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Attualità Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il sindacato di base. Allegato 2° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

IL TEMPO STRINGE: OCCORRE ACCELERARE IL

PROCESSO UNITARIO DEI SINDACATI DI BASE!

di Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale SdL.

 

Il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di

base, (Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale) in atto da tempo, ha subito una positiva

accelerazione con l’Assemblea nazionale del maggio 2008 a Milano.

I delegati ed i rappresentanti dei tre sindacati che hanno promosso l’Assemblea hanno di fatto

avviato dal basso un processo di lavoro unitario che deve necessariamente portare ad un percorso

che veda progressivamente avvicinarsi le tre sigle sindacali e tenda alla costruzione di un sindacato

unitario e di massa che rappresenti una reale e concreta alternativa a Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

Una volontà che come SdL intercategoriale abbiamo raccolto con convinzione.

Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall’Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. Se è vero

che in questi mesi si sono moltiplicati i momenti di confronto e di iniziativa comune, sia a livello

nazionale che territoriale, nei diversi comparti del mondo del lavoro, mancano strumenti di

elaborazione e di intervento comuni.

La grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Roma del 17 ottobre dimostra che

l’attrattiva e le potenzialità che le tre organizzazioni esprimono in situazioni promosse e costruite

unitariamente è ben più ampia della sommatoria delle singole sigle e ciò rappresenta un

incoraggiante segnale verso la ricerca di luoghi e di interventi unitari sempre più stretti e

complessivi.

E’ evidente che i tempi e le modalità di tale percorso devono essere ben ponderati e che il processo

di avvicinamento deve risultare graduale: le tre organizzazioni hanno infatti storie e prassi diverse

ed anche al loro interno presentano sensibilità non sempre omogenee.

Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia,

riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento

realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.

Qualsiasi processo non è e non può essere immutabile e deve adattarsi alla situazione che lo richiede

o che lo condiziona.

Se è quindi vero che non sarà possibile dare vita a breve ad un unico soggetto, ma se è a questo

che dobbiamo tendere per dare risposte concrete alle necessità dei lavoratori, è indispensabile

considerare lo scenario che si sta delineando in questi ultimi mesi e soprattutto le tendenze di

carattere economico, politico e sociale che stanno investendo l’Italia ed il mondo intero.

La crisi economica ormai conclamata, insieme al contesto politico, sociale e sindacale degli ultimi

mesi impongono, infatti, un salto di qualità nel nostro agire.

Posizioni ed analisi che sino a pochissimo tempo fa erano considerate indiscutibili oggi mostrano la

corda. E così le contraddizioni tra capitale e lavoro, che da sempre le nostre organizzazioni sindacali

hanno individuato come elementi decisivi su cui fare leva nell’azione quotidiana, stanno tornando

drammaticamente di attualità ed è proprio il venir meno dei margini di mediazione su cui la

concertazione dei sindacati confederali aveva potuto ancora parzialmente contare che richiede con

urgenza la messa a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori di uno strumento alternativo

adeguato, per quantità e qualità, a raccogliere la sfida.

La crisi mondiale è soltanto al suo inizio: dopo aver investito la finanza ora sta destabilizzando anche

la cosiddetta economia reale, con conseguenze severe sulle condizioni di centinaia di milioni di

lavoratori in tutto il mondo che già vivono da decenni una realtà di estrema precarietà.

In questo panorama cambia in Italia, come in molti altri Paesi, il rapporto tra lavoratore e sindacato

e tra sindacato e azienda. Flessibilità della manodopera e salario, utilizzati come variabile dipendente

dall’aumento della produttività – dello sfruttamento si sarebbe detto in altri tempi – sono i

fondamentali su cui padroni e governo vogliono costruire un sistema di relazioni industriali/sindacali

del tutto asservito alle necessità/compatibilità aziendali.

Una prospettiva a cui Cisl, Uil e Ugl hanno già dato il loro assenso e che la Cgil, per ragioni

contingenti, oggi dichiara di voler contrastare. Un verbalismo senza progetto, la strumentalità

evidente di chi, dopo aver contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo conquiste, tutele e strumenti

di contrattazione esigibili, oggi vede messo in discussione il ruolo del suo stesso apparato. Un

apparato che freme dalla voglia di tornare al tavolo con Governo e Confindustria perché le regole

sulla rappresentanza che la Cgil stessa ha contribuito a definire negli anni, negano fondamentali

diritti sindacali a chi non firma i contratti.

Al “sindacato dei servizi” si accompagna ora il “sindacato notaio” chiamato semplicemente a

ratificare contratti ritagliati sulle esigenze delle aziende.

Il conflitto non è compatibile con il consociativismo cui fanno appello le imprese: le esigenze di chi

lavora devono sottostare a quelle dell’impresa e del mercato. Al sindacato viene offerto al massimo

di entrare con il suo apparato nel business degli enti bilaterali e dei gestori di fondi pensione.

E’ in questo contesto che anche noi dobbiamo ripensare strumenti della rappresentanza che non

siano fini a se stessi, che non prevedano semplicemente l’estrema difesa di un indifendibile

esistente.

Lo strumento principe in mano ai lavoratori è ancora il Sindacato nella sua più nobile accezione. Ma

la conquista di condizioni di vita dignitose necessita di un sindacato in grado di costruire conflitto

reale e non proclami velleitari.

E’ indispensabile mettere da parte le alchimie “organizzative” e ragionare con estrema concretezza a

partire dal fatto che le nuove generazioni entrate nel mondo del lavoro a partire dagli anni ’80,

hanno conosciuto solo il lato arrendevole, burocratico e concertativo dei grandi apparati sindacali e

ne hanno giustamente disgusto. La mutata composizione sociale del lavoro dipendente, la

frantumazione/contrapposizione alimentata ad arte tra i vari segmenti del mondo del lavoro (stabili e

precari, nativi e migranti, operai e impiegati, pubblici e privati …) non può non costringerci a

sperimentare nuove forme organizzative e nuovi strumenti informativi che partano dal denominatore

comune che a noi piace definire come “intercategorialità”.

Per questo motivo crediamo sia indispensabile cogliere l’occasione, forse l’ultima in questo Paese per

i prossimi anni, per accelerare il processo unitario tra SdL intercategoriale, Cub e Confederazione

Cobas, a partire da un lavoro comune nei territori, per arrivare ad una nuova grande Assemblea

nazionale che coinvolga nuovi settori di lavoratori, anche al di là delle aree già organizzate nei tre

sindacati di base.

E’ necessario farlo rapidamente: è indispensabile farlo con il rigore necessario ma senza riserve

mentali, perseguendo con determinazione l’obiettivo, pena la distruzione certa di qualsiasi ipotesi di

alternativa sindacale per i prossimi anni! Proviamoci qui ed ora! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il ceto medio. Allegato 1° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

“Ceto medio in crisi, alla ricerca
della cittadinanza sociale perduta”

Negli Usa il piano di salvataggio della middle class è tra i principali impegni di Obama
E in Italia? E’ difficile già tracciare i confini e identificare le ragioni del malessere
di ROSARIA AMATO da Repubblica.it

Il presidente neoeletto degli Stati Uniti ha garantito che “un piano di salvataggio della classe media” sarà tra le sue priorità, una volta insediato alla Casa Bianca. Ma di “malessere del ceto medio” si parla da anni in tutti i Paesi occidentali, anche se le soluzioni stentano ad arrivare. “Ceto medio. Perché e come occuparsene”, è il titolo del volume, edito da Il Mulino, che raccoglie i primi risultati delle ricerche condotte da un gruppo di lavoro costituito presso il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, del quale fanno parte 12 ricercatori e 18 borsisti. Il progetto è coordinato dal sociologo Arnaldo Bagnasco.

Professore, ma perché è così importante salvare il ceto medio?
“Quello che sappiamo è che una crisi pesante del ceto medio ha sempre giocato contro la democrazia. Certo, è rischioso fare confronti con il passato, ma per esempio quando in Germania c’è stata una forte deriva in senso totalitario, negli anni che portarono Hitler al potere, certamente erano coinvolte fasce di contadini e operai, ma il punto fondamentale era che c’era un ceto medio diseducato politicamente, che non era in grado di fornire alcun appiglio culturale. Dobbiamo avere paura di un ceto medio culturalmente e politicamente disorientato”.

Cosa ha innescato la crisi del ceto medio?
“Abbiamo avviato le nostre indagini circa un anno fa. La nostra idea è stata quella secondo la quale si capisce molto dei cambiamenti attuali se si comincia a guardare nel mezzo della scala sociale. La questione del ceto medio è stata sollevata innanzitutto da inchieste giornalistiche, e non solo in Italia, soprattutto negli Stati Uniti, dove la middle class è il perno non solo della società, ma anche dell’idea di società. Il sogno americano consiste proprio in questo, nella possibilità per tutti di acquistare una posizione sicura e ragionevole nella società. Negli Stati Uniti questa prospettiva è andata in crisi soprattutto con lo sfrenato liberismo di mercato. Per cui c’è stato un allungamento della parte della struttura sociale che era nel mezzo: molti sono scesi verso il basso, pochi sono schizzati verso l’alto. E’ successo anche in Italia. Per cui è entrata in crisi l’idea di ceto medio come condizione di piena cittadinanza sociale”.

Chi fa parte del ceto medio oggi?
“Il ceto medio costituiva il 60 per cento della popolazione; adesso questa percentuale è un po’ scesa, è tra il 50 e il 60. Include autonomi o dipendenti, del pubblico o del privato. Un insieme di popolazione che, sulla base di risorse proprie o con il contributo dei sistemi di welfare, rispetto al passato ha raggiunto condizioni di sicurezza, un buon reddito, la garanzia sulla cura della propria salute e la tranquillità per quando si diventa anziani. Una parte di questa popolazione adesso si considera a rischio, è in difficoltà. Ed è difficile ricollocarla, perché non può essere definita come classe popolare o classe operaia: si tratta di ceto medio in difficoltà. Il problema riguarda soprattutto i giovani, che avvertono un ingresso difficile nella vita adulta”.
Ma è soltanto lo status economico che definisce il ceto medio, e in questo caso le soluzioni alla crisi sono quindi solo di tipo economico?
“Quando si ragiona sul ceto medio, si fa riferimento non soltanto a livelli di reddito e di consumo, ma anche a scelte precise. C’è un’importante questione di status, abitudini alle quali il ceto medio difficilmente rinuncia: le vacanze, gli spettacoli, uscire a cena fuori, le dimensioni culturali sono molto importanti, per questo vanno studiate bene a fondo”.

E dunque quali dovrebbero essere le linee fondamentali di una politica a favore del ceto medio? Se negli Stati Uniti il nuovo presidente Obama sembra saperlo molto bene, in Italia si attendono proposte.
“Con questi nostri primi risultati intendiamo orientare delle discussioni pubbliche che possano aprire prospettive in relazione alla politica. Nei prossimi mesi abbiamo in programma una serie di iniziative pubbliche, nel corso delle quali discuteremo con vari interlocutori delle implicazioni delle nostre ricerche. Tenendo presente che nel ceto medio c’è di tutto: Sylos Labini parlava di ‘topi nel formaggio’ per indicare le classi chiuse in se stesse. Ma c’è anche un ceto medio di sviluppo, fatto soprattutto da artigiani e piccoli imprenditori. Ci sono gli immigrati di ceto medio, o che lo stanno diventando. Nella classe media sono entrati anche gli operai. Linee diverse, ma che possiamo ricomporre in una politica complessiva”. (Beh, buona giornata).

 

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Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male.

Il pacchetto anticrisi varato in dieci minuti dal governo italiano venerdì scorso è irritante, più che deludente. Di fronte a una crisi finanziaria ed economica di dimensioni ciclopiche, il governo ha fatto quello che gli è riuscito meglio fare: ha fatto finta. C’è una sproporzione spaventosa tra la realtà reale e la realtà raccontata durante la conferenza stampa del capo del governo e del ministro del Tesoro, dopo la riunione lampo del consiglio dei ministri. Basta confrontare nel concreto quello che succede nel mondo dell’economia globale per rendersi conto di come e quanto il governo italiano non si è dimostrato all’altezza della crisi.

Barak Obama si appresta a prendere la guida degli Usa, e già sappiamo qual è la sua visione della politica economica e delle misure che la sua amministrazione intende adottare per fronteggiare la crisi. Abbiamo visto la mole e la complessità delle misure adottate dal governo cinese. Abbiamo guardato come ha immediatamente operato il primo ministro inglese Gordon Brown. Abbiamo ascoltato la cancelliere Merkell e il premier Sarkozy indirizzare la Ue al superamento dei rigidi parametri, al fine di recuperare risorse da immettere nelle economie. Si vede che quando i nostri vanno in giro per summit politici ed economici mondiali proprio non capiscono quello che sentono dire dagli altri capi di stato e di governo, sono troppo occupati a fare cucù, a divellere leggii, a fare le corna o a confezionare gaffe di dubbio gusto. Prestare attenzione ai contenuti, quello non è il loro forte.

Se prendiamo in esame le cosiddette misure ci sarebbe da ridere, sembrano la parodia di uno di quei cominci di cui tanto ci si lamenta. Ma c’è poco da ridere: provate a dividere i bonus per le famiglie per i componenti e poi per 365 giorni: a ciascuno rimane in tasca neanche la somma per prendere un caffè al giorno al bar. E’così che si rilanciano i consumi? O attraverso la social card, tanto compassionevole, quanto insultante e umiliante? I versamenti dell’Iva solo a fattura pagata non è una misura, è una proposta che deve essere approvata dalla Commissione europea. Il finanziamento delle grandi opere: quanto è rimasto in cassa di quegli stanziamenti europei accantonati? E fra quanti anni partiranno quei cantieri? Il 5% calcolato su uno stipendio mensile di bonus una tantum per i lavoratori precari che hanno perso il lavoro è un ammortizzatore sociale o una beffa ai danni di chi ha gli stipendi più bassi d’Europa? Il tetto del 4% per i mutui al tasso variabile rischia di essere virtuale, visto che già è al 3,25 e ci aspetta una altro taglio di mezzo punto dalla Bce. E quelli a tasso fisso, che sono la maggioranza?

Non può apparire fuori luogo che il più importante sindacato italiano abbia confermato lo sciopero generale: il pacchetto anticrisi, paradossalmente ne ha rafforzato le ragioni. Mentre ne escono nettamente indebolite le confederazioni che si erano dimostrate più disponibili col governo: oggi sono semplicemente spiazzate dalla pochezza del pacchetto. Anche Confindustria sembra delusa e scettica che queste misure siano un volano per resistere ai morsi della crisi. C’è da aspettarsi che le lame del saving incidano ancora più in profondità nelle aziende italiane, con dure conseguenze occupazionali, oltre che sulle strategie di espansione dei mercati.

Le organizzazioni sindacali di base, forti in alcuni settori, come i trasporti, la scuola e il pubblico impiego hanno già annunciato l’adesione allo sciopero generale. E’facile prevedere che anche l’Onda, il nuovo movimento degli studenti confluirà nelle piazze il 12 dicembre, giorno dello sciopero generale. Non potrebbe essere altrimenti: il pacchetto del governo, che arriva dopo i tagli, rischia di essere una palese conferma dello slogan degli studenti: la crisi non la paghiamo noi. Sarà forse una manifestazione episodica, ma molto fa pensare che si verificherà una saldatura tra lavoratori dipendenti, studenti, operai e ceti medi impoveriti: una risposta politica alla politica che non sa dare risposte sociali alla crisi.

Il combinato disposto dagli avvenimenti mette ancora più sotto i riflettori l’incapacità dell’opposizione parlamentare e del Pd, il partito più numeroso tra i banchi del Parlamento: incapaci di prefigurare uno scenario che guardi oltre la pochezza del governo nel gestire la crisi, si dimostra allo stesso tempo incapace di immaginare una sintesi politica delle proteste contro la politica economica del governo.

Patetici sono i peana all’ottimismo dei consumatori e alla fiducia nel mercato. Suonano poco convincenti, sembrano sermoni fideistici, soprattutto quando vengono pronunciati come chiosa del pacchetto anticrisi, già vuoto di suo e, in questo modo, incartato male dalla demagogia.
Se non si spendono soldi per far girare l’economia, vuol dire che non si ha fiducia nella ripresa economica. La domanda è: se il governo non si fida del mercato, perché dovrebbero fidarsi i consumatori? Non è che uno va in un negozio paga il conto col proprio ottimismo.

Ci sono limiti oltre i quali la propaganda perde la sua efficacia: i sorrisi del governo diventano presto il ghigno del potere. Il fatto è che chi è stato eletto ha pensato di andare al potere, più che di andare al governo. Confondere le due cose è facile e divertente quando le vacche sono grasse. Ma se è vero come è vero che questa non è una crisi ciclica ma è la crisi verticale del neo-liberismo su scala globale, accorgersi di non saper governare la crisi rischia di diventare di colpo un’esercitazione autoritaria, inversamente proporzionale all’inefficacia dell’azione di governo. L’arroganza non colma l’impreparazione. Semplicemente la peggiora. Dalla Storia vengono brutti esempi per la democrazia, bisogna stare attenti quando non si tengono in conto le sofferenze dei ceti medi.

La linea di confine tra disagio sociale e furore collettivo è sottile come un capello, ha scritto John Steinbeck, in “Furore”, romanzo ambientato negli anni della Grande Depressione, che gli valse il Nobel per la letteratura. Beh, buona giornata.

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G 20, il summit che convocò un altro summit.

Che hanno deciso i venti capi di stato e di governo riuniti a Washington lo scorso week end? Niente. Anzi no. La riunione ha deciso di convocare una altra riunione, alla fine di Marzo 2009.

Di fronte alla peggiore crisi finanziaria ed economica mai vista, il G 20 ha dimostrato di avere le carte in regola: chiacchiere, distintivi e arrivederci a Pasqua. Delusi? Ma no. A parte Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia in Italia, ma che a Washington rappresentava una importante organismo internazionale, a nome del quale ha detto, papale papale, che non è che l’inizio, perché la crisi sarà ancora peggio delle previsioni, tutti i rappresentanti dei paesi detentori dell’80 per cento della ricchezza mondiale sono usciti dal G 20 abbastanza rinfrancati: nella dichiarazione finale si legge un franco e leale “mal comune, mezzo gaudio”.

La qual cosa è comprensibile. Fatte le debite differenze, tutti i venti del G 20 sono rappresentanti di paesi che li hanno mandati al governo nell’era matura del neoliberismo economico, hanno vinto elezioni con lo slogan “meno stato, più mercato”. Non è che adesso, così, di punto in bianco possono cambiare idea. Ognuno aspetta che siano gli altri a fare la prima mossa: va avanti tu, che a me scappa da ridere.

Il più sorridente di tutti era il padrone di casa: Bush sembrava Totò nella famosa gag, che finiva con la celebre frase: “Che me ne frega a me, che sono Pasquale, io?”. La crisi può attendere: il 20 Gennaio si insedia Barak Obama. Ha voluto la bicicletta, che se la pedàli lui.

Nel frattempo, consumatori di tutto il mondo, unitevi: stringete la cinghia e sperate in bene.

Da noi, sono stati annunciati 80 miliardi di euro di misure anticrisi. Annunciati, mica stanziati. In queste ore si sta facendo il processo alle intenzioni dello stanziamento annunciato. Siamo alle solite: io annuncio, tu discuti sull’annuncio e alla fine io faccio quello che mi pare, con la “gagliardia di un ventenne”.

Una cosa, fin qui è chiara: il governo italiano aveva promesso misure entro Natale. Per il momento le ha annunciate, ha mantenuto la promessa dell’annuncio annunciato. Che è la cifra stilistica che va per la maggiore, non solo in Italia, stando a quanto pare sia successo anche al G 20.

E allora, suvvia, bando alle ansie, basta analisi catastrofiche, finiamola con le fosche tinte. Temi per il tuo posto di lavoro? Non ce la fai a pagare i mutui? Stai riducendo ai minimi storici la tua capacità di consumare? Hai la sensazione che ti stiano rubando il futuro? Fa come hanno fatto al G 20: rimanda tutto a fine marzo 2009.

Siate ottimisti, per dio: quest’anno, invece che i regali di Natale, scambiatevi direttamente gli auguri di Buona Pasqua. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Con Barak Obama comincia il Terzo millennio.

 Il ‘900 ha resistito con tutte le sue forze: terrorismo, guerre, crisi ambientali e finanziarie, recessione economica, razzismo, xenofobia, neoliberismo, smantellamento del welfare, impoverimento delle classi medie. Poi, sia pure con otto anni di ritardo, finalmente comincia il Terzo millennio. Beh, buona giornata.

 

 

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Attualità Popoli e politiche

4 Novembre: un paese moderno ha ancora bisogno di retorica e demagogia?

 

Con un’enfasi degna di miglior causa, il ministro della difesa ha spiegato giorni fa durante una trasmissione televisiva che il bello della prima guerra mondiale è stato che migliaia di italiani, provenienti da tutta Italia si fossero incontrati per le prima volta nelle trincee. Forse una riflessione più attenta avrebbe sconsigliato il ministro di lanciarsi su questo argomento: quelle trincee si sono riempite di oltre 600 mila morti e più di un milione di feriti, quella che fu definita “carne da cannone”.

Non si capirebbe il motivo per cui collegare la data che festeggia le forze armate italiane con il 90° anniversario della Guerra 15-18 se non con l’ideologia che guida il ministro della difesa italiano in carica. Un conto è festeggiare le Forze armate e rendere omaggio ai caduti, altro è fare retorica e demagogia.  Sarebbe stato meglio che il 4 novembre 2008 si fosse occupato delle forze armate di oggi e avesse lasciato in pace (!?) i dolori e le lacerazioni di novanta anni or sono: insomma, sarebbe stato meglio lasciare il 4 Novembre sul calendario e la  Guerra 15-18 sui libri di storia.

“Non si evochino per amor di polemica politica o veteroideologica, spettri che nessuno vuole più resuscitare”, ha detto con molta chiarezza il Capo dello Stato.

Ma il ministro c’ha sto vizietto. Un saggio della sua sagacia, il ministro ce lo aveva già dato l’8 settembre scorso, quando si sentì in dovere di riaprire le ferite della seconda guerra mondiale, rendendo proditoriamente omaggio ai militari della Repubblica di Salò, tanto da meritarsi un bella tirata d’orecchio dallo stesso presidente della Camera dei deputati.

Insomma, pare proprio che al ministro della Difesa piacerebbe essere il ministro della Guerra. Evocando la prima guerra mondiale, si rischia oltretutto di risvegliare inutilmente antichi rancori nella provincia di Bolzano e nel Sud Tirolo, per non parlare della Venezia Giulia e di Trieste: la Storia li volle nemici, gli uni contro gli altri in armi. Oggi sono a tutti gli effetti cittadini di una repubblica che ripudia la guerra.

In un’altra trasmissione televisiva, il ministro si è anche lasciato sfuggire che chi presta servizio nelle nostre forze armate, difficilmente può essere di sinistra. Che bisogno c’era di mettere a disagio i cittadini italiani che in uniforme prestano servizio nelle quattro forze armate, chiosando sui loro presunti orientamenti politici? Nostalgia di tesi politiche che nel passato avrebbero voluto i militari coinvolti nella scena politica nazionale? Anche in questo caso sarebbe stato meglio lasciar stare.

Com’è come non è, fatto sta che il nostro ministro della difesa ha sempre la testa rivolta al passato. E questo gli impedisce non solo di guardare avanti, ma anche di accorgesi dei suoi recenti errori, come quello, clamoroso, di aver voluto l’utilizzo dei militari in missione di ordine pubblico sul territorio nazionale.

Sul punto, già il generale Mini, dalle  pagine de La Repubblica aveva messo in guardia: utilizzare i soldati sul territorio, senza che possano avvalersi del contributo dell’intelligence, come avviene nelle missioni all’estero, rende vana e frustrante la loro professionalità, rende inefficace il loro ruolo, fino a diventare controproducente per la loro immagine agli  occhi dei cittadini dei territori italiani in cui operano.

Ho avuto occasione di conoscere e apprezzare Mini, quando era in servizio col grado di colonnello presso lo Stato Maggiore della Difesa. Con lui realizzai la prima campagna pubblicitaria istituzionale per l’Esercito italiano: sulla foto di un elicottero che spegneva un incendio boschivo, il titolo diceva “cara mamma, oggi abbiamo fatto un gavettone bellissimo”; oppure, sulla foto di un militare che traeva in salvo un anziano da un’alluvione, il titolo diceva “cara mamma, oggi ho dovuto portare un nonno sulle spalle”; o ancora, sulla foto di soldati impegnati con le cucine da campo a distribuire pasti caldi alla popolazione colpita dal terremoto, il titolo diceva “cara mamma oggi sono dovuto stare tutto il giorno di corvee”. Il sottotitolo della campagna, uscita nella seconda metà degli Anni Ottanta, diceva: “quarant’anni di pace sono stati la nostra guerra più dura”. La campagna ebbe grande eco, vinse molti premi. Niente a che vedere con lo spot “grazie ragazzi” gentilmente offerto in questi giorni dal ministero della Difesa.

Per tornare all’analisi del generale Mini, le sue parole a proposito dei militari nelle strade italiane hanno avuto una tragica conferma in occasione della sparatoria nella quale sono stati gambizzati cinque minorenni a Secondigliano. Il quotidiano l’Unità ha pubblicato il giorno dopo la sparatoria di Secondigliano un’intervista ai responsabili dei sindacati di polizia. “Il ferimento dei 5 minorenni a Secondigliano -dice il segretario generale del sindacato di polizia Silp Tommaso Delli Paoli – pone drammaticamente il problema irrisolto della sicurezza e del controllo del territorio”.

“Vogliamo sperare che sull’onda emotiva il Governo non si inventi – dicono – il “militare di guardia ai circoli ricreativi” facendo seguito a una pazzia collettiva che sembra voler accreditare un accresciuta sicurezza con l’intervento dei militari”.
“Il controllo nel quartiere – ha aggiunto il sindacalista – lo possono effettuare solo il commissariato di polizia o la stazione dei Carabinieri, gli uni e gli altri invece, sono disastrati dai tagli di risorse e senza uomini e mezzi necessari, con l’impossibilità molto spesso di mettere in strada anche una sola volante”.

“È in atto uno spreco di risorse economiche con l’impiego dei militari – ha concluso Delli Paoli – che nessun risultato concreto può dare alla sicurezza dei cittadini, se non vago sostegno alla demagogica campagna avviata dal Governo che taglia i fondi delle forze di polizia e poi tenta di far credere ai cittadini che avranno più sicurezza dall’impiego dei militari».

Anche il Siulp, un altro sindacato di polizia avverte il governo: “Indipendentemente dal dna di questi ragazzi – dice il segretario napoletano Liberato Dal Mastro – il Governo deve rendersi conto della necessità di stanziare soldi per la sicurezza. Nuovi computer, nuova tecnologia, una nuova logistica da assegnare al commissariato di Secondigliano sono una decisione non rinviabile.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto di ritardo, rende la situazione più gravosa e difficile per le donne e gli uomini della Polizia di Stato che, da soli, non possono garantire un livello minimo di sicurezza”.

Ce ne è abbastanza per poter affermare che retorica e demagogia, tanto care al ministro della difesa, sono una perdita di buon gusto, ma anche di tempo e di denaro, altrimenti meglio utilizzabile per la sicurezza dei cittadini, per la dignità professionale delle forze dell’ordine, ma anche per il rispetto dei militari: mandati allo sbaraglio sulle strade sono destinati a fallire, la qual cosa non è certo un bene per l’onore e lo spirito di corpo di chi fa quel mestiere con impegno e senso del dovere.

Il ministro della difesa dovrebbe smetterla di guardare con nostalgia a un passato, che tutti ci auguriamo non torni più. E guardare in faccia la realtà, quella che è difficile capire facendo il prezzemolino  vanesio di talk-show in talk-show. Sempre in una trasmissione tv, infatti, lo abbiamo sentito vantarsi di aver ottenuto uno stanziamento per portare manifestazioni celebrative nelle piazze e nelle scuole.

In tempi di crisi, ci sono modi migliori di utilizzare i soldi pubblici: tanto per cominciare, sarebbe stato meglio utilizzarli per il riconoscimento dell’indennità della causa di servizio per i militari italiani colpiti dalle radiazioni da uranio impoverito nelle guerra dei Balcani. La questione è in discussione alla commissione Difesa del Senato. Ci sono militari e  famiglie di militari che hanno il diritto di celebrare il 4 novembre senza l’angoscia di una ingiustizia subita, che difficilmente può essere risarcita dalla retorica e dalla demagogia. Beh, buona giornata.




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Attualità Popoli e politiche Scuola

Neodestra al governo contro la scuola pubblica, neofascisti in piazza contro gli studenti dell’Onda.

 



L’uso dei fascisti contro i movimenti non è un problema di oggi. Di Sergio Cararo*.

La puntuale azione di infiltrazione, provocazione e aggressione dei gruppi fascisti verso i movimenti degli studenti non è una caratteristica di queste settimane. L’escalation che abbiamo visto deflagrare platealmente nella manifestazione del 29 ottobre sotto il Senato con i gravi fatti di Piazza Navona, presenta innumerevoli punti di connessione sull’uso sistematico dei fascisti (e delle loro coperture negli apparati di polizia) contro i movimenti sociali che entrano in campo nell’agenda politica nel nostro paese.

 

Da questo punto di vista, la storia aiuta a capire e la storia non è un esercizio di ricordi ma sono esperienze concrete e memoria indispensabili per capire come muoversi adesso, in questa fase storica e politica che vede tutto il milieu anticomunista più viscerale – impregnato da un odio di classe palpabile e visibile a tutti – avere in mano tutti gli strumenti di governo e di manipolazione.Il governo Berlusconi ha prima giocato e poi smentito spudoratamente la carta della minaccia repressiva (l’uso della polizia contro le occupazioni di scuole e università). Successivamente ha rimesso in campo la contro-mobilitazione ideologica del blocco reazionario facendola accompagnare da strumenti di provocazione ampiamente sperimentati in passato contro i movimenti. Nessuno potrà e dovrà mai dimenticare la storia recente e il mattatoio di Genova nel luglio 2001 che vedeva nella cabina di regia gli stessi uomini che siedono oggi negli scranni di governo o negli apparati di sicurezza scelti con una logica bipartizan. Tra questi strumenti fanno capolino i “suggerimenti” di Cossiga e l’uso dei fascisti. Proviamo a sintetizzarne una chiave di lettura:

 

1. I fascisti come “parte del movimento”I gorilla del Blocco Studentesco, rivendicano la loro internità a un movimento di studenti che è entrato un conflitto con un governo in cui gli sponsor politici dei gruppi neo-fascisti godono di ampio spazio e potere. Sembra storia di oggi ma è’ già accaduto. Alcuni blog neofascisti, rivendicano ampiamente l’internità dei gruppi di destra al movimento studentesco del ’68 fino alla battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968). Da quel momento in poi – secondo i rovescisti storici della destra (1)”La partecipazione alla contestazione universitaria dei giovani missini avvenne anche prima del 1968, ma, dopo gli scontri di Valle Giulia (16.03.1968), la politicizzazione marxista del movimento studentesco condusse il Msi ad uno scontro con gli estremisti di sinistra e con le forze di governo, costato più di venti morti dal 1970 al 1983” (2).

Scrive ancora su questo aspetto un altro autore della destra: “tra gli esegeti intelligenti dell’area destro-radicale ante- ’68 , qualcuno ebbe l’intuizione di dire che forse era ora di Cavalcare la Tigre invece di annegare nella logica reazionaria degli “Uomini sommersi tra Le Rovine” (e non certo per colpa di Evola ) o, peggio ancora, etero-diretti da terze entità nemiche infiltrate sin dal 1965″(3).

In quel contesto, fino a quando il movimento non operò una rottura culturale oltreché materiale con la subalternità al blocco moderato dominante e all’egemonia politica del PCI, i fascisti avevano tentato operazioni apertamente dirette a depotenziare ogni discriminante antifascista tra gli studenti e a confondere le acque con formazioni politiche autodefinitesi “nazimaoiste” come Lotta di Popolo messa in piedi da personaggi dello squadrismo fascista come i fratelli Serafino e Bruno di Luia.

La battaglia di Valle Giulia produsse un doppio effetto: da un lato pose fine al fatto che gli studenti in piazza dovessero solo “prenderle” dalla polizia (il “non siamo scappati più” cantato da Pietrangeli rende l’idea), dall’altra avviò una maggiore politicizzazione del movimento studentesco del ’68.

La reazione dei fascisti alla loro emarginazione dal movimento studentesco fu drammaticamente eloquente. Quindici giorni dopo Valle Giulia (il 16 marzo 1968), decine di squadristi guidati da Almirante e Caradonna entrarono nell’università la Sapienza aggredendo gli studenti e finirono costretti a barricarsi poi nella facoltà di Giurisprudenza di fronte alla decisa reazione del movimento. Dei 52 squadristi fascisti fermati (e poi rilasciati dalla polizia) nessuno era studente universitario.

Nove anni dopo – nel 1977 – di fronte alla impossibilità di mettere in campo analoghe operazioni di infiltrazione nel movimento studentesco in mobilitazione contro la riforma Malfatti (quelle sui fascisti presenti il giorno della cacciata di Lama sono scemenze autoconsolatorie), scelsero direttamente la strada della provocazione contro i movimenti. Il 1 febbraio una squadraccia fascista entrava all’università La Sapienza, sparava e feriva due studenti: Guido Bellachioma (ferito alla testa rimase in coma per diverso tempo) e Paolo Mangone.

I fascisti che nel ’68 tentarono di penetrare nel movimento rivendicandone la propria internità, erano in polemica con la direzione”moderata” del MSI rappresentata dal segretario Michelini e animati da leader come Almirante e Rauti più determinati nel conquistarsi spazio politico dentro la realtà sociale in movimento nel paese.

I commentatori più smaliziati di questa area della destra sociale oggi proiettata a conquistarsi consensi, visibilità egemonia nei settori giovanili, avevano già cominciato a mettere le mani avanti nei giorni precedenti dei fatti di piazza Navona: “Se accadesse qualche episodio codino e reazionario , molti dei ragazzi del Blocco e Lotta studentesca che hanno avuto una buona visibilità sui media, si ritroverebbero nuovamente e automaticamente, come dopo il 16 marzo 1968, “fuori del movimento ” e nelle vesti dei soliti manovali- picchiatori, dei provocatori infiltrati per conto di Berlusconi” è scritto su uno dei loro siti già segnalato in precedenza. Il riferimento all’aggressione del 16 marzo ’68 all’università di Roma come spartiacque tra un “prima” che avrebbe visto fascisti e antifascisti convivere nel movimento e un “dopo” in cui i fascisti vennero buttati fuori, è indicativo.

Le litanìe del Blocco Studentesco sul fatto che gli studenti in piazza non sono né devono essere “né di destra né di sinistra”, è la ripetizione del tentativo già operato nei primi due mesi del ’68 e fallito grazie alla presa di coscienza antifascista del movimento studentesco. I fascisti del BS e le loro sponde politiche, hanno potuto approfittare in questi anni della debolezza politica e culturale della sinistra radicale (di cui ci ha impressionato anche un editoriale di Bascetta su Il Manifesto che guardava senza scandalo alla commistione tra studenti di sinistra e di destra nel movimento di queste settimane) e di un antifascismo conformista e liturgico della sinistra storica oggi piddina che ne ha depotenziato ogni carica conflittuale e identitaria. La reazione decisa degli studenti a Piazza Navona ha finalmente cominciato a porre fine a questa ritirata politica e culturale dell’antifascismo militante.

2. L’uso della violenza fascista contro i movimenti

Anche su questo occorre dire parole di chiarezza. La violenza politica dei movimenti “di sinistra” è nata sempre come reazione alla violenza dei gruppi neofascisti. A ricordarlo – per chi ha la memoria corta o tende all’occultamento della storia – c’è una lapide all’entrata della facoltà di Lettere alla Sapienza. La lapide ricorda l’uccisione di uno studente di sinistra, Paolo Rossi, avvenuta il 27 aprile 1966 durante una incursione fascista. Dunque mancavano ancora due anni a quel ’68 demonizzato da ministri e commentatori destrorsi e berlusconiani. In quegli anni, la violenza e l’egemonia dei fascisti nell’università e tra i giovani era ancora dominante. Nonostante il clamore suscitato dalla protesta studentesca, il giudice istruttore dichiarò non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti.

L’attivismo politico giovanile degli anni Sessanta trovava più sponde nella destra che nei partiti della sinistra (PCI, PSI) che stentavano a delineare una linea complessiva (e attrattiva) di critica al blocco moderato dominante capace di attrarre anche le aspirazioni dei settori giovanili della società.

Dunque la violenza fascista ha cominciato a colpire per prima e lo ha fatto fino a quando – con la battaglia di Valle Giulia- il movimento studentesco maturò la necessità dell’autodifesa e dell’uso della forza. L’incursione fascista alla Sapienza il 16 marzo 1968, rivelò una grave sottovalutazione da parte di Almirante e dei suoi complici sulla nuova capacità di reazione acquisita dal movimento studentesco. Entrarono convinti di poter spadroneggiare e prendersi l’agibilità politica dentro il movimento degli studenti ma finirono assediati dentro la facoltà di Giurisprudenza e salvati solo dall’intervento della polizia (un pò come accaduto a piazza Navona il 29 ottobre).

La stessa cosa è avvenuta per il movimento del 1977, nato “a sorpresa” contro la riforma Malfatti dell’università e che aveva visto dinamiche molto simili a quelle che stiamo vivendo in queste settimane (3).

Mentre il movimento occupava le università da Palermo a Milano, da Roma a Bologna, da Napoli a Torino, nelle tumultuose assemblee lo scontro più aspro era tra i settori della “estrema sinistra” contro le organizzazioni studentesche e sindacali che sostenevano la linea di appoggio del PCI e della CGIL al governo Andreotti (che aveva promosso la riforma Malfatti) e alla linea dei “sacrifici”. I fascisti erano esclusi da queste dinamiche e vennero quindi utilizzati come strumento di provocazione. Da qui l’incursione del 1 febbraio 1977 alla Sapienza di Roma e il ferimento a colpi di arma da fuoco di due studenti. Da quando era esploso il movimento del’77 fino a quel momento, non c’era stato alcun episodio di violenza politica nelle università. La reazione del movimento fu indubbiamente violenta (assalto alla sede del MSI di via Sommacampagna e lo scontro a fuoco con agenti di polizia in borghese nella vicina piazza Indipendenza) ma fu anche spontanea e per certi aspetti dovuta.

Solo alla luce degli eventi successivi e della recente intervista di Cossiga “sui metodi più adatti” per stroncare quel movimento è possibile riconoscere che fu l’inizio di una micidiale operazione di criminalizzazione e depotenziamento di un movimento che aveva le potenzialità e l’obiettivo di far saltare il compromesso storico tra DC e PCI..

Il movimento del 2008, giustamente, si sta dando i suoi tempi, i suoi contenuti e le sue forme e si trova ad affrontare un governo reazionario ed arrogante, un governo espressione piena dell’odio di classe dei custodi della proprietà privata contro gli interessi sociali, un governo fobico verso ogni libertà intesa come istanza collettiva e non solo individuale. Questo movimento che si configura come una vera e propria variabili indipendente può far saltare molti equilibri e molte consuetudini

Questo governo è disposto – perché lo ha già sperimentato – a ricorrere ad ogni mezzo per depotenziare e stroncare i movimenti sociali. I fascisti possono essere uno di questi strumenti. Sarà doveroso non sottovalutarli ma neanche sopravalutarli. Quella di Piazza Navona è stata una “fiera battaglia antifascista” (5) ma non sarà l’unica a cui saranno chiamati i movimenti sociali nei prossimi mesi. Servirà maturità e determinazione per non ripiegare di un millimetro ma anche per non cadere nelle trappole. La conoscenza della storia, l’informazione e la controinformazione saranno strumenti decisivi per capire il presente ed affrontare le sfide del prossimo futuro.

* redazione di www.Contropiano.org

(1) Prendiamo a prestito dallo storico Angelo D’Orsi la categoria di”rovescisti” che ci appare assai più calzante di quella di revisionisti

(2) Da http://www.ladestra.info/?p=5277. In realtà i morti sono stati assai più numerosi perché i rovescisti della destra evitano di contare i morti delle stragi di piazza Fontana, Italicus, Peteano, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna, treno 204

(3) da http://www.ladestra.info/?p=24866#more-24866

(4) Il movimento del ’77 fu effettivamente una sorpresa perché esplose in una fase di riflusso e crisi delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che erano divenute fortissime negli anni Settanta. Avvenne anche lì in una fase di profonda contraddizione tra aspettative e realtà sia sul piano politico che sociale. Sul piano politico il PCI aveva raccolto un grande risultato elettorale che rispecchiava la richiesta di cambiamento del paese ma aveva scelto la strada del compromesso storico con la DC e la linea del sostegno attraverso l’astensione al governo Andreotti, cosa questa che provocò un’ondata di delusione e rabbia. Sul piano sociale era esplosa l’aspettativa creata dalla scolarizzazione di massa con migliaia di giovani diplomati e laureati che si scontravano con una realtà fatta di disoccupazione due cifre, sacrifici e austerità economica e nessuna prospettiva di stabilità.

(5) “Fiera battaglia antifascista” era il titolo della prima pagina dell’Unità il 2 marzo del ’68, il giorno dopo la battaglia di Valle Giulia

 

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Popoli e politiche

La polizia contro gli studenti ovvero io sono io, e voi non siete un c….(*)

 

Il capo del governo italiano ha detto che se gli studenti continuano a protestare contro i tagli alla scuola, lui gli manda la polizia. Ha anche detto che i giornalisti la devono piantare di creare “ansia” dalle pagine dei giornali, dai microfoni del telegiornali.

Giorni fa, il ministro dell’istruzione ha detto che lei quelli che protestano proprio non li capisce.

Il ministro delle pari opportunità ha querelato una donna che di mestiere fa satira, perché non gradisce essere presa in giro.

Il ministro della funzione pubblica non ammette critiche, per lui gli impiegati pubblici sono “fannulloni”. Va in giro per tutti i talk show a dirlo e ridirlo.

Da quando si è insediato il nuovo governo è diventata una prassi consolidata procedere per decreto legge e poi imporre il voto di fiducia. Così succede che  prima non si vuole far discutere il Parlamento, poi non si accettano né critiche, né proteste né che di queste si occupino i giornali.

Questi atteggiamenti sono legittimi e legittimati dal fatto che il capo del governo risulta gradito a oltre il 60% degli intervistati, secondo più di un recente sondaggio d’opinione. E’quanto ha apertamente dichiarato il capo del governo italiano durante un convegno di industriali a Napoli.

Come si spiega questo diffuso atteggiamento di decisionismo burbero?

Secondo Raffaele Simone, linguista di reputazione internazionale, questi atteggiamenti appartengono alla dottrina politica di quella che ha definito “Neodestra” italiana.  In “Il mostro mite” (Garzanti, 2008), Raffaele Simone postula questa dottrina, mettendo a confronto il linguaggio dottrinale con quello colloquiale:

a)     postulato di superiorità (“io sono il primo, tu non sei nessuno”);

b)    postulato di proprietà (“questo è mio e nessuno me lo tocca”);

c)     postulato di libertà (“io faccio quel che voglio e come voglio”);

d)    postulato di non-intrusione dell’altro (“non ti immischiare negli affari miei”);

e)     postulato di superiorità del privato sul pubblico (“delle cose di tutti faccio quello che voglio”).

Se ascoltate con attenzione le parole che vengono organizzate in discorsi dagli esponenti del governo, sia che si tratti di un intervento a un convegno, a una conferenza stampa, piuttosto che davanti ai microfoni di un cronista, vi accorgerete come questi postulati vengono continuamente riproposti, sia in forma “dottrinale” che in quella colloquiale, che in genere è la preferita, perché ben si presta a essere citata su un giornale o al telegiornale. A volte ci si spinge troppo in là, e allora pronta arriva la smentita, che è in realtà il talento di dire due volte esattamente la stessa cosa, una volta affermandola, una volta negando non la cosa in sé, quanto l’interpretazione che ne è stata data.

La domanda che spesso ci poniamo è perché sia possibile che questo modo di condurre la politica abbia successo, come dimostrano i sondaggi. “Quella che (i postulati della Neodestra) descrivono è una società aggressiva, egoistica e pericolosa”, scrive Raffaele Simone in “Il mostro mite”.

In effetti, viviamo tempi precari:  reduci dalla grande paura del terrorismo islamico, inaugurato con l’Attacco alle Torri Gemelle, coinvolti nella “guerra preventiva” e nel timore di attentati nelle nostre città, siamo attualmente spaventati dalla globalizzazione finanziaria ed economica e dalle grandi migrazioni, siamo molto preoccupati per il tenore e lo stile di vita, allertati dai pericoli di un’ imminente e grave recessione economica.

Il decisionismo burbero fa leva sulla semplice constatazione che un “popolo spaventato si governa meglio”? In effetti, temiamo di perdere qualcosa (lo stipendio, il posto di lavoro, la casa, la vacanza, l’auto, l’i-phon) che consideravamo un diritto di proprietà. Ragion per cui, senza mezzi termini diamo credito, apertamente o in modo più defilato a chi si candida a proteggere grandi o piccoli possessi acquisiti, grandi o piccoli privilegi. Poiché meno si ha, più l’eventualità di una perdita è sinonimo di disastro, ecco che il ceto medio ( medio perché ha qualcosa in più delle classi basse, e molto di meno di chi possiede di più), sentendosi molto minacciato tende a premiare col suo consenso governi come quello che abbiamo in Italia in questi mesi e che sembra intenzionato a durare a lungo.

L’attuale governo ha restituito la parte residua dell’Ici, ha fatto sparire “la monnezza” a Napoli, ha reso invisibili le prostitute, ha spinto in periferia i campi nomadi, punisce i “fannulloni” nel pubblico impiego. Fin qui tutto sembrava filare liscio. Quando ha deciso di tagliare i costi alla scuola, qualcosa si è inceppato.

Complice fortuito l’arrivo della bolla speculativa dei mutui, l’operazione di “risparmio” ideata dal ministro Tremonti e vestita da riforma dalla ministro Gelmini non ha avuto successo.

Il mondo della scuola si è ribellato: genitori e scolari, studenti e insegnanti, professori, prèsidi  di facoltà e addirittura rettori di atenei hanno detto no. “La crisi non la paghiamo noi” si è letto sugli striscioni di migliaia di manifestanti in tutta Italia. Questa idea, semplice e comprensibile a tutti, ha fatto breccia fino a preoccupare seriamente il governo, come dimostra la minaccia far intervenire la polizia nelle scuole e nelle università: il pericolo avvertito è che scolari, studenti, genitori, insegnanti, prèsidi e rettori, facenti per lo più parte del ceto medio, possano rappresentare il punto critico di rottura del consenso fin qui incassato dalla coalizione di governo.

Bisogna aggiungere che la protesta nelle scuole ha trovato una prima saldatura il 17 ottobre, quando si è svolto lo sciopero generale contro il governo, indetto dai sindacati di base e a Roma sono sfilati in 350 mila. Anche qui l’occasione è stata forse fortuita, fatto sta che contro quella giornata si è scagliato il capo del governo a Napoli, durante il già citato intervento al convegno degli industriali italiani.

Anche l’opposizione parlamentare sta tentando di intercettare il malumore e il dissenso che dal mondo della scuola potrebbe contagiare la disapprovazione nei confronti del governo da parte dei ceti medi.

La manifestazione del 25 ottobre prossimo potrebbe essere un banco di prova, anche se per stessa ammissione dei dirigenti del Pd la protesta nelle scuole ha preso il via al di là e al di fuori delle organizzazioni di partito e anche se la data della manifestazione era stata decisa molto prima la nascita delle protesta (un altro caso fortuito con gli avvenimenti in corso).

Quali chances ha il centrosinistra italiano di tornare, dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile a rappresentare una concreta attrattiva sulla scena politica?

Abbiamo visto i postulati della dottrina della Neodestra, così come ce li ha proposti Raffaele Simone in “Il mostro mite”. Il quale ci propone quelli riferibili alla sinistra (che qui, per brevità propongo in “forma colloquiale”):

a)     al “io sono il primo, tu non sei nessuno” si oppone “non siamo tutti uguali, ma dobbiamo diventarlo”;

b)    al “questo è mio e nessuno me lo tocca” si oppone “entro certi limiti la mia proprietà può essere ridistribuita ad altri”;

c)     al “io faccio quel che voglio e come voglio” si oppone “i diritti dei singoli non possono sminuire il bene pubblico”;

d)    al “non ti immischiare negli affari miei” si oppone “gli interessi dei singoli possono essere limitati dall’interesse di tutti”;

e)     al “delle cose di tutti faccio quel che voglio” si oppone “sebbene  i privati abbiano prerogative e diritti definiti, il pubblico è preminente”.

Anche in questo caso, come si notava poco fa a proposito degli esponenti della Neodestra, se ascoltate con attenzione le parole che vengono organizzate in discorsi dagli esponenti dell’opposizione, sia che si tratti di un intervento ad un convegno, a una conferenza stampa, piuttosto che davanti ai microfoni di un cronista, vi accorgerete come questi postulati vengono continuamente riproposti, sia in forma “dottrinale” che in quella colloquiale.

La domanda è: sono attrattivi, possono essere condivisi dai ceti medi, che come si sa sono la base elettorale che elegge o manda a casa i governi nei paesi occidentali?

Non ci possono essere dubbi: la risposta è no. A meno che la congiuntura economica non spinga fino in fondo le contraddizioni che sta vivendo il ceto medio, che non affiori la netta sensazione di essere stati sfruttati sfacciatamente dalle banche e dalle finanziarie, che il possesso dei risparmi gli sia stato soffiato via dalle tasche, che lo stipendio è troppo basso, le spese troppo alte, le tutele evanescenti, che se una volta anche l’operaio voleva il figlio dottore, oggi anche il dottore ha un figlio precario.

In un certo senso e fatte le debite proporzioni è il senso della sfida alla Casa Bianca da parte di Barak Obama. Tra qualche giorno saremo in grado di vedere i neo-cons, la Neodestra americana può essere battuta.

Durante un recente dibattito televisivo, a un vice ministro che lo interrompeva col piglio tipico del politico della Neodestra, Eugenio Scalfari ha detto: “Lei non migliora mai, eh!?”. Ecco: se in un prossimo futuro le parole del fondatore di Repubblica dovessero anche solo venire in mente a milioni di elettori, allora, forse, si aprirà una nuova stagione politica.

La nuova stagione economica e sociale è già qui: la Neodestra non sa bene che pesci prendere, l’opposizione sconta forti ritardi sulla tabella di marcia delle contraddizioni politiche e sociali. A quanto pare, gli unici che al momento hanno le idee chiare sono gli studenti italiani: è contro quel“Non pagheremo noi la crisi”che si minaccia di mandare addosso la polizia. Beh, buona giornata.

(*)I sovrani del mondo vecchio

C’era una volta un Re che dal palazzo
emanò ai popoli quest’editto:
– Io sono io, e voi non siete un cazzo,
signori vassalli imbroglioni, e state zitti.

Io rendo diritto lo storto e storto il diritto:
posso vendervi tutti a un tanto al mazzo:
Io, se vi faccio impiccare, non vi faccio un torto,
perché la vita e la roba Io ve le do in affitto.

Chi abita in questo mondo senza il titolo
o di Papa, o di Re, o d’Imperatore,
quello non può avere mai voce in capitolo -.

Con quest’editto andò il boia per corriere,
interrogando tutti sull’argomento;
e, tutti risposero: E’ vero, è vero.

(Trilussa)

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Popoli e politiche

Nostalgia canaglia.

Corre l’anno 2008, ma non si capisce dove voglia andare. Come è possibile che il sindaco di Roma si metta a chiosare su un Fascismo buono e uno liberticida? Vogliamo davvero pensare e di conseguenza credere che abbia avuto un rigurgito neofascista?

Come è possibile che il ministro della Difesa abbia violato il protocollo, tanto da elogiare quelli della Repubblica di Salò, durante la celebrazione ufficiale dei martiri dell’8 Settembre a Porta San Paolo a Roma, davanti al capo dello Stato, che è anche il capo delle Forze Armate? Un altro rigurgito?

Insomma, che gli è saltato in testa? Un attacco di nostalgia di “quando c’era Lui”?

Né l‘uno né l’altro hanno voluto riscrivere la Storia. Hanno semplicemente messo in scena una prova di forza, usandoci come spettatori, alla maniera dei partecipanti di un reality show.

I due sono esponenti di spicco di una formazione politica che sta per essere cooptata dentro il partito del premier, il Partito delle Libertà, che dovrebbe nascere dalla fusione di Forza Italia di Berlusconi e Alleanza Nazionale di Fini.

I due hanno voluto far vedere alla base  e agli elettori che li hanno votati ( e a quelli che hanno votato più a destra) che non stanno dando via l’identità, i valori, come li chiamano loro.

I due sanno bene che la partita della sopravvivenza nel Governo si gioca cercando di contrastare, almeno sul piano dell’immagine,  la spinta che proviene dalla Lega di Bossi. Il quale è fermamente intenzionato alla riforma federalista. Lo è andato ripetendo tutta l’estate.

Il federalismo non è esattamente quello che hanno in testa i nostri due, né il loro partito, né i loro elettori.  Esso stride, per non dire lacera, per non dire confligge apertamente con la vocazione centralista, nazionalistica, muscolare della Stato centrale, così come è vissuta dalla base elettorale di An.

La vicenda politica di questa stagione  condanna quei due a mandare giù l’alleanza impossibile tra federalismo e statalismo.

Il federalismo a Bossi lo ha promesso  il premier, che di queste beghe se ne fa un baffo: ha il potere di gran parte dei media, ha il potere del Governo, sta per conquistarsi il posto d’onore nel potere della finanza (sfruttando la “cordata Alitalia”, Silvio Berlusconi si sta dimostrando capace di attirare a se banchieri e capitalisti di centro-sinistra, e mira a gestire finalmente“il salotto buono” dell’economia italiana).

E allora, prima dell’inevitabile subalternità politica a Berlusconi e Bossi (con il bene placido di Fini), il sindaco della Capitale (già uno dei leader della Destra sociale, corrente di An) e il ministro della Difesa (attuale coordinatore di An)  hanno fatto venire giù un pieno, come si dice a Milano; hanno fatto caciara, come si dice a Roma.

Sanno che prima o poi, zitti e mosca, dovranno dire ad alta voce che il rancio è ottimo e abbondante.

Tanto la Storia della nostra democrazia è stata bella e scritta dalla Resistenza. Tanto ai reduci della Repubblica di Salò ci pensò l’amnistia promulgata nel 1947 dall’allora ministro Togliatti.

Se c’è qualcuno che deve sentirsi offeso dalle performances dei due non sono né i partigiani, né gli ebrei perseguitati dalle Leggi Razziali, e neppure i militari fedeli all’Armistizio dell’8  Settembre. Né i loro discendenti.

Il sacrificio degli uni, la memoria degli altri è tutt’ora una garanzia solida, un pilastro della convivenza civile e democratica, come non si stanca  mai di farci notare il nostro Presidente della Repubblica.

Ad offendersi, semmai, dovrebbero essere loro, i “ragazzi di Salò”. Furono manipolati allora (finendo dalla parte sbagliata della Storia) sono strumentalizzati oggi. Con lo stesso insopportabile cinismo di una politica che è solo piccola convenienza. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

Terrorismo: alla nuora perché la suocera intenda.

Secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, le autorità yemenite hanno autorizzato il rilascio di un uomo sospettato di essere un membro di al Qaida.

Le accuse contro l’uomo, accusato di pianificare un attentato nel centro della capitale Sanaa, si sono rivelate infondate.

Lo ha riferito una fonte della sicurezza. “Si è scoperto che stava trasportando medicine. Sembra che sia stata la suocera a denunciarlo”, ha detto la fonte.

Roba da “la sai l’ultima?” Nell’era della guerra al terrorismo, delle teorie della sicurezza preventiva, dello scontro di civiltà, della guerra religiosa e chi più ne ha più ne metta, si rischia di passare guai seri per colpa della suocera.

Poi dice che c’è la crisi della coppia. Neanche il compianto Gino Bramieri, barzellettiere formidabile, ne avrebbe raccontata una così. Fin qui il risvolto comico.

Il dramma è che le forze di sicurezza alle barzellette ci credono. E che in tutto questo, qualcuno se l’è vista davvero brutta. Più brutta di quella suocera, pettegola e vendicativa.

A proposito delle fobie antiterroristiche che ci attraversano la vita da qualche tempo a questa parte, chissà se possa valere anche in questo caso l’antico detto di parlare alla nuora perché intenda la suocera.

Vale a dire: la finiamo di renderci ridicoli, e finalmente ripristiniamo un minimo di dialogo? Il che è un altro modo per dire che, in questo caso, la nuora è il buon senso. Lo capirà anche la suocera? Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

Bush il mago.

La superstizione è geneticamente programmata negli umani, la cui mente si è adattata a ragionamenti intuitivi che producono irrazionalità. A sostenerlo è Bruce Hood, professore di psicologia sperimentale all’Università di Bristol. Religioni e credenze magiche continuano a diffondersi ‘malgrado la mancanza di prove e gli avanzamenti della scienza, perché la gente è naturalmente incline ad accettare un ruolo per l’irrazionale’, sostiene il professore.

Per quanto non nuova, questa teoria spiega le molte brutte cose, insite nella comunicazione di massa. Credere al malocchio, piuttosto che al miracolo delle lacrime di sangue di una statuetta è, evidentemente il sintomo si una predisposizione genetica all’irrazionale.

Ma il punto è se questi siano fenomeni spontanei o possono essere eterodiretti. Il fatto è che la predisposizione all’irrazionale è diventato uno dei fenomeni delle società complesse, nell’era della comunicazione globale, con il risultato di scatenare una continua produzione di fenomeni irrazionali, che influiscono sul consenso, che arrivano fin dentro le nostre democrazie. Nonostante la mancanze di prove, si sono scatenate campagne d’opinione che hanno favorito scelte elettorali delle nazioni, decisioni politiche dei governi, gli stessi comportamenti dei singoli appartenenti alla collettività.

Anzi, è proprio la mancanza di prove a diventare il supporto che fa da leva, e che si avvale dell’inclinazione all’irrazionale, che perdura nelle società moderne. La guerra al terrorismo scatenata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001 è l’esempio più eclatante degli ultimi anni. Sulla spontanea paura di feroci attacchi terroristici si è deliberatene spinto sull’acceleratore della psicosi collettiva.

Ha così trovato fertile terreno di consenso la tesi della guerra preventiva al terrorismo, la superstizione dell’attacco alle nostre vite, alle nostre case, ai nostri cari. Abbiamo vissuto la sindrome dell’attacco e dunque la necessità della difesa, vale a dire del contrattacco. Abbiamo temuto il malocchio islamico, abbiamo scelto la magia della guerra.

Ma il mago, come in tutte le vicende di cronaca legate al business dell’occulto a un certo punto ha preso il sopravvento. In piena campagna elettorale per le elezioni di medio termini negli Usa, il presidente George W. Bush ha rinnovato lo stato d’emergenza nazionale proclamato dopo l’11 Settembre 2001. Per il capo della Casa Bianca, ‘la minaccia dei terroristi persiste’ e di conseguenza lo stato d’emergenza, che sarebbe scaduto il 14 settembre, sarà prorogato per un altro anno. Ecco che ci si mette anche la cabala: l’anno prossimo saranno i fatidici 7 anni di stato d’emergenza nazionale negli Usa.

Ma la missione non era compiuta, come apparve scritto sulla portaerei in cui Bush annunciò la vittoria contro Saddam Hussein? Ma il Patriot Act non doveva essere una misura d’emergenza, quindi provvisoria? Ma Guantanamo non doveva essere una strumento efficace per smantellare la rete di al Qaeda? L’esportazione della democrazia in Medioriente non doveva essere accolta a braccia aperte in Afghanistan e in Iraq?

Evidentemente no, la superstizione continua. A meno che gli elettori americani non rompano l’incantesimo nelle prossime elezioni di Novembre. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

A Marino la sagra dell’uva, a Frascati quella di Pera.

Si chiama Summer School, sono i corsi di formazione politica dei teo-con all’amatriciana. “Teo” non sta per Teocoli, ma teocrati; “con” non sta per cognati, ma per conservatori. Dopo il mezzo fallimento del Meeting di Rimini, Pera ci riprova ai castelli romani.

Insomma, una roba all’americana. A Frascati. Una cinquantina di “giovani liberali e conservatori” che intendono dare una “contributo a evitare il declino del paese”. Parola di Pera, quel Pera Marcello, ex presidente del Senato, che è passato da Popper al pope, inteso come papa e che non ha ancora capito che c’entra il clero con la tradizione del liberalismo, tanto confuso che inaugura questi corsi di formazione per nostrani integralisti della civiltà cristiana proprio la domenica, che dovrebbe essere dedicata al Signore. Neanche noi lo abbiamo ancora capito. E quindi ce lo spiegano.

“Vogliamo sconfiggere le egemonie culturali consolidate”, dice Gaetano Quagliarello, presidente di Magna Carta, che ospita a Frascati l’allegra combriccola. “Cultura è responsabilità-sentenzia il Quagliarello- è saper assumere posizioni scomode, non partecipare a discussioni nel salotto buono.” Insomma, non lo hanno invitato da nessuna parte.

Qual è la sostanza dell’iniziativa? Ce lo spiega Mario Sechi del Giornale, in un pezzo scritto il 31 agosto, pubblicato da “Il legno storto” il 1 settembre, che prevede quello che Pera dirà il 3 settembre a Frascati. Dunque, una premonizione in piena regola. “La cultura della resa che si sta diffondendo in Europa è figlia della rinuncia all’identità”, dice Sechi di quello che dirà Pera.

Infatti: “Un tema che affronterà l’ex presidente del Senato Marcello Pera nel suo discorso di domenica 3 settembre (oggi, per chi legge, ndr) e sarà poi sviluppato negli incontri pubblici “.
Quali sono i punti del dibattito in agenda? “I cinquanta studenti selezionati partecipano a una formula innovativa- scrive Sechi- che vuole sviluppare e approfondire il dibattito su tre punti che nell’agenda globale sono strettamente legati: politica estera, valori etici, identità e critica del multiculturalismo”.

Come li avranno selezionati, ‘sti cinquanta poveri cristi? Per titoli, per meriti? Sono volontari o coscritti? Coraggio ragazzi: neanche venti giorni e l’estate è finita, quindi addio Summer School.

Adesso viene il bello: chi sono i relatori di siffatta scuola quadri per la guerra santa al “meticciato”? Franco Frattini, Bobo Maroni e Sandro Bondi. Che trio. Però, c’è anche l’ospite straniero, come per ogni festival che si rispetti: George Weigal, che vanta un biografia di Giovanni Paolo II, nonché la fatica di aver scritto “La cattedrale e il cubo”, considerato il libro dei libri per la politica dei conservatori americani.

Bush non lo ha letto, ma pare glielo abbia raccontato Dick Cheney, che gliene aveva parlato Rumsfeld, dicendogli che una volta ce l’aveva Condi Rice sul comodino, ma prima che traslocasse alla Casa Bianca.

Questo succede a Frascati, alla sagra di Pera. A chi avesse esigenze diverse dalla guerra di civiltà, i Castelli romani offrono scampagnate più pacifiche: c’è Genzano col suo famoso pane, Ariccia con la mitica porchetta. Senza contare Marino, dove “le fontane danno vino”. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

Torturare è giusto, torturare è possibile.

Per sostenere il ripugnante principio secondo la quale ci vuole un “compromesso tra lo stato di diritto e la sicurezza nazionale”, qualche giorno fa sul Corriere della Sera, nei giorni immediatamente successivi all’allarme antiterrorismo lanciato negli aeroporti inglesi, Angelo Panebianco ha scritto:“Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l’Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell’undici settembre, con migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani, di un jhadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente.”

Panebianco si è poi chiesto:”Chi se la sentirebbe in Europa di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.”
A proposito di tortura e di giustificazione politico-giuridica della tortura, esemplare il caso di Craig Murray, che è stato recentemente intervistato per RaiNews24 da Mario Sanna e Maurizio Torrealta.

Craig Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan. Nel periodo cha va dall’agosto del 2002 all’ottobre del 2004 ha scoperto la tortura dei servizi segreti uzbeki sui prigionieri politici e ha denunciato l’uso che delle informazioni estorte, spesso inattendibili, facevano la Cia e il ‘Foreign Office’ inglese.

Craig Murray è stato ascoltato dalla Commissione d’inchiesta dell’Europarlamento sui voli e i sequestri della Cia in Europa alla fine di aprile. Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dal 2002 al 2004. Cosa ha dichiarato Murray alla Commissione? Ha detto che i servizi segreti americani e britannici hanno utilizzato testimonianze di detenuti ottenute mediante tortura e non ha escluso che i servizi segreti di molti paesi europei fossero informati di quanto facessero i loro colleghi in Uzbekistan.

L’ambasciatore ha parlato di “cooperazione” tra i servizi nazionali quando si è avuto a che fare con detenuti sospettati di terrorismo in Uzbekistan. L’alto funzionario si è detto certo del fatto che i servizi uzbeki torturassero i detenuti e che la CIA e l’MI6 britannico ottenessero le informazioni sebbene non partecipassero agli “interrogatori”.

Murray ha raccontato d’aver posto il problema al ministro degli esteri britannico, Jack Straw, il quale concluse, dopo un incontro con il capo dei servizi MI6, che ricevere informazioni ottenute sotto tortura non avrebbe contravvenuto alla Convenzione ONU contro la tortura. A proposito di una domanda posta dal relatore della commissione, Claudio Fava, l’ambasciatore Murray ha affermato di non avere informazioni sulla condivisione delle informazioni tra la CIA e i servizi segreti di Paesi occidentali: “Tuttavia – ha aggiunto – la Germania aveva particolari e stretti legami con i servizi di sicurezza uzbeki e credo che lo scambio di informazioni sia avvenuto”.

Murray ha raccolto le testimonianze di intere famiglie, rivoltesi a lui per assistere i loro congiunti ‘scomparsi’ e sequestrati dai servizi segreti uzbeki. Ha condotto un’indagine e ritiene che oltre 7000 persone, oppositori del regime uzbeko guidato da Islam Karimov, siano state sequestrate e torturate per ordine del governo. Secondo Murray questa azione di feroce repressione interna è stata anche finalizzata alla raccolta di informazioni da parte della Cia.

Secondo la testimonianza di Murray, i prigionieri sotto tortura erano costretti a confessare di tutto: che erano membri di al Qaeda; che avevano contatti con l’Afghanistan e con lo stesso Bin Laden; che andavano in Afghanistan per incontrarlo o che conoscevano persone implicate in questo. Inoltre, chi era torturato era disposto ad ammettere che un gruppo uzbeko di opposizione fosse collegato ad al Qaeda e addirittura confessavano che persone che loro nemmeno conoscevano erano attivisti di Bin Laden.

Ecco un brano dell’intervista di Mario Sanna e Maurizio Torrealta per RaiNews24.

Craig Murray ha voluto raccogliere una dettagliata documentazione sulle violazioni dei diritti umani in tutto il mondo in suo sito e lo sta facendo anche in polemica con il sistema dei media. Come ha reagito la stampa inglese tradizionale davanti alla sua vicenda e alle sue denunce.

I media britannici hanno difficoltà a affrontare a viso aperto questo punto. Nessuno ha mai domandato in modo diretto: “Voi usate materiale di ‘intelligence’ ottenuto con la tortura?” , oppure: “Ma voi non istigate di fatto regimi come quello uzbeko, saudita, algerino? Non incoraggiate questi regimi alla tortura?”. Nessun giornalista ha posto mai queste domande difficili e così il ‘Foregn Office’ è stato in grado di manipolare l’opinione pubblica su questo punto.

Dopo l’11 settembre l’intero sistema dei media in Gran Bretagna è stato dominato dal timore di non mostrare immagini e a non porre sul tappeto questioni che fossero considerate poco patriottiche. Il direttore della BBC e’ stato mandato via perché aveva detto che in Iraq non c’erano armi di distruzione di massa. Ora sappiamo che ciò che diceva la BBC era vero, che non c’erano armi i distruzione di massa in Iraq, ma le due persone ai vertici della BBC sono state mandate via per aver detto una cosa del genere, quindi e’ comprensibile che i giornalisti non si sentano pronti a scavare in profondità su questo argomento nel Regno Unito.

La sua deposizione davanti alla commissione d’inchiesta che indaga sui voli Cia, non è passata inosservata, anzi, ha destato grande sensazione tra gli europarlamentari. Di tutta questa vicenda drammatiche che lei ha vissuto, che ci ha raccontato, qual è stato l’aspetto che più l’ha ferita?

La cosa peggiore per me è stata la scoperta che altri funzionari pubblici, persone che conoscevo da 20 anni erano al corrente di questa situazione. Sono rimasto sbalordito quando ho scoperto che Michael Wood che e’ una brava persona, un uomo che conoscevo da molto tempo trovava una giustificazione legale al modo in ui si poteva eludere il divieto giuridico contro la tortura

A questo punto inizi a pensare: “Perché le persone non si assumono la responsabilità morale delle loro azioni?”.

Se qualcuno riesce a trovare una giustificazione legale alla tortura, allora e’ facile capire come un funzionario pubblico in Germania possa avere ricevuto ordini di andare ad Auschwitz con i carri bestiame e dire: “io sto facendo solo il mio lavoro, sono solo un funzionario pubblico”.

L’articolo di Panebianco, accanto, fatte le debite proporzioni a quelli di Magdi Allam e di Giuliano Ferrara, per non parlare di quelli dell’agente Betulla, e di tutta la macchina propagandistica a favore della guerra di civiltà hanno segnato in questi anni il punto di non ritorno tra lo stato di diritto e la logica della guerra infinita al terrorismo. La testimonianza di Craig Murray è un balsamo per la coscienza critica di ciascuno di noi. Per questa azione in difesa dei diritti umani, Murray è stato costretto ad abbandonare la diplomazia. Beh, buona giornata.

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L’assassino di Frammartino voleva uccidere un ebreo.

Le forze di sicurezza israeliane hanno catturato il presunto assassino di Angelo Frammartino. Il giovane volontario è stato assassinato a coltellate il 10 agosto mentre passeggiava a Gerusalemme.

L’arrestato, 24 anni, appartiene alla Jihad Islamica. Si chiama Ashraf Abdel Hanaisha ed è stato catturato in Cisgiordania. Ha confessato che era a Gerusalemme per uccidere un ebreo e Frammartino è stato ucciso per errore.

Angelo Frammartino dunque è morto per sbaglio? E’ stato ucciso dal “fuoco amico”? No. Il volontario italiano ha perso la sua giovane vita perché era andato a fare qualcosa di utile per i bambini palestinesi.

La qual cosa non piace a chi fa la guerra uccidendo la gente comune, per rappresaglia, per vendetta, per odio: religioso, razziale, per riaffermare la supremazia della propria civiltà.

In questo senso, l’assassinio di Angelo Frammartino è un fatto politico. Significa che esiste una simmetria, una specularità tra terrorismi, quello imperiale si alimenta di quello jihadista e viceversa.

Nelle guerre moderne, i civili non sono solo le prime vittime, ma i primi obiettivi strategici. L’arrestato aveva nella mente che ha armato di coltello le sue mani la stessa logica di chi ha ordinato di attaccare Cana. Forse c’era un lanciamissili dietro il palazzo dove dormivano 37 bambini. La logica è semplice: io sparo lo stesso, anche se ci sono bambini. Cui corrisponde :io bombardo lo stesso, anche se ci sono bambini.

Ashraf Abdel Hanaisha voleva uccidere un ebreo. Dunque, Angelo Frammartino che era andato per occuparsi di bambini palestinesi, ha trovato, sia pur tragicamente il modo per salvare un suo coetaneo di religione ebraica. E’ morto al posto suo. “Chi salva una vita, salva il mondo intero”, era il motto di Schindler e della sua lista.

L’amarezza per il tragico fatto di sangue che ha portato via la giovane e generosa esistenza di Angelo Frammartino, accanto alla compostezza dei suoi famigliari e dei suoi compagni è la dimostrazione che nel nostro paese ci sono persone semplici e sane. Che sanno da che parte stare. Dalla parte opposta dei coscritti prezzolati della guerra di civiltà. Beh, buona giornata.

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Le guerre sono come le ciliegie, una tira l’altra.

Seymour Hersh ha scritto sul New Yorker che l’attacco israeliano al Libano era stato pianificato in anticipo con l’assenso della Casa Bianca.

Seymour Hersh è un accreditato giornalista investigativo americano, denunciò la strage a My Lai durante la guerra del Vietnam, nella quale i marines uccisero 500 civili. Denunciò il bombardamento di una fabbrica di medicinali in Sudan nel 1998, scambiata per un covo di Osama bin Laden ai tempi dell’amministrazione Clinton. Più recentemente, Hersh ha denunciato le torture americane nel carcere irakeno di Abu Ghraib. Hersh ha reso noti al mondo i piani di invasione americana dell’Iran.

Secondo la ricostruzione dei fatti, pubblicati sul New Yorker, di cui a un servizio di Anna Guaita per il Messaggero del 14 agosto, e a un trafiletto sul Corsera del 15 agosto, nella scorsa primavera, uomini del governo israeliano avrebbero sottoposto i piani di attacco del Libano al governo degli Usa, nella persona di Dick Cheney, di Condi Rice e di Donald Rumsfeld. Nonostante lo scetticismo di Rumsfeld, preoccupato che il via libera avrebbe indebolito l’importanza dell’impegno militare in Iraq, Cheney si sarebbe dimostrato entusiasta e insieme alla Rice hanno garantito l’appoggio del presidente Bush. Un buon argomento per le elezioni di medio termine, nella quali Bush è impegnato. Un invito a fare presto, prima che scada il mandato presidenziale.

Si trattava semplicemente di cogliere l’occasione adatta, viste le frequenti scaramucce al confine tra israeliani e hezbollah, il pretesto è stato scelto con la cattura dei due soldati israeliani, che ha dato il via all’attacco.

Secondo Hersh, per Cheney l’attacco al Libano poteva essere un ottimo test diplomatico-militare, propedeutico alla messa appunto dell’attacco all’Iran: una cocente sconfitta degli Hezbollah sarebbe stata utile per neutralizzare una eventuale rappresaglia degli sciiti del Libano contro Israele, in caso di attacco all’Iran. Non solo, l’attacco aereo contro il Libano sarebbe stata una prova generale dell’attacco aereo, previsto nei piani contro l’Iran.

Immediata la smentita del Pentagono, del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la sicurezza. Hersh cita, però ben cinque fonti, di cui ovviamente non rileva l’identità. Ma che Hersh abbia messo il dito sulla piaga sembra avere un conferma da una dichiarazione dell’ex vicesegretario di stato Richard Armitage, di cui nell’articolo di Anna Guaita del Messaggero, vengono virgolettate le parole: “La campagna di Israele in Libano può essere un ammonimento per la Casa Bianca sull’Iran. Se la più grande forza militare della regione non può pacificare un paese come il Libano, che ha una popolazione di 4 milioni di persone, bisognerà pensare con cautela prima di applicare lo stesso paradigma in Iran, che ha grande profondità strategica e una popolazione di settanta milioni di persone.”

Il parziale fallimento dei piani militari israeliani sono talmente evidenti, da aver costretto l’amministrazione Bush, quanto meno a giocare su due tavoli. Quello dell’appoggio all’azione militare, rimandando per settimane la stesura della Risoluzione 1701 che ordina il cessate-il fuoco. Per poi scegliere di appoggiare la risoluzione, quando è stato chiaro il fallimento della strategia israeliana.

Questo è lo scenario nel quale i militari italiani saranno coinvolti, partecipando alla forza multinazionale in Libano. Il problema è solo apparentemente quello di poter effettivamente disarmare Hezbollah. Il vero problema è disarmare Dick Cheney e i suoi piani di attacco all’Iran. Per il momento sembrerebbero aver avuto una battuta d’arresto. Ma solo una battuta.

Hezbollah si sente più forte, ha dato filo da torcere a Israele. Israele si sente più debole, per la prima volta è stato frustrato il mito dell’invincibilità del suo esercito.

Dovrebbe essere chiaro che la sconfitta dell’unilateralità Usa, provocata dal fallimento sostanziale dell’attacco al Libano è solo un episodio. Importante, ma solo un episodio. Allo stesso modo di come il ritrovato baricentro dell’Onu e del ritorno del protagonismo della politica Ue è un episodio.

E’ un episodio anche l’azione diplomatica del governo italiano. Un episodio importante, ma pur sempre un episodio. Contro il quale continuano a congiurare le forze dell’ex maggioranza di governo, e il codazzo degli impiegati della guerra di civiltà: dal “liberale” Panebianco, al capo del servizio d’ordine della Cdl, Giuliano Ferrara.

Perché questo episodio dia la possibilità che si apra una finestra, e poi una porta, e poi un ponte verso l’intesa, il dialogo, la cooperazione contro i guerrafondai di Washington bisognerebbe non delegare la politica estera alla Farnesina, neanche se guidata da D’Alema.

Bisognerebbe tornasse con forza nelle mani, nelle menti, nell’azione politica dei movimenti per la Pace l’idea-forza della fine della guerra al terrorismo, che non ha esportato democrazia ma proprio e solo terrorismo. E’ l’unica vera barriera contro il terrorismo jiahdista, pronto ad essere rinfocolato da ogni ulteriore atto di guerra, che spinge verso la timidezza l’opinione pubblica europea, facile preda delle politiche sulla sicurezza, che altro non sono che la continuazione della guerra con le misure “straordinarie” contro il terrorismo.

L’opinione pubblica italiana ha recentemente stabilito un record di indifferenza verso la guerra in Libano, molto poco rassicurante: siamo stati forse l’unico paese europeo a non inscenare neanche una manifestazione pubblica contro la guerra, neppure dopo il massacro dei bambini di Cana. Forse è solo un brutto episodio. Ma dobbiamo fare in modo che non si ripeta. Mai più.

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Gli jihadisti dell’occidente.

Ha indossato la mimetica, si è allaciato gli anfibi, a caracolla le giberne, si è messo l’elmetto. “Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l’Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell’undici settembre, con migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani, di un jhadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente. Chi se la sentirebbe in Europa di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.”

Angelo Panebianco postula questa macabra tesi sulla prima pagina del Corriere della Sera di domenica.

Per sostenere il ripugnante principio secondo la quale ci vuole un “compromesso tra lo stato di diritto e la sicurezza nazionale. “ Questo è non solo il provincialissimo vizio di scimmiottare le tesi dei neo-con americani, sport preferito, quello di scopiazzare tesi americane, praticato dal capo del servizio d’ordine dell’ex maggioranza, Giuliano Ferrara.

Questa è una pantomima della jihad all’occidentale, brutale, sconcia come quella islamica, che sgozza in diretta tv i rapiti, ma che si sente al di sopra e al di fuori di ogni convenzione. C’è del grottesco: Panebianco sa qualcosa che noi non sappiamo? Che dopo essere stata bruciata la copertura “giornalistica” dell’agente Betulla, Panebianco abbia preso il suo posto, magari con il soprannome di “Gramigna”?. C’è sentore di messa in scena, e allora bisogna correre ai ripari, prima che venga fuori qualche mezza verità, che mandi in vacca il tripudio di congratulazioni per la brillante operazione di Scotland Yard? Perché accenna a una “confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani, di un jhadista coinvolto nel complotto”. E’ questo quello che è successo?

Quando, ci dica quando la tortura ha prodotto la verità dei fatti, che non sia stata sempre e solo la verità che faceva comodo ai torturatori e ai loro mandanti. I torturatori fanno schifo, sono dei vigliacchi perché si ritengono al di sopra di ogni regola, anche quelle della guerra. Quelli che ne immaginano il valor militare, magari a futura memoria, sono dei reietti: usano le parole come gli elettrodi sul corpo martoriato del reo. Si auto proclamano, di volta in volta difensori della patria, della civiltà, dei valori democratici, (Panebianco riesce addirittura a richiamarsi ai valori liberali), ma usano le tesi di Torquemada: se resisti alla tortura sei posseduto dal demonio, se cedi vuol dire che la tortura ha sconfitto il demonio. Comunque colpevole, nemico da annientare.

“In questa casa si mangia pane e veleno”. “Quale pane, solo veleno”.(Miseria e nobiltà di Edoardo Scarpetta). Ogni riferimento a Panebianco e soci è assolutamente intenzionale, lui che nella miseria del veleno e dell’odio ci fa, qui ci sta proprio bene, la scarpetta.

La domanda è: da che parte sta Angelo Panebianco? Dalla parte dell’Italia che ha cercato in ambito europeo una ritrovata centralità dell’azione dell’Onu, come la Risoluzione 1701 sul Libano starebbe a dimostrare? O sta dalla parte dell’unilateralismo Usa, dei Bush, dei Cheney, dei Rumsfled? Panebianco si sbatte per la sicurezza nazionale del suo paese e dei cittadini della Ue o della supremazia diplomatico-militare degli Usa?

Perché è chiaro che quel “compromesso necessario” di cui parla è una tesi cara, ma forse ormai logora, all’amministrazione Bush e ha una precisa collocazione storico-geografica: si tratta di Guantamano Bay, dove anche il suicidio dei prigionieri, illegalmente detenuti, secondo la stessa giurisprudenza americana, viene considerata dai militari un crimine contro la sicurezza nazionale.

Quello sarebbe il modello di riferimento del compromesso tra stato di diritto e sicurezza? Se è così, altro che la vicenda di Abu Omar, se è così fa proprio Kaghan, e proprio per questo puzza di già visto, già detto, in via di definitivo fallimento.
Se avesse funzionato, perché invece di sconfiggere il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, dopo cinque anni di guerra ci troveremmo alle prese con “il fronte interno”, come lo chiama Ferrara, delle cellule terroristiche islamiche in Europa?

I fatti danno torto marcio a chi propugna lo scontro di civiltà, e alla conseguente necessità di sospendere le regole della civiltà del diritto. Ciò che ci rimane è la constatazione di una tristezza intellettuale che rasenta il ribrezzo.

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Al ristorante con gli amici.

Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, a margine di un incontro in un ristorante di Miami con i leader della comunità cubana in esilio ha detto:
“Vi assicuro che lavoreremo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per un piano che affronti alla radice le cause del problema, di modo che qualsiasi cosa ne esca sia duraturo e consenta ai libanesi e agli israeliani di restare in pace. Vogliamo che in quella regione vi sia una pace duratura, sostenibile.”

Non si sa se ha parlato con la bocca piena, si sa che anche questa volta ha evitato di esprimersi a favore di un immediato cessate-il-fuoco, nonostante le pressioni della comunità internazionale all’indomani della strage israeliana nella cittadina libanese di Cana.

Non si sa neanche se ha alzato il calice per brindare al petrolio, in rialzo in apertura a New York, a 73,6 dollari, +0,5%. Beh, buona giornata.

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Cana.

La nostra diplomazia è nei guai perché abbiamo avuto cinque anni di Governo Berlusconi. Che fece scappare subito il ministro degli esteri Ruggero. Che giocò alla grande diplomazia con l’interim di Berlusconi. Che nominò poi un certo Frattini. Che lasciò il posto a Fini, che aveva studiato geopolitica sulle istruzioni del Risiko.

La nostra diplomazia è nei guai perché si è schierata contro l’Europa, ha denigrato l’Onu, ha accettato di andare in Afghanistan con la Nato. Ha mandato in Iraq i nostri soldati con gli Usa. Abbiamo fatto lutti, abbiamo ricevuto lutti: la nostra è stata la diplomazia dei funerali di Stato.

Abbiano giocato alle prove tecniche degli attentati, mentre pagavamo i sequestratori dei cittadini rapiti in Iraq. Abbiamo accettato che si denigrasse la memoria Enzo Baldoni, abbiamo accettato la medaglia d’oro a Quattrocchi.

La diplomazia italiana è nei guai, perché si è inimicata i governi arabi. La nostra diplomazia è nei guai perché l’unico gesto diplomatico verso Israele è stata la keppah indossata una volta da Fini.

La nostra diplomazia è nei guai perché è stata la diplomazia del mio amico George, del mio amico Tony. Del mio amico Putin. La nostra diplomazia è nei guai perché i nostri servizi segreti hanno fatto talmente casino da non meritarsi il rispetto neanche della Cia.

Oggi paghiamo quei guai: piangere i bambini di Cana non serve a niente, finché rimarremo davanti alla tv. E’ lì che ci volevano Berlusconi, Blair e Bush. Perché siamo rimasti davanti alla tv? La nostra diplomazia è nei guai perché stiamo a guardare, invece di fare come i pacifisti israeliani, i giovani di Beirut, i ragazzi dei Territori occupati, le mamme contro la guerra negli Stati Uniti.

Asciugate le lacrime di commozione, spegnete la tv: dove sono finite le bandiere della pace che sventolavano dai nostri balconi? Portiamole in piazza. E portiamo anche i nostri bambini in piazza, diamogli un bel cartello colorato: sono un bambino di Cana, volete uccidere anche me?

La guerra non si sconfigge col telecomando. La nostra diplomazia è nei guai: l’unica soluzione siamo noi. Beh, buona giornata.

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Davide mi scrive.

A proposito di Feluche e Fanfaluche, Davive mi scrive:

La ninna-nanna de la guerra

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna :
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
Che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
Che se regge co¹ le zeppe,
co¹ le zeppe d¹un impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civiliŠ

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s¹ammazza
a vantaggio de la razzaŠ
o a vantaggio d¹una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.

Ché quer covo d¹assassini
che c¹insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe¹ li ladri de le Borse.

Fa¹ la ninna, cocco bello,
finché dura Œsto macello:
fa¹ la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So¹ cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l¹ombra d¹un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe¹ quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

Trilussa

Beh, buona giornata

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Feluche e fanfaluche.

In gran spolvero a Roma le cancellerie di mezzo mondo. D’Alema ha anche imparato (a leggere) quattro parole in inglese.

Tutti intorno a un tavolo, meno quelli che ci dovrebbero essere, perché sono troppo occupati a sparare sulle rispettive popolazioni civili. Bella la diplomazia nell’era dello scontro di civiltà.

Cessate il fuoco? Parliamone. Tregua immediata? Beh, aspetta un momento. Corridoio umanitario? Che fretta c’è.

Roma può essere fiera di aver ospitato un Summit diplomatico che ha deciso di fare pressione. Questo gli ha messi tutti d’accordo: i militari faranno pressione sui pulsanti delle bombe, i medici faranno pressione sulle ferite provocate dalle bombe, i profughi faranno pressione ai confini del paesi vicini, non ancora raggiunti dalle bombe.

Un risultato, però, è stato raggiunto, quello di capovolgere definitivamente il paradigma di Von Clausewitz: oggi la guerra è la continuazione della guerra, con mezzi sempre più potenti.
Beh, buona giornata.

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