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Pubblicità e mass media

Sordi e sordidi.

 

Una anziana signora di Roma ha vinto la causa davanti al Giudice di Pace, che ha deciso di revocare la multa per la contravvenzione alle norme che vietano di usare il telefono mobile alla guida di un autoveicolo. La notizia è stata riportata da www.ilmessaggero.it, che ci dice anche il perché la multa è stata ritenuta ingiusta e ingiustificata: la signora è sordomuta, quindi fisicamente impossibilitata all’uso del telefonino, men che meno alla guida del sua auto.

Mi pare una allegoria dei tempi che corrono. La signora alla guida del Ministero dell’istruzione non ha voluto ascoltare le mille voci che chiedevano il ritiro del decreto legge che passerà alla storia col suo nome, tanto per fare un esempio di stretta attualità. Ma la sordità sembra essere un difetto molto diffuso.

Sordi ai cambiamenti del comportamento dei consumatori, molti investitori continuano a ritenere la tv il totem di tutta la comunicazione pubblicitaria, invece che mettere in campo tutta la filiera della comunicazione commerciale.

Sorde ai tempi che cambiano, molte agenzie di pubblicità continuano a far largo uso di testimonial, invece che di buone idee.

Sorda alla pluralità dei linguaggi moderni, la nostra tv sforna palinsesti decotti: saranno meno “ansiogeni” come chiede qualcuno, di sicuro appaiono sempre più inefficaci, sia agli ascolti che al successo delle marche e dei loro prodotti, come dimostrano i pesanti cali dei consumi.

Dice: ma c’è la crisi. Infatti, sorde alle reali preoccupazioni legate allo sfavorevole ciclo economico, le agenzie  di pubblicità italiane hanno dimenticato il valore della creatività, unica leva in grado di stimolare l’attenzione verso le marche.

Sordi ai fondamentali dell’advertising, i manager della pubblicità sono più creativi a tagliare che a investire nelle idee, dimenticando che la crisi è da sempre il terreno favorevole all’innovazione.

Ma loro, appunto, sono sordi, da quest’orecchio non ci sentono da tempo, da prima dell’attuale crisi.

Loro sono sordi, ma il mercato ci sente e ci vede bene. Infatti continua a punirli, tagliando i budget previsti in comunicazione per il prossimo anno. Ma loro, siccome sono sordi, fanno finta di niente, dicono che va tutto bene, rilasciano dichiarazioni roboanti, vantano acquisizioni, millantano solide relazioni con i clienti, inventano comunicati stampa surreali, mentre a casa affilano le lame dei tagli del personale. A forza di essere sordi, si diventa sordidi.

Quando non si sente il bisogno di cambiare, la sordità diventa cronica: infatti, siccome pare che a nessuno venga il sospetto che è giunto il momento di sturarsi  le orecchie  e ascoltare attentamente i cambiamenti, la pubblicità italiana è ridotta in uno stato terminale. Beh, buona giornata.

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Attualità

Alitalia: ricevo e pubblico.

COMUNICATO   STAMPA

Alle ore 23:45 del 29 ottobre 2008 dopo 7 ore di riunione relativa ai “criteri di assunzione” la CAI, dopo una pausa di due ore, ha ripreso il confronto dichiarando che i documenti contrattuali relativi al personale di volo e di terra consegnati nella giornata di lunedi 27 ottobre rappresentavano una posizione ultimativa e non si dichiaravano disponibili ad una rilettura degli stessi per verificarne la coerenza rispetto a quanto negoziato e sottoscritto a Palazzo Chigi.
Le OO.SS./AA.PP. nel rilevare l’incomprensibile ed improvviso cambio di atteggiamento della delegazione CAI, anche rispetto al positivo e costruttivo andamento della prima parte della riunione, hanno dichiarato che la difformità dei testi consegnati rispetto agli accordi di Palazzo Chigi, rendevano indispensabile una verifica congiunta alla quale CAI si è sottratta, impedendo ogni ulteriore approfondimento di merito e abbandonando il tavolo alle ore 24 dichiarando chiuso il confronto.
Roma, 30 ottobre 2008

FILT CGIL –FIT CISL – UILT – UGL TRASPORTI
SDL INTERCATEGORIALE
ANPAC – UNIONE PILOTI – ANPAV – AVIA

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Attualità

Il governo e l’onda anomala.

 

Genitori, scolari, alunni, studenti, universitari, bidelli, professori, ricercatori e rettori: sono disinformati, come sostengono dalle fila della maggioranza che sostiene il governo o molto preoccupati per il futuro, come sostengono quelli che stanno protestando in tutta Italia?

Chi ha sentito le parole nelle assemblee, gli slogan nei cortei, chi ha fatto un giro sul web alla ricerca dei contenuti della protesta sa bene che  l”onda anomala”, come si autodefinito il nuovo movimento studentesco è tutt’altro che disinformato e sprovveduto. Comunque, abbiamo fatto quello che è stato chiesto da più parti, siamo andati a leggere il Decreto “Gelmini”.

In effetti, il provvedimento in questione si occupa per lo più della scuola elementare e media inferiore: reintroduzione del voto in condotta; ripristino, per quest’anno facoltativo, del grembiule nelle elementari; possibilità, a giudizio del consiglio di classe di bocciare lo studente anche con una solo insufficienza; diminuzione, nel modulo del tempo pieno delle ore di insegnamento da 40 a 24 settimanali; reintroduzione del maestro unico.

Le famiglie e gli insegnanti elementari si sono subito preoccupati della diminuzione dell’orario, paventando il pericolo della fine del tempo pieno, che ha fatto delle scuole elementari italiane un modello pedagogico e didattico in Europa. A nulla è valso argomentare che non si sarebbe trattato della fine del tempo pieno, evento che inciderebbe seriamente nell’economia, del tempo e del denaro, delle madri lavoratrici. Anche perché gli argomenti a sostegno delle misure contenute nel Decreto “Gelmini” sono stati avanzati dopo l’approvazione del decreto in questione e non prima: col senno di poi, utile sarebbe stato un normale svolgimento del dibattito parlamentare e il coinvolgimento delle parti sociali interessate, che invece si sono trovati davanti a un fatto compiuto.

Fatto sta che si è innescata la protesta degli esclusi dalle decisioni, in concomitanza con la riapertura dell’anno scolastico e accademico 2008/09. La protesta ha portato alla luce che in effetti non solo la scuola elementare, ma tutta la filiera dell’istruzione pubblica sarebbe stata interessata da tagli di bilancio, da qui ai prossimi anni, come si evince leggendo gli altri provvedimenti assunti in materia di istruzione pubblica, provvedimenti “spalmati” nella legge finanziaria, nella legge 133, nella legge 137.

La lettura di questi provvedimenti è apparsa subito un combinato disposto di tagli progressivi, da cui appaiono, per il momento immuni, solo le scuole medie superiori, le quali sono, semmai, sottoposte al regime di “accorpamento” edilizio: istituti con pochi alunni vengono accorpati in altri istituti, per creare economie delle spese generali ed edilizie.

Su questo versante, per altro anche alcuni enti locali, regioni e provincie, hanno sollevato conflitti di attribuzione, essendo, come è noto, competenti per legge in materia di edilizia scolastica e di manutenzione ordinaria degli immobili allo scopo adibiti. E’ noto che anche i licei stanno partecipando alle attuali proteste: c’è una proiezione psicologica verso il loro futuro universitario, ove è noto il taglio di oltre un miliardo di euro e il blocco del turn-over, che riguarda soprattutto i docenti precari. E’ vero che nel Decreto “Gelmini” non si prevedono veri e propri tagli di bilancio ( a eccezione del taglio delle ore degli insegnanti, che porta con sé un taglio degli organici), e che questi sono in realtà contenuti negli altri già citati provvedimenti.

Ma è anche vero che non siamo in presenza di una riforma organica, come tante volte si è provato a fare: ogni ministro dell’istruzione in carica negli ultimi governi ha fatto la sua riforma, riforma riformata dal suo successore. E forse il problema sta proprio qui: i tagli sembrano certi, il futuro della scuola pubblica italiana incerto. A meno che non si recepiscano gli appelli a riaprire un vero confronto, come sollecitato dal Presidente della Repubblica giorni  fa, dall’opposizione parlamentare e in queste ore da “Famiglia cristiana”, che recependo le voci della protesta, chiede il ritiro immediato del decreto, che è attualmente in discussione al Senato e potrebbe essere approvato,  in via definitiva nelle prossime ore.

Dal punto di vista politico,  l’onda anomala ha creato una situazione di crollo del consenso nei confronti del governo Berlusconi, che secondo Renato Mannheimer è andato giù in queste settimane di ben 18 punti percentuali. Questo spiega perché alcune minacce, atteggiamenti improntati al nervosismo e una certa dose di arroganza sono la cifra del comportamento della maggioranza di governo. Questo spiega anche il ritorno sulla scena politica dell’opposizione, risorta dalle macerie della sconfitta elettorale dello scorso aprile.

Dal punto di vista sociale, l’onda anomala ha portato alla luce il grande disagio creato dalla crisi dei mutui, con il corollario dell’incipiente arrivo della recessione economica. Più in generale ciò che appare in crisi è il modello “meno stato, più mercato”, mentre le teorie e le pratiche neoliberiste sembrano mostrare la corda:  la domanda spontanea che migliaia, milioni di cittadini italiani si sono fatta in questi giorni è stata: perché aiutare le banche e non anche lo stato sociale, gli stipendi, i consumi?

La risposta è venuta proprio dall’onda anomala: lo slogan “La crisi non la paghiamo noi” ha messo il dito sulla piaga del diffuso scontento tra l’opinione pubblica. Un recente sondaggio dice che il 50 per cento degli italiani è a favore della protesta degli studenti.

Con la sua carica di freschezza, tranquilla fermezza e creatività politica, l’onda anomala ha rimesso in moto il dibattito politico e sociale in Italia. Il che è buono, bello e importante. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Metti una sera a cena Berlusconi e i pubblicitari.

«Da presidente del Consiglio non ho poteri per intervenire, ma voi dovreste chiedere un incontro ai vertici della Rai. Dovreste chiedere se è mai possibile che le aziende investano in pubblicità senza veder mai diffusi messaggi positivi. Non dico tanto, almeno una volta». Queste parole, pronunciate durante una recente cena, alla quale partecipavano, tra gli altri, alcuni importanti manager della pubblicità italiana, sono state riferite da Francesco Verderami per il Corriere della Sera di sabato 25 ottobre (http://archiviostorico.corriere.it) e da Aldo Fantanarosa per Repubblica di domenica 26 ottobre (http://www.repubblica.it)

Il riferimento, secondo quanto è stato riportato dalla stampa sarebbe innanzi tutto alla persona di Michele Santoro e al suo Anno zero, programma di Raidue. Le implicazioni politiche che queste parole hanno sollevato appartengono allo scontro politico in atto, e quindi meriterebbero una disamina in altra sede.

Qui è invece il caso di affrontare la questione dal punto di vista pubblicitario. Come tutti sanno, l’efficacia del messaggio pubblicitario in televisione viene monitorato da aziende specializzate, che prendono in esame, attraverso criteri quantitativi, le percentuali di share  e di audience per fascia oraria e di penetrazione sui vari target, suddivisi per segmenti socio-demografici: età, reddito, aree geografiche.

E’sulla base di questi parametri che si costruiscono i palinsesti televisivi, che si propongono alle concessionarie di pubblicità gli spazi e i relativi costi, che poi si propongono alle aziende come efficaci veicoli di comunicazione commerciale.

Il tutto ha, almeno in apparenza, una autorevolezza tecnico- scientifica, che dovrebbe favorire la misurabilità dell’efficacia del messaggio e dunque la prova provata di un favorevole rapporto tra costi (budget pubblicitari) e benefici (penetrazione presso il target utile della buona reputazione di un prodotto pubblicizzato).

Il che detto in soldoni, suona più o meno così:  “Ecco dottore, guardi i dati, lei ha speso tot del suo budget su questo programma televisivo, che è stato visto da tot spettatori, che ha fatto un bel tot di ascolti, tra i quali c’era un tot del tot per cento di persone nella condizione di acquistare il suo prodotto. Contento, dottore?”

Se non che, le parole del capo del governo introducono un altro parametro: la fiducia verso l’opera del suo governo. Quindi bisognerebbe rifare daccapo tutti calcoli, vale a dire inventare una equazione in cui allo share e all’audience, accanto ai vari target e alle variabili socio demografiche, va aggiunta e calcolata l’incognita: non una x, ma una F, fiducia. E non una f minuscola, cioè rivolta la mercato, ma una F maiuscola, cioè rivolta all’operato del governo in carica.

Io c’ho provato e riprovato, ma alla fine è uscito sempre lo stesso risultato: pensavo a un nuovo modo di misurare la pubblicità,  e invece veniva fuori la vecchia storia della propaganda filo-governativa. Il che dimostra che proprio non funziona.

La propaganda ha la sua efficacia per la politica, ma ha caratteristiche molto passeggere e assolutamente mutevoli. Con la propaganda si può aumentare il gradimento del consenso politico con la stessa velocità con la quale lo si può perdere, come dimostra un recente sondaggio di Renato Mannheimer, pubblicato sul Corriere della Sera.

La pubblicità mira, invece, a una relazione stabile e duratura con la clientela di una azienda, una relazione capace di essere, per quanto possibile permeabile agli umori dei consumatori, di modo che si stabilisca quel circolo virtuoso che affini i gusti dell’acquirente e migliori l’offerta da parte della marca.

I clienti della pubblicità scelgono i mezzi di comunicazione di massa più idonei per raggiungere i loro clienti. Per una questione di affinità elettiva, mica elettorale. Beh, buona giornata.

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Scuola

“Classi ponte”? No, grazie.

La lingua che ci unisce

 

 

Le ragioni per respingere l’emendamento che prevede l’introduzione nelle scuole delle cosiddette “classi ponte”, alle quali dovrebbero afferire gli studenti stranieri che non hanno raggiunto un livello accettabile di padronanza della lingua italiana, sono state argomentate da voci diverse, provenienti da settori del mondo intellettuale, politico e religioso.

Ad esse vorremmo unirci e svolgere ancora qualche considerazione. Le questioni trattate dal provvedimento investono un crinale importante e delicato nella vita di un paese: l’inserimento di un individuo nella vita pubblica di una comunità, l’ingresso nel suo tessuto civile.

La fatica di scolari e studenti, fin dai passi nella prima formazione, per apprendere la lingua madre e poi le altre discipline, prima di altri obiettivi, realizza questo articolato percorso di integrazione.

Se dunque, come si assume ormai comunemente, la scuola è il luogo nel quale si completa tale processo, le migrazioni che segnano la nostra epoca e di cui il nostro paese è ora investito massicciamente, impongono uno sforzo nell’aggiornamento dei progetti pedagogici, e rigore nella gestione didattica. Essi dischiudono al contempo grandi opportunità, come comprende chi conosce la storia del nostro paese, prodotto di ampie ondate migratorie progressivamente accolte e assorbite. L’integrazione è dunque un esercizio costante nella nostra storia, che però può essere inteso in modo assai diverso.

Nel caso del provvedimento per invocare le finalità integrative si chiama in causa la competenza linguistica, ma come ha ben presente chiunque faccia ricerca sulle lingue e abbia a che fare con processi di mediazione linguistica e culturale, se l’obiettivo è l’apprendimento il primo passo è il contatto, l’ultimo la separazione. Ma guardiamo nel merito la proposta.

Il provvedimento in questione giustifica le classi separate affermando che spesso  i bambini stranieri  non hanno una competenza tale da seguire il normale corso delle lezioni, il che vanifica la loro presenza in classe e rende più lento e farraginoso lo svolgimento del programma poiché gli insegnanti devono dedicarsi a colmare queste lacune. Le classi ponte sarebbero necessarie per consentire a questi scolari/studenti una competenza linguistica adeguata ed inserirli, poi, nelle classi “normali”. Presupposto non esplicitato della norma è che gli stranieri siano indietro nelle competenze linguistiche relative all’italiano, questo talvolta accade, altre no come attestano studi statistici molto recenti. Occorre aggiungere, poi, che molti bambini e ragazzi italiani, ancora dialettofoni o semplicemente più indietro di altri per molte ragioni, spesso non sono in possesso di competenze linguistiche di base. Anche loro andranno nelle classi ponte?

Un altro ordine di argomenti riguarda l’assunto secondo il quale gli allievi devono possedere, in generale, competenze adeguate, altrimenti rendono più complesso e lento il lavoro didattico al resto della classe. Ora, nelle scuole italiane, gli studenti non sono ammessi sulla base di un previo esame delle loro competenze di base. Bambini con difficoltà varie – psicologiche, motorie, cognitive – sono inseriti nelle classi comuni. Hanno accanto – e anche questa è attualmente materia di discussione – insegnanti che ne sostengano lo sforzo. Le difficoltà che incontrano i bambini e i ragazzi possono essere di ordine molto diverso – argomentativo, logico-matematico, visivo-spaziale. A meno di sostenere che generalmente i bambini italiani sono superiori ai bambini immigrati, si conclude che tali ostacoli sono egualmente distribuiti tra le diverse appartenenze nazionali. Un insegnante ha fatto timidamente osservare, ad esempio, che i suoi allievi pachistani ed indiani sono eccellenti in matematica e quelli rumeni nelle lingue. Altri potranno avere esperienze diverse, ciò che si evince, però, è che occorre rovesciare il presupposto implicito alla norma: a meno di agire in base a pregiudizi di natura puramente ideologica l’integrazione linguistica è un processo rapido e possibile laddove c’è il contatto e lo scambio frequente. Nel senso comune, come nelle ricerche più avanzate, si è diffusa la convinzione che se si vuole imparare una nuova lingua occorre “immergersi” (come voleva l’espressione inglese full immersion), in essa, frequentare i parlanti di quella lingua, comprenderne la cultura. Accorpare indistintamente tutti i bambini stranieri che non sono d’italiano prima lingua vuol dire percorrere esattamente la strada opposta. È noto da tempo agli studiosi, e, di nuovo, è diffusa nel senso comune, la consapevolezza che lo scambio tra parlanti di lingue – e culture diverse – migliora complessivamente le competenze linguistiche. Tra i molti esempi che si potrebbero portare, è accertato ormai da tempo come bambini plurilingui sviluppino molto più precocemente competenze meta-linguistiche, ossia sono in grado, prima e più di altri, di sfruttare le risorse offerte dalla lingua per migliorarne ed estenderne l’uso o per apprenderne di nuove. Sostenere questa posizione non vuol dire, infatti, negare che possano esservi lacune o disparità, quanto, piuttosto, esortare ad invertire la rotta. Laddove si riscontrano occorre colmarle sostenendo la presenza dei docenti, prevedendo figure specifiche che favoriscano il raggiungimento di un livello comune. Consapevoli che, ai blocchi di partenza ci si può trovare in posizioni molto diverse, indipendentemente dalla nazionalità.

Come si è detto più su, il nostro paese è frutto di un’integrazione progressiva di gruppi diversi. Tanto per restare sul tema della lingua, si può ricordare che siamo la nazione, in Europa, con il più elevato tasso di diversità linguistica nativa, dato ancora vivo nei diversi dialetti che attraversano le parlate nel nostro paese e nelle ben 14 minoranze linguistiche presenti. L’italiano lingua – e cultura –  nazionale, parlata da decine di milioni di persone, è una conquista molto recente, ed è frutto di uno sforzo comune, di una scuola, in primis, alla quale tutti, bambini che parlavano sardo, genovese, siciliano, ladino, accedevano e dalla quale uscivano parlando, più o meno, italiano.

La storia dovrebbe aiutare a comprendere come l’opportunità più grande dischiusa dalla presenza di nuovi cittadini italiani, nati magari lontano e arrivati di recente, o nati qui, ma da genitori che parlano lingue lontane, è proprio quella di affrancarci da attitudini discriminatorie. I bambini italiani che hanno avuto scambi e contatti con essi, hanno “toccato” la differenza ma non vi hanno assegnato valenze e pregiudizi sono, forse, vaccinati. Una generazione “colour-blind”, che può lasciare dietro di sé il virus di pregiudizi ed esclusioni.

Un’ultima considerazione a riguardo: si possono avere opinioni diverse nel merito dei singoli progetti pedagogici. Si può discutere sulla utilità delle ore di insegnamento, sul numero degli insegnanti, sugli abiti da indossare nelle ore di lezione. Il confronto di punti di vista diversi è il cuore della vita pubblica delle società democratiche. Ma questo dovrebbe avvenire in un quadro di valori condivisi, come quelli che hanno segnato la nascita della nostra vita repubblicana. Sulla possibilità che bambini e ragazzi debbano avere uguali opportunità nell’apprendimento della lingua e, più in generale, di diventare cittadini italiani pienamente alfabetizzati, non ci si dovrebbe dividere, proprio no.

 Grazia Basile (Università di Salerno)

 David Gargani (Università di Roma1)

 Fabrizia Giuliani (Università di Roma1)

 

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Scuola

Scuola: il terreno è sdrucciolevole e il ministro scivola.

E’successo al Senato della Repubblica italiana. Secondo le agenzie di stampa, il ministro dell’istruzione è inciampata su una parola sdrucciola: ha detto egìda invece che ègida. Pare che in aula sia scoppiata una risata generale.

Il fatto è che al Senato era in discussione la famosa legge sulla scuola, che sta agitando studenti, famiglie e insegnanti di ogni ordine e grado, in tutta Italia. Quando si dice la parola sbagliata, nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato.

Però non ci voleva. Tanto più che abbiamo visto nei cortei di questi giorni cartelli che raffigurano un immaginetta sacra, col volto del ministro in fotomontaggio e la scritta “beata ignoranza”.  Che cattivi!

No, no, proprio non ci voleva. Per fortuna la legge in questione non è ancora passata, se no capace che anche con un solo brutto voto il ministro rischiava la bocciatura. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

La polizia contro gli studenti ovvero io sono io, e voi non siete un c….(*)

 

Il capo del governo italiano ha detto che se gli studenti continuano a protestare contro i tagli alla scuola, lui gli manda la polizia. Ha anche detto che i giornalisti la devono piantare di creare “ansia” dalle pagine dei giornali, dai microfoni del telegiornali.

Giorni fa, il ministro dell’istruzione ha detto che lei quelli che protestano proprio non li capisce.

Il ministro delle pari opportunità ha querelato una donna che di mestiere fa satira, perché non gradisce essere presa in giro.

Il ministro della funzione pubblica non ammette critiche, per lui gli impiegati pubblici sono “fannulloni”. Va in giro per tutti i talk show a dirlo e ridirlo.

Da quando si è insediato il nuovo governo è diventata una prassi consolidata procedere per decreto legge e poi imporre il voto di fiducia. Così succede che  prima non si vuole far discutere il Parlamento, poi non si accettano né critiche, né proteste né che di queste si occupino i giornali.

Questi atteggiamenti sono legittimi e legittimati dal fatto che il capo del governo risulta gradito a oltre il 60% degli intervistati, secondo più di un recente sondaggio d’opinione. E’quanto ha apertamente dichiarato il capo del governo italiano durante un convegno di industriali a Napoli.

Come si spiega questo diffuso atteggiamento di decisionismo burbero?

Secondo Raffaele Simone, linguista di reputazione internazionale, questi atteggiamenti appartengono alla dottrina politica di quella che ha definito “Neodestra” italiana.  In “Il mostro mite” (Garzanti, 2008), Raffaele Simone postula questa dottrina, mettendo a confronto il linguaggio dottrinale con quello colloquiale:

a)     postulato di superiorità (“io sono il primo, tu non sei nessuno”);

b)    postulato di proprietà (“questo è mio e nessuno me lo tocca”);

c)     postulato di libertà (“io faccio quel che voglio e come voglio”);

d)    postulato di non-intrusione dell’altro (“non ti immischiare negli affari miei”);

e)     postulato di superiorità del privato sul pubblico (“delle cose di tutti faccio quello che voglio”).

Se ascoltate con attenzione le parole che vengono organizzate in discorsi dagli esponenti del governo, sia che si tratti di un intervento a un convegno, a una conferenza stampa, piuttosto che davanti ai microfoni di un cronista, vi accorgerete come questi postulati vengono continuamente riproposti, sia in forma “dottrinale” che in quella colloquiale, che in genere è la preferita, perché ben si presta a essere citata su un giornale o al telegiornale. A volte ci si spinge troppo in là, e allora pronta arriva la smentita, che è in realtà il talento di dire due volte esattamente la stessa cosa, una volta affermandola, una volta negando non la cosa in sé, quanto l’interpretazione che ne è stata data.

La domanda che spesso ci poniamo è perché sia possibile che questo modo di condurre la politica abbia successo, come dimostrano i sondaggi. “Quella che (i postulati della Neodestra) descrivono è una società aggressiva, egoistica e pericolosa”, scrive Raffaele Simone in “Il mostro mite”.

In effetti, viviamo tempi precari:  reduci dalla grande paura del terrorismo islamico, inaugurato con l’Attacco alle Torri Gemelle, coinvolti nella “guerra preventiva” e nel timore di attentati nelle nostre città, siamo attualmente spaventati dalla globalizzazione finanziaria ed economica e dalle grandi migrazioni, siamo molto preoccupati per il tenore e lo stile di vita, allertati dai pericoli di un’ imminente e grave recessione economica.

Il decisionismo burbero fa leva sulla semplice constatazione che un “popolo spaventato si governa meglio”? In effetti, temiamo di perdere qualcosa (lo stipendio, il posto di lavoro, la casa, la vacanza, l’auto, l’i-phon) che consideravamo un diritto di proprietà. Ragion per cui, senza mezzi termini diamo credito, apertamente o in modo più defilato a chi si candida a proteggere grandi o piccoli possessi acquisiti, grandi o piccoli privilegi. Poiché meno si ha, più l’eventualità di una perdita è sinonimo di disastro, ecco che il ceto medio ( medio perché ha qualcosa in più delle classi basse, e molto di meno di chi possiede di più), sentendosi molto minacciato tende a premiare col suo consenso governi come quello che abbiamo in Italia in questi mesi e che sembra intenzionato a durare a lungo.

L’attuale governo ha restituito la parte residua dell’Ici, ha fatto sparire “la monnezza” a Napoli, ha reso invisibili le prostitute, ha spinto in periferia i campi nomadi, punisce i “fannulloni” nel pubblico impiego. Fin qui tutto sembrava filare liscio. Quando ha deciso di tagliare i costi alla scuola, qualcosa si è inceppato.

Complice fortuito l’arrivo della bolla speculativa dei mutui, l’operazione di “risparmio” ideata dal ministro Tremonti e vestita da riforma dalla ministro Gelmini non ha avuto successo.

Il mondo della scuola si è ribellato: genitori e scolari, studenti e insegnanti, professori, prèsidi  di facoltà e addirittura rettori di atenei hanno detto no. “La crisi non la paghiamo noi” si è letto sugli striscioni di migliaia di manifestanti in tutta Italia. Questa idea, semplice e comprensibile a tutti, ha fatto breccia fino a preoccupare seriamente il governo, come dimostra la minaccia far intervenire la polizia nelle scuole e nelle università: il pericolo avvertito è che scolari, studenti, genitori, insegnanti, prèsidi e rettori, facenti per lo più parte del ceto medio, possano rappresentare il punto critico di rottura del consenso fin qui incassato dalla coalizione di governo.

Bisogna aggiungere che la protesta nelle scuole ha trovato una prima saldatura il 17 ottobre, quando si è svolto lo sciopero generale contro il governo, indetto dai sindacati di base e a Roma sono sfilati in 350 mila. Anche qui l’occasione è stata forse fortuita, fatto sta che contro quella giornata si è scagliato il capo del governo a Napoli, durante il già citato intervento al convegno degli industriali italiani.

Anche l’opposizione parlamentare sta tentando di intercettare il malumore e il dissenso che dal mondo della scuola potrebbe contagiare la disapprovazione nei confronti del governo da parte dei ceti medi.

La manifestazione del 25 ottobre prossimo potrebbe essere un banco di prova, anche se per stessa ammissione dei dirigenti del Pd la protesta nelle scuole ha preso il via al di là e al di fuori delle organizzazioni di partito e anche se la data della manifestazione era stata decisa molto prima la nascita delle protesta (un altro caso fortuito con gli avvenimenti in corso).

Quali chances ha il centrosinistra italiano di tornare, dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile a rappresentare una concreta attrattiva sulla scena politica?

Abbiamo visto i postulati della dottrina della Neodestra, così come ce li ha proposti Raffaele Simone in “Il mostro mite”. Il quale ci propone quelli riferibili alla sinistra (che qui, per brevità propongo in “forma colloquiale”):

a)     al “io sono il primo, tu non sei nessuno” si oppone “non siamo tutti uguali, ma dobbiamo diventarlo”;

b)    al “questo è mio e nessuno me lo tocca” si oppone “entro certi limiti la mia proprietà può essere ridistribuita ad altri”;

c)     al “io faccio quel che voglio e come voglio” si oppone “i diritti dei singoli non possono sminuire il bene pubblico”;

d)    al “non ti immischiare negli affari miei” si oppone “gli interessi dei singoli possono essere limitati dall’interesse di tutti”;

e)     al “delle cose di tutti faccio quel che voglio” si oppone “sebbene  i privati abbiano prerogative e diritti definiti, il pubblico è preminente”.

Anche in questo caso, come si notava poco fa a proposito degli esponenti della Neodestra, se ascoltate con attenzione le parole che vengono organizzate in discorsi dagli esponenti dell’opposizione, sia che si tratti di un intervento ad un convegno, a una conferenza stampa, piuttosto che davanti ai microfoni di un cronista, vi accorgerete come questi postulati vengono continuamente riproposti, sia in forma “dottrinale” che in quella colloquiale.

La domanda è: sono attrattivi, possono essere condivisi dai ceti medi, che come si sa sono la base elettorale che elegge o manda a casa i governi nei paesi occidentali?

Non ci possono essere dubbi: la risposta è no. A meno che la congiuntura economica non spinga fino in fondo le contraddizioni che sta vivendo il ceto medio, che non affiori la netta sensazione di essere stati sfruttati sfacciatamente dalle banche e dalle finanziarie, che il possesso dei risparmi gli sia stato soffiato via dalle tasche, che lo stipendio è troppo basso, le spese troppo alte, le tutele evanescenti, che se una volta anche l’operaio voleva il figlio dottore, oggi anche il dottore ha un figlio precario.

In un certo senso e fatte le debite proporzioni è il senso della sfida alla Casa Bianca da parte di Barak Obama. Tra qualche giorno saremo in grado di vedere i neo-cons, la Neodestra americana può essere battuta.

Durante un recente dibattito televisivo, a un vice ministro che lo interrompeva col piglio tipico del politico della Neodestra, Eugenio Scalfari ha detto: “Lei non migliora mai, eh!?”. Ecco: se in un prossimo futuro le parole del fondatore di Repubblica dovessero anche solo venire in mente a milioni di elettori, allora, forse, si aprirà una nuova stagione politica.

La nuova stagione economica e sociale è già qui: la Neodestra non sa bene che pesci prendere, l’opposizione sconta forti ritardi sulla tabella di marcia delle contraddizioni politiche e sociali. A quanto pare, gli unici che al momento hanno le idee chiare sono gli studenti italiani: è contro quel“Non pagheremo noi la crisi”che si minaccia di mandare addosso la polizia. Beh, buona giornata.

(*)I sovrani del mondo vecchio

C’era una volta un Re che dal palazzo
emanò ai popoli quest’editto:
– Io sono io, e voi non siete un cazzo,
signori vassalli imbroglioni, e state zitti.

Io rendo diritto lo storto e storto il diritto:
posso vendervi tutti a un tanto al mazzo:
Io, se vi faccio impiccare, non vi faccio un torto,
perché la vita e la roba Io ve le do in affitto.

Chi abita in questo mondo senza il titolo
o di Papa, o di Re, o d’Imperatore,
quello non può avere mai voce in capitolo -.

Con quest’editto andò il boia per corriere,
interrogando tutti sull’argomento;
e, tutti risposero: E’ vero, è vero.

(Trilussa)

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Attualità

Lo sfratto di polizia.

 

L’ufficiale giudiziario, il legittimo proprietario, il suo avvocato, uomini e mezzi per il trasloco forzato si sono presentati davanti uno stabile di Cerignola, provincia di Bari per eseguirne lo sfratto degli inquilini e dei loro effetti.

Gli inquilini hanno resistito, facendo un picchetto che ha impedito l’accesso dell’ufficiale giudiziario, respingendo il decreto ingiuntivo di sfratto. L’ufficiale giudiziario, il legittimo proprietario, il suo avvocato, gli uomini e i mezzi per il trasloco forzato se ne sono dovuti andare. Perché non hanno chiamato la polizia? Non ce ne era bisogno, perché la polizia era lì: lo sfratto riguardava proprio il commissariato di polizia di Cerignola, gli inquilini che hanno impedito l’attuazione del provvedimento giudiziario erano loro, gli agenti di polizia che operano nel commissariato.

E’ un paradosso tipicamente italiano? Forse, ma solo in parte. Perché le forze di polizia italiana sono state oggetto di tagli di bilancio da parte del governo. E forse il paradosso sta proprio qui: da un lato si sono irrigiditi criteri di controllo del territorio, utilizzando le polizie locali, cioè i vigili urbani e addirittura usando le forze armate, in missione di ordine pubblico.

Contemporaneamente, si sono tagliate le spese per le forze dell’ordine, fino ad arrivare allo sfratto di un commissariato della Polizia di Stato: pare il contratto di locazione fosse scaduto da cinque anni e, secondo il legale del proprietario, il ministero competente fosse moroso da qualche mese.

Più sicurezza , ma meno soldi per la polizia: come fare le nozze con i fichi secchi. Ci sono in giro per i nostri canali televisivi, pubblici e privati,  quattro o cinque miniserie televisive che raccontano le gesta della polizia italiana. Hanno successo di pubblico, inorgogliscono lo spirito di corpo e raccolgono molte inserzioni pubblicitarie.

Come è possibile, allora che la polizia sia ospite gradito in tv, e inquilino indesiderato in città? E’ la fiction, bellezza. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

La bolla speculativa e le balle della propaganda.

La crisi finanziaria rischia di togliere, entro la fine del 2009, l’impiego a 20 milioni di lavoratori nel mondo. E’ l’allarme che ha lanciato in queste ore Juan Somavia, il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

I settori più colpiti sarebbero quello delle auto, la finanza, i servizi, l’edilizia e il turismo. “Non è solo una crisi di Wall Street,  ma una crisi che interessa tutto il mondo”, dice  Somavia, che sottolinea che è necessario un piano di salvataggio che sia concentrato sull’economia reale e sulle questioni sociale.

Per il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro è necessaria un’azione rapida e coordinata dei governi per prevenire una crisi sociale che rischia di essere “severa, lunga e globale”. A rendere ancor più preoccupante lo scenario il fatto che la crisi potrebbe colpire soprattutto i più “vulnerabili”.

Chi sono i vulnerabili ce lo ha detto un paio di giorni fa la Caritas italiana che stima intorno ai 15 milioni le persone che in Italia sono poveri o sulla soglia della povertà. Considerando che la popolazione italiana è composta da circa 57 milioni di abitanti, quindici milioni si traduce in una percentuale molto, troppo alta di persone vulnerabili alla crisi economica.

Insomma, come previsto anche dagli analisti economici più moderati, le conseguenze dell’esplosione della bolla dei mutui stanno deflagrando sull’economia reale, cioè sulla produzione, la commercializzazione e i consumi.

Le misure contro la crisi che i governi stanno prendendo, o per meglio dire stanno discutendo di prendere, riguardano  il salvataggio delle banche e il sostegno ad alcune industrie, prima fra tutte l’industria delle auto. Non è nell’agenda dei governi, per il momento alcun provvedimento a favore delle famiglie, del lavoro dipendente, delle piccole imprese.

Barak Obama ha presentato un piano su questi temi, ma è stato tacciato di essere “socialista” dal suo avversario, John McCain. Sarà la vis polemica della campagna elettorale, ma il fatto che non si prendano seriamente in considerazione le questioni sociali sollevate dalla crisi è grave e preoccupante.

Come in Italia, dove il Partito democratico ha presentato proposte simili, che non sembra siano entrate neppure nella polemica tra i due schieramenti, di cui quotidianamente televisioni e giornali ci fanno cortese omaggio.

Sarà, come dice l’Authority per le comunicazioni, che in Italia le reti televisive fanno smaccatamente il tifo per il governo in carica, fatto sta che sembrerebbe che l’opinione pubblica sia più preoccupata del caffè di mezza mattina di un impiegato pubblico “fannullone”, piuttosto che del ritorno del grembiulino a scuola, per non dire dell’amore mercenario nelle pubbliche vie.

Insomma, “il welfare del ricchi”, come Zygmunt Bauman ha definito il salvataggio delle grandi banche fallite per l’ingordigia dei mutui e l’avidità dei manager ha più successo dell’idea di un nuovo welfare a favore dei lavoratori e dei consumatori.

Bauman ha descritto un possibile scenario grottesco: lo stato dà soldi alle banche che così possono continuare a finanziare l’indebitamento perpetuo delle famiglie.

Se ci spostiamo sul terreno dell’economia reale in Italia, apprendiamo che, per esempio il governo ha intenzione di sostenere l’industria dell’auto con la “rottamazione”di vecchi modelli a favore di nuovi, in modo da incentivare l’utilizzo di quell’indebitamento per acquistare una nuova automobile. Pare lo stesso si voglia fare per gli elettrodomestici.

Siamo sicuri che così facendo non si perpetua il circolo vizioso tra soldi virtuali e indebitamento reale, che è esattamente quello che ha portato al fragoroso crack?

Siamo sicuri sia la ricetta giusta contro la recessione, parola che spaventa ma che siccome ci siamo  ormai dentro è inutile esorcizzarla facendo appelli alla fiducia, la quale invece sì rischia di diventare solo e soltanto una parola?

Siamo sicuri che basti mandare ministri nei talk show televisivi, intervistarli sui giornali amici o in quasi tutti i telegiornali perché i cittadini non comincino a dubitare seriamente della capacità del governo di contrastare la crisi,economica ma anche sociale, che come ci ricordano i più avvisati sarà “severa, lunga e globale”?

Anche la pubblicità, che potrebbe servire a favorire il volano dei consumi se la passa male. Secondo gli analisti la stessa Mediaset ha chiuso i primi nove mesi dell’anno con un 2 per cento positivo e spera di mantenerlo anche nell’ultimo trimestre dell’anno, per rimanere negli obiettivi. Comunque, a Piazza Affari ci sono due scuole di pensiero: c’è chi consiglia di vendere il titolo, chi suggerisce di tenerlo.

Tutto il resto è preoccupante: sulla spinta di disinvestimenti della marche globali, molto presenti nel nostro mercato la pubblicità italiana ha smesso di soffrire e ormai comincia a sentirsi male sul serio: la previsione di fine anno è -3%.

Il fatto nuovo è che se la carta stampata piange, la tv fatica,  è la volta di internet a non sorridere più.

Negli Usa internet “frena” (-0,3%); in Italia, a fronte di espansioni di investimenti degli ultimi mesi tra il 40 e il 45%, la stima per fine 2008 si attesterebbe intorno al 23%: una frenata che rischia di lasciare sull’asfalto quasi la metà dei pneumatici di questo nuovo e promettente veicolo di comunicazione commerciale.

In tutto questo, ci vorrebbe una bella dose di creatività: in politica, in economia, ma anche in pubblicità (nella finanza no, per favore, abbiamo già dato!). Ma anche su questo terreno siamo un po’ scarsi: “si lavicchia”, avrebbe detto Totò. Beh, buona giornata.

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Scuola

Pessima idea di marketing la riforma Gelmini.

 Se fosse stata in vigore la legge 133, quella con cui si tagliano circa 8 miliardi di euro alla scuola italiana, facendo finta di riformarla, quanto sto per raccontare non sarebbe potuto succedere. Né sarebbe stato possibile raccontarla se all’epoca dei fatti fosse stata avanzata la sciagurata idea di separare in classi differenziate i bambini figli di genitori migranti in Italia.

Conservo ancora una copia de “Le braci” di Sàndor Màrai, che reca una dedica che ancora oggi mi provoca un certa emozione: “Un grande saluto e ringraziamento per averci fatto fare un salto nella creatività dei grandi. Le bambine e i bambini della 5° A.  Roma, 17 Giugno 1999.”

I fatti andorono così. Proposi alle maestre della classe che frequentava mia figlia Elettra di far partecipare gli alunni a “Comunicare Roma”, un premio istituito dall’Unione Industriali per favorire la comunicazione a favore della Capitale.

Il tema di quell’anno era l’accoglienza, per via che si avvicinava il Giubileo del 2000: la città si preparava all’avvenimento con grandi lavori di rifacimento e ristrutturazione urbana.

La prima riunione con i bambini e le maestre avvenne un pomeriggio nella loro classe, al secondo piano della Scuola Elementare Emanuele Gianturco. Non era la prima volta che frequentavo la scuola durante l’orario delle lezioni: quei bambini facevano esercitazioni per la creazioni di un ipertesto su “La gabbianella e il gatto” di Sepùlveda, libro che avevo regalato un giorno a mia figlia davanti alla scuola e che le maestre adottarono come sussidio didattico. Un’altra volta  avevo letto in classe alcuni piccoli racconti di uno scrittore marocchino, racconti sui bambini di Marrakesh, che avevo ricevuto tradotti in italiano via fax da un’amica, Wilma Labate che meditava di farne un film.

Raccontai ai bambini cosa bisognava fare per partecipare al concorso “Comunicare Roma” e soprattutto come bisognava farlo. L’ostacolo relativo ai requisiti del possesso della cittadinanza italiana e della maggiore età fu superato dalla decisione che avremmo iscritto i lavori a nome della maestra Italia.

Poi diedi il “brief”, come chiamiamo noi pubblicitari il racconto del problema, l’individuazione dell’oggetto della campagna e i mezzi da usare.

Chiesi ai bambini della 5°A: “ Quanti di voi sono nati in questa città?”. Si alzarono venticinque manine. Chiesi ancora: “Quanto di voi hanno i papà e le mamme che sono nati a  Roma?”. Questa volta le manine alzate furono poco meno della metà dei presenti. Infine, chiesi: ”Chi di voi ha i nonni che sono nati a Roma?”  Non si alzarono più di due o tre manine. Sorrisi, mentre la maestra Italia mi guardava un poco perplessa. Allora cercai di spiegarmi meglio. E dissi loro che era evidente, nella loro esperienza, che i loro nonni prima e alcuni dei loro genitori poi erano venuti a stabilirsi a Roma, per i più disparati motivi. Ma ciò che sembrava essere importante che in questa città si erano fermati, avevano messo su famiglia, avevano messo al mondo bambini, che oggi vivono e vanno a scuola a Roma. In definitiva, se per i bambini di quella classe Roma era la loro città natale, per alcuni dei loro parenti Roma era stata la città adottiva.

“Allora, che ne dite, bambini se il nostro slogan fosse, appunto, Roma città adottiva?”

Dopo una qualche esitazione, venticinque testoline fecero sì, mente la maestra scrisse “Roma città adottiva” sulla lavagna.  La riunione di brief era finita, ci saremmo rivisti dopo qualche giorno per decidere quali idee realizzare.

Mi presentai con tre film presi a noleggio, proponendo l’utilizzo di uno spezzone di trenta secondi, tratto da “La marcia su Roma” di Dino Risi: Gasmann e Tognazzi, nei panni di due fascisti, cercano di convincere un militare a dar loro un poco del suo rancio. Quello non ci pensa nemmeno. Allora Gasmann, gli dice: “ ‘a milità, semo tutti de Roma.” E Tognazzi, tradendo le sue origini padane, rincara: “E sì, siamo tutti romani, mannaggia a li mortecci.”

Si decise di proseguire con la lavorazione di questo spezzone, al quale sarebbe stato montato in coda un cartello finale, che raffigurava la lupa che allatta i gemelli,simbolo della Capitale,  uno dei quali sarebbe stato bianco, l’altro nero, recante la scritta “Roma città adottiva”. Infine decidemmo che avremmo potuto iscrivere al premio sia lo spot che il manifesto con la lupa e i gemelli, uno bianco e l’altro nero.

Nei giorni successivi, una bambina della classe registrò la frase finale presso la Cat Sound di Franco Agostini, che si prestò gratuitamente a incidere e fare i materiali utili al montaggio. Poi, grazie alle conoscenze della mamma di uno dei bambini, accompagnammo un gruppo di loro al montaggio in Avid, presso una casa di produzione cinematografica di Roma. Infine, con l’aiuto volontario di Andrea Bayer, art director, facemmo il fotomontaggio della lupa coi gemelli di colori diversi e presentammo alla 5° A il layout del manifesto.

Passarono alcune settimane e un giorno la giuria di “Comunicare Roma” comunicò alla maestra Italia che il lavoro era stato selezionato e la invitava a partecipare alla cerimonia di premiazione, che si sarebbe tenuta al Teatro dell’Opera di Roma.

La sera della premiazione il Teatro dell’Opera  di Roma era gremito di pubblico e di autorità, mentre i tecnici della Rai manovravano le telecamere per la ripresa televisiva dell’evento. In una fila di poltroncine rosse, in fondo alla platea, venticinque bambini fremevano per conoscere l’esito della premiazione.

Fu proclamato il secondo premio della categoria spot e chiamata sul palco la maestra Italia. La quale ringraziò e disse che il merito era degli alunni della sua classe, che invitò a salire sul palcoscenico. I venticinque bambini, in fila indiana come topini, sgambettarono tra mille sguardi sorpresi verso il palcoscenico. Ci fu un poco di agitazione, poi esplose un fragoroso applauso.  La conduttrice televisiva avvicinò il microfono a una bambina della classe, che disse, candidamente: “Io sono nata a Roma, mio padre e mia madre vengono dallo Sri Lanka. Questa è la città adottiva dei miei genitori e io sono stata accolta bene dai miei amici di scuola.” Venne giù il teatro. Alla fine la 5°A della Scuola elementare Emanuele Gianturco risultò vincitrice anche del secondo premio per il miglior manifesto.

Questa storia ha un epilogo che val la pena ricordare brevemente. Oltre che di attestati di benemerenza, i due secondi premi consistevano anche in due viaggi omaggio alle Maldive, messi a disposizione da uno degli sponsor della serata. I voucer furono ceduti a titolo gratuito dalla maestra a due coppie di genitori i quali fecero una donazione alla scuola, che fu utile a integrare il contributo scolastico per la gita di fine anno della 5°A, alla quale non tutti avrebbero potuto partecipare per via della quota di partecipazione. Poiché in questo modo le quote individuali si abbassarono notevolmente, tutti gli alunni della 5°A andarono in gita tre giorni in una località marina della costa laziale.

Oggi mia figlia Elettra ha vent’anni, della sua compagnetta di scuola i cui genitori migrarono dallo Sri Lanka non so nulla. Incontro invece il suo papà, che lavora in un famoso bar di piazza del Pantheon, a Roma. Ogni tanto mi capita di entrare e bere un caffè e quell’uomo ricambia il mio saluto con un lieve sorriso, come di una lunga e antica intesa.

Recentemente, il ministro dell’Istruzione ha dichiarato di non capire il motivo della protesta che in queste settimane scuote il mondo della scuola pubblica, dalle elementari alle università contro la sua legge di riforma. Non sono sicuro dica il vero. Sa che le dico, cara signora ministro: quando un prodotto non funziona, non c’è marketing che tenga. Beh, buona giornata.

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Attualità

Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasato.

 

Pare che una dose di cocaina costi 10 euro al dettaglio. Ci spiegano che è la legge della domanda e dell’offerta. L’offerta è aumentata in misura logaritmica per via della sopraproduzione della materia prima, prodotta in Afghanistan. Dunque, i prezzi al consumo sono crollati. Ve lo ricordate l’Afghanistan?  Bisognava  togliere il burka alle donne, catturare bin Laden, portare in tribunale il mullah Omar. In definitiva, bisognava esportarvi la democrazia. Invece importiamo cocaina a buon mercato. Complimenti a quegli invasati dei neo-cons made in Usa e le loro teorie sugli stati canaglia. Bel colpo.

L’altro giorno un pensionato incensurato è stato freddato a colpi di pistola alle nove di mattina per strada, in una delle città del sud d’Italia nella quale giorni prima erano stati inviati cinquecento poliziotti in più e quattrocento militari. Pare fosse un lontano parente di un collaboratore di giustizia, che aveva fatto i nomi di una famiglia camorristica. Ottimo esempio di come si è pensato di affrontare il problema della sicurezza nelle città italiane.

Pare che un vigile urbano di Parma, coinvolto nell’inchiesta per il pestaggio di uno studente ganese, abbia detto ai giornalisti che il cazzotto che avrebbe colpito all’occhio il giovane Emanuel sia partito “accidentalmente”. Cose che succedono quando si toglie la sicura ai pugni.

Un ragazzotto, abitante della borgata romana nella quale è stato pestato un cittadino cinese inerme, ha detto di fronte alla telecamera di una emittente televisiva che lui non è razzista, sono loro che puzzano e ci rubano il lavoro. Figuriamoci se fosse stato razzista. Per fortuna il ministro degli Interni ci ha rassicurato: sono episodi isolati: uno a Genova, uno a Roma, uno a Ciampino, uno a Parma, un paio a Milano………….

Il movimento del ’68 ebbe la sua causa scatenante nelle università italiane, grazie alle circolari dell’allora ministro Guy. Anche il ’77 esplose negli atenei e nei licei per via di una certa circolare firmata dall’allora ministro Malfatti. L’attuale ministro dell’istruzione ha superato i suoi predecessori: è riuscita a fare incazzate d’un colpo solo studenti, genitori, professori e bidelli. Pare che trecentomila manifestanti siano sfilati a Roma, dietro uno striscione su cui era scritto “non è che l’inizio”. Cominciamo bene!

E’ stato trasmesso in tv uno spot  contro la violenza negli stadi a firma del ministero degli Interni. Il plot si svolge mettendo in sequenza scene di gioco e episodi di violenza. Alla fine c’è scritto che i tifosi violenti sono dei vigliacchi, testualmente. Ma che si fa così? Si insultano i destinatari del messaggio? Mah. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Shock ‘n roll.

 

La domanda pressante che ci stiamo rivolgendo in questi giorni è: che ne sarà di noi, durante, ma soprattutto dopo la più shoccante crisi  mai conosciuta dalle economie occidentali? Come al solito in Italia il dibattito è stato finora gestito male. La crisi finanziaria che ha fatto crollare tutti i mercati è stata trattata dai media alla stessa stregua del delitto di Cogne. Sulle poltroncine dei talk show televisivi, economisti di varia caratura hanno preso il posto dei criminologi che ci volevano spiegare i misteri della mente di una donna accusata di infanticidio. Come se si trattasse di colpevolisti o innocentisti, abbiamo sentito pronunciare condanne o assoluzioni del sistema capitalistico globale. In queste ore sembra prevalere la linea “garantista”:  il sistema è sano, e solo colpa di qualche “avido” banchiere, non cambiate banca, rimanete con noi. Temo, come temono milioni di risparmiatori, che le cose siano un bel po’ diverse da come vorrebbero apparire, credo anzi che gli effetti della crisi finanziaria impatteranno violentemente sull’economia reale, quella fatta dalla produzione di merci, dalla loro commercializzazione, quella dalla quale si ricavano redditi per le aziende e stipendi per gli addetti, quella che produce consumi e risparmi per le famiglie. Non si tratta di essere catastrofisti: qui la fantasia ha di gran lunga superato la fantasia. Siamo in presenza di una crisi che costerà, secondo le stime del FMI, mille e quattrocento miliardi di dollari; siamo in presenza di un effetto domino che ha attraversato l’intera rete globale dei mercati, che ha messo in discussione la tenuta dei mercati nazionali, che sta mettendo in discussione lo stile di vita attuale e futuro di milioni di famiglie nei cinque continenti.

Ad uso e consumo dell’immaginazione dei telespettatori è stato spesso invocato lo spettro della Crisi del ’29 negli Stati Uniti, dalla quale si uscì con la nascita del New Deal, varato da Roosevelt, teorizzato da Keynes e che è passato alla storia con l’esperienza del Welfare, lo stato sociale. Il fatto è che quello shock finanziario non solo ridusse sul lastrico milioni di famiglie americane, scaraventandole nella povertà, ma produsse in Europa la nascita di regimi totalitari, nonché lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la più bestiale opera di distruzione di massa, che si concluse con il bilancio di 25 milioni di morti. Noi in Italia lo stato sociale lo conoscemmo solo a partire del ‘45, anno in cui fini la guerra, fu sconfitto il Fascismo, e nacque la nostra democrazia. Dal quel momento, si sono alternati periodi di straordinaria crescita e momenti di crisi profonde, tanto che è difficile dire se lo sviluppo della nostra economia di mercato sia stato una continua crescita, intervallata da momenti di depressione ciclica, o il suo esatto contrario, cioè la continua distruzione di regole, norme, canoni, intervallata da momenti di serenità economica. Fatto sta che le classi sociali medie, che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale avevano via via ingrossato lo sterminato esercito dei consumatori di beni e servizi, a cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio del XXI secolo sono entrate in una spirale di sofferenza. La globalizzazione dell’economia con l’ingresso sulla scena mondiale delle potenze asiatiche ha turbato i mercati, ha condizionato la produzione di beni e la distribuzione delle merci, ha spaventato i consumatori.  L’insicurezza “percepita” è diventata reale con la crisi energetica degli ultimi mesi: l’inflazione ha ripreso a salire, erodendo i redditi, deprimendo la propensione alla spesa. E infine, eccoci allo tsunami odierno.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante.  E dire che non era ancora esplosa in tutta la sua virulenza la crisi, che ha provocato il fallimento a catena di molte banche americane, il tonfo storico di Wall Street e la conseguente caduta di tutte le Borse del mondo. Come nella famosa “Teoria del Caos”, quella che mette in relazione il battito d’ala di una farfalla con il tifone che devasta da un’altra parte del mondo, è successo molto semplicemente che almeno dieci milioni di famiglie americane si sono accorte che, crollando il mercato immobiliare, il valore della casa stava diventando di gran lunga inferiore al costo del mutuo acceso per acquistarla e ha semplicemente smesso di pagare le rate. Ma siccome quei mutui erano nel frattempo diventati prodotti finanziari, i famosi subprime, venduti sul mercato globale,  l’insolvenza delle rate, proditoriamente inserite nei titoli di tutto il mondo, come pezzetti di carne marcia in una salsiccia apparentemente sana ha avvelenato il mercato e  provocato il crollo dei valori di Borsa.

 

Adesso, non è che si possa rovesciare la “Teoria del Caos”, sperando che il tifone che ha investito gli Usa provochi da noi un semplice battito di ali di una farfalla.

E’vero che la crisi che ha investito l’economia americana ha insistito su una struttura sociale che è andata via via prima teorizzando, poi mettendo in pratica la quasi completa disarticolazione dello stato sociale. Alla progressiva polverizzazione delle regole dei mercati è corrisposta l’eliminazione dei pilastri del Welfare: quell’assioma che è andato sotto il titolo “Meno Stato, più mercato”.

 

E’ vero, altresì che l’Europa e quindi l’ Italia hanno ancora una rete di protezione sociale delle fasce più deboli della società. E che, nonostante tutti i tentativi di disarticolare la stato sociale, alcuni dei quali andati a segno, è proprio questa rete che tiene insieme le barriere alla crisi finanziaria di questi giorni.

 

Cionondimeno, l’impatto c’è stato e gli effetti si vedranno per un periodo per niente breve. Ha detto Alessandro Profumo, in un’intervista a cuore aperto, raccolta da Massimo Giannini e pubblicata su La Repubblica dello scorso  martedì 7 Ottobre:

“ (La crisi) riguarda tutti noi banchieri. Siamo chiamati a un profondo esame di coscienza. Oggi abbiamo un incredibile problema di reputazione. Dobbiamo farci i conti e capire come fare a non essere più criminalizzati dall’opinione pubblica. Solo così usciremo in positivo da questa crisi.”

 

Mi pare che i problemi che abbiamo di fronte siano sostanzialmente di due ordini: il primo, sul lungo periodo è quale modello di capitalismo possa essere immaginato, dopo le macerie della crisi attuale. In sostanza , si tratta di capire se le teorie “neoliberiste” abbiano trovato la loro fine, dopo vent’anni di “meno Stato, più mercato.” Il secondo ordine di problemi è invece urgente, impellente, immediato: si chiama fiducia. Nessuno dei due può essere affrontato senza tenere conto dell’altro.

 

Senza fiducia, appare incomprensibile capire perché lo Stato debba intervenire per “salvare” le banche, quando in questi anni non è voluto intervenire per “salvare” i cittadini dalla privatizzazione di servizi essenziali, dalla sanità all’acqua; per “salvare” salari e stipendi, per “salvare” la propensione al consumo. Senza fiducia,  la stessa pubblicità crepa d’inedia, come ha dimostrato Enrico Finzi qualche giorno fa. Intervenendo al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore, Finzi ha detto:”Siamo di fronte a un grande fallimento collettivo, tutti noi che operiamo nella comunicazione abbiamo lavorato per costruire qualcosa che ora è crollato”.

 

D’altra parte, senza la presenza dello Stato nei gangli vitali della vita e dell’economia, non si capirebbe come alimentare la fiducia nei cittadini e nei consumatori. Questo intervento non può limitarsi ad essere “d’emergenza”, per tamponare le crisi provocate dalla new economy dieci anni fa, passando dallo shock petrolifero dei mesi scorsi, fino alla crisi dei mutui di oggi, e chi sa da quale altre diavoleria in un prossimo futuro.

Dice Naomi Klain in “Shock economy” (Rizzoli, 2007), libro che sembra essere stato premonitore della crisi attuale: “E’ assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia, come una compagnia petrolifera pubblica, saldamente in mano statale. E’ parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e  ridistribuiscano la ricchezza, cosi che le aspre diseguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.”

 

Antonio Negri, intervenendo a Parigi a “L’infedele”, trasmissione condotta da Gad Lerner su La 7, ha detto che è troppo presto capire la sorte del neoliberismo, ma è al contempo assolutamente necessario comprendere come il capitalismo finanziario abbia operato un vero e proprio sfruttamento sui  risparmi di  milioni di famiglie e individui, uno sfruttamento paragonabile a quello operato dal capitalismo reale sugli operai e i lavoratori nel 900.  Dopo il crollo del Comunismo è arrivato il crollo del Consumismo? Come a volergli fare eco, Zygmunt  Bauman, sulle pagine del quotidiano La Repubblica dell’8 ottobre scorso, scrive: “Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni, anni di apparente prosperità senza precedenti, del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15 per cento. E, cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di “vivere indebitati” per sempre è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali.”

 

Dal che si può facilmente evincere come la fiducia riposta nelle istituzioni bancarie e nei suoi prodotti finanziari siano state la spinta propulsiva che ha incalzato il capitalismo finanziario dove finora non aveva osato, quell’indebitamento di massa che è stata poi la causa stessa della crisi di fiducia e del crack epocale. Tradita, frustrata e sfruttata può la fiducia essere di nuovo in grado di portarci fuori dalla crisi, come molti oggi vorrebbero?

 

Nella intervista già citata, Alessandro  Profumo dice: “ Molti mi prendono in giro perché parlo di creazione di valore e non di profitto. Ma c’è un motivo, che oggi rivendico. Per me creazione di valore significa profitto sostenibile nel tempo, che a sua volta significa legittimazione sociale rispetto ai tre soggetti di cui parlavo prima, cioè clienti, dipendenti e azionisti. Creare valore significa rispondere al meglio a tutti questi tre soggetti. Non mi sembra affatto un concetto demodè. Anzi, oggi mi sembra ancora più attuale.” La cifra di questa intervista è l’autocritica dell’ad dell’istituto bancario italiano, più colpito dalla crisi dei mutui, per aver sottovalutato l’imminente avvento della crisi globale. Alla quale autocritica mi permetto di suggerire anche un ripensamento sulla comunicazione commerciale, sulla pubblicità: perché non esplicitare apertamente, fin da subito, fin dalla fusione delle banche che diedero vita a Unicredit l’idea della creazione di valore, invece che nascondersi dietro la foglia di fico di quel “puoi contarci”, che, alla luce degli avvenimenti odierni, suona come un motto di spirito beffardo e autolesionistico?

 

Ma torniamo sul terreno della fiducia. Nel già citato intervento su La Repubblica, Bauman dice: “Il pianeta bancario è a corto di terre vergini, avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile. La reazione finora per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria, per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita: il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e mantenersi indebitato potrebbe tornare alla “normalità”. Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina, dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega,  per evitare invidiosi paragoni.”

 

Se il cittadino è diventato un consumatore di prodotti finanziari, in grado di finanziare i consumi, un posto d’onore nel ragionamento sulla fiducia se lo è conquistato la pubblicità. C’era una volta una grande marca di automobile europea che sotto il marchio scriveva “c’è da fidarsi.” Famosa è quella marca italiana di prodotti caseari che “vuol dire fiducia”.  

 

Che ne è della fiducia stimolata dalla pubblicità italiana ce lo ha detto Enrico Finzi, che ha anche presentato dati terrificanti al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore. E’ una catastrofe, dice Finzi senza mezzi termini. Un lento ma inesorabile declino che parte da lontano: se nel 1992 infatti la percentuale di quanti dichiaravano di fidarsi delle marche dei produttori era del 76%, e nel 1998 ha toccato il 78%, già nel 2003 questa percentuale era scesa al 52% e oggi è ferma al 41%. L’affermazione “le marche sono innovazione” era condivisa dal 57% della popolazione nel 2003, dal 46% nel 2008. “Diverse marche mi sono care, quasi amiche”: lo diceva il 68% nel 1992, il 49% nel 2003, ma nel 2008 il 40%.

 

Secondo Finzi, un motivo della disaffezione alle marche potrebbe essere rappresentato dalla scarsa differenziazione dei prodotti. Infatti, se nel 1992 concordava con l’affermazione “molti prodotti di marca sono uguali a quelli non di marca” il 28% degli intervistati, nel 2003 tale percentuale è salita al 43% per balzare oggi al 56%. Di contro, “preferisco prodotti di marca” era vero per il 60% degli intervistati nel 1992, ma appena per il 36% oggi.

Dice Finzi, rincarando la dose:”C’è anche un problema di comunicazione, i nostri copy test mostrano che non ci sono punte creative e che il voto medio assegnato alla pubblicità è inferiore al 6: insomma la pubblicità italiana, compresa quella online, è considerata sotto la sufficienza. “. Questo è il quadro della situazione, all’epoca “dell’orgia dell’offerta”. Di fronte al fatto incontrovertibile che le marche  hanno perduto la loro “capacità felicitante”, per Finzi  l’alternativa è riscoprire “un approccio laico e non idoleggiante”.

E’ bene tener presente che questi dati sono stati presentati in concomitanza con l’attuale crisi dei mutui, ma le rilevazioni sono molto probabilmente antecedenti i gravi fatti degli ultimi giorni, il che può autorizzare a pensare che la situazione sia ben peggiore. Anche perché questa terribile crisi di fiducia nelle marche, dunque nella pubblicità, arriva in un momento molto critico per l’advertising italiano. La grave crisi dei mutui arriva in un momento in cui si era già registrato un pesante arretramento.

Recentemente, ma prima della attuale crisi finanziaria che ha investito le Borse, il presidente di Upa, l’associazione che racchiude i “clienti” italiani ha reso noto che il saldo di fine 2008 si attesterebbe intorno a una crescita dell’0,1%, ma che, a fronte del combinato disposto con l’inflazione  al 3,8%, il vero risultato del comparto pubblicità alla fine di quest’anno avrebbe più di due punti in negativo. Secondo queste stime, la ripresa si appaleserebbe solo alla fine del 2009. Campa cavallo: il presidente del consiglio ha detto di stare tranquilli, che la crisi dei mutui si risolverà in 18 o 24 mesi. Se ne parla fra un paio d’anni. Comunque,  questi dati sono gli stessi resi noti da Assocomunicazione, l’associazione che racchiude le agenzie di pubblicità.

Ecco un caso lampante in cui si vede la crisi profonda della fiducia: il consumatore perde fiducia nelle marche, che perdono fiducia nelle agenzie di pubblicità, che perdono fiducia nella creatività.  Personalmente, sono sempre più convinto che molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato. Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente,  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo. Siamo alla creazione del valore, e non semplicemente del profitto, così come l’ha descritta Alessandro Profumo.

 

Che cos’è  la fiducia in pubblicità ce lo dice Pirella: “La pubblicità deve essere tangibile, criticabile, condivisibile. Un prodotto andrebbe scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.” (cfr pag.111, del mio “Il Naso Fuori”, Editrice ADC, Milano, 2004). La qual cosa mi pare faccia il paio con quanto affermato recentemente da Enrico Finzi : “un approccio laico e non idoleggiante.”

 

Occuparsi della fiducia significa che la pubblicità italiana deve sapersi dotare di una diversa, nuova e più efficace capacità organizzativa, per dare vita a quella che in altra sede ho definito “l’agenzia di nuova generazione”: convergenza e integrazione di talento e capacità, di saperi e di strumenti, un vero e proprio contents provider, che a partire dal web costruisca piattaforme di comunicazione commerciale, usando tutti i veicoli, per dare vita a relazioni stabili e durature tra marca e consumatore.

Le marche italiane, fra le quali le banche, hanno la necessità vitale di risalire il più velocemente ed efficacemente possibile la china della fiducia dei loro rispettivi mercati. E’ l’ultimo appello per la pubblicità italiana. Non ha più alibi né paracadute. E’ la dura legge dello “shock’n roll. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Riceviamo e pubblichiamo.

Associazione 6i

“Per non subire più l’informazione”

Appello

 

 

 

Siamo un gruppo di giornalisti impegnati nello sforzo di rinnovamento della professione, oltre che sul fronte del rinnovo del contratto come tanti altri nostri colleghi.

In questa Italia, tra conflitto di interessi e redazioni invase dalla criminalità organizzata, come ha ribadito Roberto Saviano riprendendo denunce che facciamo da anni, ormai abbiamo poche chance di sopravvivenza. Serve una riflessione approfondita e uno slancio verso una vera svolta nella professione e nei modelli di informazione. Se non ora quando?

Gli editori fino ad oggi hanno tirato a campare senza investire una lira nell’innovazione. Ma il redde rationem è alle porte. Impreparati saremo più deboli. Vanno sperimentate altre strade.

La crisi dei giornali della sinistra è solo la punta dell’iceberg. Quelli che vanno meglio si mantengono grazie ai gadgets. La verità è che la stampa italiana ha perso in credibilità ed autorevolezza. L’opinione pubblica quando non è allisciata dai tuttologi dell’”infotaiment” è preda del modello unico di pubblicità.

Noi crediamo che per “voltar pagina” nei giornali, nel verso senso della parola, non bastano proclami e patti scritti sulla carta. Non basta cavarsela dicendo che in Italia non ci sono lettori o che i giovani non vogliono leggere. Il primo capitolo della nuova fase si scrive con la ricerca attiva di un nuovo dialogo con i lettori, gli utenti, i cittadini. Soprattutto con i giovani se vogliamo realmente costruire qualcosa.

Un dialogo non di forma ma di sostanza, creando nuovi percorsi mediali e favorendo gli strumenti per l’affermarsi di nuovi linguaggi e nuove grammatiche. Va riconquistato un confine netto tra fatti e opinioni, pubblicità e notizie, informazione e comunicazione.

Certamente la premessa è che tutta l’informazione deve tornare a godere di spazi pubblici. 

Facciamo appello a quanti, tra i colleghi, i cittadini, i rappresentanti del mondo politico e sindacale, credono in questi punti di riferimento.

Facciamo appello a chi crede ancora che l’informazione sui fatti possa rappresentare la premessa indispensabile della convivenza civile e il libero confronto di idee e di opinioni. A quanti vedono nella pluralità dell’informazione non un’emozione da telecomando ma il valore di riferimento perché tutti possano essere liberi dentro e fuori. A quanti non pensano che l’informazione sia comunicazione di immagine o dittatura degli uffici stampa.

 

Associazione 
6i to be media

 

 

Comunicato Stampa

 

Il 27 e 28 settembre si svolgerà il primo “press festival”, “Ultime le notizie, infoblocknotes per non subire più l’informazione”.

 

Informazione pubblica come bene primario, autoinchiesta nelle redazioni, ricerca sociale permanente attraverso l’articolazione dei laboratori giornalistici nelle scuole e nel territorio, nuovo patto con i lettori e la società civile e, infine, contaminazioni dei codici giornalistici con i linguaggi delle arti emergenti. In poche parole, “Essere informazione”, invece che subirla.

Sono queste solo alcune delle provocazioni che l’associazione “6ì/to be media” intende lanciare nel corso della due giorni di incontri e dibattiti a Roccasecca, in provincia di Frosinone.

 

Come a Genova quando i mille occhi delle telecamere “in movimento” hanno raccontato la verità sui tragici fatti, così è possibile attivare nella società una catena virtuale che torni a costruire e a scambiare senso attraverso i fatti reali e non quelli inventati. Perché l’informazione garantisca conoscenza e quindi democrazia e partecipazione. Solo da qui può nascere una vera e propria multimedialità, e non da una stanca riproposizione sul web di testate giornalistiche cartacee.

 

Si tratta di un appuntamento “aperto”, un vero e proprio laboratorio, che è il primo tentativo di una associazione di giornalisti di “rompere il ghiaccio” con i cosiddetti lettori, utenti, cittadini; e di provare a far “irrompere” il bisogno di molti di noi di svincolarsi dal grigiore di redazioni asfittiche e noiose. <E’ arrivato il momento di indagare cosa accade veramente lì dentro – sottolinea il presidente di 6i, Fabio Sebastiani – provando a produrre un’autoinchiesta>.

 

Tante presenze importanti anche tra gli operatori dell’informazione: Roberto Morrione, di Rainews, che ha collaborato per il dibattito su mafia e giornali locali, Saverio Lodato, Pino Maniaci, Riccardo Orioles, Luca Bonaccorsi, editore di left, Riccardo De Gennaro, Francesco Piccinini di Agoravox, Lucio Varriale, di “Julie news”, e tanti altri. All’iniziativa interverranno anche alcuni artisti impegnati nel sociale, come Giulio Cavalli e i “24 Grana”, gruppo napoletano che per la prima volta si esibiranno in un concerto acustico, e i Chattanooga, nell’ambito della “Settimana della musica” di Rai1.

 

Il programma completo sul sito www.6media.info

 

 

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Materia e antimateria (grigia).

Al Cern di Ginevra dopo 15 anni di lavori è stato acceso con successo Lhc, il più grande e ambizioso strumento scientifico del mondo. Si tratta di un tunnel 100 metri sottoterra, un tunnel che è un cerchio perfetto lungo 27 chilometri. Nel tunnel è stato lanciato un fascio di protoni che correrà a una velocità che è il 99,9999991% della velocità della luce. Nel gigantesco “autoscontro” fra i protoni si scateneranno energie che normalmente si registrano solo nello spazio. Sottoterra la materia disgregata per un istante tornerà allo stato che aveva alcuni miliardesimi di secondo dopo il big bang.

Dalle 9,45 di mercoledì 10 settembre, fino ai prossime settimane,  tremila scienziati di 30 paesi osserveranno quark, pioni, gluoni e muoni. Nel 2009, forse, riusciremo a scoprire il segreto della eterna lotta tra materia e antimateria.

Se a Ginevra la scienza sta superando la fantascienza, superando le barriere della Fisica,  a Bologna si è superata un’altra barriera, quella tra il cinema e il web.

Spike Lee ha acceso il Babelgum Online Film Festival. In una intervista esclusiva per Repubblica.it, Spike Lee ha detto: “”Il cinema, così come lo conosciamo, è sul viale del tramonto. Anche quello indipendente mostra tutta la sua arretratezza rispetto all’effetto dirompente della Rete. I film, così come siamo abituati a viverli oggi, sono destinati a cambiare radicalmente”.

Il ragionamento di Spike Lee è che il contenuto generato dagli utenti – uno dei cardini della nuova grande euforia della Rete insieme al social networking – non si limita ai video autoprodotti in modo “casalingo” dai navigatori, ma può diventare il nuovo grande incubatore per il futuro della cinematografia.

Il Babelgum Online Film Festival è un festival è aperto a professionisti o studenti iscritti a scuole di cinematografia provenienti da tutto il mondo. I film possono essere iscritti a partecipare senza costo alcuno in una delle quattro categorie: Cortometraggio (20 min), Animazione (5 min), Documentario (30 min) e Mini Masterpiece (5 min). Quest’ultima categoria è riservata a opere brevi, anche low budget, che si segnalano per originalità, forza dirompente o capacità provocatoria e include quella nuova forma d’espressione tipica della Rete che va sotto il nome di viral videos.

Il mondo cambia. Cambia alla velocità della luce, come sta succedendo al Cern di Ginevra. Cambia con la velocità dei nuovi media, come succede a Bologna, al Babelgum Online Film Festival. Con buona pace delle agenzia di pubblicità italiane. Loro preferiscono rimanere all’Età (dei culi) della Pietra. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

Nostalgia canaglia.

Corre l’anno 2008, ma non si capisce dove voglia andare. Come è possibile che il sindaco di Roma si metta a chiosare su un Fascismo buono e uno liberticida? Vogliamo davvero pensare e di conseguenza credere che abbia avuto un rigurgito neofascista?

Come è possibile che il ministro della Difesa abbia violato il protocollo, tanto da elogiare quelli della Repubblica di Salò, durante la celebrazione ufficiale dei martiri dell’8 Settembre a Porta San Paolo a Roma, davanti al capo dello Stato, che è anche il capo delle Forze Armate? Un altro rigurgito?

Insomma, che gli è saltato in testa? Un attacco di nostalgia di “quando c’era Lui”?

Né l‘uno né l’altro hanno voluto riscrivere la Storia. Hanno semplicemente messo in scena una prova di forza, usandoci come spettatori, alla maniera dei partecipanti di un reality show.

I due sono esponenti di spicco di una formazione politica che sta per essere cooptata dentro il partito del premier, il Partito delle Libertà, che dovrebbe nascere dalla fusione di Forza Italia di Berlusconi e Alleanza Nazionale di Fini.

I due hanno voluto far vedere alla base  e agli elettori che li hanno votati ( e a quelli che hanno votato più a destra) che non stanno dando via l’identità, i valori, come li chiamano loro.

I due sanno bene che la partita della sopravvivenza nel Governo si gioca cercando di contrastare, almeno sul piano dell’immagine,  la spinta che proviene dalla Lega di Bossi. Il quale è fermamente intenzionato alla riforma federalista. Lo è andato ripetendo tutta l’estate.

Il federalismo non è esattamente quello che hanno in testa i nostri due, né il loro partito, né i loro elettori.  Esso stride, per non dire lacera, per non dire confligge apertamente con la vocazione centralista, nazionalistica, muscolare della Stato centrale, così come è vissuta dalla base elettorale di An.

La vicenda politica di questa stagione  condanna quei due a mandare giù l’alleanza impossibile tra federalismo e statalismo.

Il federalismo a Bossi lo ha promesso  il premier, che di queste beghe se ne fa un baffo: ha il potere di gran parte dei media, ha il potere del Governo, sta per conquistarsi il posto d’onore nel potere della finanza (sfruttando la “cordata Alitalia”, Silvio Berlusconi si sta dimostrando capace di attirare a se banchieri e capitalisti di centro-sinistra, e mira a gestire finalmente“il salotto buono” dell’economia italiana).

E allora, prima dell’inevitabile subalternità politica a Berlusconi e Bossi (con il bene placido di Fini), il sindaco della Capitale (già uno dei leader della Destra sociale, corrente di An) e il ministro della Difesa (attuale coordinatore di An)  hanno fatto venire giù un pieno, come si dice a Milano; hanno fatto caciara, come si dice a Roma.

Sanno che prima o poi, zitti e mosca, dovranno dire ad alta voce che il rancio è ottimo e abbondante.

Tanto la Storia della nostra democrazia è stata bella e scritta dalla Resistenza. Tanto ai reduci della Repubblica di Salò ci pensò l’amnistia promulgata nel 1947 dall’allora ministro Togliatti.

Se c’è qualcuno che deve sentirsi offeso dalle performances dei due non sono né i partigiani, né gli ebrei perseguitati dalle Leggi Razziali, e neppure i militari fedeli all’Armistizio dell’8  Settembre. Né i loro discendenti.

Il sacrificio degli uni, la memoria degli altri è tutt’ora una garanzia solida, un pilastro della convivenza civile e democratica, come non si stanca  mai di farci notare il nostro Presidente della Repubblica.

Ad offendersi, semmai, dovrebbero essere loro, i “ragazzi di Salò”. Furono manipolati allora (finendo dalla parte sbagliata della Storia) sono strumentalizzati oggi. Con lo stesso insopportabile cinismo di una politica che è solo piccola convenienza. Beh, buona giornata.

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Attualità

Quelli che sognano un passato migliore.

 

La  politica italiana non finisce mai di stupire. Un uomo politico, ministro di un importante dicastero, durante la cerimonia ufficiale in ricordo delle vittime civili e militari che tentarono di difendere Roma dall’invasione delle truppe tedesche, all’indomani del  8 settembre del 1943, quest’uomo politico, che è anche il coordinatore politico del suo partito, partito che fa parte della coalizione di Governo  non è riuscito a tenere a freno la propria nostalgia del passato e ha detto che “soggettivamente, dal loro punto di vista” i militari inquadrati nei ranghi della Repubblica di Salò credettero di servire la Patria, pertanto era giusto rendergli omaggio.  Ai più, tra i quali il Capo dello Stato, questo giudizio è sembrato per niente  rispettoso della Resistenza, pagina storica da cui deriva la nostra democrazia.

Tempo addietro, un altro ministro, che ricopre il ruolo di leader di un altro partito di Governo, ebbe parole aspre contro Giuseppe Garibaldi, l’unità d’Italia, il tricolore. Ai più apparve un giudizio per niente rispettoso del Risorgimento, altra pagina storica da cui si fa derivare la nostra democrazia.

Viviamo tempi incerti. La vera sostanza della capacità di governo non risiede più nelle nazioni, ma è appannaggio di organismi globali: il Fondo Monetario internazionale fa le politiche economiche, il WTO quelle commerciali, la Nato quella estera, il G8 quella diplomatica. Le grandi corporations multinazionali fanno gli stili di vita e di consumo. E poi c’è l’Unione Europea, che via via si sostituisce al governo delle nazioni europee.

Fare il ministro in Italia deve essere un poco frustrante: tutto quello che bisogna fare oggi, si doveva già fare tanto tempo fa, dalla raccolta differenziata, alle politiche sull’emigrazione, dalla scuola e la ricerca, alla crisi dell’Alitalia, tutto ci era già stato insistentemente chiesto dall’Europa.

Riassumendo: del futuro si occupano gli organismi globali, del presente si era già occupata la Ue. Ai nostri ministri “soggettivamente, dal loro punto di vista” non resta che occuparsi del passato remoto. Buon pro gli faccia. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Tornare a dire di no è un nuovo inizio.

Qualche giorno prima dell’inizio delle vacanze estive, durante un’affollatissima riunione di brief per la comunicazione pubblicitaria a favore di un importante consorzio italiano, un famoso pubblicitario italiano si è alzato è ha detto no. Ha detto di non essere d’accordo col metodo, di non condividere e dunque di non poter aderire al modo in cui si voleva svolgere la  consultazione. Poi, se ne è andato, lasciando la riunione.

La cronaca ci dice che in seguito, il consorzio ha annullato la procedura, per riconvocare un numero ristretto di agenzie, alle quali assegnare il compito di realizzare la campagna pubblicitaria.

La notizia ha fatto notizia. E la cosa ha fatto piacere a chi sta a cuore il corretto svolgimento delle gare per l’assegnazione di un budget pubblicitario. In particolare, la cosa mi ha fatto piacere perché la persona che si è alzata e ha detto no! è il decano dei pubblicitari italiani, è un uomo di cui coltivo amicizia personale e stima professionale da molti anni: Emanuele Pirella.

Ma la notizia ha fatto notizia perché da anni le agenzie di pubblicità e i loro rappresentanti hanno smesso il ruolo di protagonisti del mercato, diventando comprimari di regole sregolate, di inciuci compromissori, di sudditanza psicologica e fattuale, di labili comportamenti etici: pur di prendere un budget si fa di tutto, meno quello che sarebbe giusto fare. E si è trascinata la pubblicità italiana in limbo di incertezze. Quando il metodo è sbagliato, la pubblicità è brutta, cattiva, senza anima, senza prospettive.

Siccome il mercato è fatto di chi fa il mercato, la responsabilità di questa situazione ha tanti nomi e c
ognomi, quanti sono i top manager della pubblicità italiana di questi anni. 

Come nella famosa favola, Pirella si è alzato e ha detto, molto semplicemente:“il Re è nudo”. Era estate ma sembrava autunno per quante foglie di fico son cadute.  Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Come fare quello che bisognerebbe fare per salvare la pubblicità italiana dal ginepraio in cui si sta cacciando.

Sarà l’autunno del nostro scontento . Ma quello che succederà il prossimo autunno è già successo tra la primavera e l’estate. A metà del’anno si fanno i conti e si formulano le previsioni. Così vogliono le procedure imposte dalle holding di comunicazione quotate in Borsa.

Ancora una volta i conti non tornano: la pubblicità italiana soffre gli atroci dolori della sua crisi. Alcune personalità, importanti a vario titolo, si sono ritirate,  sono uscite o stanno per uscire dal mercato. Alcuni direttori creativi sono stati allontanati dalle agenzie e andranno a ingrossare la già folta schiera dei free-lance. Alcune sigle storiche dell’advertising italiano o hanno staccato la spina o si sono apprestate a cambiare pelle.

Emanuele Pirella, protagonista in prima persona e testimone oculare di  lungo corso, sostiene si tratti di una fisiologico ricambio, come è spesso e ciclicamente avvenuto  in diversi periodi, se non proprio della storia, quanto meno della cronaca della pubblicità italiana. Tuttavia ciò che è avvenuto nella prima metà del 2008 e soprattutto quello che sta per avvenire tra qui e il 2009 sembra la vera e propria chiusura di un ciclo.

E’ vero che la situazione economica e finanziaria del nostro Paese è alquanto critica: la crisi energetica ha fatto impennare l’inflazione al 4 per cento, contemporaneamente l’aumento generalizzato dei prezzi ha impoverito le famiglie: alcuni prezzi al consumo di beni primari sono schizzati in alto,oltre il 20 per cento, mentre le retribuzioni medie, ferme da anni, per alcuni  addirittura da dieci- quindici anni, hanno determinato una flessione media della propensione al consumo, un crollo delle vendite al consumo intorno al 3,4 per cento.

Per dirla in soldoni, gli italiani spendono meno, dunque consumano meno. Poiché il ciclo economico della nostrana comunicazione commerciale è legato a filo doppio all’economia americana, per via del fatto che la maggior parte delle agenzie e delle strutture sono di proprietà di holding finanziarie anglo-americane, il quadro della situazione viene e verrà ulteriormente aggravato dalla crisi economica americana.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante. 

Alcune big company statunitensi hanno nei mesi scorsi operato forti tagli ai budget pubblicitari.  Nello stesso tempo, i network internazionali chiedono aumenti  delle revenue alle unit locali, per compensare le perdite previste sui fatturati worldwide. Ed ecco allora che una tenaglia incandescente stritola le agenzie di pubblicità: da un lato la crisi taglia budget, dall’altro la stessa crisi esige più fatturato.

La risposta che nell’immediato cercano i manager della pubblicità italiana è semplice, prevedibile: quando tagliare i costi delle spese generali non basta più, si ricorre all’espulsione delle persone, per rimpiazzarle  con professionalità a basso costo, magari con contratti individuali molto flessibili.

Che tipo di qualità si riesca a garantire ai clienti, passa in secondo piano rispetto all’imperativo categorico di salvare il salvabile dei conti delle agenzie italiane. E così la crisi si avvita su se stessa, in una spirale in cui i tagli spingono alla bassa qualità, la bassa qualità spinge all’omologazione.

Molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato.

Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo.

Stritolata dalle incombenze finanziarie, inaridita di talenti, appesantita dalla burocrazia interna, legata mani e piedi alle logiche dei quartier generali internazionali, l’Agenzia sembra miope col Cliente, presbite col mercato: non ha più sottomano strumenti interpretativi, e di conseguenza organizzativi per raccogliere una sfida più alta per la comunicazione commerciale e pubblicitaria attuale, alla quale sfida dare risposte, che andrebbero cercate, organizzate e rese produttive nella totale discontinuità col passato.

E’ un male comune a tutta la pubblicità italiana: non comprendere le potenzialità del mercato, rappresentate dai propri clienti, dalle loro dinamiche, dalle loro prospettive di sviluppo; a cui corrisponde la tentazione di rimanere arroccati, nella forma e nella sostanza all’idea di agenzia  così come si è  sviluppata e ha cominciato a operare a partire dalla seconda metà del secolo scorso.

Superati gioco-forza i canoni classici così come si erano definiti negli anni scorsi, l’agenzia di pubblicità da tempo non vive più della percentuale che i mezzi gli erogano per  riconoscergli l’intermediazione tra il cliente e i media. Questa attività è infatti da tempo passata alle agenzie  media. L’agenzia ha spostato la sua fonte di reddito sull’intermediazione con altri fornitori: produzione stampa, cinema e tv, radio, web, diritti, eventi. Contemporaneamente, l’agenzia ha inventato  una serie di tecniche di remunerazione: fee, minimi  garantiti, minimi variabili, bonus, mark up su extra-costi di varia natura.

Ne è nata una complessa attività di gestione, che ha determinato un forte attenzione su queste voci, sia da parte del cliente che dell’agenzia.  Il luogo comune vuole che l’agenzia tenti disperatamente di guadagnare su tutto. Ciò che ha reso sempre meno credibile l’agenzia  agli occhi del cliente sta nel semplice fatto economico secondo il quale meno ore-uomo dedicate, più guadagno per l’agenzia.

Non si darebbe discontinuità col passato se non si superasse il concetto di intermediazione, dunque la forma-agenzia in quanto tale. A poco sono valsi e varranno i tentativi, spesso un poco goffi, di dotare la struttura di altri comparti, di immaginare,  in effetti più a parole che nei fatti, approcci olistici, multidisciplinari, multicanale.  

Come fare quello che bisogna fare dovrebbe risultare semplice:  tagliare i lacci e i laccioli delle percentuali significherebbe sgombrare per sempre il campo da vecchi vizi e nuovi  fraintendimenti.  La creatività pubblicitaria non è uno dei servizi offerti dall’agenzia. La creatività è il prodotto di un’attività intellettuale organizzata, tesa a fornire idee, intuizioni, visione d’insieme tra marketing, commercializzazione e comunicazione dei prodotti o dei servizi del committente. 

Discontinuità, dunque.  Perché la creatività pubblicitaria organizzata è l’unica vera, concreta e misurabile attività capace di dare vita a un nuovo ciclo, che sia in grado di far uscire il mercato della pubblicità dalla mangrovie pungenti della crisi della forma-Agenzia, che  sia capace di attraversare le strettoie della crisi economica mondiale e delle sue pesanti ricadute nazionali, quella stessa crisi che dal prossimo autunno ci farà la sua sgradevole, ma in fin dei conti utile compagnia per tutto il prossimo anno. Per fare quello che bisognerebbe fare si dovrebbe dare  alla luce una agenzia di pubblicità di nuova generazione.

La creatività è tutto, è un tutt’uno nella produzione delle idee e nella sua gestione. Questa attività  dovrebbe e potrebbe essere remunerata con una sola e unica voce di spesa da parte del Cliente. Tutto compreso, chiavi in mano. Non si tratta di rinunciare all’attività di consulenza per la scelta del miglior fornitore possibile per il cliente,  del miglior prezzo, si tratta semplicemente di  non ricavarci alcuna fonte di guadagno. Perché la ragione sociale dell’agenzia di nuova generazione è fornire idee, fornire creatività pubblicitaria organizzata, non fare mera intermediazione commerciale.

Un’agenzia di pubblicità di  nuova generazione che sappia  sviluppare la sua attività e la sua stessa ragion d’essere in un mercato che non vede più la centralità del media classici. Né creda di crescere nel tentativo di applicare meccanicamente le vecchie regole ai nuovi media.

Un agenzia di nuova generazione che legga il mercato della comunicazione di massa come un terreno neutro rispetto ai media, nel quale i messaggi possano passare da un veicolo all’altro, possano agire e interagire con i destinatari del messaggio pubblicitario.

Un’agenzia di nuova generazione che si rifiuti di credere che i consumatori moderni siano semplici target. I nuovi mezzi di comunicazione sono a due vie, sono interattivi, dunque i  consumatori , anche quando accedono ai media classici hanno imparato e essere  interlocutori attenti,  non più destinatari passivi.

E’, allora,  necessaria una forte attitudine a capire e includere nuovi e più articolati comportamenti soggettivi, valutare le emotività collettive, intuire le tendenze in nuce. L’agenzia di nuova generazione deve sapersi misurare col vivere e il pensare collettivo, come il giornalismo, la letteratura, l’arte, il design.

Un’agenzia di nuova generazione  che si sappia misurare in profondità con i segmenti merceologici su cui via via si impegna, per ricavarne conoscenza, arricchirsi di esperienza, produrne cultura, da condividere col Cliente.  L’agenzia di nuova generazione  ha molte buone ragioni , ma allo stesso tempo non ha alternative: deve essere creativa in tutti i suoi approcci.  Ma per costringere se stessa a essere sempre e solo creativa, l’agenzia di nuova generazione deve essere leggera.

Le vecchie agenzie hanno presidenti, vice, ad, direttori generali, supervisori finanziari. La vecchie agenzie spendono più tempo e denaro per alimentare la propria verticalità di quanto ne spendano per studiare, capire e risolvere le problematiche del cliente.

L’agenzia di nuova generazione dovrà essere  orizzontale nei rapporti con i collaboratori, perché avrà bisogno del loro cervello, non della loro obbedienza.  L’agenzia di pubblicità di nuova generazione dovrà essere  leggera perché  mirerà  sempre alla qualità del prodotto creativo. La creatività pubblicitaria organizzata vive i criteri organizzativi come mezzi, non come fini: essi servono alla creazione di clima favorevole alla creatività.

Più l’agenzia di nuova generazione sarà capace di rimanere leggera, più sarà  capace di essere flessibile nella struttura, inflessibile nei comportamenti dei singoli collaboratori: niente sprechi di tempo e denaro, niente risparmi di energie per i suoi clienti. 

Creatività pubblicitaria organizzata è il modello di business dell’agenzia di pubblicità di nuova generazione. Sarà competitiva non perché costa di meno, ma semplicemente perché vale di più: saprà come creare valore senza dare vita a costi inutili.

Arriva l’autunno, tempo di semina. Rimbocchiamoci le maniche, prima che arrivi il lungo e gelido inverno della peggiore crisi economica degli ultimi anni. Beh, buona giornata.

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Qualità della vita e vite di qualità.

Henry Allingham, reduce della Prima guerra mondiale e uomo più anziano di tutta la Gran Bretagna, ha festeggiato un altro compleanno spegnendo, sulla torta, ben 112 candeline.

“Il mio segreto?”, ha scherzato Allingham, “sigarette, whisky e donne focose”. Nato a Londra il 6 giugno del 1896, ovvero quando regnava ancora la regina Vittoria, Henry Allingham ha visto passare davanti ai suoi occhi sei monarchi e 21 primi ministri

“Tutti mi chiedono come ho fatto”, ha dichiarato felice Henry Allingham, “e io dico che ho solo desiderato vedere sempre sorgere il sole”. Considerando le usuali condizioni meterologiche della Gran Bretagna, si può capire con quanta determinazione l’uomo, che ha attraversato tre secoli, abbia voluto vivere.

Una vecchia storiella racconta di un uomo che raggiunta la veneranda età di cento anni viene intervistato da un’emittente televisiva. Alla domanda “come ha fatto a vivere così a lungo?” l’uomo rispondeva che mangiava poco, dormiva molto, faceva moto, non fumava, non beveva.

A un certo punto l’intervista viene interrotta dal frastuono di una porta che sbatte, dal vocione di un uomo e dalle risa sgangherate di una donna. “Che succede?” chiede allarmato l’intervistatore. “Nulla di grave” risponde serafico il centenario. “E’ solo mio padre che come al solito rincasa sbronzo in compagnia dell’amichetta occasionale che rimorchia nei bar”.

In barba ai precetti salutisti, alle stesse campagne pubblicitarie di prodotti che promettono di allungare la vita, l’impressione che si ricava è che è la vita, non noi, che decide per quanto tempo vuole continuare a stare dentro il nostro corpo, il nostro organismo, nella nostra lucidità mentale.

E’ la vita che decide quanto tempo vuole vivere con noi. A noi rimane spendere bene questo tempo: vivere intensamente la vita è meglio che lasciarsi vivere. Che la vita magari si annoia e se ne va.

Conoscete tutti la famosa battuta di Woody Allen: “Smetterò di fumare, vivrò una settimana in più. E pioverà tutto il giorno.” Beh, buona giornata.

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Mica si spreca così il vino rosso.

Non è la prima volta che sentiamo dire da autorevoli fonti scientifiche che bere vino rosso allunga la vita. Stavolta la prova provata delle proprietà mirabolanti del vino rosso è stata riscontrata in una sostanza, il ‘resveratrol’, presente in un’alta percentuale nel vino rosso.

Pare che il resveratrol sia capace di proteggere il cuore dall’invecchiamento, attivando l’agente proteico ‘sirtuins’ che rallenta la degenerazione dei tessuti.

La scoperta si deve a un gruppo di scienziati americani dell’Università del Wisconsin che hanno pubblicato il rapporto sulla rivista scientifica ‘PloS One’.

Apparentemente è una buona notizia, se non che nel rapporto si scopre che il vino rosso, oggetto della sperimentazione sarebbe stato somministrato a topi di laboratorio, addirittura topi di mezza età.

“In vino veritas”: dunque, per la verità bisogna dire che passare mezza vita in un laboratorio a subire esperimenti di ogni tipo non è una bella vita. Lo credo bene che un sorso di vino ha dato a quei tapini di topini qualche attimo di ebbrezza, come dire? una sferzata di vitalità.

Ma il problema è: che se ne fanno quei poverini di topi di laboratorio di una vita più longeva? Per essere sottoposti per qualche anno in più alle angherie della sperimentazione? Ai voglia a bere per dimenticare. Va bene che un topo è destinato a fare la fine del topo, ma che razza di cattiverie è procrastinare la fine del topo?

Ma la cosa più grave di tutte è la sola idea di degradare il vino a liquido di laboratorio, come fosse una soluzione chimica, nata tra alambicchi e provette, invece che tra vigne, botti e calici. Il vino nasce per l’amicizia e l’allegria, per il buon cibo e il buon gusto. Non vi sembra di pessimo gusto usarlo per sbronzare cavie da laboratorio? Produrre vino è un mestiere difficile, lo sanno bene i produttori indipendenti e le grandi marche. Mica si spreca così il vino rosso. Beh, buona giornata.

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