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L’Unione europea contro la legge Gasparri: un richiamo ufficiale sul duopolio Rai Mediaset.

da ilmessaggero.it

La Legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo e della Rai è ancora sotto osservazione da parte della Ue. Il portavoce della Commissione Ue Jonathan Todd ha confermato le notizie secondo le quali ieri Bruxelles ha inviato un nuovo richiamo a Roma con una lettera indirizzata al governo.

La procedura, aperta nel luglio 2006, contesta in particolare il sistema di duopolio televisivo dell’Italia, con Rai e Mediaset, e il sistema in vigore di assegnazione delle frequenze digitali. E nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale l’Italia avrebbe riprodotto lo schema di duopolio. Bruxelles chiede dunque al governo italiano di superare questa situazione cambiando i criteri previsti. 

«La procedura di infrazione Ue contro la Legge Gasparri non è stata affatto archiviata e la mancata apertura del mercato delle frequenze è una grave ipoteca sulla transizione al digitale nel nostro paese» ha detto Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Pd. Il decreto dello scorso anno «non serviva a chiudere la procedura di infrazione, ma dava una ulteriore legittimazione all’occupazione di fatto delle frequenze da parte di emittenti come Rete 4 prive di concessione. Allora riuscimmo a sventare l’operazione “salvafrequenze di Rete4” e oggi la Ue conferma le nostre ragioni di allora». (Beh, buona giornata).
 

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La stampa spagnola è in guai seri.

di Ettore Siniscalchi – da www.articolo21.info

I venti della crisi si abbattono sulla stampa spagnola. Licenziamenti, ristrutturazioni, testate che chiudono e gli editori che chiedono a Zapatero aiuti al settore. Solo tra i giornalisti ci sono stati oltre cinquecento licenziamenti in tre mesi. Ondata di proteste e scioperi in arrivo.
 
In Spagna c’è un sistema editoriale vitale, con una molteplicità di operatori, di dimensioni anche internazionali, che competono sulla base dei prodotti in un mercato aperto, nel quale non manca anche un’importante presenza italiana. È interessante per molti motivi, quindi, guardare a cosa accade in Spagna, davanti alla grande crisi che colpisce il settore dell’informazione.

Alla base di tutto c’è il crollo della domanda di spazi pubblicitari, scesa del 35% nell’intero settore della comunicazione, alla quale si aggiunge una flessione dell’audience dei media tradizionali. A fare il quadro, sembra un bollettino di guerra, a cominciare dai giganti.
Il gruppo Prisa – un colosso editoriale che opera in mezzo mondo, il principale in Spagna – è in un momento difficile. Lo sbarco televisivo, col lancio di Cuatro, la nuova emittente nazionale in chiaro, è costato molto in quanto a valori di borsa. Partita alla grande coi diritti del campionato di calcio, li ha poi persi, ma comunque è in crescita. Il disastro c’è stato però col consorzio di televisioni locali, Localia Tv, nato anni fa, che non ottenne le frequenze per il passaggio al digitale terrestre e che il 31 dicembre ha chiuso, lasciando in strada 250 lavoratori. Ciò pesa su tutto il gruppo, non solo sul settore televisivo.
Nel quotidiano El País, in flessione di vendite anche se minore rispetto alla concorrenza, c’è stato un pesante intervento, con l’unificazione delle redazioni tradizionale e internet, che ha fatto sfiorare lo sciopero. I lavoratori di Prisa ora temono lo spettro della vendita, di testate, come la radio Cadena Ser, o di intere divisioni editoriali, dato che i vertici hanno fatto capire che intendono “disinvestire”.

Gli avversari de El Mundo – del gruppo Unidad Editorial, nel quale è presente anche Rizzoli – non se la passano meglio. Proprio da Milano pare sia venuta la pressante richiesta di riduzione dei costi del personale, per trenta milioni di euro l’anno. Il direttore del giornale, Pedro J. Ramirez, ha convocato i sindacati per informarli e chiedere proposte. Intanto, loro hanno tradotto quei trenta milioni in una riduzione del 17% dell’organico: 400 lavoratori, più o meno.

Il catalano Grupo Z, è quello che per ora paga di più la crisi. Per tutto febbraio i lavoratori terranno scioperi e mobilitazioni. Il governo autonomico ha aperto un tavolo di mediazione per un piano che prevede 531 licenziamenti su 2300 lavoratori.

Anche il gruppo basco Vocento, editore tra l’altro dello storico quotidiano conservatore Abc, si presta a licenziare 125 persone del giornale. Mentre sono già  in strada gli 83 lavoratori, la maggioranza giornalisti, di Metro, lo storico gratuito internazionale che, travolto dal crollo della pubblicità, ha chiuso le sue edizioni spagnole malgrado 1milione e 800mila lettori quotidiani lo attestassero come quinto quotidiano più letto del paese.
La crisi di un altro gratuito, Adn – che supera il milione di esemplari diffusi ma soffre il crollo delle inserzioni – porta alla chiusura Adn.es, in cui lavoravano 40 persone. Non si trattava della semplice versione on-line del giornale ma di una redazione autonoma che agiva in sinergia col giornale.

Un primo tentativo di un quotidiano esclusivamente on-line, che si è rivelato un grande successo, con milioni di contatti unici quotidiani. In questo caso l’amarezza dei lavoratori è ancora più grande perché il progetto è stato affondato mentre andava come un treno, bruciando le tappe dei piani di rientro, per colpa della crisi della versione cartacea. Il gruppo Planeta, partecipato da De Agostini, ha puntato sul giornale più tradizionale decidendo di sacrificare tutto il comparto Medios Digitales. Resta in piedi, invece, AdnTv, recente iniziativa nata nell’esperienza di Adn.es.

La caduta pubblicitaria colpisce senza pietà anche i canali televisivi. Per il mese di gennaio le previsioni sono di una caduta che arriva fino al 37% rispetto allo stesso periodo del 2008, come nel caso di Telecinco. La rete Mediaset diretta da Paolo Vasile incasserà circa 30 milioni di euro in meno, a fronte di una perdita di share del 3.4%.
Antena 3, del gruppo Planeta – De Agostini, è la seconda rete più colpita dalla contrazione delle entrate pubblicitarie, un 23% meno rispetto allo scorso gennaio, con una perdita di share dell’1,3%.
Terza, con il 23% di ingressi pubblicitari in meno, La Primera, di Television Española, a fronte però di una crescita dell’1% di share.

Nessuno degli operatori che operano nel sistema dei media spagnolo è escluso dalle conseguenze della crisi finanziaria globale, che si aggiunge alla rivoluzione tecnologica in atto, con internet che diventa la prima fonte di informazioni per sempre più persone. Anche la rete, però, a fronte di una sempre maggiore penetrazione, non vede aumentare il valore degli spazi pubblicitari.

Se il mercato editoriale soffre la brusca caduta degli investimenti pubblicitari, non vuol dire che non si scontino anche scelte sbagliate – i sindacati dei giornalisti puntano il dito verso un esagerato espansionismo imprenditoriale – a fronte delle consistenti entrate di cui gli editori hanno goduto negli ultimi 20 anni.

L’Associazione degli editori spagnoli (Aede), dal canto suo, ha lanciato un grido d’allarme per il futuro del settore, facendo una serie di richieste al governo spagnolo. Come l’applicazione dell’Iva allo 0%, attualmente è al 4. Gli editori si rifanno agli aiuti per difendere e sviluppare il pluralismo nella stampa, nati proprio che in occasione della crisi economica degli anni ’70, in vigore in molti paesi, sotto forma di rimborsi per le spese di distribuzione, di finanziamenti per lo sviluppo tecnologico, per la diffusione della lettura tra i giovani e per lo sviluppo dell’editoria web. E sottolineano l’esempio di paesi come l’Italia, la cui stampa ha ricevuto 150 milioni di euro, e la Francia, con 101 milioni.

Intanto, la situazione dell’occupazione giornalistica non è rosea. Allo scorso settembre, dei circa 50mila giornalisti spagnoli, 3.247 erano in disoccupazione, altri 4.374 in condizioni di lavoro precarie e instabili e nei tre mesi precedenti, in 450 avevano perso il posto, secondo i dati dell’Instituto Nacional de Empleo (Inem), presentati lo scorso dicembre nell’ambito del Rapporto annuale sulla professione giornalistica della Asociación de la Prensa de Madrid (Apm).

In quell’occasione, il presidente dell’Apm, Fernando González Urbaneja, ha fatto previsioni fosche per il 2009, citando un’inchiesta del Rapporto per la quale 6 direttori di testata spagnoli su 10 prevedono licenziamenti nella loro redazione. Una perdita più vicina «ai duemila che ai mille posti», secondo Urbaneja, che ha invitato gli editori a preservare la forza lavoro, gli inserzionisti a premiare la qualità e il governo a non aiutare solo gli amici e a perseguire con durezza la precarietà lavorativa.
Se nel 2009 ci saranno «perdite superiori ai 3000 posti di lavoro – ha aggiunto Urbaneja – sarà una catastrofe». (Beh, buona giornata.)

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Obama non ha usato il web. Non è entrato in rete, ha fatto rete. Obama ha vinto perché ha cambiato il web.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha dietto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca lascia intendere la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni che potrebbe trasformanre la nostra vita quotidiana e, contemporaneamente, la società globale.

 A cominciare dalla comunicazione. La logica della partecipazione e della condivisione dei contenuti dovrebbe essere resa possibile su vasta scala, come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama. E’ un fatto nuovo. Nessuna organizzazione o azienda può pensare di restare fuori da queste sfide. Ma stare al passo con i tempi non è così semplice come può sembrare. Secondo  Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione Università Iulm e prorettore dell’ateneo, Obama si è distinto non per l’uso esclusivo dei social media, bensì per aver messo in atto una comunicazione politica basata su un adeguato mix di media innovativi e classici. A differenza dei suoi principali competitor, la Clinton prima e McCain poi, che hanno condotto la loro campagna seguendo schemi molto più tradizionalistici.

In realtà, Barak Obama è stato lungimirante e si è  appropriato con successo del territorio simbolico e valoriale della parola chiave ‘change’, ha fatto leva sulle emozioni profonde degli elettori, spingendoli a diventare soggetti attivi e interattivi di un progetto. Ed ha anche ottenuto la partecipazione spontanea di artisti e designer che hanno realizzato per lui magliette, poster e video di alta qualità.

In altre parole, Obama si è trasformato in un simbolo, ma anche in un  logo, un brand, che trasmette un messaggio fortissimo: la speranza nel cambiamento.

In Italia, ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale il Pd ha tentato di fare propria questa strategia, ma invece di comprendere la forza del concetto “change”, ha fatto proprio “yes, we can”,  tradotto in “si può fare”. Un equivoco, più che un errore: è suonato nelle orecchie degli elettori come una affermazione autoreferenziale, ego riferita alla nascita delPd e non un nuovo progetto di paese cui partecipare con entusiasmo. Il risultato di queste equivoco non è solo nelle urne elettorali, ma è diventata un fatto politico. Oggi in Italia nessuno pensa che il Pd sia stata una vera innovazione, né che Veltroni ne sia il simbolo.

 D’altra parte, i discorsi di Obama hanno incarnato il desiderio di cambiamento americano, e i prodotti audiovisivi a lui riconducibili si sono distinti per un’elevata qualità sia della grafica sia del contenuto.

Senza contare  l’uso sapiente e consapevole dei social media: i progetti web di Obama hanno avuto la forza di incoraggiare le persone a diventare, esse stesse, parte del cambiamento, innescando meccanismi di condivisione e partecipazione che hanno portato i sostenitori di Obama a usare i social network in piena autonomia per incontrarsi e organizzare sia eventi sia raccolte fondi.

Un’esperienza vincente come quella di Obama insegna che il web non è un semplice spazio virtuale dove sparare messaggi, per entrare nel mondo dei new media non basta mettere un banner su qualche sito o aprire un blog, perché su Internet non basta esserci, bisogna esserne parte: occorre diventare un nodo, un anello, della Rete stessa. Anzi, bisogna saper essere il bandolo della matassa  della  rete stessa. Beh, buona giornata.

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Crisi dei quotidiani: il piano del NYT è vendere il grattacielo di Piano.

(Fonte: repubblica.it)

Il New York Times è con l’acqua alla gola e invece di ipotecare il nuovo grattacelo realizzato da Renzo Piano a fine 2007 (come annunciato ai primi di dicembre) il gruppo ha deciso di fare cassa vendendo la sede.

Affossata dal crollo della raccolta pubblicitaria (-21,2% nel solo mese di novembre 2008) il quotidiano più prestigioso d’America, ma solo il terzo per diffusione (1 milione di copie in media), ha annunciato di essere in fase di “avanzate trattative” per cedere al gruppo immobiliare W.P. Carey e Co. i 19 piani sui 52 dell’intero edificio dove lavorano i giornalisti e l’amministrazione del giornale.

Il Nyt resterà in affitto nello stesso edificio sull’Ottava Avenue con il diritto di riacquistare gli spazi entro 10 anni. Il gruppo ‘The Times. Co.’, che edita anche ‘Boston Globe’ e l’ ‘International Herald Tribune’, possiede il 58% del grattacielo. L’8 dicembre aveva annunciato di voler accendere un’ipoteca per 225 milioni di dollari con cui avrebbe fatto fronte a un debito di 400 in scadenza a maggio di quest’anno. Oggi la svolta senza fornire particolare sull’entita’ dell’operazione.

Lunedi’ il magnate delle tlc messicano Carlos Slim, che gia’ possiede il 6,9% del gruppo, aveva fornito al Nyt una linea di credito di 250 milioni di dollari che non sono bastati a tamponare la falla. All’inizio dell’anno pur di aumentare la raccolta pubblicitaria il Nyt aveva fatto cadere l’ultimo tabu’ accettando inserzioni pubblicitarie in prima pagina: una pratica comune in Italia e in altre testate Usa ma il Times era rimasto finora immune da tutto cio’ che non fosse “una notizia degna di essere pubblicata”. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Diamo una mano al quotidiano.

Mentre in Italia è stata annunciata una partership tra il Gruppo Espresso e la Rcs per dare vita a una piattaforma comune per la raccolta pubblicitaria sul web, arriva dagli Usa una brutta notizia per i quotidiani americani.

 

Google ha deciso di  eliminare, a partire dal prossimo 28 febbraio Print Ads, un programma per vendere la pubblicità sui quotidiani perché non rende abbastanza..Il programma, era nato per agevolare gli inserzionisti nelle strategie multi-piattaforma (web e stampa). Lo riferisce Giovanni Gagliardi da New York, per repubblica.it.

“Non abbiamo avuto un impatto significativo nei profitti per i nostri quotidiani partner”, ha ammesso il portavoce di Google Brandon McCormick. “Speravamo che Print Ads potesse creare un nuovo canale di entrate per i quotidiani, ma invece il prodotto non ha avuto l’impatto che speravamo”, aggiunge la stessa società attraverso il suo blog.

Print Ads fu lanciato da due anni ed era stato progettato per aiutare i quotidiani a fare soldi attraendo gli inserzionisti di Google affinché si espandessero verso la carta stampata. Vi erano state coinvolte 807 testate, inclusi il New York Times, New York Post, The Boston Globe, Chicago Tribune, The Washington Post, San Francisco Chronicle, San Jose Mercury News e Los Angeles Times

La situazione economica e finanziaria della stampa americana è andata via via aggravandosi negli ultimi anni. Secondo la Newspaper Association of America, il mercato pubblicitario statunitense, quasi esclusiva fonte di reddito per la stampa Usa, si era già molto ridotto negli ultimi anni, passando dai 48,7 miliardi di dollari  di fatturato del 2000 ai 42,2 miliardi di dollari del 2007.

 

La situazione è andata aggravandosi e la decisione di Google non è certo un bel segnale. Ne è una riprova, ad esempio, la decisione del New York Times di mettere in vendita lo storico palazzo dove ha sede la redazione, nonché la scelta di concedere spazi pubblicitari anche in prima pagina. A poco vale la rassicurazione secondo cui Google “resta comunque impegnata a lavorare con gli editori nello sviluppo di nuove strade per aumentare le entrate, distribuire e aggregare contenuti e attrarre nuovi lettori online”.

 

Anche in da noi sembra ci sia una nuova sensibilità sulla questione della sopravvivenza della carta stampata. A parte la già citata partneship tra il Gruppo Espresso e la Rcs, è stata recentemente espressa la volontà da parte di Upa di attivare più attenzione alla pubblicità sulla stampa italiana.“Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti”, ha detto di recente Lorenzo Sassoli de Bianchi. (vedi “La pubblicità italiana e la carta stampata”, pubblicato il 15 gennaio in “Beh,buona giornata”). Lodevole intenzione a cui bisognerebbe dare seguito con atti concreti. Beh, buona giornata.

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Gratuita la censura, gratuita la polemica.

 E’ stata rifiutata la campagna pubblicitaria dell’Unione degli atei, agnostici, razionalisti su due (!?) autobus urbani di Genova. La concessionaria  ha deciso di non concedere gli spazi comunali per lo slogan “La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”.

 

Apriti cielo: quelli dell’Unione si sono indiavolati e per tutta risposta hanno chiesto che il Comune di Genova revocasse la concessione alla concessionaria.

E’ vero che campagne simili sono state lanciate a Londra, a Barcellona, a Washington. E’ vero anche che ovunque hanno scatenato polemiche. Poiché  la polemica era appunto l’oggetto della comunicazione della campagna, Unione degli atei ha ottenuto l’effetto desiderato.

 

Con la variante molto più furba di quanto successo a Londra, a Barcellona o a Washington, perché questa è una polemica gratis, ottenuta senza neanche spendere una lira, pardon un euro, per acquistare gli spazi.

 

Ironia della sorte, il tutto è avvenuto a Genova, che lo stereotipo dice essere città abitata da persone parsimoniose (chiedo scusa agli amici genovesi, ma l’occasione era ghiotta, ancorché innocua).  

 

Comunque, questa mi pare proprio la morale della favola: gratuita la censura, gratuita la polemica. Per cui, parafrasando lo slogan, potremmo concludere: “la cattiva notizia è che la campagna non esiste, la buona è che non ne hai più bisogno”. Beh, buona giornata.

 

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La pubblicità italiana e la carta stampata.

 La notizia è che Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell’Upa, l’associazione degli investitori di pubblicità, riferendosi all’analisi proposta da Giovanni Valentini ne “Il sabato del villaggio”, su Repubblica del 10 Gennaio, ha scritto: “Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti.” E’ una notizia perché in passato Upa è sembrata essere sempre molto più attenta alla tv che alla stampa.

Fatto sta che è un bene che si torni a parlare di pubblicità e carta stampata. Lo si è fatto recentemente in un convegno a Milano, lo si è letto in questi giorni sui giornali, appunto. E’ un bene perché si mette in discussione, finalmente, un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l’intrattenimento attira pubblicità più dell’informazione.

E’stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare la tv. Quando dico scoppiare mi riferisco all’efficacia, o sarebbe meglio dire l’inefficacia del mezzo televisivo, che mostra la corda proprio in tempo di crisi: i consumi crollano nonostante la enorme pressione pubblicitaria televisiva.

La necessità di ampliare a tutta la filiera dei mezzi di comunicazione i messaggi pubblicitari, alleggerendo la pressione sulla tv è una “conditio sine qua non” del ruolo della pubblicità italiana, sul modello di quanto avviene in tutti i mercati occidentali. Bisogna aggiungere che se l’intrattenimento è un “bene voluttuario”, l’informazione è “un bene comune”, un fondamentale della nostra democrazia. La mediazione che i giornali forniscono tutti i giorni tra gli avvenimenti e i significati, vale a dire tra ciò che è successo e ciò che significa, è il ruolo irrinunciabile di ogni paese democratico, che ha il dovere di alimentare l’informazione, corretta e puntuale, perché la democrazia è tale se i cittadini sono consapevoli, aggiornati e partecipati della vita pubblica. Questo dovere e il relativo vantaggio valgono anche per le aziende che spendono soldi in comunicazione commerciale, per informare correttamente i propri clienti attuali e potenziali.

I lettori dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola“, ha detto recentemente  Ferrucio De Bortoli, direttore de Il Sole 24 ore. A cui ha fatto eco Emanuele Pirella: “I giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole“. Osservazioni pertinenti col problema del rapporto tra la stampa e la pubblicità.

Non ci si può nascondere, tuttavia, quanta diffidenza ci sia su questo punto: i giornalisti non amano la pubblicità, perché la vivono intrusiva del loro lavoro, invadente gli spazi fisici del giornale. Se fanno buon viso a cattivo gioco è solo perché la pubblicità aiuta il giornale a vivere. Insomma, giornalisti e pubblicitari non si amano, va bene se al limite si sopportano. Ha scritto  Giovanni Valentini: “I giornali e i giornalisti sono chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. La svolta del New York Times insegna. Nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, vanno ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, occorre incrementare l’ offerta di un servizio.”

I pubblicitari, dal canto loro hanno a lungo rincorso la tv e attualmente quasi si sentono diminuiti a prendere in mano penna e matita e fare una bella campagna su un quotidiano. Lo diceva recentemente anche Pirella, sottolineando quanto questo atteggiamento sia sbagliato e un poco patetico: “In passato era l’immagine, l’idea, il messaggio scelti dal creativo a fare la differenza in una campagna. Oggi sono i budget, che consentono il ricorso a effetti speciali, a registi famosi ...”.

Quanto ai clienti, cioè agli inserzionisti, essi continuano ad essere persuasi che più spot meno stop alle vendite. “La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti”, ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. “E’ un fatto assodato che la gente  non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario”, ha detto una volta Howard Luck Gossage, grande copy writer.

In altri termini, l’esperienza, nonché la pratica ci dice che il consumatore moderno passa senza soluzione di continuità, nell’ arco temporale di una giornata-tipo, dalla tv (la mattina a casa), alla radio (in auto per andare al lavoro), dalle affissioni (che incontra movendosi in città, compresi i mega schermi che cominciano ad essere sempre più numerosi sugli  edifici), ai free press (ai semafori o in metro), dal giornale (che vede la bar durante il caffè, che compra all’edicola, che trova in ufficio), a internet (che ha in ufficio sulla scrivania), da i monitor che sono stati piazzati nelle stazioni ferroviarie e negli aeropori, fino alle news che trova sul telefonino a ogni ora del giorno, fino di nuovo alla tv che ritroverà a casa la sera, rifacendo a ritroso il percorso-tipo, scandito dagli appuntamenti informativi e pubblicitari che ho appena descritto. In questo contesto,  il messaggio pubblicitario non può che essere “neutro” rispetto al mezzo che lo contiene e lo veicola, capace di adattarsi di più alle esigenze di chi il messaggio lo fruisce.

Bisogna essere invece molto d’accordo con Sassoli de Bianchi quando dice: “Noi dell’Upa riteniamo che sia un errore per le aziende sane privarsi di una spinta che ha un obiettivo molto ambizioso: tenere desta la fiducia.” Ma soprattutto, si deve sottoscrivere in pieno quanto aggiunge poco dopo: “E’ vero: i consumi ristagnano e gli investimenti in comunicazione arrancano, ma le aziende sane e le marche hanno il dovere di andare controcorrente.” Sembrerebbe davvero un buon viatico per attraversare la crisi, e uscirne tutti migliori di prima. 

Ridare forza attrattiva alla stampa per la pubblicità significa riscoprire un principio basilare: l’autorevolezza di una testata attribuisce credibilità al messaggio pubblicitario, dunque ristabilisce i fili della fiducia tra marca e consumatore. Contemporaneamente, obbliga il marketing e il creativo a essere all’altezza della reputazione della testata e della sua autorevolezza presso i lettori.

Occorre tuttavia superare vecchi preconcetti e vecchi tabù, anche per consentire alla carta stampata di reggere meglio la concorrenza sempre più aggressiva e invadente della tv che bombarda quotidianamente i telespettatori di spot, mini-spot, telepromozioni e televendite – ha scritto Giovanni Valentini, che aggiunge -Colpisce a questo proposito l’ immediato exploit della tv pubblica in Francia che lunedì scorso, nella sua prima serata senza spot in seguito alla riforma voluta da Sarkozy, ha registrato un boom di tre milioni e centomila spettatori in più.

Qui a quanto pare c’è  il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise,  ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa.  A tutto vantaggio del resto della filiera della comunicazione commerciale. Infatti, se gli investimenti nella tv rientrano nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale: dal web al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che l’idea farebbe la differenza, che la strategia farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza  si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv, non solo quella pubblica. Beh, buona giornata.

 

 

 

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La sfiducia nella fiducia.

 

 Secondo quanto reso noto da Isae, l’Istituto di studi e analisi economica (www.isae.it), la fiducia  è crollata ai minimi storici in Europa sia tra i consumatori che tra le imprese. E’ quanto emerge dalla rilevazione relativa al mese di dicembre, nella quale si  sottolinea che l’indice di fiducia dei consumatori è sceso da -25 a -30 che è il minimo storico dal 1985, anno di inizio della serie storica di riferimento.

In particolare peggiorano le previsioni sulla situazione economica generale e aumentano fortemente le preoccupazioni sull’occupazione. “L’indice continua a calare in Germania, Francia e Spagna” mentre al di fuori dell’area euro “la fiducia si deteriora anche nel Regno Unito”, si legge nel comunicato stampa diffuso da Isae.

La fiducia delle imprese manifatturiere nell’area euro si attesta a -33 da -25 del mese precedente, segnando anche in questo caso un record negativo dal 1985. “Il peggioramento è diffuso ovunque- sostiene Isae- pur essendo particolarmente sensibile in Germania, Spagna e Francia; al di fuori dell’area euro la fiducia migliora, seppur leggermente, nel Regno Unito”.

 

Anche negli Usa, gli indici della fiducia sembrano migliorare leggermente. Per quanto riguarda la fiducia nei consumatori, Isae rileva che l’indice elaborato dal Conference Board subisce un nuovo sensibile calo e si riporta al minimo storico registrato ad ottobre (a 38 da 44,7); peggiorano sia il sottoindice relativo alla situazione corrente (a 29,4 da42,3) sia quello relativo alle aspettative ( a 43,8 da 46,2)

 

Di segno opposto, appare l’indicatore elaborato dall’Università del Michigan, che invece risale a 60,1 (da 55,3); contemporaneamente migliora il sottoindice che raccoglie i giudizi sulla situazione presente (a 69,5 da 57,5), mentre è quasi stabile quello relativo alla situazione futura (a 54 da 53,9).

 

Poiché la politica e le politiche anticrisi giocano un ruolo determinante sull’andamento degli indicatori della fiducia, è evidente il ruolo positivo giocato da Gordon Brown in Uk e, per quanto riguarda gli Usa, il prossimo atteso insediamento alla  Casa Bianca di Barak Obama.

 

Della situazione italiana, Isae si era occupato il 30 dicembre scorso, rilevando il preoccupante crollo  del clima di fiducia tra le imprese italiane. Dalle costruzioni, al commercio ai servizi di mercato l’indice di fiducia registrato dall’Isae a dicembre risulta  in calo, e in alcuni casi scende ai minimi da dieci anni.

L’Istituto di Studi e Analisi Economica aveva diffusi tre diverse inchieste dalle quali emergeva lo stesso dato: le imprese continuano a vedere nero. In particolare, per le costruzioni a novembre l’indice di fiducia delle imprese diminuisce per il terzo mese consecutivo e “si posiziona sul livello più basso registrato da dicembre 1998”.

“In forte caduta”, secondo l’Isae anche la fiducia dei commercianti (in questo caso il dato è di dicembre e non sembrano aver avuto effetto positivo i tradizionali acquisti di Natale): l’indice, considerato al netto della componete stagionale, continua a scendere e, portandosi da 96,9 a 88,8, raggiunge il valore minimo dall’ottobre del 2001″.

Male anche il clima di fiducia nei servizi di mercato: a dicembre l’indice è sceso a -26 da -23 dello scorso mese “a causa del marcato peggioramento – spiega l’Istituto – dei giudizi sugli ordini”.

 

Su base territoriale, l’indice èsceso da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorate anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese hanno confermato le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese di novembre: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è stato dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche italiane hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, poco compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche se le banche non hanno fiducia nelle famiglie e nelle piccole e medie imprese?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela  già cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica se la politica non si accorge del crollo di tutti gli indicatori sulla fiducia?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali appaiono frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella informazione se l’informazione non ha fiducia nella sue capacità di dire con chiarezza come stanno davvero le cose?

La pubblicità italiana  vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità se la pubblicità rinuncia a costruire fiducia nelle marche da parte dei consumatori?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman:” Molto prima che l’ultima bolla del mercato esplodesse, c’erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra”. (“Così cambia il nostro stile di vita”, Repubblica 10 gennaio).

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori in campo. Beh, buona giornata.



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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In tempi di crisi, il fine giustifica i mezzi (pubblicitari).

NYT, pubblicità in prima pagina per far fronte alla crisi economica.

di RAFFAELLA MINICHINI, da repubblica.it

La crisi colpisce il cuore del quotidiano forse più celebre del mondo: il New York Times da oggi vende un “pezzo” della sua prima pagina alla pubblicità contaminando quello che storicamente è sempre stato considerato lo spazio sacro dell’informazione.

La “striscia” comparsa oggi a colori nel taglio basso della prima pagina è stata acquistata dalla Cbs. Come di consueto, il giornale ha informato i lettori delle motivazioni e modalità dell’ennesimo provvedimento d’emergenza per tappare le falle del bilancio aziendale in quello che lo stesso Nyt ammette essere stato il “peggior periodo di entrate dai tempi della Depressione”. Le cifre sono allarmanti per il quotidiano di New York: meno 13,9% rispetto a novembre 2007, meno 7,6% nell’ultimo anno.

All’inizio di dicembre il giornale aveva annunciato un’altra iniziativa clamorosa: l’ipoteca per 225 milioni di dollari del grattacielo di 52 piani nel cuore di Manhattan progettato da Renzo Piano e inaugurato con grande esposizione mediatica poco più di un anno fa, di cui l’azienda editoriale possiede il 58%. Altre misure comprendono il ridimensionamento delle pagine, la chiusura di alcune attività sussidiarie, l’aumento dei prezzi degli abbonamenti.

La pubblicità in prima pagina non è consuetudine di tutti i quotidiani americani: finestre pubblicitarie compaiono sulla copertina di Wall Street Journal, Usa Today, Los Angeles Times, ma non ad esempio sul Washington Post. l prezzo degli ambiti 6 centimetri non è stato reso noto, anche se il giornale sostiene che non c’è differenza con gli spazi interni ma si procede con accordi di acquisti di spazi multipli su varie sezioni del giornale se l’inserzionista desidera comparire sulla “vetrina” di prima. “Resta da vedere quanto si riuscirà a vendere nel clima attuale di crollo degli investimenti pubblicitari”, è però la realistica valutazione fatta dallo stesso New York Times nell’edizione di oggi.

In passato il Nyt aveva pubblicato “in rare occasioni” spazi pubblicitari in prima pagina fatti di poche righe di testo. Erano comparse finestra composte da testo e immagini nelle copertine delle sezioni intermedie, ma la testata – scrive oggi Richard Perez-Pena sullo stesso Nyt – “non aveva mai venduto finestre in prima pagina, considerandola un’intrusione commerciale nello spazio informativo più importante del giornale”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Pubblicità ingannevole? No, ingannata.

 E’ una brutta notizia scoprire che la liberalizzazione del mercato dell’energia, avvenuta operativamente nel luglio del 2007, invece che benefici abbia al contrario dato vita ad abusi ai danni dei consumatori, che poi sono la totalità delle famiglie italiane.

 

La  brutta notizia è che l’Antitrust ha condannato nove società di vendita di elettricità e gas per pratiche commerciali scorrette, infliggendo loro multe per un totale di un milione e 275 mila euro. Secondo l’Autorità, le aziende multate hanno attuato pratiche commerciali scorrette nelle modalità di pubblicizzazione dei prezzi praticati nel mercato libero dell’energia e del gas.
Le sanzioni decise dall’Antitrust ammontano in particolare a 250 mila euro per Enel Energia, 260 mila per Eni, 135 mila per AceaElectrabel Elettricità, 140 mila per Aem Energia, 110 mila per Asm Energia e Ambiente, 90 mila per Trenta, 95 mila per Enia Energia, 100 mila per Mpe Energia e 95 mila per Italcogim Energie.

E’ una bruttissima notizia scoprire, scorrendo l’elenco delle società sanzionate, che due di loro sono, per esempio a partecipazione azionaria pubblica: Eni ed Enel. Altre due sono, sempre per esempio aziende municipalizzate: Acea di Roma e Aem di Milano. Cosa farà il ministero dell’Economia, azionista di Eni ed Enel? Cosa faranno i sindaci di Roma e Milano, azionisti di Acea e Aem? Come minimo, c’è una bella “questione morale” a carico dei manager delle rispettive società, visto che le nomine sono, per prassi, “politiche”.

 

E’ una pessima notizia scoprire di aver comprato sul mercato azionario titoli di aziende che ingannano il mercato. Che faranno gli azionisti delle società sanzionate, visto che le ammende comminate pesano sui bilanci e quindi impoveriscono i dividendi?

 

C’è poi la questione della pubblicità ingannevole. Secondo l’Antitrust, le nove società sanzionate hanno organizzato campagne pubblicitarie, attraverso diversi mezzi di comunicazione, in grado di indurre in errore i consumatori sul prezzo complessivo applicato per l’erogazione del servizio richiesto, con indicazioni non rispondenti al vero, inesatte o incomplete. Le campagne hanno riguardato in particolar modo le offerte “prezzo fisso”, “prezzo certo”, “prezzo bloccato” e quelle relative alla tariffa bioraria di energia elettrica e gas. Insomma, alle agenzie di pubblicità è stato affidato l’incarico di mentire ai consumatori. Un bel danno alle loro reputazioni. Ma soprattutto una danno grave alla credibilità della pubblicità italiana, che già di suo non vive momenti esaltanti.

 

Ma ciò che ne esce a pezzi è la fiducia nel libero mercato. In epoca di crisi economica, con la concomitanza proprio della crisi energetica, scoprire che trucchi e inganni sono stati resi possibili proprio dalle liberalizzazioni, che sembravano semplificare e rendere trasparenti le regole è un colpo ferale alla fiducia degli utenti, cioè dei cittadini italiani.

 

Le aziende dell’energia sono state sanzionate. Ma il danno attuale e pregresso a carico degli utenti chi lo risarcisce? Chi e come si farà carico di rimettere le cose a posto? E in quanto tempo? La correttezza delle tariffe avrà la stessa vistosa pubblicità che hanno avuto le campagne pubblicitarie, sanzionate come ingannevoli dall’Antitrust?

 

C’è da sperarlo. Ma c’è poco da sperare se non c’è un intervento deciso e definitivo sul tassativo rispetto delle regole del mercato. Beh buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Pubblicità e mass media

La fiducia delle imprese italiane è ai minimi storici.

Dopo il crollo dei livelli occupazionali e il crollo dei consumi, ecco che il crollo della fiducia delle imprese arriva a coronare lo sconfortante quadro economico di fine anno. Secondo l’ ISAE Istituto di studi e analisi economiche (*) la fiducia delle imprese crolla ancora a dicembre e scende ai minimi storici. E vengono confermate anche le difficoltà di accesso al credito, emerse già a novembre: l’indice della fiducia delle imprese cala da 71,6 a 66,6, «attestandosi sui minimi storici della rilevazione», come recita il rapporto ISAE.

Dall’inchiesta emerge un forte calo sia dei giudizi sul livello corrente della domanda sia delle attese a breve termine sulla produzione, mentre tornano ad accumularsi le giacenze di prodotti finiti. La crisi, spiega l’ISAE, si estende a tutti i principali settori produttivi: l’indice scende infatti da 65,7 a 62 nei beni d’investimento, da 82,5 a 78,9 in quelli di consumo e da 66,3 a 60,7 negli intermedi.

Su base territoriale, l’indice scende da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorano anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese confermano le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, niente affatto compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali, frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella libertà di stampa?

La pubblicità vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori. Beh, buona giornata.

 

(*)L’ISAE, Istituto di studi e analisi economica  è un ente pubblico di ricerca che svolge principalmente analisi e studi a supporto delle decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni. L’ISAE effettua, anche attraverso accordi e convenzioni con soggetti pubblici e privati, indagini presso imprese e famiglie, previsioni macroeconomiche, analisi nazionali ed internazionali e studi di macro e microeconomia della finanza pubblica. Vengono esaminate inoltre le politiche economiche di regolamentazione e le tematiche ambientali.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Cosa significa il tonfo dei consumi di Natale.

 

Secondo i dati del Codacons i consumi italiani, nel periodo natalizio, sono scesi del 20% rispetto all’anno scorso e per i prossimi saldi le attese sono per un calo degli acquisti del 30% rispetto all’anno scorso. Secondo Federconsumatori-Adusbef, inoltre, per i regali di Natale, gli italiani hanno speso quest’anno 2 miliardi in meno rispetto all’anno scorso.  A questo dato si aggiunge il rilevamento del’Osservatorio del turismo, secondo il quale i viaggi per le vacanze invernali registrano una flessione del 15%.  Se confermati, il combinato disposto tra questi due dati ci dice che non solo i ceti meno abbienti, ma anche i ceti medi si sono trovati in grave difficoltà economica in questa fine d’anno.

Il tonfo dei consumi che si è registrato a Natale significa almeno tre cose.

La prima è che gli appelli all’ottimismo e le professioni di fiducia sono risultati del tutto vani, se non addirittura hanno peggiorato la percezione della crisi. In principio si è voluto sottacerne la portata, poi si sono fatte ammissioni a mezza bocca, infine si cercato di minimizzare. E’ sembrata la barzelletta del medico che chiama il suo paziente per annunciargli una brutta notizia e una pessima: “ la brutta notizia è che lei ha ventiquattro ore di vita, la pessima è che mi sono dimenticato di telefonare ieri.” Per una volta,  nello spazio di poche settimane, realtà e percezione della realtà sono arrivate in perfetta sincronia alle feste natalizie.

La seconda cosa che il tonfo dei consumi ha dimostrato è che le misure anticrisi si sono rivelate del tutto tardive e inefficaci. L’attitudine “compassionevole” ha deluso e preoccupato. Non si è avuto il coraggio di operare scelte coraggiose, come in altri paesi della Ue si è fatto per tempo. Bonus figli e social card sono scivolate via come l’acqua.  In proporzione, ha fatto meglio il cardinale Tettamanzi a Milano che il capo del governo a Roma. Chi diceva che il pacchetto anti-crisi era vuoto aveva ragione. Chi sosteneva e sostiene ancora la necessità di un forte intervento del welfare (Obama docet) ha visto per tempo la portata della crisi economica. Le ragioni dello sciopero generale indetto dalla Cgil, dai sindacati di base e dall’Onda degli studenti c’erano tutte. Avrebbero, per altro, fermato la tendenza alla messa in cassa integrazione generalizzata, nonché ai tagli pesanti e generalizzati degli occupati, scelte spesso proditorie, più politiche che economiche assunte da Confindustria per forzare la mano degli aiuti alle imprese. Ostinarsi a non favorire salari e stipendi, chiudere gli occhi di fronte al precariato ha materialmente depresso i consumi, oltre che frustrato i livelli economici delle famiglie, impoverendole sia di soldi che di futuro.

Il tonfo dei consumi ha un terzo risvolto, che riguarda l’inefficacia dimostrata della pubblicità durante questa crisi. La tv ha fallito. In Italia circa il 70% delle risorse pubblicitarie sono investite in televisione, a danno della carta stampata e degli altri mass media, compreso internet. Dunque, il fallimento della tv è ancora più clamoroso. C’è una vera e propria emergenza che colpisce la comunicazione commerciale in Italia. Allo strutturale ritardo nello sviluppo di forme più moderne e articolate di comunicazione pubblicitaria si è aggiunta la cecità di chi crede ancora che prendere a ceffoni il telespettatore con una gragnola di spot e di telepromozioni sia sufficiente per superare il crollo della propensione alla spesa di milioni di italiani.

Il comune denominatore dei tre significati del tonfo dei consumi natalizi è che le cure si sono rivelate peggiori del male. Bisogna cambiare medico (infermieri compresi).  Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il Solstizio d’Inverno della pubblicità italiana.

Una gelida ventata di licenziamenti ha attraversato le agenzie di pubblicità italiane in prossimità di queste vacanze invernali. La crisi pensa più velocemente dei manager: sarà perché forse leggono poco i giornali, sarà perché forse evitano le trasmissioni televisive “ansiogene”, fatto sta che nei dieci giorni precedenti al Natale sono andati perduti decine e decine di posti di lavoro nello stesso lasso di tempo, con la stessa frettolosa decisione.  Che le cose sarebbero andate così come sono poi andate era ben chiaro da mesi. Ciononostante, abbiamo assistito, non senza stupore, a varie e insistenti dichiarazioni rese alla stampa di settore da importanti manager di agenzie italiane nelle quali si diceva che non c’erano problemi, che tutto andava bene. Un perdita talmente secca del senso della realtà non si era mai verificato in modo così evidente. Poi la verità ha preso il sopravvento su piccole strategie comunicative.

Non è mai stata una novità nel mercato della comunicazione commerciale il fatto che alla perdita di un budget corrispondesse la perdita di lavoro di creativi e addetti al contatto col cliente, tuttavia questa volta si è verificata una dose inconsueta di sadismo: una agenzia tra le prime dieci in Italia ha comunicato il licenziamento  agli interessati via telefono; un’altra lo ha fatto all’indomani della festa aziendale, inaugurando un rituale che potrebbe essere definito “stasera brindo con te, domattina ti sbatto fuori”. Si hanno notizie, nonostante la cortina di silenzio che si è innalzata tra l’omertà dei manager e il pudore degli interessati, di tagli consistenti a tutti i livelli, in ogni ordine e grado, tra le grandi e le piccole agenzie che compongono il mercato della pubblicità italiana.

Quando, appunto, la verità è venuta a galla, nonostante proclami di buona salute finanziaria che alla luce dei fatti suonano viepiù grotteschi si è finalmente capito che la crisi ha esondato perché le agenzie sono state completamente impreparate ai nuovi scenari economici; che la crisi ha travolto  gli argini perché i livelli di cultura professionale erano fradici e pericolanti; che la crisi ha alluvionato giovani talenti, tra i quali molte giovani donne perché le agenzie italiane non si sono rinnovate in tempo. Quando non si vogliono vedere i nodi che vengono al pettine, è il pettine che viene ai nodi e li strappa con dolore, invece che scioglierli.

Esistono responsabilità personali tra coloro che dirigono le agenzie, non fosse altro perché la sola cosa che sono stati capaci di fare è stato tagliare tutto, tranne che i propri emolumenti. Cionondimeno le responsabilità collettive sono ancora più evidenti. La pubblicità italiana, avvitata su sé stessa ha smaccatamente rinunciato a essere uno strumento valido, efficace e duraturo per aiutare le aziende a resistere alla crisi e a prepararsi alla ripresa. Quelli che dovevano far vedere come si fa, hanno semplicemente dato il peggio di sé.

Se gli utenti della pubblicità italiana, gli investitori nella comunicazione commerciale avevano dubbi sulla effettiva capacità delle rispettive  agenzie, oggi sembrano maturare la certezza che così come è organizzato il mercato della comunicazione  in Italia l’agenzia di pubblicità vale poco, per non dire che serve a niente.

Anzi, l’agenzia di pubblicità così come la conosciamo in Italia sembra confermare in pieno le scelte di quegli imprenditori che da tempo hanno deciso di pagare sempre meno le loro agenzie. La perdita di autorevolezza ha fatto spazio alla mancanza di fiducia, la mancanza di fiducia ha raffreddato la propensione agli investimenti, la crisi degli investimenti ha ridotto l’agenzia da azienda di servizi a  incerto fornitore di servigi.

Con quale risultato? Proprio quello che si legge nelle misere cifrette che annaspano sotto la bottom line dei fogli elettronici che avvelenano il sonno dei direttori finanziari.  E’ inutile nasconderselo: quest’anno la pubblicità italiana nella stragrande maggioranza dei casi non è riuscita nemmeno nell’obiettivo del break even.

Sarebbe troppo comodo dare la colpa alla crisi che attraversa l’economia reale, dopo aver fatto scempio di quella finanziaria. Comunque, non risolverebbe il problema. Perché l’elenco degli errori esiziali è tanto lungo quanto noto, da ben prima si appalesasse l’attuale crisi.  L’agenzia di pubblicità “classica” dopo aver distrutto cultura professionale, sta distruggendo valori economici e, come logica conseguenza, distrugge talenti e azzera posti di lavoro.

Chi ha pensato di essere così furbo da fare profitti senza produrre idee, ha scoperto che senza idee si fanno solo perdite.

 Il sistema-paese avrebbe bisogno di una spinta innovativa nella comunicazione commerciale.  Lo chiedono le imprese, lo avvertono i consumatori: ci vuole una spinta che sappia  attraversare il nostro sistema dei media, riorganizzare i centri di produzione di idee; urge un nuovo modo di fare e di pensare la pubblicità, che sappia essere il centro motore di un forte e complessivo rinnovamento.

Le nostrane agenzie di pubblicità non ne sono capaci. Chi è causa della crisi non può essere la soluzione della crisi che ha oggettivamente (ma anche soggettivamente, sia chiaro) contribuire ad aggravare. Ci sono ovviamente brillanti e solitarie eccezioni, ma che, come tutte le eccezioni confermano la regola.

Sono proprio quelle eccezioni, però, che ci dimostrano che è urgente un cambio di punto di vista, la prefigurazione di nuove prospettive, sia nel pensare che nell’agire. La concomitanza tra la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria globale è stata definita “la tempesta perfetta” da Jeremy Rifkin. Dobbiamo prendere seriamente in considerazione che la crisi dell’informazione mondiale è la  “quarta crisi” che si aggiunge alla tempesta perfetta. Le implicazioni con la democrazia e il rapporto con l’opinione pubblica che la  “quarta crisi” porta con sé meritano un approfondimento in altra sede. Qui basti ricordare che anche i consumatori fanno parte dell’opinione pubblica, raggiunta a vario titolo dai media. Se i  media classici sono in crisi da tempo, la pubblicità, che è nata e cresciuta all’interno dei media non può che subire e pagare il suo tributo alla “quarta crisi”.

Allora non c’è che da rimboccarsi le maniche  e dare vita a un agenzia di “nuova generazione” che sappia raccordare i messaggi commerciali delle aziende con il sentimento comune dei cittadini- consumatori, con i quali costruire nuove relazioni, utilizzando tutti gli strumenti, tutti i veicoli, in una piattaforma multicanale e convergente che sappia fare delle nuove tecnologie le proprie fondamenta. Sulle quali rifondare cultura professionale, liberare intuizioni, creare un ambiente favorevole alla creatività pubblicitaria e a lungimiranti strategie di marketing.

Fuori dalle pastoie delle agenzie “classiche” ci sono concrete possibilità che la “quarta crisi” sia il luogo favorevole per dare vita  all’agenzia di “nuova generazione”. Perché  idee forti e nuove  siano creative di scenari, più ricchi e promettenti per le aziende, per i consumatori, per il mercato. Beh, buona giornata.

p.s.: a tutti i lettori ‘guri (pare che in tempi di crisi bisogna tagliare).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Alla faccia di Facebook.

Con Amici come questi…
di Tom Hodgkinson – The Guardian

Facebook ha 59 milioni di utenti – e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.

Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?

E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l’uno dall’altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.

Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l’altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all’amicizia: sembra che nell’amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei “popolare”, nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell’editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».

Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d’identità e le proprie scelte di consumatore a un’azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all’attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell’anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un’accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».

Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.

Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti “di rischio” della Silicon Valley, hanno un’ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un’espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.

Malgrado il progetto sia stato concepito inizialmente dalla star da copertina Mark Zuckerberg, il vero volto che sta dietro Facebook è il quarantenne venture capitalist della Silicon Valley e filosofo “futurista” Peter Thiel. Ci sono soltanto tre consiglieri di amministrazione per Facebook, e sono Thiel, Zuckerberg e un terzo investitore che si chiama Jim Breyer, che proviene da un’azienda di venture capital, la Accel Partners (di lui parleremo più avanti). Thiel investì 500 mila dollari in Facebook quando gli studenti di Harvard Zuckerberg, Chris Hughes e Dustin Moskowitz lo incontrarono a San Francisco nel giugno del 2004, non appena fecero partire il sito. Thiel, secondo la stampa, oggi possiede il 7 per cento di Facebook, quota che, secondo l’attuale stima del valore dell’azienda di 15 miliardi di dollari, vale più di un miliardo. Chi siano esattamente i cofondatori originali di Facebook è controverso, ma chiunque siano, Zuckerberg è l’unico rimasto nel consiglio d’amministrazione, malgrado Hughes e Moskowitz lavorino ancora per l’azienda.

Thiel è considerato da molti nella Silicon Valley e nel mondo del venture capital a stelle e strisce come un genio del liberismo. È il cofondatore e amministratore delegato del sistema bancario virtuale Paypal, che vendette a Ebay per un miliardo e mezzo di dollari, tenendo per sé 55 milioni. Gestisce anche un hedge fund da 3 miliardi di euro, il Clarium Capital Management, e un fondo di venture capital, Founders Fund. La rivista Bloomberg Markets l’ha recentemente descritto come «uno dei manager di hedge fund più di successo del paese». Ha fatto i soldi scommettendo sul rialzo del prezzo del petrolio e azzeccando la previsione che il dollaro si sarebbe indebolito. Lui e i suoi straricchi compagni della Silicon Valley sono stati recentemente etichettati come “La mafia di Paypal” dalla rivista Fortune, il cui cronista ha notato anche che Thiel ha un maggiordomo in livrea e una supercar della McLaren da 500 mila dollari. Thiel è anche un campione di scacchi ed ama la competizione. Si dice che una volta dopo aver perso una partita, in un accesso d’ira, abbia gettato a terra tutte le pedine. E non si scusa per la sua iper-competitività: «Un buon perdente resta sempre un perdente».

Ma Thiel è più di un semplice capitalista scaltro e avido. Infatti è anche un filosofo “futurista” e un attivista neocon. Filosofo laureato a Stanford, nel 1998 fu tra gli autori del libro The Diversity Myth [Il Mito della Diversità, ndt], un attacco dettagliato all’ideologia multiculturalista e liberal che dominava Stanford. In questo libro sosteneva che la “multicultura” portava con sé una diminuzione delle libertà personali. Da studente di Stanford, Thiel fondò un giornale destrorso, che esiste ancora, la Stanford Review, il cui motto è Fiat Lux (“Sia la luce”). Thiel è membro di TheVanguard.org, un gruppo di pressione neoconservatore basato su internet, nato per attaccare MoveOn.org, gruppo di pressione liberal attivo sul web. Thiel si dichiara «estremamente libertario».

TheVanguard è gestito da un certo Rod D. Martin, capitalista-filosofo molto ammirato da Thiel. Sul sito, Thiel dice: «Rod è una delle menti di spicco nel nostro paese per quanto riguarda la creazione di nuove e necessarie idee sulle politiche pubbliche. Ha una comprensione dell’America più completa di quella che hanno della propria azienda molti amministratori delegati».

Il piccolo assaggio che segue, preso dal loro sito, vi darà l’idea della loro visione del mondo: «TheVanguard.org è una comunità online che crede nei valori conservatori, nel libero mercato e nella limitazione del governo come gli strumenti migliori per portare speranza e opportunità sempre maggiori per tutti, specie per i più poveri fra noi». Il loro scopo è quello di promuovere linee politiche che «diano nuova forma all’America e al mondo intero». TheVanguard descrive le proprie politiche come «reaganiane-thatcheriane». Il messaggio del presidente recita così: «Oggi daremo a MoveOn [il sito liberal], a Hillary e ai media di sinistra una lezione che non si aspetterebbero mai».

Non ci sono dubbi sulle idee politiche di Thiel. Ma qual è la sua filosofia? Sono andato ad ascoltarmi, in un podcast, un discorso di Thiel circa le sue idee sul futuro. La sua filosofia, in breve, è questa: fin dal XVII secolo, alcuni pensatori illuminati hanno strappato il mondo dalla sua antiquata vita legata alla natura – e qui cita la famosa descrizione fatta da Thomas Hobbes della vita come «meschina, brutale e breve» – per portarlo verso un nuovo mondo virtuale nel quale la natura è conquistata. Il valore è ora assegnato alle cose immaginarie. Thiel afferma che PayPal è nato proprio da questa credenza: che si possa trovare valore non in oggetti concreti fatti da mano d’uomo, ma in relazioni fra esseri umani. Paypal è un modo di spostare denaro in giro per il mondo senza limitazioni. Bloomberg Markets la pone così: «Per Thiel, PayPal significa libertà: permetterebbe alla gente di scansare i controlli sulla valuta e spostare denaro in giro per il mondo».

Chiaramente, Facebook è un altro esperimento iper-capitalista: si possono ricavare soldi dall’amicizia? Si possono creare comunità libere dai confini nazionali, e poi vendere loro Coca Cola? Facebook non è per niente creativo. Non produce assolutamente nulla. Tutto quello che fa è mediare relazioni che si sarebbero allacciate in ogni caso.

Il mentore filosofico di Thiel è un certo René Girard dell’università di Stanford, ideatore di una teoria del comportamento umano chiamata “desiderio mimetico”. Girard ritiene che le persone siano essenzialmente come pecore e si imitino l’una con l’altra senza pensarci troppo su. La teoria sembra essere provata anche nel caso dei mondi virtuali di Thiel: l’oggetto desiderato è irrilevante; è sufficiente soltanto che gli esseri umani abbiamo la tendenza a muoversi in greggi. Da qui derivano le bolle finanziarie. Da qui deriva l’enorme popolarità di Facebook. Girard è un habitué delle serate intellettuali di Thiel. Tra l’altro, una cosa che non potrete trovare nella filosofia di Thiel sono gli antiquati concetti che appartengono al mondo reale, come Arte, Bellezza, Amore, Piacere e Verità.

Internet è un’immensa attrattiva per i neocon come Thiel, perché promette, in un certo senso, libertà nelle relazioni umane e negli affari, libertà dalle noiose leggi nazionali, dai confini nazionali e da altre cose di questo genere. Internet apre un mondo di espansione per il libero mercato e per il laissez-faire. Thiel sembra approvare anche i paradisi fiscali offshore, e sostiene che il 40 per cento della ricchezza mondiale si trova in posti come Vanuatu, le isole Cayman, Monaco e le Barbados. Penso sia giusto dire che Thiel, come Rupert Murdoch, è contrario alle tasse. Gli piace anche la globalizzazione della cultura digitale, perché rende quasi inattaccabili i padroni delle banche: «I lavoratori non possono fare una rivoluzione per impossessarsi di una banca, se quella banca ha sede a Vanuatu», dice.

Se la vita del passato era meschina, brutale e breve, Thiel vuole rendere la vita del futuro molto più lunga, investendo a questo fine in un’azienda che esplora tecnologie per allungare la vita. Ha promesso tre milioni e mezzo di sterline a un gerontologo di Cambridge, Aubrey de Grey, che sta cercando la chiave dell’immortalità. Thiel è anche membro del collegio dei consulenti di qualcosa come il Singularity Institute for Artificial Intelligence. Nel suo fantastico sito internet, si trovano le seguenti parole: «La Singularity è la creazione tecnologica di un’intelligenza superiore a quella umana. Ci sono parecchie tecnologie […] che vanno in questa direzione […] l’Intelligenza Artificiale […] interfacce che collegano direttamente computer e cervello […] ingegneria genetica […] differenti tecnologie che, se raggiungessero una certa soglia di complessità, permetterebbero la creazione di un’intelligenza superiore a quella umana».

Per sua stessa ammissione, quindi, Thiel sta cercando di distruggere il mondo reale, da lui chiamato anche “natura”, e di installare al suo posto un mondo virtuale. Ed è in questo contesto che dobbiamo vedere il successo di Facebook. Facebook è un esperimento volto deliberatamente alla manipolazione mondiale, e Thiel è un brillante personaggio del pantheon neoconservatore con un debole per incredibili fantasie “tecno-utopiche”. E io non voglio aiutarlo a diventare più ricco.

Il terzo membro del consiglio di amministrazione di Facebook è Jim Breyer. È parte della ditta di venture capital Accel Partners, che ha messo 12 milioni e 700 mila dollari per il progetto Facebook nell’aprile 2005. Oltre a essere membro di questi giganti statunitensi, della stessa caratura di Wal-Mart e Marvel Entertainment, è anche ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA). Sono queste le persone che hanno successo in America, perché investono in nuovi e giovani talenti, come Zuckerberg. La più recente raccolta di finanziamenti di Facebook fu portata avanti da un’azienda, la Greylock Venture Capital, che fornì 27 milioni 500 mila dollari. Uno dei più vecchi soci di Greylock è Howard Cox, altro ex presidente della NVCA, e membro del CdA di In-Q-Tel. Che cos’è In-Q-Tel? Beh, che ci crediate o no (andatevi a vedere il suo sito), è la costola della Cia nel capitale di rischio. Dopo l’Undici Settembre, la comunità dei servizi segreti Usa divenne così entusiasta delle possibilità della nuova tecnologia e delle innovazioni del settore privato, che nel 1999 costituì il proprio fondo di capitale di rischio, l’In-Q-Tel, che «identifica e collabora con le aziende che sviluppano tecnologie all’avanguardia, per aiutare a rilasciare questi ritrovati alla Central Intelligence Agency e alla più vasta US Intelligence Community (IC) al fine di promuovere la loro missione»*.

Il dipartimento della difesa statunitense e la Cia amano la tecnologia perché rende lo spionaggio più facile. «Abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per dissuadere i nuovi avversari», disse nel 2003 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld. «Dobbiamo fare il salto nell’era dell’informatica, che costituisce le fondamenta essenziali dei nostri sforzi di cambiamento». Il primo presidente di In-Q-Tel fu Gilman Louie, che sedette nel CdA di NVCA assieme a Breyer. Un’altra figura chiave nel team di In-Q-Tel è Anita K. Jones, ex direttrice della sezione ricerca e ingegneria del dipartimento della Difesa, e, assieme a Breyer, membro del CdA di BBN Technologies. Quando abbandonò il dipartimento della Difesa, il senatore Chuck Robb le fece questo omaggio: «Lei ha unito tecnologia e comunità militari operative per dare vita a piani dettagliati con il fine di sostenere il dominio Usa sui campi di battaglia del prossimo secolo».

Ora, anche se non si accetta l’idea che Facebook sia una specie di estensione del programma imperialistico statunitense incrociata con uno strumento per raccogliere immense quantità d’informazioni, non si può in nessun modo negare che, come affare, sia davvero geniale. Qualche smanettone online ha fatto intendere che la sua valutazione di 15 miliardi di dollari sia eccessiva, ma io direi semmai che è troppo contenuta. La sua grandezza dà le vertigini, e il potenziale di crescita è virtualmente infinito. «Vogliamo che tutti siano in grado di usare Facebook», dice l’impersonale voce del Grande Fratello sul sito. E penso proprio che lo faranno. È l’enorme potenziale di Facebook che spinse Microsoft a comprarne l’1,6 per cento per 240 milioni di dollari. Recentemente circolano voci secondo cui un investitore asiatico, Lee Ka-Shing, il nono uomo più ricco della terra, abbia comprato lo 0,4 per cento di Facebook per 60 milioni di dollari.

I creatori del sito non fanno altro che giocherellare col programma. In genere, stanno seduti con le mani in mano a guardare milioni di “drogati” di Facebook fornire di spontanea volontà i dettagli della loro carta d’identità, le loro foto e la lista dei loro oggetti di consumo preferiti. Ricevuto questo smisurato database di esseri umani, Facebook vende semplicemente le informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in uno degli ultimi post sul blog, «cerca di aiutare le persone a condividere informazioni con i loro amici riguardo alle cose che fanno sul web». Ed è infatti proprio ciò che accade. Il 6 novembre dello scorso anno, Facebook annunciò che 12 marchi mondiali erano saliti a bordo. Tra essi, c’erano Coca Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. Ben allenati in stronzate da marketing di altissimo livello, i loro rappresentanti gongolavano con commenti come questo:

«Con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo di comunicare e interagire degli utenti su Facebook», disse Carol Kruse vicepresidente della sezione marketing interattivo globale, gruppo Coca Cola.

«È un modo innovativo di far nascere e crescere relazioni con milioni di utenti di Facebook permettendo loro di interagire con Blockbuster in maniera conveniente, pertinente e divertente», disse Jim Keyes, presidente e amministratore delegato di Blockbuster. «Ciò va al di là della creazione di pubblicità efficaci. Si tratta piuttosto della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con gli amici».

“Condividere” è la parola in lingua di Facebook che sta per “pubblicizzare”. Chi si registra a Facebook diventa un girovago che parla delle reclame di Blockbuster o della Coca Cola, e tesse le lodi di questi marchi agli amici. Stiamo assistendo alla mercificazione delle relazioni umane, l’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia.

Ora, in confronto a Facebook, i giornali, per esempio, come modello d’impresa, sembrano disperatamente fuori moda. Un giornale vende spazi pubblicitari alle imprese che cercano di vendere la loro roba ai lettori. Un sistema che è però molto meno complesso di quello di Facebook. E questo per due ragioni. La prima è che i giornali debbono sopportare fastidiose spese per pagare i giornalisti che forniscono contenuti. Facebook, invece, i contenuti li ha gratis. La secondo è che Facebook può calibrare la pubblicità con una precisione infinitamente superiore rispetto a un giornale. Se, per esempio, si dice su Facebook di amare il film This Is Spinal Tap, quando uscirà nei cinema un film simile, state pur sicuri che vi terranno informati. Mandandovi la pubblicità.

È vero che Facebook ultimamente è stato nell’occhio del ciclone per il suo programma di pubblicità Beacon. Agli utenti veniva recapitato un messaggio che diceva che i loro amici avevano fatto acquisti in un certo negozio online. Furono 46 mila gli utenti a reputare questo tipo di pubblicità troppo invasiva, tanto che giunsero a firmare una petizione dal titolo «Facebook, smettila di invadere la mia privacy!». Zuckerberg si scusò nel blog aziendale, scrivendo che il sistema era ora cambiato da “opt out” [1] a “opt in” [2]. Io ho il sospetto però che questa piccola ribellione per essere stati così spietatamente mercificati sarà presto dimenticata: dopotutto, ci fu un’ondata di protesta nazionale da parte del movimento delle libertà civili quando si dibattè nel Regno Unito l’idea di una forza di polizia a metà del XIX secolo.

E per di più, voi utenti di Facebook avete mai letto davvero l’informativa sulla privacy? Ti dice che non è che di privacy ne hai poi molta. Facebook fa finta di essere un luogo di libertà, ma in realtà è più simile a un regime totalitario virtuale mosso dall’ideologia, con una popolazione che molto presto sarà superiore a quella del Regno Unito. Thiel e gli altri hanno dato vita al loro paese, un paese di consumatori.

Ora, voi, come Thiel e gli altri nuovi signori del ciberuniverso, potreste reputare questo esperimento sociale tremendamente eccitante. Ecco qui finalmente lo Stato illuminista desiderato ardentemente fin dal tempo in cui i Puritani, nel XVII secolo salparono verso l’America del Nord. Un mondo dove tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, a seconda di chi li sta guardando. I confini nazionali sono un’anticaglia. Tutti ora fanno capriole insieme in uno spazio virtuale dove ci si può esprimere a ruota libera. La natura è stata conquistata attraverso l’illimitata ingegnosità umana. E voi potreste decidere di inviare a quel geniale investitore di Thiel tutti i vostri soldi, aspettando con impazienza la quotazione ufficiale dell’inarrestabile Facebook.

O, in alternativa, potreste riflettere e rifiutare di essere parte di questo ben foraggiato programma, volto a creare un’arida repubblica virtuale, dove voi stessi e le vostre relazioni con gli amici siete convertiti in merce da vendere ai colossi multinazionali. Potreste decidere di non essere parte di questa Opa contro il mondo.

Per quanto mi riguarda, rifuggirò Facebook, rimarrò scollegato il più possibile, e trascorrerò il tempo che ho risparmiato non andando su Facebook facendo qualcosa di utile, come leggere un libro. Perché sprecare il mio tempo su Facebook quando non ho ancora letto l’Endimione di Keats? Quando devo piantare semi nel mio orto? Non voglio rifuggire la natura, anzi, mi ci voglio ricollegare. Al diavolo l’aria condizionata! E se avessi voglia di mettermi in contatto con la gente intorno a me, tornerei a usare un’antica tecnologia. È gratis, è facile da usare e ti permette un’esperienza di condivisione di informazioni senza pari: è la parola.

L’informativa sulla privacy di Facebook

Per farvi quattro risate, provate a sostituire le parole “Grande Fratello” dove compare la parola “Facebook”

1 Ti recapiteremo pubblicità

«L’uso di Facebook ti dà la possibilità di stabilire un tuo profilo personale, instaurare relazioni, mandare messaggi, fare ricerche e domande, formare gruppi, organizzare eventi, aggiungere applicazioni e trasmettere informazioni attraverso vari canali. Noi raccogliamo queste informazioni al fine di poterti fornire servizi personalizzati»

2 Non puoi cancellare niente

«Quando aggiorni le informazioni, noi facciamo una copia di backup della versione precedente dei tuoi dati, e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole per permetterti di ritornare alla versione precedente»

3 Tutti possono dare un’occhiata alle tue intime confessioni

« […] e non possiamo garantire – e non lo garantiamo – che i contenuti da te postati sul sito non siano visionati da persone non autorizzate. Non siamo responsabili dell’elusione di preferenze sulla privacy o di misure di sicurezza contenute nel sito. Sii al corrente del fatto che, anche dopo la cancellazione, copie dei contenuti da te forniti potrebbero rimanere visibili in pagine d’archivio e di memoria cache e anche da altri utenti che li abbiano copiati e messi da parte nel proprio pc».

4 Il tuo profilo di marketing fatto da noi sarà imbattibile

«Facebook potrebbe inoltre raccogliere informazioni su di te da altre fonti, come giornali, blog, servizi di instant messaging, e altri utenti di Facebook attraverso le operazioni del servizio che forniamo (ad esempio, le photo tag) al fine di fornirti informazioni più utili e un’esperienza più personalizzata».

5 Scegliere di non ricevere più notifiche non significa non ricevere più notifiche

«Facebook si riserva il diritto di mandarti notifiche circa il tuo account anche se hai scelto di non ricevere più notifiche via mail»

6 La Cia potrebbe dare un’occhiata alla tua roba quando ne ha voglia

«Scegliendo di usare Facebook, dai il consenso al trasferimento e al trattamento dei tuoi dati personali negli Stati Uniti […] Ci potrebbe venir richiesto di rivelare i tuoi dati in seguito a richieste legali, come citazioni in giudizio od ordini da parte di un tribunale, o in ottemperanza di leggi in vigore. In ogni caso non riveliamo queste informazioni finché non abbiamo una buona fiducia e convinzione che la richiesta di informazioni da parte delle forze dell’ordine o da parte dell’attore della lite soddisfi le norme in vigore. Potremmo altresì condividere account o altre informazioni quando lo riteniamo necessario per osservare gli obblighi di legge, al fine di proteggere i nostri interessi e le nostre proprietà, al fine di scongiurare truffe o altre attività illegali perpetrate per mezzo di Facebook o usando il nome di Facebook, o per scongiurare imminenti lesioni personali. Ciò potrebbe implicare la condivisione di informazioni con altre aziende, legali, agenti o agenzie governative»

*Nota del Redattore: nella versione originale l’articolo è preceduto dalla seguente rettifica:

“La rettifica che segue è stata stampata nella sezione Rettifiche e chiarimenti del Guardian, mercoledì 16 gennaio 2008

L’entusiasmo della comunità dei servizi segreti statunitensi per il rinnovamento hi-tech dopo l’Undici Settembre e la creazione dell’In-Q-Tel, il suo fondo di venture capital, nel 1999, sono stati anacronisticamente correlati nell’articolo qui sotto. Dal momento che l’attentato alle Torri Gemelle avvenne nel 2001, non può essere stato ciò che ha portato alla fondazione dell’In-Q-Tel due anni prima.”

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] Con il termine inglese opt-out (in cui opt è l’abbreviazione di option, opzione) ci si riferisce ad un concetto della comunicazione commerciale diretta (direct marketing), secondo cui il destinatario della comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di opporsi ad ulteriori invii per il futuro. (fonte: Wikipedia)

[2] Si definisce opt-in il concetto inverso, ovvero la comunicazione commerciale può essere indirizzata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il consenso a riceverla. (fonte: Wikipedia)

Tom Hodgkinson è uno scrittore britannico. Ha collaborato con testate quali ‘The Sunday Telegraph’, ‘The Guardian’ e ‘The Sunday Times’ ed è direttore della rivista ‘The Idler’. Hodgkinson è autore di due libri: ‘How To Be Idle’ (‘L’ozio come stile di vita’, Rizzoli, 2005) e ‘How To Be Free’ (‘La libertà come stile di vita’, Rizzoli, 2007).

Titolo originale: “With friends like these…”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Tradotto da PAOLO YOGURT per ComeDonChisciotte ;
Link originale: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il vero conflitto di interessi.

Fatto salvo il diritto di critica a una misura adottata dal governo, diritto esercitato da Sky, diretta parte in causa, ma anche giustamente esercitato dai giornali italiani, la polemica attorno al conflitto di interessi è un modo tipicamente italiano di affrontare la realtà. Qualcuno ha giustamente detto che in Italia gli scandali non sono fatti, ma semplici opinioni. Il che di per se è proprio uno scandalo. Le parole logorano gli avvenimenti, i commenti esagerano il racconto dei fatti, il dibattito va sopra le righe, i toni si accendono, la polemica infuria. Dopo di che tutto si spegne, alla maniera del detto popolare che recita “passata la festa, gabbato lo santo”.

Il fatto è che il conflitto di interessi c’è. Il fatto è che la legge Frattini contro il conflitto di interessi non è mai stata efficace. Il fatto è che il precedente governo Prodi non ha modificato quella legge inefficace. Il fatto è che l’attuale governo nega l’esistenza del fatto che il conflitto di interessi c’è. Dopo di che ognuno può legittimamente esprimere il suo punto di vista in merito. Ma le opinioni passano, i fatti restano. Questo modo di ragionare fa molto male alla comprensione della realtà, proprio in un momento cruciale della nostra economia, che perde colpi, sotto la pressione dei mercati globali, ma subisce i colpi di una visione per niente lucida della gravità della situazione.

Un lampante conflitto di interessi si sta sviluppando, ancora una volta tra i fatti e le opinioni. Telecom Italia annuncia altri 4000 esuberi, che si aggiungono ai 5000 già dichiarati. Fiat annuncia un massiccio ricorso alla cassa integrazione. Motorola ha chiuso a Torino. Panasonic ha chiuso a Pisticci, in Lucania. La CGIL parla di 450.000 precari che perderanno il posto di lavoro. I sindacati di base parlano dell’allontanamento di oltre 500.000 precari dalla scuola e dal pubblico impiego. La CISL prevede una perdita del posto di lavoro pari a 980.000 unità. La vicenda Alitalia ha messo nell’incertezza migliaia di dipendenti. E’ un fatto assodato che i consumi stiano crollando. E’ un fatto assodato la crisi finanziaria stia impattando ferocemente sull’economia reale. Si possono avere opinioni diverse sull’efficacia delle misure anti-crisi adottate dall’attuale governo. Ma non si può negare la gravità di una situazione che giorno per giorno si sta allargandosi a tutti i comparti della nostra economia: dalla manifattura ai servizi, dal commercio ai trasporti, dalla grande alla piccola e media azienda, dal lavoro dipendente a quello autonomo, dai media alla pubblicità.

Il vero conflitto di interessi del Paese è negare i fatti, a favore di una professione di ottimismo che non ha solide basi, se non quelle di un atteggiamento fondamentalista nelle capacità automatiche del mercato di rigenerare se stesso.
La consapevolezza della gravità della situazione aiuta la ricerca di soluzioni credibili ed efficaci. Al contrario, diffondere vaghi appelli all’ottimismo e alla fiducia fa perdere tempo alle decisioni, confonde le idee, disperde energie altrimenti meglio utilizzabili. Non è più il tempo in cui l’emozione può prendere il posto della ragione. Se guardiamo in faccia la crisi, siamo già nella condizione di superarla. Se ne neghiamo la portata, ne diventiamo gregari, ci trasformiamo in portatori sani di una delle peggiori malattie economiche mai viste.

E’ bene allora che l’informazione dica le cose come le cose stanno. E’bene che lo facciano i giornali, che lo faccia la tv. Sarebbe un sollievo lo facesse la politica. E’ bene che lo capisca anche la pubblicità: basta emozioni, intenti aspirazionali, ragionamenti con “la pancia”.

E’ il momento dell’intelligenza, dell’arguzia, della sobrietà, dell’irriverenza verso il convenzionale e il conformismo. Sia nella creazione di nuove idee, sia nel metodo e negli strumenti. Solo così le marche non entrano in conflitto di interessi con il sentire comune dei consumatori. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.

Spotandweb.it nel numero del 28 novembre, in una intervista raccolta da Stefania Salucci mi ha proposto una riflessione sulla stato dell’arte della pubblicità italiana, in occasione di Eurobest, un premio europeo dedicato alla creatività, organizzato da un consorzio di riviste del settore della comunicazione commerciale nella Eu. Ecco il testo dell’intervista.

Lei ha seguito numerosi clienti internazionali. Esiste una creatività europea? Se sì, per cosa si caratterizza rispetto alla creatività americana, o asiatica, o africana?

Poiché la presenza sul mercato globale delle marche made in Usa ha fatto scuola, è abbastanza complicato immaginare che esista una comunicazione commerciale di stampo continentale. Basti pensare alle grandi holding finanziarie che posseggono le più importanti sigle della pubblicità quotate in borsa. In questo senso, quando parliamo di pubblicità europea ci riferiamo soprattutto a quella generata in Gran Bretagna e in Francia e in parte in Germania. Si tratta di paesi che hanno un posto solido nella globalizzazione, perché le loro aziende si sono da tempo internazionalizzate, e le loro agenzie hanno fatto network, a seguito della globalizzazione dei loro clienti e della commercializzazione dei prodotti su più mercati. Anche dal punto di vista della cultura della comunicazione commerciale, fare network ha finito per significare l’annullamento delle caratteristiche stilistiche, derivanti dalla cultura specifica di un paese, di un continente. Il capitalismo globale fa presto a fare a meno di tutto ciò che non gli è utile. La pubblicità si è adeguata: la creatività è di un mega-brand, non di un paese, figuriamoci di un continente.

L’Italia come si “posiziona”, creativamente parlando, in Europa?

La pubblicità italiana è l’unica in Europa, ma anche nel mondo che ha una caratteristica peculiare, riconoscibile, inimitabile: è brutta, stupida, fa pena. E’ arroccata, con le unghie e con i denti all’ultimo banco, e come il più ottuso dei ripetenti, se ne vanta. Come la scema del villaggio globale, la pubblicità italiana continua infarcire la tv di migliaia di spot, si è immolata al tubo catodico come a un totem. Ha perso il senso della realtà, più è ossessiva più è distante dalla mente dei consumatori. Siamo il paese con la più alta concentrazione di pubblicità televisiva, ma siamo anche il paese che in Europa soffre di più la crisi dei consumi. Come un gregge senza pastore, ce ne stiamo andando allegramente giù per il dirupo del ridicolo. Comunque, segnali della consapevolezza di un approccio più moderno ci sono, bisognerebbe tenerli d’occhio con più attenzione: penso a Draftfcb, a Brand Portal o ad Altavia. Da quelle parti possono venire stimoli rigeneratori del nostro mercato.

Di chi è la colpa se la pubblicità italiana è è brutta, stupida, fa Pena? Dei creativi, dei clienti o degli italiani?

Parlavo di questo con Hans Suter, la S della mitica STZ. Mi diceva che quando, anni fa, era andato per la prima volta a New York, era rimasto terribilmente deluso dalla pubblicità americana, print, tv, outdoor, tutto.
Forse si sentiva condizionato dalle grandi campagne americane che conosceva, ma che tutte queste belle campagne non rappresentavano più dello zero virgola per mille della comunicazione commerciale, questo non se lo sarebbe l’aspettato. Secondo lui, e mi pare di essere d’accordo, l’unico paese che è un poco diverso è la Gran Bretagna, così come avevano e forse ancora hanno un serbatoio enorme di attori bravi così avevano e forse hanno ancora un serbatoio enorme di art director e copywriter. Questo favorisce che la buona qualità arriva anche a livelli più estesi. Credo che non sia più tempo della ricerca delle colpe, quanto sia urgente investire nei creativi, creargli intorno un ambiente favorevole alla creazione di nuove idee. E’ l’unico vero antidoto al conformismo, a quella diffusa dittatura dell’autocensura che ha fatto retrocedere in serie B la nostra creatività, una mediocrità che arriva anche nei concorsi internazionali. Siamo ancora in tempo per invertire la tendenza che ci fa apparire rinunciatari di fronte alle innovazioni e refrattari alla sfida nei confronti di regole che sono superate dai fatti economici, sociali e culturali di questi primi otto anni del Terzo millennio.

Cosa possiamo aspettarci dall’Italia in occasione di Eurobest?

Che non ci caccino, una volta per tutte.

E cosa può dare Eurobest all’Italia?

L’ennesima lezione, come succede ormai in tutti i consessi internazionali, a cominciare dal festival di Cannes. Ormai siamo un lontano cugino un po’ intronato del mondo della pubblicità, di quelli che si sopportano, perché tanto non cè proprio niente da fare. Ogni volta torniamo a casa piagnucolando come mocciosi, poi tiriamo su col naso e ricominciamo a fare le stesse cazzate di prima.

Cosa ne pensa dei concorsi internazionali: sono ancora un valido termometro per misurare la creatività di un’agenzia? E di una nazione? Sono un traguardo o un trampolino professionale per i creativi?

Tutte le occasioni di incontro e di confronto tra le idee sono utili. Parlo di idee, quelle che da noi sono viste come la peste. Infatti, quando raramente ancora vinciamo qualcosa, il dibattito, invece che sull’idea, si sposta sull’auto-valorizzazione delle sigla o del creativo che ha vinto. Vedere, capire e approfondire le ragioni di una approccio creativo vincente è qualcosa di molto più importante che trastullarsi all’idea di dove mettere il trofeo: in sala riunioni dell’agenzia o sul tavolo del creativo che lo ha vinto? Qui il problema non è il trampolino di lancio, quando ogni giorno c’è chi toglie l’acqua dalla piscina. Vincere un premio fa bene alla salute, diceva un famoso creativo italiano. Ma i premi passano, le campagne restano, come segnale del livello raggiunto dalla creatività sul quel prodotto, su quel settore merceologico, sul quel media. I concorsi internazionali sono un contributo alla crescita della cultura professionale. Tutto il resto ha un valore relativo al contesto al quale si è partecipato. Sedersi sugli allori fa venire i foruncoli sulle natiche.

Secondo lei, c’è una tendenza internazionale (e di questi festival) a premiare campagne che funzionano visivamente (o concettualmente) indipendentemente dal testo? Se sì, cosa ne pensa?

In genere vincono idee innovative, approcci sorprendenti, esecuzioni inusuali. In una parola, quello che chiamiamo creatività. C’è stata una certa tendenza a produrre campagne “da concorso”, con grandi foto e piccoli testi.
Però, l’esame autoptico di una campagna, del rapporto tra immagine e testo, francamente non mi appassiona. Anzi, lo trovo un bel po’ fuorviante, mi fa pensare alla relazione che sempre si stabilisce tra il saggio, lo stolto, la luna e il dito.

Esiste davvero e funziona una comunicazione globalizzata, standard in tutto il mondo, oppure per essere efficacie deve adattarsi (in termini creativi e di contenuti) al paese in cui viene trasmessa?

Tra le esigenze della marca globale e le aspettative del consumatore locale si stabilisce sempre una relazione dialettica, che deve essere interpretata dalla creatività. Le strategie della comunicazione commerciale moderna non sono semplicemente riconducibili alle esigenze tra globale e locale di uno specifico veicolo, come la tv o la stampa. Le marche moderne usano tutta la filiera della pubblicità. Ciò che conta, che fa la differenza tra una campagna di successo e un flop, sta nello stesso superamento del concetto di campagna, così come lo abbiamo pensato nel ‘900. La grande marca ha aperto una piattaforma multicanale di comunicazione col suo mercato, di cui la campagna specifica è solo un segmento. Internet ha svoltato il Terzo millennio della comunicazione commerciale, rendendo mobile sulla filiera degli strumenti la sintesi che una volta era di puro appannaggio dell’advertising classico, con la tv come punta di diamante. A seconda della risposta dei mercati, la sintesi si può verificare in altri ambiti, che non è detto siano semplicemente le azioni sulla pubblicità tabellare. L’attuale grave crisi finanziaria ed economica che sta attraversando tutto il mondo spingerà sempre di più la pubblicità verso multidisciplinarità e multicanalità. Non è una mera questione di economie di scala, ma la prospettiva di nuovi traguardi che le grandi marche devono sapersi dare. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. E’ con questo spirito che dobbiamo andare ai concorsi internazionali: prendere le misure di una nuova realtà, prepararsi a esserne all’altezza. Qui se non si è capaci di volare alto, possiamo dire addio a ogni velleità, a cominciare da un ambìto pezzo di latta da mettere nella bacheca dei trofei. (Beh, buona giornata.)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Risolto lo strano caso.

Ho scritto: “Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.” Antonio Tricomi, sabato 22 ha commentato:“Vedendo l’intervista, ho notato anch’io l’amara coincidenza”. E ha aggiunto, nel suo commento di domenica 23: “L’articolo è stato impaginato alle 22 di domenica e gli spazi pubblicitari vengono decisi la mattina.”

Al netto di attacchi personali e non richieste difese d’ufficio di una prestigiosa testata giornalistica, ciò che si evince è che ho scritto il vero: si è effettivamente verificato “un banale incidente di percorso nella confezione del giornale”. Lo strano caso di product placement sulla carta stampata è risolto. Il caso è chiuso. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Uno strano caso di product placement sulla carta stampata.

Il giorno dopo che a Secondigliano un commando ha aperto il fuoco su un gruppo di ragazzini, ferendoli alle gambe all’interno di una sala giochi, il quotidiano La Repubblica dà conto di un’ intervista con il pm Raffaele Cantone, titolare delle indagini anti-camorra nella zona di Scampia.

A pagina 2, in taglio basso, Antonio Tricomi firma l’intervista intitolata “Una volta il quartiere era sicuro, ora a Scampia di notte regnano i killer”. Per poter arrivare al punto della questione che qui sollevo, devo citare un brano dell’intervista.

Dopo aver ricordato ai lettori che Raffaele Cantone ha appena pubblicato “Solo per giustizia”,un libro sulla manovalanza giovanile della camorra, Tricomi chiede al pm:
-Sembra averla colpita in modo particolare la morte di un giovane killer delle “case celesti” di Scampia, episodio a cui dedica pagine molto significative. Può spiegarcene il motivo?

Cantone risponde:-Ci stavamo recando sul luogo del delitto. Con me c’era un capitano dei carabinieri, mi stava raccontando nel dettaglio le vicende di cui la vittima era stata protagonista: si era trovato a essere prima un killer del clan Di Lauro e poi degli “Scissionisti”. Era stato protagonista di numerose azioni di fuoco.

Tricomi chiede:- Il capitano non aveva fatto in tempo a dirle l’età?
Cantone risponde:- No. E dai suoi racconti tutto mi aspettavo tranne che di trovare sull’asfalto un ragazzo di diciannove anni. Notai che portava un paio di Hogan (…).

Interrompo questa citazione, per arrivare subito al punto. Infatti, anch’io tutto mi sarei aspettato, tranne che di trovare un annuncio pubblicitario a piè di pagina del quotidiano: tecnicamente si chiama piedone, perché l’annuncio confinava perfettamente con l’intervista, che come ho già detto era in taglio basso della seconda pagina.

Era un annuncio pubblicitario della Hogan.

Si tratta di un macabro episodio di product placement, come si chiama l’inserimento nelle fiction di prodotti, la cui marca è appositamente resa visibile?
Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.
Ciò non toglie che cose del genere fanno accapponare la pelle, oltre proprio a non giovare alla testata, all’inserzionista, né ai lettori. Beh, buona giornata.

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

Non crocefiggete quel manifesto.

Cucù: non appena ha fatto capolino, un annuncio dedicato alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne ha fatto polemica. L’annuncio, che è visibile sul sito di Telefono Donna di Milano, mostra una donna sdraiata su un letto, come fosse stata crocefissa. Il titolo dice: “Chi paga per i peccati dell’uomo?”.

La polemica è nata perché un assessore del Comune di Milano, competente per le affissioni comunali, si sarebbe rifiutato di concedere gli spazi pubblicitari, perché “lede il sentimento religioso dei cittadini”. La campagna sarebbe dovuta uscire il 25 novembre prossimo, in occasione, appunto, della giornata mondiale sulla violenza contro donne.

In aggiunta, pare che il presidente di una nota associazione di pubblicitari abbia invitato i propri iscritti a pronunciarsi in merito all’eventualità che il Giurì di Autodisciplina pubblicitaria censuri l’annuncio, anche prima della sua uscita sui manifesti. Segno dei tempi: la pubblicità italiana è la più fiacca d’Europa, perché c’è chi crede che i creativi debbano essere i notai del comune senso del pudore.

I fatti si sono messi in modo che la campagna in questione è uscita, ma non è uscita. Cioè, è uscita sul web ed è stata citata dai giornali che hanno riferito della polemica suscitata. Però, non è uscita perché il Comune di Milano non ha concesso gli spazi, alimentando così la polemica e dando una spinta alle visite sul sito web, ove è tutt’ora possibile vedere la donna crocefissa. Altro segno dei tempi: internet batte le baruffe chioggiotte (in questo caso meneghine).

Dunque, Telefono Donna ha pienamente raggiunto l’obiettivo: far parlare di sé, attraverso un annuncio, contemporaneamente pubblico e clandestino.
La qualcosa è una metafora dell’oggetto della comunicazione dell’annuncio stesso: lo sanno tutti che spesso le donne vengono maltrattate, però nessuno vuole che si dica, spesso neppure le donne vittime delle violenze. Infatti, nell’annuncio c’è scritto che solo il 4 per cento delle donne che hanno subito violenze hanno il coraggio di denunciarle.

La domanda è: che cosa è lesivo della sensibilità dei cittadini? La violenza clandestina sulle donne o la denuncia pubblica, attraverso un annuncio pubblicitario? Non vi possono essere dubbi: la violenza sulle donne c’è ed è in crescita. Calano tutti i reati, meno che quelli perpetrati contro le donne. Dunque, l’annuncio in questione è giusto, perché dice una cosa vera.

Però, si è voluto entrare nel merito dell’aspetto creativo dell’annuncio, invece che sul merito della questione all’origine dell’annuncio. E questo è sbagliato, tanto quanto sottovalutare la questione stessa. Ed è sbagliato proprio perché si è voluto limitare la libertà di espressione di un preciso punto di vista: nell’Italia di oggi essere donna significa ancora troppo spesso portare la croce di una condizione discriminatoria, nel lavoro, nella famiglia, nell’intimità, che rende possibile l’impunità dei comportamenti violenti nel lavoro, in famiglia, nell’intimità. Difficile non inquadrare le polemiche nate intorno al manifesto in questione come una logica conseguenza di atteggiamenti di stampo maschilista, confezionati con il trito moralismo da negozio di barberia di paese.

Quanto all’immagine-scandalo della donna seminuda sdraiata su un letto matrimoniale, c’è da ricordare che la violenza sulle donne avviene proprio sul talamo nuziale, lo stesso su cui si manifesta la presunta supremazia sessista, che pretende poi omertà e impunità.

Per questa semplice ragione l’annuncio non è solo giusto, ma anche corretto. Qualcuno teme sia troppo forte? E’ la creatività, bellezza. Beh , buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Meno pubblicità in tv, più comunicazione a tu per tu.

E’ stato un duro attacco alla qualità della televisione italiana. Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, è stato un vero e proprio atto di accusa:  la televisione italiana per “livelli di banalità e volgarità (come i tanti reality che affollano i palinsesti delle tv in prima serata)'” è al disotto di altre televisioni europee e il divario rispetto alle emittenti Ue “é crescente”.

E’ quanto ha affermato Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che ha annunciato che “l’Autorità ha in animo di avviare uno studio specifico che analizzi la programmazione televisiva in Italia (e l’uso dei media vecchi e nuovi), verifichi il suo grado di qualità e se essa possa produrre effetti sui cosiddetti ‘comportamenti sociali’.

Non è nelle possibilità dell’Agcom cambiare il modo di fare televisione, spiega il presidente Calabrò, ma “fino a quando le trasmissioni sono dominate dall’assillo dei ricavi pubblicitari e questi sono connessi esclusivamente all’audience – aggiunge il presidente – i tentativi saranno inefficienti”.

Il fatto è che così, dice Calabrò “si innesca una spirale perversa che diseduca il gusto dei telespettatori e degrada il livello delle trasmissioni”.

 

Sappiamo tutti quanto la televisione sia centrale nei piani media, cioè nella distribuzione dei pesi di spesa della pubblicità italiana. E quanto sia diventata ingombrante, ne fanno le spese gli altri media, primi fra tutti la carta stampata. Quel divario crescente rispetto alla emittenti europee di cui parla Calabrò sta proprio nel predominanza assoluta della tv rispetto a tutto il resto della filiera della comunicazione commerciale.

 

Sappiamo anche che questa predominanza alimenta sé stessa più che dare linfa alla propensione verso i consumi: già in forte calo, nonostante la pressione esercitata dalla tv i consumi hanno subito un ulteriore spinta verso il basso a causa della sfavorevole congiuntura economica.

 

Sappiamo che siamo in un periodo di forte sofferenza per il settore economico della pubblicità, chi non ha già tagliato i budget pubblicitari sta pensando di farlo.

 

E’ il momento delle scelte, quelle che bisogna fare proprio durante i momenti di difficoltà: liberiamo la tv dalla troppa pubblicità, distribuiamo i budget verso altri media, verso altre attività di relazione con i clienti dei clienti.

 

Liberemo nuove energie a favore del successo delle marche: la crisi ci impone di fare scelte meno invise all’opinione pubblica, meno invasive dei telespettatori, meno onerose per le aziende. E molto più efficaci, come dimostrano le esperienze di altri paesi, che in Italia si fa fatica a prendere seriamente in considerazione.

 

Lo slogan è: meno pubblicità in tv, più comunicazione a tu per tu. Beh, buona giornata.

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