto chiamai il cameriere e gli ordinai un’ajo e ojo per tutti.

Ci fu sgomento tra i commensali, pensarono a uno scherzo. Il cameriere tornò, accompagnato da uno dei proprietari e mi chiese conferma. Dissi che davvero volevamo “dù spaghi ajo e ojo”.

“Anvedi, ahò, questi sì che sanno magnà – disse il cameriere – so’ anni che no ‘o fà più nisuno.” Quando uscì dalla cucina con una fiamminga piena di spaghetti fumanti e profumati d’aglio, anche i camerieri e quelli della cucina vennero a vedere la scena, e tutti gli altri clienti ci guardarono come fossimo forse matti, forse ubriachi, ma con la curiosità di chi non aveva ancora mai visto dal vivo quest’usanza, più mitica che tipica nelle osterie romane di una volta.

E tutta la nostra combriccola si accinse ad arrotolare le forchette.

Qualche tempo fa volevo tornare a pranzo da Pommidoro. Chiamavo, ma non rispondeva nessuno. Per colpa del lockdown, pensavo, non hanno ancora riaperto. Ma le settimane passavano.

Un giorno ho anche chiamato Paola Manfroni, che ha gli uffici della sua agenzia proprio lì vicino. Anche lei era dispiaciuta che Pommidoro non avesse ancora riaperto.

Adesso che Aldo se ne è andato, è giusto che Pommidoro sia chiuso. Se lo merita il lutto, e lo rispetto, come è giusto che sia. Però poi Aldo, e i suoi, si meritano che Pommidoro viva ancora a lungo.

Il che è un altro modo per dire che non vedo l’ora di poter tornare da Pommidoro, uno dei miei luoghi di Roma.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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