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Il ceto medio impoverito è sul piede di guerra: “una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista.”

Crisi, le microimprese pagano il conto di Dario Di Vico da corriere.it
La «secessione» del piccolo ceto medio Viaggio tra imprenditori e artigiani. E le associazioni alzano il tiro

A Varese artigiani e banchieri del credito cooperativo hanno addirittura steso una «Carta dei Valori del territorio del Nord Ovest», un’area decisiva per lo sviluppo del Paese visto che ospita due cattedrali della modernità come la Fiera di Rho e l’aeroporto della Malpensa. Il documento assomiglia a un Manifesto del piccolo ceto medio, rende omaggio «al mercato» ma lo integra e lo «circonda» con una serie di principi di ispirazione comunitaria che rimandano alla «centralità della persona», alla «unità della famiglia», alla «ricerca della qualità» e al «metodo dell’ascolto». Fino a tessere l’elogio del volontariato. A Bergamo una dozzina di associazioni del mondo produttivo, comprese la Coldiretti e la Lega Coop, hanno creato un cartello per cercare di imporre un loro candidato alla testa della locale Camera di Commercio, tradizionale roccaforte degli industriali.

Da Roma lo slogan scelto dalla Confartigianato per il reclutamento 2009 suona quasi apocalittico: «O il declino o noi». Intanto da mesi le banche di Credito Cooperativo continuano a guadagnare quote di mercato con tanto di riconoscimento sia della Banca d’Italia sia del ministro Giulio Tremonti. I piccoli banchieri sostengono di aver lavorato in funzione anti-ciclica, hanno aperto i rubinetti del credito quando la recessione ha cominciato a mordere e gli altri li chiudevano. E presentano tutto ciò come un modo diverso di fare banca secondo i principi della «simmetria informativa». Banchieri e imprenditori che dispongono delle stesse informazioni. Tutto il mondo dei piccoli è in fibrillazione. Le microimprese, gli artigiani, le partite Iva, i commercianti, i piccoli professionisti non vogliono più far tappezzeria.

Si preparano a dar vita a una secessione sociale, vogliono staccarsi da una rappresentazione del Paese che non li convince, anzi li irrita. Come se la crisi avesse rotto i freni inibitori e le accuse all’establishment, che prima venivano sussurrate, oggi vengono gridate. Le loro associazioni, bianche o rosse che siano state nel Novecento, stanno così vivendo una nuova stagione di protagonismo: le iniziative in giro per l’Italia non si contano più e tutto questo ambaradan sta mettendo in mostra, tra l’altro, una nuova classe dirigente che non sembra aver paura di sfidare il mondo dei grandi interessi industriali o creditizi. La Primavera dei Piccoli non solo riguarda solo le loro terre d’elezione, a partire dal mitico Nord Est dove i registri delle Camere di Commercio segnalano un’impresa ogni otto persone vecchi e bambini compresi. Ma anche Urbino — solo per fare un esempio — dove è partita una spinta dal basso per una legge di iniziativa popolare a difesa del made in Italy con l’istituzione del marchio «100 per cento Italia» e persino a Roma, al IV municipio le associazioni di Via e i piccoli imprenditori presenti sul territorio si stanno mobilitando a difesa dei propri interessi.

La verità è che la paura fa novanta e le varie Confcommercio o Cna hanno il fondato sospetto che alla fine a pagare il conto della crisi siano loro e solo loro, i piccoli. Così mentre nelle grandi organizzazioni, come la Confindustria, emergono dopo mesi di pessimismo le prime analisi sugli spiragli del post-crisi, a Varese i dirigenti della Confartigianato hanno chiamato a raccolta i giornali per suonare l’allarme e denunciare quella che chiamano «la forbice dei tassi». «La crisi del credito costa alle imprese 13,8 miliardi l’anno — hanno accusato — e la colpa è delle banche che non adeguano i tassi di mercato a quelli di riferimento della Bce». Secondo le cifre elaborate dagli artigiani, mentre i grand commis di Francoforte hanno ridotto il costo del denaro di 2,25%, il calo di cui si sono giovate le piccole imprese che si presentano allo sportello è misero: solo lo 0,77%. Il mancato ribasso costa a un’azienda del Nord Ovest in media 3.300 euro e per un artigiano far tornare i conti diventa un rompicapo. Spiega Pietro Lavazza della Confartigianato dell’Alto Milanese: «Se da noi si continua a fare impresa è perché ci siamo noi piccoli, altrimenti l’area attorno a Legnano, che pure in passato aveva ospitato grandi complessi industriali, diventerebbe una zona dormitorio dove la ricchezza viene consumata ma non viene prodotta».

Concetti non dissimili vengono fuori dagli uomini della Confcommercio. «Attenti all’effetto banlieue» è il loro refrain. E anche in questo caso tornano in ballo i valori di un’italianità tradizionale ma non per questo arcaica. Argomenta Mariano Bella dell’ufficio studi: «I negozi continuano a chiudere e le nostre città rischiano di non somigliare più a se stesse ma per l’appunto alle banlieue parigine, quelle sempre sul filo della rivolta. Senza fruttivendoli, macellerie, panetterie avanza la desertificazione dei centri storici ma anche delle periferie. E se fino a poco tempo il commercio assorbiva occupazione dagli altri settori ora non è più così». I numeri che produce Bella sono impressionanti: nel solo 2008 hanno chiuso circa 40 mila esercizi, di cui almeno 7 mila tra alberghi e ristoranti. E la previsione, ma forse è il caso di dire la certezza, è che nel 2009 questo record negativo possa essere ampiamente superato. Si dirà: chiudono i piccoli negozi e arrivano (finalmente) i moderni supermercati. No, almeno al Nord — nel Mezzogiorno tutto è più lento — non è più così, «il travaso dal piccolo al grande sta per finire» e quindi il commercio non svolge già più quel ruolo di tampone occupazionale che ha svolto in passato contribuendo, tra l’altro, alla regolarizzazione di un buon numero di immigrati.

Se i piccoli commercianti hanno i capelli dritti anche le imprese manifatturiere di piccola dimensione sono in ambasce. Lo dimostra, tra gli altri, uno studio della Dun & Bradstreet, una società americana che ogni anno analizza le imprese italiane studiando bilanci e andamento dei loro affari. Il loro è un bollettino di guerra: nella fascia delle aziende con meno di 250 dipendenti e un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro rischiano di chiudere o fallire oltre al 6% dei negozi, anche il 7% delle industrie manifatturiere, il 9% delle aziende di trasporto e addirittura il 12% delle imprese edili. Spiega Paolo Engheben, amministratore delegato della D&B, che «in Italia è sempre più difficile ricevere i pagamenti in orario e non solo quelli che riguardano la pubblica amministrazione. Le imprese sia grandi sia medie onorano i contratti ben oltre la scadenze delle fatture e nell’ultimo trimestre del 2008 per i ricevere i propri soldi le piccole hanno dovuto aspettare anche più di 200 giorni».

In parole povere chi sta a valle del processo produttivo, i subfornitori, rimane schiacciato dalla crisi e magari dai comportamenti delle grandi aziende, che hanno richiamato lavorazioni o interi pezzi del processo produttivo dati all’esterno. I numeri elaborati da D&B sono confermati da Movimprese, il monitoraggio su natalità e mortalità delle imprese aggiornato con regolarità dall’Unioncamere. Il segnale è di allarme rosso soprattutto per l’artigianato delle regioni settentrionali. Compreso il Nord Est. «Quella che manca è la liquidità, non i lavori — puntualizza Giuseppe Bortolussi della Cgia di Mestre —. L’artigiano non li accetta perché ha paura di non venir pagato mentre quando un falegname compra il legno o un posatore le piastrelle deve pagare in contanti». Nonostante la crisi li falcidi i piccoli artigiani, imprenditori o commercianti temono, anzi sono convinti, di non far notizia. Quando i portoni delle microimprese chiudono non c’è nessuna organizzazione sindacale a presidiarli, nessun politico a presentare (almeno) la canonica interrogazione parlamentare, nessun cronista a registrare il lutto. Se avessero tradizioni barricadere magari bloccherebbero i binari delle stazioni o andrebbero a farsi sentire sotto le finestre di quei prefetti chiamati dal governo a controllare l’andamento delle economie locali. Ma non lo fanno.

Poco meno di un anno fa Silvio Berlusconi all’assemblea nazionale della Confartigianato disse che «se una cosa va bene alle piccole imprese, va bene al Paese». I fatti, però, sostiene il presidente Giorgio Guerrini, non sono arrivati e finora il governo ha avuto occhi e orecchie solo per le banche e per la Fiat. «Ma una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista». Del resto nonostante sia largamente maggioritario per numeri, il piccolo ceto medio non ha mai goduto di buona letteratura. Persino i precari dei call center hanno trovato il loro Aldo Nove o le loro Ferilli che li hanno immortalati nell’immaginario collettivo con un libro o con un film, loro no.

Il cinema è ancora innamorato della grande industria come se da Rocco e i suoi fratelli che raccontava l’immigrazione in fabbrica alla recente Signorina Effe , con Flm e Fiat protagoniste, non fosse cambiato niente nel nostro capitalismo. E per trovare un romanzo dedicato alle angosce del piccolo imprenditore bisogna ripescare il non recentissimo L’età dell’oro del pratese Edoardo Nesi che racconta le peripezie di un cenciaiolo alle prese con la concorrenza dei cinesi. La sinistra poi — che gli intellettuali ha sempre frequentato con maggiore intensità — il piccolo non l’ha mai amato, l’ha sempre considerato il ventre molle della nazione contrapposto alla Grande Fabbrica, al Grande Imprenditore, al Patto dei produttori. «Per i piccoli commercianti che chiudono non ci sono ammortizzatori sociali come per gli operai, queste cose contano», commenta Bella della Confcommercio. Che spiega come la sua organizzazione abbia cercato di evitare di fare «battaglie di retroguardia», ovvero lottare contro le liberalizzazioni, le lenzuolate alla Bersani. «Ma deregolare solo e sempre il commercio è stato un errore della politica. I piccoli si sono visti ancora una volta nel mirino».

Un modo di presentare il mercato e le modernizzazioni come una sciagura e non come un’opportunità per favorire la concorrenza e aprire la società. «Artigiani e micro-imprenditori — sostiene Savino Pezzotta, bergamasco doc, ex segretario della Cisl — hanno con il mercato un rapporto ambivalente. Ne temono la durezza, ma sanno starci dentro e non si tirano indietro. Se c’è da battersi per conquistare fatturato in Cina le microimprese delle mie zone non si fanno pregare, prendono l’aereo e vanno». Ma si deve trattare di un mercato che non usa due pesi e due misure, che non salva il carrozzone di Stato chiamato Alitalia e invece si gira dall’altra parte quando chiudono i battenti le piccole imprese. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Il ministro dell’Economia è in ritardo anche all’appuntamento con Godot.

IL TEMPO DELLE SCELTE
di Tito Boeri e Fausto Panunzi da lavoce.info

La strada del governo per affrontare la crisi è basata sull’attendismo. Una strategia rischiosa che può costare cara al nostro paese. Anche perché non è detto che il peggio sia passato. Vi sono segnali positivi nell’economia mondiale, ma sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’Est. In più il terremoto rischia di peggiorare ulteriormente i nostri conti pubblici. E’ tempo di definire con chiarezza le priorità di politica economica. Poniamo quattro domande in merito al Ministro Tremonti. Augurandoci che risponda al più presto.

E’ passato quasi un anno dall’insediamento del nuovo Governo. In materia di politica economica, l’impressione è che abbia spesso scelto di non scegliere. Ha affrontato la crisi prendendo tempo e, al massimo, varando alcuni interventi tampone per fronteggiare le richieste più pressanti che venivano dal mondo delle imprese. Ha scommesso tutto su di una crisi di breve durata sapendo che i tempi della crisi globale sarebbero stati dettati da eventi al di fuori del suo controllo.

E’ PRESTO PER FESTEGGIARE

E’ stata una scommessa molto azzardata perché il precipitare della crisi ci avrebbe colti impreparati, ma ci auguriamo tutti che la crisi sia davvero breve. Sin qui il crollo è stato più rapido che nel 1929 (si veda il grafico qui sopra). Speriamo ora di avere lasciato alle spalle il punto più basso e che la risalita sia altrettanto ripida che la discesa. Ci sono indubbiamente alcuni segnali positivi soprattutto dal settore immobiliare statunitense e dalla Cina. E l’euforia delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese segnala un cambiamento dei sentimenti, degli animal spirits. L’augurio è che l’ottimismo sia altrettanto contagioso di quel pessimismo che ci aveva portato sull’orlo del precipizio. Il rischio di una nuova degenerazione della crisi è tuttavia ancora presente perché l’eccessivo indebitamento delle banche è stato solo parzialmente ridotto sin qui. I fattori di instabilità del sistema finanziario internazionale non sono stati ancora affrontati alla radice. E sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’ex blocco sovietico.

COME SI USCIRÀ DALLA CRISI

Questa crisi appare comunque destinata a modificare la geografia economica mondiale, i rapporti competitivi fra gli Stati. E’ una crisi maturata oltreoceano, che lascerà lunghi strascichi in quella che sin qui è stata l’indiscussa prima potenza economica mondiale. Dovrà portare a termine un costoso processo di deleveraging, di riduzione del debito del settore privato. E’ un processo che riguarda in modo meno pronunciato l’Europa che può trovare la forza di investire nei settori di punta e riuscire ad attrarre quei talenti che sin qui andavano negli Stati Uniti. Oggi l’Europa può davvero ambire a diventare l’economia più competitiva del pianeta come promesso a Lisbona 10 anni fa.

Il nostro paese non può perciò continuare a stare a guardare. Certo, l’Italia, per colpa del suo debito pubblico, ha minori margini di manovra di altri Paesi. Proprio per questo ha più bisogno di definire in modo chiaro le sue priorità. Abbiamo l’opportunità oggi di uscire non solo dalla recessione, ma anche dalla stagnazione economica in cui siamo rimasti negli ultimi 15 anni. E i periodi di crisi sono quelli in cui si può trovare il consenso per fare quelle riforme che in tempi normali non si riescono a fare.

IL TERREMOTO COME CARTINA AL TORNASOLE

Il 24 aprile si terrà il Consiglio dei Ministri nelle aree terremotate. Le scelte (o le non scelte) che verranno compiute in quell’occasione saranno un’importante cartina di tornasole delle intenzioni di questa maggioranza. Vedremo se prevarrà, una volta di più, la strategia attendista..

L’attendismo non ha sin qui evitato un consistente peggioramento dei nostri conti pubblici. Si sono aperti tanti rubinetti in questi mesi che sarà difficile monitorare. Non ci sono stati risparmi nel pubblico impiego. Al contrario, ai dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, quelli che non rischiano il posto di lavoro a differenza dei precari e dei loro omologhi nel settore privato, sono stati una volta di più concessi incrementi salariali superiori a quelli del privato.

Il fabbisogno è aumentato di 9 miliardi nei primi tre mesi del 2009. E ci sono vistosi segnali di un calo delle entrate fiscali, ben oltre quanto determinato dall’andamento dell’economia. In particolare, le entrate tributarie nei primi due mesi del 2009 sono calate del 7,2 per cento rispetto a un anno fa e non più di metà di questo calo può essere attribuito all’andamento dell’economia. Mentre è certo che l’esecutivo ha dato ripetuti segnali di un abbassamento della guardia sul fronte del contrasto dell’evasione.

Ora il Governo ha due strade di fronte a sé nell’affrontare il dopo-terremoto e i costi della ricostruzione. La prima strada è quella di ripetere quanto fatto dai governi precedenti in questi casi: introdurre una addizionale, una nuova tassa, magari chiamata “contributo di solidarietà”, i cui proventi potranno essere destinati alla ricostruzione. In una fase di depressione come quella che stiamo fronteggiando ci sembra una scelta sbagliata. La seconda strada è quella di usare l’emergenza creata dal sisma per definire le priorità di politica economica.

LE DOMANDE DA PORRE AL MINISTRO DELL’ECONOMIA

Le interviste al Ministro dell’Economia trattano spesso di filosofia. Evitano accuratamente di porre le domande che stanno più a cuore agli italiani. Ecco allora le domande cui ci auguriamo il ministro voglia al più presto rispondere.

Su quale stima dei costi della ricostruzione delle aree terremotate sta il governo ragionando? Non è possibile non avere ancora un numero a due settimane dal sisma. Ed è legittimo attendersi che il Governo abbia deciso come finanziare queste spese.

Ha in mente il Ministro, alla luce anche del terremoto di rivedere le priorità della spesa in conto capitale? In particolare, conviene sul fatto che sarebbe più opportuno rimandare il ponte sullo stretto e varare un piano straordinario di manutenzione e miglioramento dell’edilizia scolastica?
Cosa intende fare il ministro per contrastare l’evasione fiscale? Intende davvero coinvolgere i Comuni negli accertamenti? Con quali tempi? E intende ripristinare gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate?

Una domanda di filosofia ci riserviamo di porla anche noi.
Quali confini intende il ministro stabilire per il mercato? Perché, ad esempio, la legge 33/09 appena approvata in Parlamento, su “misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi”, prevede che non vi sia più l’obbligo di lanciare un’OPA nel caso in cui il gruppo di controllo che già possiede il 30% del capitale sociale acquisisca un ulteriore 5%? Perché rafforzare così il suo controllo sulla società in un momento di scarsità di capitali di investimento? A chi giova questa norma se non a chi oggi ha il controllo di queste imprese? E in cambio di cosa si concede questo aiuto?
(Beh, buona giornata)

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: come il governo ha azzoppato il suo cavallo di battaglia.

di Pino Cabras – Megachip

Continuavano a chiamarlo sicurezza, lo stillicidio di tagli alla sicurezza. Un miliardo di euro in meno nel 2007, 800 milioni nel 2008, 1300 milioni nel 2009. Ricapitolando: nell’era dei grandi salvataggi e del denaro buttato alle banche dagli elicotteri, le forze dell’ordine italiane hanno subito un salasso totale di oltre tre miliardi di euro in tre anni. Fonte ultrasegreta del dato: le leggi finanziarie.

Diciamo ultrasegreta, perché il governo ha scelto – come in ogni campo – una via orwelliana: arriva a dire che gli stanziamenti per la polizia sono aumentati. Puro “bispensiero”. I dati veri scompaiono dai Tg. Ma il bello è che il governo osa dirlo anche in faccia ai sindacati di polizia. Le maggiori sigle sindacali faticano a contenere l’inevitabile malcontento generato da una situazione insostenibile. A centinaia, i poliziotti sono arrivati a protestare davanti al Viminale, presente anche il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani.

Come se non bastasse ci si mettono pure le ronde. Un aiuto, un pilastro di responsabilità civica, secondo il ministro dell’Interno Maroni. Una seccatura che distoglie tempo e risorse, anzi, peggio, un problema per la sicurezza, un grattacapo che si aggiunge alla confusione dei soldati usati con compiti di polizia, fanno notare i sindacati.

Così abbiamo il governo che racconta favole sulle magnifiche sorti e progressive della sicurezza e sul suo “potenziamento”. Ma chi si va a leggere le circolari della Direzione centrale per i servizi di ragioneria del Ministero dell’interno vede una storia ben diversa, una catastrofe gestionale umiliante che pone seri problemi di tenuta democratica del nostro paese, anche in un tale luogo nevralgico. Tagli drastici alle missioni, auto di epoca nuragica ancora in servizio ma con sempre meno benzina, misure draconiane sul riscaldamento delle caserme. Uomini coinvolti in delicate missioni antimafia costretti alla più tipica e riconoscibile vita da caserma, con ricercati che così mangeranno la foglia, sapendoli a dormire lì.

E anche se negli organici ci sono già vuoti pazzeschi, i 1500 agenti che ogni anno se ne vanno in pensione sono sostituiti solo in piccola parte. Per una volta la Cgil non è stata lasciata a opporsi da sola, e perfino il segretario del Pd, Dario Franceschini, ha raccolto sgomento la notizia che «ai poliziotti che dovranno operare al G8 di La Maddalena è stato chiesto di anticipare di tasca propria le spese». Proprio così, a questi nababbi che già prendono un terzo in meno rispetto ai loro colleghi europei.
Per capire lo sfacelo gestionale, va ricordato che molto spesso gli straordinari sono obbligatori, senza copertura finanziaria adeguata e vengono rimborsati anche due anni dopo. Persino il SAP, il sindacato più filogovernativo che pure si è dissociato dalla manifestazione al Viminale, chiede centinaia di milioni di euro per la funzionalità minima della pubblica sicurezza.

Questa è l’Italia che deve presentarsi più cattiva, direbbe Maroni. Al momento riesce a essere cattiva e micragnosa anche con le proprie strutture essenziali. Quanto può reggere uno Stato nazionale che lesina i soldi ai suoi apparati fondamentali, alle scuole, all’Università, alle forze di polizia, fino a avvilirli e demotivarli? E se tutto questo si sfascia, che razza di processo politico si innescherebbe? Coperta da tanta retorica sulla sicurezza, la politica che si avanza apre le porte a poteri irresponsabili e predatori che sembrano non disdegnare anche il caos. Una polizia umiliata, che si aggiungerebbe a una scuola in declino verticale, a questi non dispiacerebbe. Tutte le secessioni risulterebbero più plausibili. Si sono preparati per decenni. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Confindustria lancia un urlo di dolore, il Governo si tappa le orecchie.

Tra la metà del 2008 e la metà del 2010 in Italia verranno persi 507 mila posti di lavoro, il 2,2% dell’occupazione totale. La stima è del Centro Studi della Confindustria. Gli analisti spiegano che nel 2010 il tasso di occupazione salirà al 9%, un valore analogo a quello del 2001 (6,1% il minimo del 2007). Se si considerano anche le persone in cassa integrazione che quindi conservano formalmente il rapporto d’impiego, i posti persi sarebbero 867 mila, cioè il 2,8%.

C’è qualcuno “che si esercita nel piacere del peggio”, ha commentato il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia

Il governo italiano manovra per piazzare uomini di fiducia al comando della stampa?

di Miguel Mora – «El País» (da megachip.info)

Il cataclisma finanziario, il calo della pubblicità, l’adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono questioni che occupano tutti i giornali del mondo. Molti esperti, e non pochi lettori, temono che il processo incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo, assieme alla Russia, nel quale il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è duplice. Al duopolio televisivo, o piuttosto al monopolio tout court, formato da Mediaset e RAI, potrebbe presto aggiungersi una sorta di rivoluzione della stampa scritta.

Al fondo di questo movimento tellurico in incubazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono due testate milanesi molto prestigiose, il «Corriere della Sera», il più grande quotidiano italiano, e «Il Sole 24 Ore», il grande quotidiano economico del paese.

«Questa volta, Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà», ha detto Giancarlo Santalmassi, giornalista della RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando non è stato epurato, l’autunno scorso, dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale da parte del governo del Cavaliere nel 2006. Enzo Marzo, giornalista veterano del Corriere, ha concordato “pienamente” con Santalmassi. Giovedì, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa tenutosi presso la sede della Commissione europea a Roma, ha detto che la battaglia per la direzione del quotidiano è già iniziata.

Il nucleo dirigente del gruppo RCS – editore di Unedisa in Spagna – nonché proprietario del «Corriere», ha spiegato Marzo, ha ritirato la sua fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e tratta su due sostituti. Il primo è Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi, e il secondo è Roberto Napoletano, direttore de «Il Messaggero», che, ricorda Marzo, «divenne famoso nell’ultima notte elettorale, perché fu immortalato da una telecamera mentre patteggiava al telefono con il portavoce di Casini (leader della democristiana UDC dei Democratici e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che doveva piazzare il giorno dopo».

Rossella è il presidente di Medusa, la casa distributrice cinematografica di Berlusconi, e ha ricevuto la benedizione de «Il Giornale», il quotidiano della famiglia del magnate, che ha ricordato che questi lo «ha in grande simpatia, e lo ha già incaricato di dirigere le sue due più importanti testate, «Panorama» e Tg5 [il telegiornale di Canale 5].»

All’interno di RCS, Rossella conta su altri sostegni significativi: Diego Della Valle, proprietario di Tod’s e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e di Ferrari nonché amministratore delegato de «La Stampa».

Ma la parola di Berlusconi sarà decisiva, ragiona senza nessun cenno di pudore il quotidiano di suo fratello, perché, mentre la crisi strangola i giornali, «l’intero sistema bancario dipende dal primo ministro.»

Napoletano ha le sue carte: non spiace a Berlusconi ed è uno dei pochi a parlare al telefono con Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e editorialista per «Il Messaggero». Secondo «Il Giornale», il ministro «sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare» e la sua idea è quella di collocare Napoletano a «Il Sole» (proprietà, come Radio24, del padronato di Confindustria) e dare al suo attuale direttore, Ferruccio De Bortoli, il timone del «Corriere». Se non parlassimo dell’Italia, tutto questo fermento risulterebbe inverosimile, degno tutt’al più di una citazione in un pezzo di gossip. Ma tutte le fonti concordano nel segnalare che si tratta di “manovre serie e reali”, il cui effetto produrrà “un terremoto”.

Il malcontento del governo nei confronti di un altro grande giornale, «La Stampa» di Torino, di proprietà Fiat, è lampante. Secondo gli ambienti berlusconiani, il suo direttore, Giulio Anselmi, verrà tentato con una grande poltrona: quella di presidente dell’agenzia Ansa. Se accetta, verrà messo al suo posto un direttore meno ostile al governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani tengono testa come possono alla tempesta. Il presidente di RCS, Piergaetano Marchetti, che ha visto i profitti del gruppo abbassarsi nel 2008 a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo «gravi e immediati tagli di pubblicità.» E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo nei primi mesi dell’anno obbligherà a «ridurre il personale». «Dobbiamo agire sui costi e sui modelli di business, in Italia e all’estero.»

Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede ugualmente «chiusure e riallineamenti». In modo ironico, Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: «Entro dieci anni sarà splendido.» Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il governo accontenta Confindustria. Dunque, era vero che i soldi non erano veri.

“Il governo – dice la presidente di Confindustria Marcegaglia – ha dato garanzia alle imprese che nei prossimi giorni sarà innalzata da 560.000 a un milione di euro la soglia di compensazione debiti-crediti con l’erario”. Alla luce delle parole del premier, il presidente di Confindustria ha giudicato l’incontro “positivo e costruttivo”, sufficiente per concludere che sulle piccole imprese è “stato raggiunta un’intesa”. “Su alcuni punti abbiamo visto soldi veri, mentre su altri punti ci saranno”, ha detto Marcegaglia riferendosi alle preoccupazioni che aveva espresso alcuni giorni fa quando, davanti alla platea della piccola industria riunita a Palermo, chiese per la ripresa economica “soldi veri”. Allora era vero che i soldi di prima non erano veri. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Il “piano casa” potrebbe aiutare l’economia o la campagna elettorale del premier?

ROMA, 17 marzo (Reuters) – Il progetto di un piano casa annunciato dal governo potrebbe essere di stimolo all’economia ma la portata è incerta ferma restando l’esigenza che il provvedimento rispetti l’ambiente e i piani urbanistici.

Lo ha detto oggi il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso di una audizione parlamentare.

Il governatore ha poi sollecitato la messa a punto di una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali pur prendendo atto dei interventi finora realizzati.

“Il governo ha anche annunciato di avere allo studio provvedimenti per facilitare l’ampliamento degli edifici residenziali e ridurre i contributi di costruzione. Modalità, contenuti e tempi di eventuali interventi non sono ancora noti. Una semplificazione degli adempimenti e una riduzione degli oneri potrebbe avere effetti di stimolo. La complessità della materia, la presenza di competenze concorrenti fra Stato e regioni, la necessità di congegnare l’intervento in modo da preservare ambiente naturale ed equilibrio urbanistico ne rendono però incerta la portata da un punto di vista congiunturale”, si legge nel testo pronunciato dal governatore.

Il governo porterà al prossimo consiglio dei ministri un pacchetto di misure sull’edilizia che dovrebbero prevedere anche un decreto legge. La possibilità di intervenire con decretazione d’urgenza sarà anche discussa oggi dal governo in un prenzo con il presidente della Repubblica.

Silvio Berlusconi ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di varare una legge quadro che consentirà di ampliare le abitazioni del 20% di cubatura e di abbattere, per ricostruire con un ampliamento fino al 30%, gli edifici vecchi. Il premier ha detto esplicitamente che preferirebbe agire per decreto. Il piano ingloba anche lo stanziamento di 550 milioni per l’edilizia popolare.

Secondo il presidente del Consiglio i lavori edilizi da slobbcare con il piano ammontano a circa 60 miliardi.

Sugli interventi a favore di chi perde o sospende il lavoro a causa della crisi in corso, Draghi ha detto: “Il governo ha esteso temporaneamente a gran parte delle tipologie di lavoratori atipici la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali; ulteriori miglioramenti sono stati definiti la scorsa settimana. Il finanziamento di questi interventi è stato di recente ampliato grazie all’intesa tra Stato e Regioni. Questi provvedimenti sono opportuni. Resta però l’esigenza di impostare fin da ora una riforma complessiva”.

Il governo grazie all’accordo con le Regioni ha stanziato 9 miliardi per gli ammortizzatori sociali per il biennio 2009-2010. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Il governo non vuole il tetto agli stipendi dei top manager.

di SERGIO RIZZO da corriere.it

Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l’anno.

C’è solo un dettaglio. Il tetto c’era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all’ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L’emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l’intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l’emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell’Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l’ombra. L’offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l’autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell’Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l’Anas è in attesa dell’apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l’Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d’opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l’anno, compresa la parte variabile dello stipendio. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Immigrazione e lavoro nell’Italia ammalata di xenofobia.

di GIOVANNA ZINCONE da lastampa.it

Lavoro prima agli italiani» è una ricetta politicamente appetitosa. La crisi economica in corso sta producendo disoccupazione e la situazione è destinata a peggiorare, anche se non si arrivasse a sfondare il 10%, come prevede la Cgil. Si capisce quindi che i lavoratori italiani chiedano protezioni e tutele. Finora l’immagine dell’immigrato «ruba lavoro» aveva attecchito poco dalle nostre parti. I sondaggi effettuati in anni passati rivelavano la presenza di questo timore soprattutto in Germania a partire dagli Anni 90 e, di recente, in Gran Bretagna.

Da noi l’immigrazione finora aveva generato soprattutto paure legate a flussi fuori controllo: troppo rapidi e consistenti, pieni di irregolari e con una componente criminale vistosa.

Si tratta di preoccupazioni non prive di riscontri nella realtà, anche se amplificate dalla tradizionale diffidenza che gli umani provano nei confronti degli stranieri non danarosi. A questi incubi, già sufficientemente lievitati, se ne sta sommando un altro: quello di un’occupazione scarseggiante sottratta agli italiani da mani straniere. In un punteggio che va da 1 a 10, questa paura ha già superato la media del 5, mentre in passato il timore di essere spiazzati dagli stranieri riguardava solo un terzo circa degli intervistati. La ricetta che il leader leghista propone vuole sfamare una paura in crescita. Ma non è priva di controindicazioni. La nostra appartenenza alla Ue implica l’impossibilità di discriminare comunitari, quindi i romeni che sono la prima comunità immigrata in Italia. In secondo luogo, il meccanismo discriminatorio costituirebbe una lungaggine burocratica in più, dunque un passo indietro rispetto alla maggiore libertà e allo snellimento nelle pratiche di assunzione messi in atto con l’abolizione delle liste di collocamento. E in una congiuntura che richiede di non incentivare chiusure di attività in Italia e delocalizzazioni all’estero, rimettere fardelli burocratici e divieti nella gestione della forza lavoro sul territorio nazionale non giova. Aggiungo che forse neppure funzionerebbe. In Italia c’è già l’obbligo di verificare che non ci siano italiani o comunitari disponibili al momento di rilasciare permessi di lavoro a immigrati non comunitari. Quindi, in teoria, a nuovi immigrati da fuori. In pratica, tutti sappiamo che il grosso dei «nuovi» immigrati è costituito da individui che hanno già un datore di lavoro, di solito poco propenso a cercarsi un altro dipendente. Perciò la verifica di mancanza di alternative nazionali o comunitarie allo straniero riguarda già una parte di lavoratori stranieri, quelli teoricamente inseriti nei decreti flussi. E, in questo caso sperimentato, la precedenza si è risolta quasi sempre in un atto formale: i Centri per l’Impiego appendono in bacheca l’avviso di richiesta, lo mettono sul sito e spesso non si presentano candidati italiani. E poi, come in tutti i Paesi del mondo, anche nel nostro una gran parte delle assunzioni non avviene attraverso i Centri dell’Impiego, ma segue la via del passa parola, via sulla quale il semaforo rosso agli immigrati non si colloca agilmente.

Infine, si tratterebbe d’imporre per legge quello che i datori di lavoro italiani già fanno in pratica. L’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha commissionato ricerche empiriche sulla discriminazione in vari Paesi europei. Il metodo adottato consiste nel far rispondere ad annunci di lavoro squadre di candidati assolutamente identici sotto tutti i punti di vista, a parte l’appartenenza: una squadra è costituita da cittadini di etnia nazionale, l’altra è fatta da membri di minoranze immigrate. E si vede, ad esempio, che già al momento della prima telefonata il posto per il nazionale c’è ancora, mentre all’altro candidato si comunica che è stato assegnato. Oppure, al nazionale si danno opportunità di prova che all’altro non vengono offerte. Il metodo ha ovvi limiti: pochi casi, solo annunci, lavori di un certo tipo. Il risultato è comunque che in tutti i Paesi osservati si discrimina, e in Italia più che altrove. Insomma, a parità di merito, sembra che il datore di lavoro italiano tenda già a privilegiare il connazionale senza che la legge glielo imponga.

Eppure i dati, almeno fino allo scoppio della crisi, rivelavano un incremento relativamente più forte delle assunzioni degli immigrati. I tassi di attività e di occupazione erano più alti tra gli immigrati, ma lo era anche il tasso di disoccupazione. Prima della crisi la manodopera immigrata funzionava, quindi, come un polmone che aspira ed espira lavoro più intensamente e velocemente. È ipotizzabile che la crisi porti a più rapide e forti «espirazioni». Già nel secondo trimestre del 2008 il tasso disoccupazione generale è aumentato dell’1% rispetto al trimestre dell’anno precedete, quello degli immigrati dell’1,2%. Ma un dato più recente seppure parziale, quello dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, segnala una situazione drammatica: a gennaio 2009 il 24% della disoccupazione nel Veneto era costituito da stranieri, con un picco del 32% a Treviso. Le piccole aziende, dove si concentra il lavoro immigrato, sono poco tutelate dagli ammortizzatori sociali, e il rischio di perdere, con il lavoro, il permesso di soggiorno e quindi di diventare irregolare è alto.

Gli imprenditori sono preoccupati. È vero che molti lavoratori stranieri stanno rientrando nel Paese d’origine, ma cosa accadrebbe se a quelli che rimangono, disoccupati e con scarse tutele, fosse davvero sbarrata anche la via verso una nuova occupazione? Le tensioni sociali che può comportare una massa di stranieri emarginati sono notoriamente gravi. Anche in questi giorni le rivoltose banlieues francesi ce lo ricordano. Imporre agli imprenditori (e alle famiglie) l’obbligo di assumere un italiano meno capace e diligente a scapito dell’immigrato meritevole che si sarebbero liberamente scelti non funziona. Certo non è una via burocraticamente facile ed economicamente fruttuosa. È un colpo alla coesione sociale e non so neppure se sia eticamente accettabile. La condizione di cittadino comporta per definizione dei privilegi; però l’essere nato sotto un altro cielo è un caso, non una colpa. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il 52% degli italiani è scontento del governo.

(Fonte: repubblica.it)
Altri tre punti in meno. Silvio Berlusconi raggiunge il suo minimo storico da quando è ritornato a Palazzo Chigi. Il sondaggio mensile sulla fiducia di Ipr Marketing per Repubblica.it dice che 52 cittadini su 100 hanno molta o abbastanza fiducia nel presidente del Consiglio, mentre 45 ne hanno poca o nessuna e tre sono senza opinione. Solo un mese fa, a febbraio la fiducia toccava il 55%.

Perde altri due punti anche il governo che scende a quota 44% di “fiduciosi” contro il 52% che esprimono un giudizio negativo. Tra i partiti, fermo il Pdl (48% di “sì”) sale di un punto l’Idv (41%) e di 2 la Lega Nord (33%). Ma soprattutto, dopo alcuni mesi di picchiata, la cura Franceschini sembra rivitalizzare il Pd che riprende 4 punti. (Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi: Massimo D’Alema, minimo Tremonti.

Operazione di maquillage”, “misure molto limitate”. Cosi’ Massimo d’Alema ha definito gli interventi anticrisi del governo, parlando con i giornalisti a Torino a margine di un incontro con i lavoratori di alcune aziende in crisi. “Il governo ha spostato i soldi da un capitolo all’altro – ha sottolineato – ad esempio ha preso i fondi sociali delle regioni e li ha usati per finanziare gli ammortizzatori sociali”. Poi dando ragione a Emma Marcegaglia ha aggiunto: “si tratta di operazioni dove, come ha giustamente detto la presidente di Confindustria , non ci sono soldi veri.” Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Pil:-4%. Occupazione: -1.000.000. Ecco la crisi che Berlusconi vorrebbe passasse da sola.

Nel triennio 2008-2010 il Pil italiano potrebbe scendere del 4%. E’ quanto calcola l’Ires-Cgil secondo la quale il dato deriva da un calo dell’1% nel 2008 e da un drastico ribasso del Pil nel 2009 che dovrebbe superare il 3%. Nel 2010 la diminuzione dovrebbe ridursi ad un -0,1%. La flessione dell’occupazione in
Italia dovrebbe portare ad un tasso di disoccupazione del 10,1% nel 2010. E’ quanto stima l’Ires-Cgil secondo la quale nel 2009 il tasso dovrebbe salire al 9,3% dal 7,4% del 2008. (Beh buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Nel nostro governo credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera.”

di Marcello Villari – Megachip

Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.

Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.

Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri – cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.

E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.

Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.

Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.

Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.

All’origine di questa visione “leggera” – per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.

Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud – i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).

Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.

Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.

In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.

Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?

In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.

Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola – era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.

Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…

Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…

Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama – ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia… (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’assegno di disoccupazione non piace alla maggioranza al governo, ma piace alla maggioranza degli elettori.

di Renato Mannheimer da corriere.it

E’ opportuno rendere disponibile a tutti coloro che perdono il lavoro, in questo difficile periodo di crisi economica, un assegno di disoccupazione? La proposta, avanzata qualche giorno fa dal neosegretario del Pd, Franceschini, ha suscitato molte reazioni, di diverso segno. Il presidente del Consiglio l’ha decisamente rigettata, definendola incompatibile con l’attuale situazione dei conti pubblici e, per di più, possibile stimolo per ulteriori licenziamenti. Accanto a questa posizione, ne sono però emerse altre più concilianti. C’è chi, ad esempio, si è dichiarato favorevole all’idea della distribuzione di un sussidio ai disoccupati, sottolineando tuttavia che attualmente sono già previsti, in caso di perdita del posto di lavoro, una serie di ammortizzatori e che quindi l’effetto dell’assegno è già in larga misura realizzato. E c’è, infine, chi ha aderito in toto o quasi alla proposta, ricordando anche come essa potrebbe essere una buona occasione per semplificare e mettere ordine ai molteplici — ma spesso confusi — benefici previsti dalle attuali normative. Sin qui le opinioni dei commentatori. Ma è interessante, anche in questo caso, conoscere il giudizio della popolazione. Che non è spesso in grado, nella sua maggior parte, di effettuare complesse e delicate valutazioni di carattere economico, ma che può — e in certi casi deve — costituire un punto di riferimento per le scelte politiche.

Interpellati al riguardo, gli italiani si dividono in due segmenti, entrambi di grandi dimensioni. Il primo, decisamente più ampio, è rappresentato da chi si dichiara favorevole alla proposta di Franceschini: il 60% della popolazione, con significative accentuazioni tra gli strati più deboli: le donne, gli anziani, chi risiede al Sud. Il secondo, pari al 37%, è costituito dai contrari, per diversi motivi, all’idea avanzata dal segretario Pd. La differenza di opinione, naturalmente, è determinata soprattutto dall’orientamento politico. Ne consegue un molto maggior consenso tra gli elettori del centrosinistra (78% di parere favorevole dei votanti del Pd, 68% tra quelli per l’Idv). Ma si rilevano percentuali assai elevate di approvazione anche nell’Udc (57%) e perfino nei partiti di governo (42% tra i votanti del Pdl, 38% tra gli elettori della Lega). Insomma, il consenso all’assegno mensile per chi perde il lavoro appare abbastanza trasversale e presente — in misura minoritaria ma consistente — anche all’interno dell’elettorato del centrodestra.

Ciò che cittadini e osservatori apprezzano maggiormente nella proposta è la semplicità e generalizzabilità a tutti. Che permetterebbe tra l’altro — come ha efficacemente sottolineato sulla Stampa Luca Ricolfi — di combattere gli abusi e le arbitrarietà che connotano oggi frequentemente la distribuzione dei sussidi di disoccupazione. Resta il fatto che, come tutti sanno, lo stato attuale dei nostri conti pubblici sembra rendere problematica l’attuazione di proposte, sia pur attraenti, come quella di Franceschini. A meno di una riforma organica di tutto lo scenario degli ammortizzatori sociali. (Beh, buona giornata).

Renato Mannheimer

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi economica e il nostro governo.

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

L’industria americana dell’auto è moribonda. Le grandi banche americane traballano malgrado robuste iniezioni di liquidità e con loro traballano le grandi assicurazioni pubbliche. Le banche dell’Est europeo agonizzano coinvolgendo le loro finanziatrici austriache, svedesi, tedesche, britanniche. Traballano anche alcuni Stati sovrani dentro e fuori Eurolandia: Lettonia, Ucraina, Grecia, Irlanda, l’emirato di Dubai. Le Borse crollano in tutti i paesi occidentali e in Giappone. Il credito è ingolfato. “I messi di sventura piovon come dal ciel”.

In questa generale catastrofe c’è un’isola felice, l’Italia. Banche solide, risparmio privato abbondante, debito pubblico elevato ma sotto controllo, governo lungimirante. “Adelante Pedro, con juicio”. Berlusconi è il secondo dopo Dio e Tremonti il suo profeta. Il futuro è terra incognita ma il presente è terra solida.

Negli ultimi giorni, per ricostruire una fiducia latitante, il governo ha sparato una raffica di cifre da mozzare il fiato, una mitragliata di provvedimenti, un esempio inimitabile di prudenza, saggezza, audacia ed esperto coraggio. Gli altri annaspano, Obama compreso, ma noi sappiamo dove andiamo.

Una sola ruota non funziona: una stampa allarmista, una tivù pubblica che critica il governo, un’opposizione blaterante, un sindacato all’insegna del tanto peggio-tanto meglio.

Non fosse per quest’elemento impazzito, l’ingranaggio marcerebbe a meraviglia e il sistema Italia potrebbe ambire legittimamente ad una leadership europea. Mondiale no, anzi non ancora, ma non mettiamo limiti alla divina provvidenza. Domani del resto papa Ratzinger benedirà Roma dal balcone del Campidoglio con a fianco il sindaco Caltagirone. Chiedo scusa, il sindaco Alemanno.

Insomma qui, nel paese-giardino della Chiesa, tutto va nel migliore dei modi.

* * *

Le cifre sono sbalorditive. Vediamole. I miliardi di euro mobilitati erano due mesi fa 140. Dei quali 80 immediatamente disponibili. Di questi la metà si è persa per strada ma 40 sono rimasti in linea ed il loro impiego (triennale) si sta ora discutendo.

Non si è capito bene se si parla di competenza o di cassa. Sembrerebbe piuttosto la prima che non la seconda. La cassa infatti è praticamente vuota: le entrate correnti sono in calo (vistoso), il fabbisogno del Tesoro è in aumento, l’avanzo primario al netto degli interessi sul debito si è dimezzato. Ma queste sono quisquilie, pinzellacchere come scrivevano gli umoristi del “Bertoldo” e del “Marc’Aurelio” settant’anni fa.

Certo c’è anche per noi qualche cattiva notizia. Per esempio il pil del 2008 ha registrato un regresso dell’1 per cento sull’anno precedente. Tremonti non lo sapeva, l’ha letto sui giornali.

Per il 2009 la recessione (si chiama così) sarà maggiore: – 2,6. Qualcuno più pessimista parla di – 3. Qualcun altro più pessimista ancora di – 4. Tocchiamo legno. Pressione fiscale al 43,5. Debito pubblico al 110 per cento sul pil. Ma, ripetiamolo, non è su questi tavoli che si gioca la partita. La Cassa integrazione è aumentata del 550 per cento rispetto all’anno precedente, segno che l’Italia è un vero paese industriale e che la Cassa ha i denari sufficienti a reggere l’ondata di crisi. L’ondata aumenterà nelle prossime settimane? Tranquilli: Tremonti ha già costruito argini robusti per contenere la piena.

* * *

Eccoli dunque, quegli argini. Cominciamo coi Tremonti-bond: dodici miliardi a disposizione del sistema bancario. Costo per le banche tra l’8 e il 9 per cento. Le banche emettono, il Tesoro acquista e ne ricava il 4 per cento di utile. Insomma ci fa un affare. Le banche no. A che cosa servono? A rafforzare il patrimonio. Facendo debito a condizioni onerose. Con l’obbligo di erogare crediti alle piccole e medie imprese. I prefetti vigileranno all’adempimento.

Nel frattempo alcune imprese assicurative e bancarie hanno emesso obbligazioni al 4 e mezzo per cento, coperte in poche ore da un vasto pubblico di sottoscrittori. Per cui non si vede a che cosa servano i Tremonti-bond. Il ministro del Tesoro ha detto che tre grandi banche avevano prenotato i tre quarti della cifra stanziata. Tre giorni dopo Berlusconi lo ha corretto dicendo che solo una banca aveva manifestato interesse e che comunque non era quella la vera linea di resistenza contro la crisi. Chi dice il vero, il premier o il Tesoriere?

Il premier non gradisce i toni spesso drammatizzanti del Tesoriere e lo ha pubblicamente redarguito. Il Tesoriere ha prontamente rettificato. La colpa è dei giornali, non puoi sbagliarti.

La vera linea di resistenza è un’altra: 17,8 miliardi per infrastrutture e questa sì che è una buona notizia. Deliberati dal Cipe, copertura in parte con stanziamenti già previsti in Finanziaria e in parte provenienti dai fondi per le aree sottosviluppate (Fas) in mano alle Regioni. Le quali, per mollare una parte del malloppo, hanno ottenuto che fosse destinato anche agli ammortizzatori per i precari. Così è stato: quattro miliardi ai precari licenziati e il resto a Matteoli, ministro delle Infrastrutture e vicesindaco della fatidica Orbetello.

Però la cifra vera non è quella. Per il 2009, l’anno orribile, le somme stanziate dal Cipe nelle due sedute del 18 dicembre e del 6 marzo ammontano a 12,3 miliardi, ai quali ne vanno aggiunti 2,1 già stanziati nella Finanziaria di settembre. Ma 3,6 miliardi vanno invece sottratti perché destinati a spese correnti (ferrovie e traghetti). La cifra netta non è dunque di 17,6 ma di 10,8 miliardi. Per aprire cantieri. Matteoli dice che saranno aperti entro sei mesi e dunque se ne parlerà ai primi di settembre. Ma c’è cassa? Sembra di no. Sembra che la cassa sia a secco. Per fare cassa di questi tempi c’è un solo modo: emettere Bot. Aumentando lo stock del debito.

Pazienza. Ma i cantieri? A settembre ne apriranno alcuni, quelli più piccoli. Valutazioni attendibili parlano di un 20 per cento della cifra totale, cioè un paio di miliardi. Magari tre se va molto bene. Per il resto se ne parlerà nel 2010. Il ponte di Messina? Non è roba da fare subito. L’autostrada Civitavecchia-Cecina? Se ne parlerà nel 2013. La Salerno-Reggio? Sono vent’anni che si sente questo nome; un bello spirito ha detto: “Se la risento nominare metto mano alla pistola”. Volete dargli torto?

* * *

Pare che il premier abbia in mano altri 9 miliardi e Tremonti altri 13. Da dove vengono? I nove sono fondi già stanziati e attribuiti a quattro diversi ministeri, rastrellati ora dai loro bilanci e unificati. I quattro ministri, tra i quali Scajola e Prestigiacomo, hanno strillato come aquile ma poi, come sempre, si sono acquietati.

I 13 miliardi sono della Cassa depositi e prestiti. Verranno destinati a finanziare progetti di privati costruttori. Tra i quali pensiamo ad Alemanno. Mi scuso: volevo dire a Caltagirone. Ma anche a garantire prestiti bancari alle Pmi (Piccole e medie imprese).
Questo governo adora garantire sperando così di fare le nozze con i fichi secchi: debiti di firma, se ci fosse un patatrac dovrebbe sborsare denari sonanti, ma fin quando non ci sarà si fa bella figura senza sborsare un centesimo. Quando si dice creatività!

Per questa ragione Berlusconi rifiuta la proposta di Franceschini per assicurare uno stipendio minimo ai precari che perdono il lavoro. A conti fatti quella proposta costerebbe meno di 5 miliardi ma quelli sì, bisognerebbe sborsarli subito. Quindi non va bene.
Conclusione: gli argini veri non ci sono. Ci sono promesse e garanzie. Se una, una sola di quelle garanzie venisse escussa, il finto argine verrebbe giù tutto insieme. Parole parole parole: Mina di quarant’anni fa. Berlusconi da sempre. L’Italia, un’isola felice. Se non esce il rosso uscirà il nero o viceversa. Se Obama non dovesse farcela sarebbero serissimi guai e per noi peggio di tutti.

Post scriptum. Berlusconi si è quotato per 100 milioni da versare al fondo per la ricostruzione di Gaza che entrerà in funzione quando sarà fondato lo Stato palestinese. I giornali italiani di bandiera hanno dato grande risalto a questa presenza italiana. Mi domando in quale Paese viviamo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Stupro della Caffarella: “La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale.”

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo. (Beh, buona giornata).

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano soldi finti.”

di TITO BOERI da La Repubblica

AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.

“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.

Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.

A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.

Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.

L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.

Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.

Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.

Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».

Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).

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