
Alessandro Pellegrini,
(Venezia 1945-Nepi 2024).
“La Morte viene a coricarsi al fianco di Ulisse;
ha vagato tutta la notte e ha le palpebre pesanti,
vuole stendersi in riva al fiume con il vecchio amico
all’ombra dell’agnocasto, dormire anche lei un poco;
posa lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere,
e così avvinta la valorosa coppia si addormenta.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,
che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra
passeggino donne nobili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota della terra, e che ogni anno porti
erbe e fiori, frutti d’ogni sorta, piogge dolci e neve;
che la ruota giri ancora, e che la terra si rinnovi.
La Morte ride di nascosto, o sa ch’è solo un sogno,
vento multicolore, fantasia della mente stanca,
e tollera imperturbabile che l’incubo l’assilli.
Piano piano la vita si fa sfrontata, la ruota prende slancio,
la terra avida apre le viscere alla pioggia e al sole,
infinite uova si schiudono, il mondo brulica di vermi;
si muovono folti eserciti, uomini, uccelli, fiere,
e pensieri, si avventano per divorare al Morte.
Una coppia di umani si rannicchia nelle sue nari,
accende il fuoco e lo attizza per prepararsi il pranzo,
e sul suo labbro appende la culla del neonato.
Ha un solletico sulle labbra, formicolano le nari,
la Morte si scuote all’improvviso e svanisce il sogno.
Nel sonno fulmineo ha avuto un incubo: la vita.
(“Odisea”, Canto VI, versi 1265-1290, Nikos Kazantzakis, Crocetti Editore 2021).