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Berlusconi cala: Arcore, abbiamo un problema.

L’ANALISI
Le prime crepe dopo un anno di ANTONIO NOTO-la Repubblica.

AL PRIMO compleanno del Governo si registra un lieve calo di fiducia nel premier e nell’esecutivo nel suo complesso. Il decremento delle ultime settimane non sembra riguardare tanto il segmento di elettorato propriamente di centrodestra, quanto il bacino degli “eterodossi”: quella parte di italiani che, pur non avendo votato Berlusconi alle passate elezioni, nei mesi successivi aveva maturato una considerazione meno negativa – se non di aperto sostegno – dell’operato del governo.

La falla sembra in sostanza essersi aperta in quell’area di opinione che negli ultimi 12 mesi ha consentito al governo di raggiungere il record di consensi e al premier di guadagnare un gradimento che ha oltrepassato la soglia del suo elettorato effettivo.
A tutt’oggi, del resto, il livello di fiducia al premier supera il 50% e corrisponde all’incirca alla stima del quoziente elettorale che il centrodestra registra nei diversi sondaggi in circolazione. Una percentuale simile al livello di fiducia che lo stesso premier ebbe un anno fa, subito dopo il suo insediamento, nel nostro primo sondaggio relativo alla misurazione di questo indice.

Quali siano le ragioni della disaffezione di quest’area mobile di opinione può essere oggetto di riflessione. A fronte della sua minacciosa rilevanza pubblica, il caso Lario – quantomeno in questa prima fase – pare avere prodotto ripercussioni contenute. La tendenza, dunque, va probabilmente ricondotta a variabili più specificamente politiche.

La cronaca di questi giorni suggerisce che i giudizi degli italiani si siano focalizzati in prevalenza sul capitolo della sicurezza e, più in particolare, sul tema dell’immigrazione. A tale proposito, intervenendo sui provvedimenti di rimpatrio forzato dei clandestini diretti verso le coste italiane, il premier ha assunto un profilo molto netto, sostenendo la strategia del respingimento anche attraverso considerazioni politicamente impegnative sulle idee di società e di integrazione. E’ plausibile che al di fuori del bacino di riferimento del centrodestra la sortita non abbia prodotto effetti positivi.

Scorrendo la lista dei Ministri, le variazioni dell’indice di fiducia suggeriscono considerazioni analoghe: appare significativo che tra i personaggi in calo figurino tutti quelli coinvolti nella polemica sugli sbarchi: Frattini, Ronchi e, soprattutto, Maroni. La conseguenza è un vero e proprio “ribaltone”: dopo molti mesi il titolare degli interni perde il primato dei consensi nella squadra governativa, calando di 3 punti percentuali e favorendo così l’ascesa ai vertici di Alfano e Sacconi che, a pari merito, guidano oggi la graduatoria.

Quanto ai partiti, le indicazioni sono coerenti con il quadro sopra delineato. Sostanzialmente stabili le forze della maggioranza, in sensibile ascesa tutte le opposizioni: in particolare l’Italia dei Valori che, dopo il calo del mese scorso, torna ad attestarsi sui livelli di marzo. Bene anche il Pd el’Udc. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

Il Parlamento italiano approva la peggiore legge sulla sicurezza dalla nascita della Repubblica, cioè dalla fine del Fascismo. Il modo peggiore per prepararsi al rinnovo del Parlamento europeo.

(fonte: repubblica.it)
Passano alla Camera dei Deputati le nuove norme su immigrazione, mafia e sicurezza urbana

L'Aula della Camera ha confermato la fiducia al governo, approvando i tre maxiemendamenti al disegno di legge in materia di sicurezza.
Arrivano poi le 'ronde' e il reato di immigrazione clandestina, passibile di multe da cinque a diecimila euro, con obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali, e passa da 60 a 180 giorni il periodo in cui un immigrato potrà essere trattenuto nei centri di identificazione ed espulsione. Costerà 200 euro chiedere la cittadinanza e da 80 a 200 euro il permesso di soggiorno. Una pena fino a tre anni di carcere è prevista per chi affitti case o locali ai clandestini e per insulti a pubblico ufficiale. Vengono inoltre ripristinati i poteri del procuratore nazionale antimafia e inasprito il '41-bis' sulla detenzione dei boss mafiosi.

Le critiche della Cei. Secondo il direttore dell'Ufficio per la pastorale degli immigrati della Cei, padre Gianromano Gnesotto, "di fatto il grande tema che viene tenuto sotto silenzio di questo ddl è proprio l'importante tema dell'integrazione, dell'inserimento nella società per ottenere il quale - dice - sono prioritarie le strategie della tutela dell'unità familiare, dei ricongiungimenti familiari, dei minori tutelati".

"Il grande tema - insiste Gnesotto - che viene messo a lato da questo provvedimento è quello dell'integrazione perché il pacchetto sicurezza non parla di questo e non avrà gli effetti propri di una società che vuole essere integrata".

L'esponente della Cei ha anche espresso "forte preoccupazione" in particolare per le misure che farebbero emergere, secondo alcune interpretazioni, la possibilità di "bambini invisibili" per le difficoltà poste al riconoscimento dei figli nati in Italia da madri clandestine senza passaporto. "Non è vero come si dice - afferma padre Gnesotto - che c'è un permesso automatico dato alla madre clandestina in attesa del figlio e poi per i primi sei mesi dalla nascita perché questo va richiesto e quindi si possono trovare bambini che vengono registrati da parte dell'ostetrica o dei servizi sociali ma è una modalità prevista per chi non vuole riconoscere il proprio figlio o intende abbandonarlo che non è il caso delle donne immigrate". Secondo il sacerdote "tutto questo porterà conseguenze veramente difficili, ma già il fatto stesso che la madre del bambino si trovi nella condizione di non poterlo registrare pone un problema forte".

Il ministro Maroni è soddisfatto. Intervenendo a una cerimonia per l'intitolazione della sede del ministero del Lavoro a Marco Biagi, il titolare del Viminale ha auspicato che le nuove norme sulla sicurezza "vengano approvate definitivamente dal Senato entro la fine di maggio". Poi, a proposito del "giallo" sul destino dei bimbi nati da clandestini, ha smentito su tutta la linea: "E' una notizia destituita di ogni fondamento - ha detto - è un'altra panzana inventata da non so chi".

Il capogruppo dell'Idv Massimo Donadi ha dichiarato che "non c'è un briciolo di sicurezza in questo testo, solo demagogia. Si finanziano le ronde, che sono l'anticamera della polizia di partito, e si tolgono soldi alle forze di polizia". Per il Pd, Marco Minniti ha parlato di "un sonno mostruoso della ragione", e di "una fiducia posta contro la libertà della stessa maggioranza".

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Ai partiti italiani impegnati nella campagna elettorale dell’Europa gli importa un fico.

L’Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia/ di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Potremmo ancora continuare nell’elencare i punti di forza di questo grande protagonista del nuovo mondo globalizzato.

Eppure dobbiamo fermarci perché, in questo mondo, l’Europa non è attore ma, nonostante le cifre della sua economia, un semplice spettatore.

Le grandi decisioni internazionali ci vedono assenti o irrilevanti, anche quando si tratta di problemi che sono a noi vicini per geografia o per interessi, come è stato il caso del Kossovo. Per questo motivo, dopo infiniti dibattiti, è iniziato negli scorsi anni un processo di riforma delle istituzioni europee fondato sulla premessa fondamentale ed inconfutabile che l’Europa non può ottenere risultati ambiziosi se non passando attraverso riforme altrettanto ambiziose. Il processo è partito, ha dato vita ad una Costituzione, bocciata però dal referendum francese, e quindi al trattato di Lisbona, ora fermo a metà strada per il no dell’Irlanda.

Eppure il trattato di Lisbona contiene alcune ovvie indispensabili proposte innovative, come la fine di una ridicola rotazione semestale della presidenza dell’Unione, un inizio di coordinamento della politica estera, un presidente della Commissione eletto dal Parlamento e una pur minima riduzione delle decisioni da prendere all’unanimità.

Si tratta di passi in avanti concreti ma ancora insufficienti per giocare un ruolo da protagonista perché in tutti i numerosi campi in cui è prevista l’unanimità, la paralisi europea è destinata a durare. Eppure il voto irlandese ci impedisce di compiere anche questi piccoli passi in avanti.

Sarebbe tuttavia ingiusto addossare le colpe solo all’Irlanda: lo spirito europeo si è ovunque affievolito e perfino i tre grandi protagonisti della prima Europa, cioè Germania, Francia e Italia pensano più ai loro problemi interni che non ai grandi risultati che potrebbero ottenere lavorando insieme.

Naturalmente non si tratta solo di mettersi d’accordo sulle nuove regole di decisione, ma di convenire su alcune priorità senza le quali l’Europa non può funzionare, come la dotazione di risorse adeguate per affrontare le sfide comuni quali la sufficienza energetica, i cambiamenti climatici e le disparità fra Paesi e Continenti. Per vincere queste sfide la dimensione nazionale è del tutto inadeguata. Per rendersi conto di tutto questo non occorre essere raffinati politologi o economisti: basta dare un’occhiata ad un mappamondo. Eppure stiamo andando a votare senza che si sia ancora aperto un minimo di dibattito sul ruolo che vogliamo dare all’Europa nel mondo.

La preparazione elettorale è esclusivamente dedicata alla politica nazionale e all’influenza che i risultati delle urne avranno sui futuri equilibri politici interni. Continuiamo correttamente a ripetere che senza una politica continentale usciremo solo per ultimi dalla crisi economica ma, nello stesso tempo, non vogliamo dare alle istituzioni comunitarie la forza per prendere le necessarie decisioni.

Ogni giorno assistiamo a gridi di allarme per lo strapotere europeo e non vogliamo ammettere che il costo di tutte le politiche dell’Unione (compresa la politica agricola, gli aiuti alle regioni più povere e il costo della burocrazia) è inferiore all’uno per cento del Prodotto Lordo Europeo.

Invece di ragionare sui fatti e di discutere quanto e come si deve spendere e si deve decidere a livello europeo, si preferisce usare Bruxelles come caprio espiatorio per tutte le cose che non vanno nel nostro Paese. Queste contraddizioni non sono certo solo italiane: esse sono comuni a quasi tutti i Paesi europei. Questi Paesi, tuttavia hanno almeno l’astuzia di inviare al parlamento di Strasburgo persone che, per esperienza, padronanza linguistica e conoscenze specifiche, difendono con continuità ed efficacia i propri interessi. Un primo sguardo alle liste dei candidati ci dice invece che i nostri partiti si sono solo marginalmente posto questo problema.

Per cui, se l’elettore non sarà abilissimo nelle sue scelte, non saremo nemmeno in grado di difendere i nostri elementari interessi nazionali.

Abbiamo ancora quattro settimane di tempo per prepararci a scrivere la nostra preferenza nel modo che riterremo più adatto a raggiungere i nostri obiettivi. Mi permetto tuttavia di consigliare agli elettori, prima di recarsi in cabina, di dare ancora un’occhiata al mappamondo per vedere quanto siamo piccoli noi e quanto sono grandi gli altri. Un altro esercizio utile, che noiosamente ripeto in ogni occasione in cui parlo dell’Europa, è quello di ripensare per un attimo alla storia dell’Italia. Ai tempi del Rinascimento (cioè al tempo della prima globalizzazione) gli Stati italiani primeggiavano in ogni campo, dall’arte della guerra, alle scienze, dalla tecnologia all’architettura, dalla filosofia alla finanza. Non abbiamo avuto la capacità politica di metterci assieme e l’Italia è per sempre scomparsa dai grandi protagonisti della storia mondiale. Oggi per i singoli Paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna compresi) la situazione è del tutto identica. Rimanendo soli si esce dalla storia. Prima di andare a votare è quindi bene pensare anche a quello che succederà ai nostri figli. (Beh, buona giornata).

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Il paradosso tutto italiano delle elezioni europee: “viviamo europeo schivando il pensare europeo.”

L’Europa sparita
di BARBARA SPINELLI-La Stampa

Delle molte questioni su cui voteremo a giugno ce n’è una, continuamente citata, di cui non si parla praticamente mai: l’Europa e il suo Parlamento. Al massimo si dice che le urne non vanno disertate, che certi candidati sono incompetenti. Ma cosa significhi il voto che avverrà in 27 Paesi dell’Unione, cosa sia l’Europa in questo momento di crisi e mutazione: nulla se ne sa e quel che regna è silenzio o nascondimento, escamotage. L’italiano sa qualcosa sulle amministrative, qualcosa sul referendum, ma dell’Europa visto che non se ne parla non sa che idea farsene. Per il singolo resta una realtà un po’ astratta, che non gli appartiene veramente. Se l’affluenza sarà bassa sentiremo dire che l’Unione «è lontana dai cittadini», di nuovo.

Invece l’Europa ci è enormemente vicina, è la metà almeno della nostra esistenza. Già da decenni ha trasformato la nostra cittadinanza, che non è più una soltanto. Ogni italiano è al contempo cittadino europeo, e se ancora non pensa europeo già vive come tale.

Abbiamo una sola moneta, son cadute le frontiere interne all’Unione, e anche il diritto è comune in tante cose: più della metà delle decisioni che determinano la nostra vita quotidiana non sono prese nello spazio nazionale, ma in quello europeo.

Lo studioso Ulrich Beck scrive: «Nelle società etichettate come “nazionali” non c’è più un solo angolo libero dall’Europa» (Lo sguardo cosmopolita, Carocci 2005). Di fatto siamo già cittadini con varie identità, non per ideologia ma perché ci muoviamo in una doppia o tripla realtà (nazionale e cosmopolitica-europea).

Viviamo europeo schivando il pensare europeo, tuttavia. Di questa grande menzogna (che Beck chiama nazionalismo metodologico) sono responsabili le classi dirigenti di ogni Paese membro. La realtà che viviamo la eludono non solo i governi ma sindacati, imprenditori, intellettuali, giornalisti. Tutti costoro distinguono l’interesse nazionale dall’europeo, come se l’Europa non fosse, oggi, il luogo dove viene massimizzato sia l’interesse vero delle nazioni, sia quello del singolo cittadino che ha bisogno d’esser tutelato in ambedue le sfere pubbliche. Che in ambedue i casi ha bisogno di interlocutori forti, dunque di avere anche in Europa un governo funzionante: imputabile, censurabile come in patria. Le sfere pubbliche cui apparteniamo sono ormai multiple: comunali, nazionali, europee, mondiali. Si può ignorarlo – proprio in questi giorni il governo l’ha ignorato, respingendo 227 migranti in mare senza dar loro la possibilità (prescritta dalla Convenzione di Ginevra) di chiedere asilo, ma l’ignoranza è scusa debole e spesso pretestuosa.

La menzogna nazionalista non cade dal cielo: nasce accampando ragioni poco nobili che pretendono d’esser realistiche pur non essendolo affatto. Qui è l’escamotage, la realtà fatta sparire cambiando le carte in tavola: il trucco serve a fingere una sovranità nazionale assoluta, a nascondere il fatto che essa è parzialmente delegata ormai a una nuova res publica, parallela alla nazione. La menzogna sabota il pensare europeo ma non sventa la costante, cocciuta ribellione della realtà. I cittadini lo sanno: le situazioni cambiano a seconda dei Paesi, e gli Stati-nazione mantengono ampia egemonia legislativa in settori chiave. Ma gran parte della legislazione nazionale è oggi di origine europea (consumatori, ambiente, mercato interno ecc).

L’Europa non è un organo internazionale che alcuni utopisticamente vorrebbero federale, dotato di costituzione. I più grandi studiosi sostengono che è un’istituzione da tempo costituzionalizzata, visto che soggetti del suo ordinamento non sono solo gli Stati (come nei trattati inter-nazionali) ma anche i cittadini. E i cittadini lo sono molto concretamente: a partire dai primi Anni 60, il diritto europeo ha il primato sulla legislazione nazionale e si applica immediatamente. L’Unione è incompiuta, non ha gli attributi basilari del costituzionalismo, ma questo non le vieta d’essere fin d’ora costituzionalizzata, sostiene il giurista Joseph Weiler (La Costituzione dell’Europa, Mulino 2003).

Certo l’Unione è gracile, spesso afona: abbarbicati al diritto di veto, gli Stati le impediscono di governare. Certo il suo Parlamento dovrebbe avere più poteri, nonostante ne abbia già parecchi (l’accettazione o rifiuto della Commissione, ad esempio). Alcuni dubitano che sappia fronteggiare l’odierna crisi economica, il che è giusto, e aggiungono che le regole di Maastricht son datate, intralciando un rilancio simile a quello di Obama perché troppo severe sui deficit pubblici. Quest’ultima critica non tiene conto d’un fatto: se l’America avesse rispettato regole come le nostre, vigilando sull’indebitamento eccessivo pur di salvaguardare lo Stato sociale, una catastrofe così vasta non l’avrebbe conosciuta.

L’europeizzazione del nostro quotidiano è un’evidenza, che intacca profondamente gli Stati-nazione e le loro sovranità presunte. Ma anche la menzogna intacca, la crisi ne ha dato la prova: limitandosi al coordinamento, i ministri dell’Unione hanno evitato azioni comuni che avrebbero salvaguardato assai meglio gli interessi nazionali e delle persone. Non hanno pensato europeo. Il coordinamento è fra Stati, non è un agire comune, e quel che Jean Monnet disse nel ‘40 vale tuttora: «Il coordinamento è un metodo che favorisce la discussione, ma non sfocia in decisione. È espressione del potere nazionale, non creerà mai l’unità». La menzogna nazionalista delle élite è questa, secondo Beck: «Esse deplorano la burocrazia europea senza volto, ovvero il congedo dalla democrazia, e quindi partono dall’assunto totalmente irreale secondo cui ci sarebbe un ritorno all’idillio nazional-statale». Un ritorno irrealistico, anche se travestito da Realpolitik. Prendiamo Andrea Ronchi, ministro delle politiche europee: ogni volta che parla, è per dire che «ci sono eurocrati» rovinosi per l’Europa. È falso: rovinosi sono gli Stati-nazione. Numerosissime decisioni eurocratiche lamentate dai governi son prese da loro stessi, nei Consigli dei ministri. Ronchi non dice il vero, con l’aggravante che forse neppure lo sa. L’immaginario nazionale resta ficcato nelle menti perfino quando la realtà lo smentisce: «Diventa uno spettro sentimentale, un’abitudine retorica in cui gli impauriti e i confusi cercano un rifugio e un futuro» (Lo sguardo cosmopolita, p. 225).

La svolta non può che venire dal cittadino, se comincia a ragionare cosmopoliticamente. Se vota partiti e uomini che vogliono più Unione, non meno. Il disastro climatico è tema essenziale in Italia, perché ha confermato quanto la destra sia allergica all’Europa. Lo dimostra la mozione sul clima che il Senato ha approvato il 18 marzo, criticata da Marzio Galeotto sul sito La Voce e da Mario Tozzi su La Stampa. Una mozione che il ministro Prestigiacomo definisce legittima anche se non vincolante, ma che pur sempre chiede al governo di non accettare gli ideologici piani dell’Unione (emissioni gas serra ridotte del 20 per cento, utilizzazione di energie alternative pari al 20 per cento del fabbisogno, riduzione del 20 per cento della richiesta di energia entro il 2020).

Oggi il pensare europeo è debole ovunque, soprattutto a destra ma anche a sinistra. Non stupisce, perché il salto è impervio. Si tratta nientemeno di consentire a una seconda conquista della laicità, nella storia d’Europa. Prima venne la separazione della politica dalla religione. Adesso s’impone l’atto laico numero 2: la separazione fra Stato e nazione. Senza demolire lo Stato, ma facendo combaciare la nazione con le sue sfere pubbliche molteplici. Sarà un atto non meno decisivo della caduta del Muro, e anche qui varrà quel che Gorbaciov disse al cieco regime comunista tedesco, nell’ottobre ‘89: «Chi arriva in ritardo, la vita lo punirà». (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Salute e benessere Società e costume

L’ombra del Cupolone sul Campidoglio: la giunta Alemanno e il fondamentalismo cattolico.

Suscita polemiche l’Agenzia Comunale per le adozioni e l’affidamento, favorevole il XX Municipio.
Posizioni contrastanti soprattutto sui toni e le affermazioni del testo introduttivo al decreto comunale.
di Alessandra Loffredi-Zona.

Nei primi giorni di aprile il Consiglio del XX Municipio, non senza contrasti, esprimeva parere favorevole nei confronti della delibera comunale per l’istituzione di un’ Agenzia delle Adozioni e dell’Affidamento. Promossa dal Consigliere Capitolino Bianconi, la proposta del Consiglio Comunale ha scatenato discussioni in tutti i Municipi interessati, non tanto riguardo ai contenuti dei suoi quattro punti, quanto piuttosto alla forma e alle affermazioni contenute nella premessa che la supportava.

“Sebbene mi renda conto che le premesse contenute nel decreto possano non essere condivisibili – è opinione di Clarissa Casasanta, Consigliere del nostro Municipio – non dobbiamo permettere che spostino la nostra attenzione da quei possibili interventi, che si renderebbero così attivi sul dispositivo risolutivo, comunque a favore di una fascia debole e fortemente svantaggiata”. Molto diversa la posizione di Elisa Paris, vicepresidente della Commissione Pari Opportunità, che non dissente sulla promozione della riforma dei Consultori e il potenziamento dei Servizi Sociali del Municipio, ma che ritiene la formulazione del decreto un evidente “attacco alla legge 194” poiché “quanto contenuto nella prima parte risulta sconnesso dal deliberativo finale, apparendo più un’affermazione fortemente ideologica che un testo istituzionale”.

Che sia il fine a giustificare i mezzi, o siano piuttosto i mezzi a mascherare un diverso fine, il decreto richiede un’accurata lettura (http://femminismo-a-sud.noblogs.org/gallery/77/Delibera%20sulla%20194.pdf). Nella sua apparente sostanza, presenterebbe interventi effettivamente non innovativi, ma che piuttosto fornirebbero un ulteriore supporto ad aiuti già previsti. “Istituire un’Agenzia Comunale per le adozioni e l’affidamento, affinché la donna non si ritrovi sola nella scelta della vita, il cui compito sia quello di favorire adozioni, con procedura riservata ed urgente, per quei bambini che sono sottratti ad una decisione abortiva di qualunque tipo” recita il primo punto del decreto.

Ebbene, la Legge consente già alle donne, che pur intendendo rinunciare al bambino decidono comunque di portare a termine la loro gravidanza, di partorire assistite in ospedale, nel più assoluto anonimato, non riconoscendo poi il piccolo, che diventa evidentemente presto adottabile. Inoltre, la legge 194 prevede la possibilità di una collaborazione mediante apposite convenzioni dei Consultori familiari con le associazioni di volontariato che hanno lo scopo di assistere le maternità in difficoltà sia prima che dopo la nascita.

“Istituire un fondo per il sostegno economico di giovani ragazze madri appartenenti a qualsiasi nazionalità, finalizzato alla prima accoglienza e all’educazione primaria dei bambini, attraverso l’erogazione di somme in denaro per i primi trentasei mesi di vita” prosegue il decreto. Nel secondo punto, fa sue e amplia forme di sostegno economico già proposte da associazioni di aiuto alla vita come il CAV (collegato con il Movimento italiano per la vita), che con il suo “Progetto Gemma” prevede l’erogazione di una somma minima di 160 euro per 18 mesi tramite il CAV locale (che, ovviamente, vi aggiunge tutti gli aiuti necessari al singolo caso, nei limiti delle sue possibilità). Resta comunque evidente che un miglior sostegno alla maternità, più che contributi parziali, richiederebbe lo stanziamento di fondi per la tutela del lavoro e dei diritti delle donne. “Promuovere, in accordo con lo spirito della legge 194, la riforma dei Consultori, rafforzandone il ruolo sociale di prevenzione all’aborto e di sostegno alle famiglie, previa idonea formazione del personale pubblico”. Ecco che nel suo terzo punto il decreto si presta a diverse interpretazioni. Con la legge 405/1975 si istituivano i consultori e con una successiva modifica del 1996 si prevedeva la presenza di un consultorio familiare ogni 20mila abitanti. Ai consultori veniva riconosciuto un compito fondamentale: trasmettere alle donne la competenza e la conoscenza necessarie per essere in grado di vigilare sulla propria salute riproduttiva, dall’adolescenza alla menopausa. Occupandosi di supportare una maternità responsabile e dunque comprendendo anche le interruzioni di gravidanza, che la legge 194 aveva sottratto alla clandestinità (con una media di 350mila aborti clandestini all’anno).

Grazie ad un approccio multidisciplinare si sosteneva nella donna la sua capacità di autodeterminazione. Questo quanto previsto dalla legge, ma non sempre praticato con efficacia. Bene quindi rafforzare “il ruolo sociale” dei Consultori, ma perché limitarne l’energia alla sola “prevenzione all’aborto”? Stando ai fatti, una diffusa e praticata conoscenza dei metodi anticoncezionali rappresenta la migliore barriera per limitare i casi di aborto (ricordiamo che a ricorrevi sono moltissime minorenni). Questa “idonea formazione del personale pubblico”è forse intesa in tal senso? O piuttosto l’opera di “sostegno alle famiglie” si limiterebbe a quei casi dove si rinunci a praticare un’interruzione di gravidanza? Infine, il quarto punto del decreto, indica di “potenziare, attraverso i Servizi Sociali dei Municipi il sostegno, sia in termini economici che di assistenza alle famiglie, dei malati gravi e dei portatori di handicap più bisognosi”, passando dai temi inerenti l’interruzione di gravidanza ad altro. O forse no? Questo, stando al testo effettivo del decreto, come si vede, piuttosto sintetico. Ampia e ricca di citazioni (persino ingiustificate, dal Papa a Giuliano Ferrara, passando per Pasolini e Norberto Bobbio, non includendo però alcuna donna… ) la polemica introduzione alla proposta del consigliere Bianconi, come se allo stesso premesse maggiormente più che l’affermazione del diritto sociale alla maternità, l’affermazione della propria personale posizione in merito.

“L’aborto farmacologico e chirurgico è diventato il metodo anticoncezionale più diffuso” afferma Bianconi, ma sulla base di quali dati? E sulla base di quali ricerche può sostenere con tanta determinazione che partorire un figlio per poi immediatamente privarsene possa per una donna essere meno lacerante di un tempestivo aborto? Parlando di “cultura mortifera” Bianconi indica donne “obbligate o incentivate ad abortire”, di “certezze ed evidenze della mente e del cuore censurate come espressioni di oscurantismo illiberale dalla comunità della tecno scienza (!?), dai guru in camice bianco” ignorando così, paradossalmente, il diritto all’autodeterminazione, dimenticando il riconoscimento del diritto alla maternità, omettendo i progressi della scienza medica nel campo della procreazione, non riconoscendo gli obiettori di coscienza. Perché mai confondere un progetto di sostegno comunque condivisibile con tante affannate parole?

Era prevedibile che una simile premessa scatenasse contrasti. Solo su un punto,potrebbe esserci una ricomposizione delle polemiche con Bianconi. “Con l’aborto non si è giunti ad una reale emancipazione della donna” sostiene Bianconi. Sì, è vero, non si è ancora giunti ad una reale emancipazione della donna, comunque penalizzata, discriminata, spesso svalutata, nel lavoro come nella maternità. E non saranno atteggiamenti personali estremizzati a facilitare la prosecuzione del suo percorso, ma un reale e tangibile sostegno ai suoi diritti sociali, da qualsiasi angolazione si guardi il problema. Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto

Il suicidio di una rifugiata tunisina:”i Cie sono sempre più centri di reclusione mascherata che, con la possibilita’ di protrarre la permanenza degli immigrati fino a 180 giorni, oggi sono molto peggiori delle carceri”

Roma, 21:40-AGI

IMMIGRATI: TUNISINA SI SUICIDA NEL CIE DI PONTE GALERIA
Una cittadina tunisina di 49 anni, ospite del Cie di Ponte Galeria dallo scorso 24 aprile, si’ e’ suicidata nelle prime ore di questa mattina. “Purtroppo alle ore 06.45 il medico della Cri in servizio presso il Centro, chiamato d’urgenza dalle nostre operatrici, non ha potuto far altro che constatarne la morte”, afferma Claudio Iocchi, direttore del Comitato provinciale di Roma della Croce Rossa Italiana. “Il vero problema e’ che i Cie come quello di Ponte Galeria – ha aggiunto il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni – sono sempre meno centri di accoglienza e sempre piu’ centri di reclusione mascherata che, con la possibilita’ di protrarre la permanenza degli immigrati fino a 180 giorni, oggi sono molto peggiori delle carceri”.(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Tutto pur di distogliere gli elettori dalla gravità della crisi economica. Anche “Carrozze metrò solo per milanesi”.

fonte: repubblica.it

Una volta c’erano i posti riservati alle donne, agli anziani o agli invalidi. Ora il deputato della Lega Matteo Salvini propone le carrozze del metrò “per soli milanesi”. Il capogruppo del Carroccio nel comune di Milano sceglie piazza della Scala e la presentazione dei candidati milanesi della Lega per lanciare la sua provocazione. Lo dice da leghista convinto e “da milanese che prende il tram”.

Le critiche non sono tardate ad arrivare da entrambi gli schieramenti. Il primo a sollevarle è stato un politico della stessa coalizione di Salvini, Aldo Brandirali del Pdl: “L’unico modo per applicare la proposta del deputato è mettere stelle sul petto, di diversi colori, a seconda della razza”. Gli ha fatto eco il capogruppo del Pd a palazzo Marino Pierfrancesco Majorino, imperativo contro il collega: “E’ una proposta da Ku Klux Klan. Che il sindaco butti fuori la Lega dalla giunta”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Correva l’anno 2009: l’Italia di oggi in cifre non è un bello spettacolo.

(da www.unaltraeuropa.eu)

975.000 famiglie (2.427.000 persone) in Italia sono in condizioni di povertà assoluta (minimo 910 euro, massimo 1248 euro a disposizione con almeno tre componenti).

Tra i 230 e i 250 miliardi di euro si valuta l’ammontare dell’evasione fiscale pari ad 1/3 del Pil italiano, per un ammontare equivalente a 10 finanziarie.

L’Italia ha la spesa sociale tra le più basse d`Europa (25,5% del Pil contro la media europea del 26,7%).

I lavoratori e le lavoratrici italiane vengono retribuiti il 20% in meno rispetto alla media europea.

Il 10% delle famiglie più ricche in Italia detiene il 50% della ricchezza nazionale.

1.500.000 i disoccupati in Italia nel 2008.

Sono almeno 400.000 i lavoratori che in Italia solo dall’inizio del 2009 hanno perso il lavoro.

2,5 milioni i disoccupati previsti entro il 2010.

2.467 euro in Italia la perdita del potere d`acquisto delle retribuzioni dei lavoratori tra il 2002 e il 2008.

Circa 1300 omicidi bianchi (morti sul lavoro) ogni anno.

Zero gli imprenditori in carcere per essersi resi responsabili direttamente o indirettamente di incidenti sul lavoro.

Solo il 46% dielle donne in Italia riesce ad avere un impiego (siamo all’ultimo posto in Europa).

6 milioni 743 mila le donne da 16 a 70 anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita.

5 milioni di donne vittime di violenza sessuale (23,7%). Il 69,7% degli stupri è opera di partner, il 17,4% di un conoscente. Solo il 6,2% è stato opera di estranei.

Appena il 7,5% delle donne denuncia la violenza che subisce dentro le mura di casa.

6.5 miliardi di dollari è il patrimonio familiare della famiglia Berlusconi (stima per il 2009).

Circa 35 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti in Italia ogni anno.

Solo 700 mila tonnellate destinate al riciclo.

Quasi il 30% delle emissioni di Co2 (il maggior responsabile dell’effetto serra) viene prodotto in Europa dal trasporto su strada.

500 milioni di tonnellate circa di Co2 prodotti solo dall’Italia.

Solo l`1,65% delle merci è trasportato su rotaia in Italia.

37% delle famiglie italiane sono raggiunte dalla banda larga.

11 milioni di famiglie in Italia non hanno un pc.

Nella Comunità Europea i cittadini di età compresa tra i 25 e i 34 anni laureati rappresentano il 30%. In Italia la media scende al 19%. Per la fascia di età compresa tra i 35 e i 44 anni scende ulteriormente al 14%, mentre per quella dai 45 ai 64 anni scende al 10%.

Il 21% dei giovani in Italia tra i 18 e i 24 anni aveva solo un diploma di scuola inferiore (2006).

150 i titoli che in Italia vengono pubblicati ogni giorno.

Sono 24 milioni gli italiani che hanno letto almeno un libro in tutto il 2007 (44% della popolazione).
Le donne leggono più degli uomini: quasi il 50% contro il 37% degli uomini.

Sono 940.000 in Italia gli alloggi rimanenti di quella che era l’edilizia pubblica (ex IACP). Di questi solo 768.000 in locazione. In Francia gli alloggi pubblici sono 3,9 milioni. In Inghilterra tra gestioni comunali Housin Associations sono 4,9 milioni.

Più di 500.000 mila le coppie di fatto in Italia.

Meno di 100 in Italia i comuni che hanno istituito un registro delle unioni civili.

Solo il 14% delle domande agli asili nidi comunali vengono accettate nelle grandi città.

La spesa statale per l’istruzione è di 52 miliardi di euro pari al 4,7 del Pil nazionale. La media OCSE di spesa per l’istruzione è di 5,4%.

L`1,6% della spesa pubblica totale italiana viene destinata all’istruzione universitaria a fronte di una media europea del 2,8% e di una media Ocse del 3%,

8.026 dollari è quanto lo Stato italiano spende per ogni studente universitario, a fronte di una media Ocse pari a 11.512 dollari.

1,1% del Pil in Italia viene destinato alla ricerca e sviluppo a fronte di una media europea del 2% e una media Ocse del 2,5%.

Sono almeno 535 milioni di euro i finanziamenti che lo Stato italiano destina alle scuole private

4.732 milioni di Euro i costi stimati ufficialmente per la costruzione del Ponte sullo stretto di Messina.

8 miliardi di euro sono andati in aiuti alle banche con il Tremonti bond.

Zero sono stati i direttori delle banche rimossi per aver speculato nei subprime.

Sono 4.520 euro di media la pensione sociale pagate in Italia per 775.501 italiani. Circa 376,6 euro al mese.

10 mila pensioni all’anno per più di 50 mila euro di media ognuna eroga l`INPS per i dirgenti d`azienda.

3,5 miliardi di euro il passivo del fondo per le pensioni dei dirigenti d’azienda che è stato messo a bilancio dell’INPS.

10 mila euro annui di pensione è la media percepita dai lavoratori dipendenti.

Il 53% delle donne in Italia percepiscono una pensione.

Il 56% delle erogazioni pensionistiche vengono percepite da uomini.

Tra il 20% e il 30% è quanto prendono in meno di stipendio le donne rispetto gli uomini svolgendo le stesse mansioni lavotrative. (Beh, buona giornata).

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democrazia

L’uomo politico più popolare in Italia è il Capo dello Stato.

Per 4 italiani su 10 la Carta è «data». Poco meno del 90% dà un giudizio positivo sull’operato del capo dello Stato, di Renato Mannheimer da corriere.it

Malgrado i suoi poteri siano relativamente circoscritti, il ruolo politico esercitato dal presidente della Repubblica si è andato progressivamente accrescendo negli ultimi mesi, sino a divenire in certi casi una sorta di «contraltare» istituzionale nei confronti del presidente del Consiglio.

Anche a seguito di queste iniziative, Napolitano ha riscosso una sempre maggiore approvazione da parte degli italiani. Oggi, poco meno del 90% dichiara di valutare positivamente il suo operato. Con una comprensibile maggiore enfasi tra gli elettori del centrosinistra (96% di giudizi positivi), ma coinvolgendo comunque anche l’ampia maggioranza dei votanti per il centrodestra (85% di consensi). Ciò dipende principalmente dal fatto che, per la maggioranza assoluta (70%), compreso il segmento che vota per il centrodestra (60%), l’azione di Napolitano è considerata comunque «al di sopra delle parti».

Quasi un terzo degli italiani ritiene che Napolitano «dovrebbe intervenire di più» nelle questioni politiche nazionali: la maggioranza (61%) è comunque del parere che intervenga «nella giusta misura». Ci si aspetta soprattutto che Napolitano continui — e talvolta accentui — la sua opera «in difesa della Costituzione». Ma qual è il giudizio dei cittadini sulla nostra Carta fondamentale? Poco più di metà della popolazione la considera ancora attuale nella sua interezza, mentre quasi il 40% la reputa «ormai datata».

In questo caso, acquista rilievo l’orientamento politico: la maggioranza (56%) dell’elettorato di centrodestra reputa infatti in qualche misura obsoleta la Costituzione e ne auspica una riforma. Al riguardo, una delle questioni principali concerne la capacità della Costituzione nella sua forma attuale di garantire la governabilità. Come si sa, nel suo discorso di Torino, Napolitano ha sottolineato la necessità di non sacrificare in nome di quest’ultima la divisione dei poteri e la tutela delle minoranze politiche. Due italiani su tre — con una significativa accentuazione tra i più giovani—concordano con queste sue affermazioni. E il 75% aggiunge che «la Costituzione va comunque sempre rispettata, perché altrimenti si rischia di sminuire il suo ruolo fondamentale di controllo».

Ancora una volta, questa opinione è più diffusa nell’elettorato di centrosinistra (86%), ma riscuote il consenso anche della maggioranza assoluta dei votanti per il centrodestra (66%). Insomma, al di là degli orientamenti politici di ciascuno, l’istituzione della presidenza della Repubblica rimane un fondamentale punto di riferimento. Molti sottolineano l’urgenza di riformare la Costituzione e, d’altra parte, lo stesso Napolitano ha affermato, sempre a Torino, che è del tutto legittimo modificarla, se vi sono motivazioni trasparenti e convincenti (l’86% dei cittadini concorda con questo orientamento). Ma, al tempo stesso, la grande maggioranza degli elettori sottolinea la necessità di mantenere adeguati meccanismi di pesi e contrappesi per la gestione corretta del potere politico. (Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche Società e costume

«Ma smettetela di parlare di Berlusconi; con tutti i problemi che affliggono l’Italia, le sue gag e le sue gaffes sono cose di nessuna importanza».

Berlusconi/ Silvio & Veronica e l’opposizione di Sua Maestà -blitzquotidiano.it
Che l’Italia sia ormai una repubblica monarchica e che re Silvio I sia già informalmente insediato lo dimostra la vicenda delle veline che il premier voleva mettere in lista. Una cosa che nemmeno il defunto dittatore del Turkmenistan, Saparmyrat Nyýazow, avrebbe mai osato. Segno che il potere e il successo ormai rischiano di ottenebrare, almeno di tanto in tanto, la fertile e geniale mente di uno dei più abili e capaci imprenditori e politici della storia d’Italia.

Ne è derivata una sceneggiata napoletana, con la sinistra che strillava e la signora Veronica (ex attrice a sua volta; «più fortunata delle altre», come una velina del presente le ha fatto notare) che richiamava il marito all’ordine. Infine l’urlo di trionfo dell’opposizione, quando Berlusconi ha dato il contrordine compagni, in un diktat da Varsavia (sempre dall’estero arrivano i diktat: ma se deve occuparsi delle cose italiane anche quando è in viaggio, perché si sposta?). Tutto ciò costituisce un indice di quanto in Italia si sia persa la bussola.

Ha scritto un lettore di Blitzquotidiano: «Ma smettetela di parlare di Berlusconi; con tutti i problemi che affliggono l’Italia, le sue gag e le sue gaffes sono cose di nessuna importanza». E ha pienamente ragione. Purtroppo però gag e gaffes sono sintomi di un malessere più grave e profondo.

La storia delle veline dimostra che la legge elettorale è una legge che rafforza la partitocrazia, cioè il super potere dei partiti. Sull’onda di quel movimento politico di massa che ai primi anni novanta portò alla fine della Dc e del Psi per darci il regime di Berlusconi, si era parlato di apertura dei partiti alla società civile, di avvicinamento dei parlamentari agli elettori e sul tema c’erano stati anche referendum e leggi. Poi, con un colpo di mano, Berlusconi ha fatto la sua legge elettorale, che andava benissimo anche alla sinistra orfana del centralismo democratico, in base alla quale chiunque andava bene, anche il cavallo di Caligola.

Nessuno però se ne preoccupa. Gli unici che, in qualche modo, puntano a un avvicinamento della politica agli elettori sono quelli della Lega, che ottengono la vittoria nell’imporre il federalismo fiscale, ma se si accontentano di questo rischiano una vittoria monca.

E intanto Berlusconi dice di voler mettere le veline in lista. Vede l’aria che tira, capisce che non gli conviene, fa marcia indietro. Non è escluso che la sua intelligenza abbia previsto tutto e che magari il caos sulle veline gli sia servito per far passare sotto silenzio qualche altro più importante problema: un po’ come il calciatore che, dovendo battere il rigore, fa la finta per mandare il portiere dall’altra parte.

Il silenzio della destra sulla vicenda nasconde non l’imbarazzo, ma il totale asservimento dello schieramento al volere del Capo.

E il caos sollevato dalla sinistra dimostra che l’opposizione c’è e lotta per lui: è l’opposizione di sua maestà. Infatti, con i suoi strepiti e urla, cosa ha ottenuto l’opposizione? Una bella vittoria di carta. I giornali esultano, e poi?

A Berlusconi è stata risparmiata una ciclopica sciocchezza, che avrebbe costituito un piccolo, forse, ma significativo argomento in campagna elettorale. Invece è stata tolta una castagna dal fuoco alle tante persone benpensanti della destra, è stato fatto capire al Cavaliere che se avesse insistito la storia gli si sarebbe ritorta contro. E ora potrà felicemente inserire delle persone più presentabili, con tante grazie all’opposizione. Di sua maestà, re Silvio I. (Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche

L’Italia s’è berlusconizzata.

Berlusconi & The Economist/ Di nuovo sotto tiro:”Ha Berlusconizzato l’Italia e resterà al potere indefinitamente” dablitzquotidiano.it

Il settimanale The Economist torna all’attacco del presidente del consiglio Silvio Berlusconi con un lungo articolo intitolato ”La Berlusconizzazione dell’Italia”. L’articolo è corredato da una caricatura di Berlusconi raffigurato come un giocatore del Milan con lo stivale italiano al posto della gamba destra.

”La maggior parte degli italiani sembra perdonargli, o per lo meno non andare oltre, le sue innumerevoli gaffe, sia quelle fatte nel corso di talk show televisivi, sia quelle consumate nel corso di summit internazionali”.

Il settimanale britannico quindi non molla e torna alla carica contro il premier italiano a poche settimane dalla vittoria legale nella causa per la copertina intitolata “Perché Berlusconi non è adatto a governare l’Italia”, che – nel 2001 – aveva spinto Berlusconi a presentare un ricorso per diffamazione presso il Tribunale di Milano.

Questa volta The Economist tenta di spiegare come Silvio Berlusconi avrebbe ulteriormente consolidato il suo potere personale.

“The Economist” esamina il paradosso di un primo ministro che rimane ‘’significativamente più popolare della maggior parte degli altri leader europei, anche quando il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil italiano crollerà quest’anno del 4,4%, mostrando un calo maggiore di quello di Gran Bretagna, Francia o Spagna”.

E la spiegazione fornita dal settimanale britannico fa leva su argomenti di ordine demografico, puntando sulla constatazione che ”ogni italiano sotto l’età dei trent’anni ha raggiunto la maturità politica sotto l’influenza dell’impero mediatico della famiglia Berlusconi”.

”Quindici anni fa – osserva l’Economist – un ‘azzurro’ rappresentava l’Italia nelle competizioni sportive internazionali e un ‘moderato’ era un centrista”. ”Oggi – continua il settimanale – un azzurro è qualcuno che rappresenta Berlusconi in Parlamento, un moderato o qualcuno che vota per lui”.

The Economist rileva poi la forza dell’impatto della ”berlusconizzazione” sull’Italia: ”un impatto tale da infondere nella maggior parte della società italiana la convinzione che l’attuale primo ministro resterà al potere indefinitamente”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Economist

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democrazia

E vissero tutti “liberi e belli”.

di Lidia Ravera – da lidiaravera.it

Nessuno ha il copyright sulla parola “Libertà”. E’ una parola forte, corteggiata da ogni pubblicitario. Si può esseri liberi dalla forfora o dal fascismo, si può conquistare un certo tipo di “libertà” grazie ai tampax e un altro grazie al sacrificio di chi senza libertà non vuole vivere.

Nel grande circo delle merci, da sempre, volano parole grandi. Si offrono slogan, si organizza il gradimento dei possibili consumatori, si cerca di farsi preferire. In queste tecniche Silvio Berlusconi è un vero maestro, per questo il suo partito è così ben piazzato.

Nessuno, come lui, sa vendere la sua merce. E, in questi giorni, ne ha dato una serie di prove stupefacenti: ha saputo sfruttare con metodo il grande palcoscenico del terremoto. Era lì, e poi di nuovo lì e poi di nuovo lì. Alle esequie si staccava dalla nomenclatura per stringersi alle vedove e agli orfani. Bravo: è così che si fa, si fa finta di fondersi con il popolo per distinguersi dalla banale posizione di “rappresentanza” di tutti gli altri politici. Non contento, spostava il G8 dall’isola de La Maddalena al martoriato Abruzzo, sostituendo, come fossero fondali di teatro, l’azzurro smagliante del mare della Sardegna con il grigio- polvere di una dolorosa distesa di detriti. Il mondo guarderà quello scenario. E chi avrebbe voluto approfittare dello sguardo del mondo per contestare o inchiodare alle proprie responsabilità i potenti, non potrà farlo.

Non si porta disordine fra i morti, conflitto fra i senza tetto, angoscia fra gli sfollati. Perciò: niente opposizione. E’ questa l’idea di pace del venditore più furbo del mondo. Il 25 aprile ricorda “la libertà”, non la liberazione. Non ricordiamo la lotta fra chi appoggiava il nazifascismo e chi lo combatteva, questa vecchia storia antipatica, ma la festa del giorno dopo. Tutti “liberi e belli”, basta usare un certo tipo di shampoo. Fa miracoli. (Beh, buona giornata).

TRATTO DA: lidiaravera.it

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Freedom House: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale».

Rapporto di Freedom House, organizzazione non-profit e indipendente-da Freedomhouse.org
Libertà di stampa: l’Italia fa un passo indietro, unica nazione in Europa di Alessandra Farkas-corriere.it

La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati. L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale». La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati». Lo afferma in un rapporto Freedom House, un’organizzazione non-profit e indipendente fondata negli Stati Uniti nel 1941 per la difesa della democrazia e la libertà nel mondo, la cui prima presidente fu la first lady Eleanor Roosevelt. Lo studio viene presentato venerdì al News Museum di Washington e sarà accompagnato da un live web cast che si potrà scaricare sul sito Freedomhouse.org.

CLASSIFICA – Nell’annuale classifica di Freedom House, l’Italia va indietro come i gamberi, insieme a Israele, Taiwan e Hong Kong. «Un declino che dimostra come anche democrazie consolidate e con media tradizionalmente aperti non sono immuni da restrizioni alla libertà», ha commentato Arch Puddington, direttore di ricerca per Freedom House. Su un punteggio che va da 0 (i Paesi più liberi) a 100 (i meno liberi), l’Italia ottiene 32 voti: unico Paese occidentale con una pagella così bassa. I «migliori della classe» restano le nazioni del Nord Europa e scandinave: Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca e Svezia (prime cinque a livello mondiale). Le «peggiori»: Corea del nord, Turkmenistan, Birmania, Libia, Eritrea e Cuba.

PROBLEMA ITALIA – Il «problema principale dell’Italia», secondo Karin Karlekar, la ricercatrice che ha guidato lo studio, è Berlusconi. «Il suo ritorno nel 2008 al posto di premier ha risvegliato i timori sulla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida», spiega. Altri fattori: l’abuso di denunce per diffamazione contro i giornalisti e l’escalation di intimidazioni fisiche da parte del crimine organizzato. Intanto giovedì il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione non-profit che lavora per salvaguardare la libertà di stampa nel mondo, ha pubblicato la top ten dei peggiori Paesi al mondo per i blogger. La Birmania guida la lista, seguita da Iran, Siria, Cuba e Arabia Saudita. Sesto il Vietnam, seguito a ruota da Tunisia, Cina, Turkmenistan ed Egitto. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Veline&politica: “E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico.”

Le veline e l’evoluzione
della specie (im)politica
di Ilvo Diamanti -la Repubblica

Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l’indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.
Amplificando la vicenda. Come, d’altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che – non da oggi – la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l’informazione, l’informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d’altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di “Striscia la notizia”. Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l’icona e il simbolo dell’informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica – e non – sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell’informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all’informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire…

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po’ ambiguo. Strizzando l’occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da “momenti alti” di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l’intera giornata. Mattine sull’Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c’è politico disposto a rinunciare a un’occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c’è la televisione? Ma se c’è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all’altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l’immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant’altro sono già stati – taluni sono ancora – in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all’altro dello spazio politico, da un partito all’altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all’abbandono dei luoghi sociali della politica.

All’evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L’evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Il Ministero dell’Interno ammette 79 simboli per le prossime elezioni europee. In principio erano 93.

Per raggiungere la soglia del 4% con lo stesso simbolo si presenta la Lista dei comunisti, formata da Prc-Pdci-Socialismo 2000-Consumatori uniti (sarà l’unica lista delle schede elettorali a correre sotto l’insegna della falce e del martello). Il Viminale dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Perché la polizia politica identifica chi contesta il premier?

(fonte: repubblica.it)

“Non devi venire in Abruzzo, ci stai rovinando”. Con queste parole Silvio Berlusconi è stato contestato oggi a Napoli da due giovani abruzzesi, che, davanti alla prefettura, gli hanno gridato contro. I due, trentenni senza precedenti penali, sono stati identificati dalla Digos, e hanno detto di essere venuti a Napoli proprio per la visita del premier. Beh, buona giornata.

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democrazia Popoli e politiche

Che cos’è diventata la politica ai tempi del berlusconismo.

LA POLITICA ACCORCIATA

di Aldo Schiavone -La Repubblica

IL POTERE politico, nel tempo della crisi. Non solo la sua composizione sostanziale: i rapporti di forza che lo determinano, le strutturee le decisioni che gli danno effettività e consistenza. Anche il suo riflesso mediatico, che è non meno penetrantee reale; lo spettacolo che mette in scena ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita quotidiana. È questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti – che si tratti di economia o di terremoto, e tanto più se di tutt’ e due insieme – l’ immagine della politica tende inevitabilmente a trasformarsi.

Lo stato d’ eccezione – e la storica fragilità dell’ Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni – spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione “contratta” e semplificata del potere, e a soddisfarsene come l’ unica adeguata alla concitazione e all’ incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non sembra siano necessarie mediazioni.

C’ è bisogno di presa diretta. Una politica “accorciata” al massimo (c’ è chi dice “verticalizzata”, ma dubito che sia la parola giusta), e anche una politica “vicina” e “veloce”, che non si nasconde nelle nebbie dell’ indistinto. Se la situazione precipita, il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente: e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa condizione come l’ inevitabile “deriva populista” che accompagna sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione di difficoltà e di paure.

È qualcosa di simile a una “legge tendenziale”, cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi, fondamentalmente diversi, di comportarsi di frontea questa specie di obbligato slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a rendere “istituzionale” la spinta populista, ad assumerne acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, e a farne l’ unico centro di una strategia politica che non sa e non vuole vedere altro.

Esso mira unicamente a stabilire e ad alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il “suo” popolo, e a comprimere e marginalizzare tutto il resto – altre forme di rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali – come un inutile impaccio. L’ emergenza – crisi economica, terremoto, gestione dei rifiuti a Napoli – è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una “grazia” che arriva dall’ alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza, risorse; e dall’ altro un “capo” che sceglie e decide per tutti, al più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. È un modo di stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il transfert di sovranità alla base dell’ investitura a governare.

È lo stile di Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d’ urgenza, perché non c’ è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della “frontiera democratica”. Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il consenso in egemonia.

A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di partecipazione collettiva, di presenza democratica “dal basso”; innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un’ idea complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero l’ emergenza e lo stato d’ eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire un’ egemonia intellettuale e morale. È lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo).

In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po’ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie – forse non tutte “politicamente corrette”, ma questo è il vero e ineludibile nodo della questione – di quella parte di popolo già “liquefatta” dalla trasformazione postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale del Paese, di ridargli insomma un’ anima “popolare” condivisa, e nello stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più senso critico. Ne saremo capaci? (Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche

Saluti parigini e saluti romani.

“Difficilmente riuscirò ad avere buoni rapporti anche con Gianni Alemanno che è stato accolto al Campidoglio con i saluti fascisti”. Bertrand Delanoë confessa ad alta voce quello che molti suoi collaboratori sanno da tempo. Al teatro dell’Odéon, davanti a Dario Franceschini e ad altri membri del Pd arrivati con il “Treno per l’Europa”, il sindaco di Parigi ammette tutta la sua distanza politica dal primo cittadino di Roma. Delanoë e Alemanno non si sono ancora mai conosciuti, fatto anomalo per due città gemellate in modo esclusivo da oltre mezzo secolo. Né è previsto un incontro a breve. L’anno scorso, subito dopo la sconfitta di Rutelli e l’elezione del nuovo sindaco di Roma, l’Hotel de Ville aveva preferito non invitare l’esponente di An per le celebrazioni del 25 agosto, festa della Liberazione. Beh, buona giornata.

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democrazia

Se il capo dello Stato e il capo del Governo parlano due lingue diverse.

Napolitano/ Berlusconi: due democrazie, due linguaggi- da blitzquotidiano.it

Due presidenti, due democrazie, due linguaggi. Il capo dello Stato parla con chiarezza, con precisione, con rigore logico. Niente “politichese”, affermazioni dirette e concrete. Ma “parla in latino“, una lingua madre eppur morta. Una lingua razionale, eppur ai più incomprensibile. Una lingua esatta come la matematica, giusta come la geometria, eppure una lingua non parlata.

Dice Napolitano che la democrazia è che nessuno abbia un potere che un altro potere non possa controllare e fermare. Dice Napolitano che la bilancia, l’equilibrio dei poteri e il reciproco limite non sono un peso, una zavorra della democrazia, sono invece la democrazia che altrimenti sfuma, evapora, svanisce. La storia dei popoli e la storia delle dottrine politiche concordano con Napolitano: la democrazia parlamentare, liberale e borghese nasce e si sviluppa intorno alla divisione dei poteri.

Silvio Berlusconi parla invece altra lingua. Immaginifica, emotiva, allusiva e suggestiva. Una lingua imperfetta e imprecisa, tanto ammiccante e sorridente quanto culturalmente ibrida. Dice Berlusconi che democrazia è il popolo che vota e sceglie e poi il leader che esegue, decide e realizza. In mezzo niente o meglio: meno c’è in mezzo e meglio è. Dice che i controlli sono vincoli, vincoli che fanno male all’azione di governo e quindi agli interessi della gente. Dice che la vera democrazia è quella del votare che spetta agli elettori e quella del fare che spetta al leader. Nel resto, in quel che di altro c’è si annida la cattiva politica.

Non è quella di Berlusconi democrazia liberale, parlamentare e neanche borghese. È una miscela di democrazia diretta, cesarismo, assemblearismo e tecno-democrazia. Non certo dittatura e neanche necessariamente autoritarismo. La differenza è che la democrazia, classica e da manuale di Napolitano, presuppone dei cittadini, cioè dei soggetti di diritto che cittadini sono in quanto portatori di diritti e doveri. La democrazia di Berlusconi presuppone invece un popolo, cioè una somma di portatori di bisogni e interessi.

Come detto, è il “latino” la lingua esatta. Ma l’altra è la lingua parlata. Non ci sono dubbi su quale sia il “giusto” parlare, non c’è dubbio su quale sia la lingua che risulta vincente: l’altra. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Pubblicità e mass media

Quante favole sentiamo ogni giorno?

Uno studio della Boston School of Medicine dimostrerebbe che leggere ad alta voce ai bimbi in età prescolare aumenta lo sviluppo del loro linguaggio, dandogli un bagaglio linguistico migliore, con vantaggi che perdurano negli anni.

Inoltre, il racconto del genitore al bambino ha un effetto prodigioso in quanto sarebbe un mezzo fortissimo di scambio emotivo.

Insomma, leggere le fiabe ai bimbi li aiuta ad andare meglio a scuola, ad acquistare l’arte del linguaggio prima e in modo migliore. Forse gli aiuterebbe a sviluppare la fantasia, sapendo riconoscere il vero dal falso, l’immaginifico dal reale.

Forse a tutti quelli che vanno in giro a raccontare panzane sulla pubblicità italiana sono mancati genitori che gli leggevano le favole da piccoli. E allora, per far vedere che sono grandi, le favole se le raccontano da soli. Con l’aggravante che lo fanno ad alta voce davanti al taccuino del cronista o al microfono di una qualche emittente.

Le favole per bambini sono quelle storie che cominciano con “c’era una volta” e finiscono con “e vissero felici e contenti”. Le favole raccontate dai grandi cominciano male: vogliono subito dirti che sono felici e contenti. Come tutte le bugie, queste sono storie che finiscono prima ancora di incominciare. Beh, buona giornata.

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