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Obama non ha usato il web. Non è entrato in rete, ha fatto rete. Obama ha vinto perché ha cambiato il web.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha dietto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca lascia intendere la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni che potrebbe trasformanre la nostra vita quotidiana e, contemporaneamente, la società globale.

 A cominciare dalla comunicazione. La logica della partecipazione e della condivisione dei contenuti dovrebbe essere resa possibile su vasta scala, come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama. E’ un fatto nuovo. Nessuna organizzazione o azienda può pensare di restare fuori da queste sfide. Ma stare al passo con i tempi non è così semplice come può sembrare. Secondo  Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione Università Iulm e prorettore dell’ateneo, Obama si è distinto non per l’uso esclusivo dei social media, bensì per aver messo in atto una comunicazione politica basata su un adeguato mix di media innovativi e classici. A differenza dei suoi principali competitor, la Clinton prima e McCain poi, che hanno condotto la loro campagna seguendo schemi molto più tradizionalistici.

In realtà, Barak Obama è stato lungimirante e si è  appropriato con successo del territorio simbolico e valoriale della parola chiave ‘change’, ha fatto leva sulle emozioni profonde degli elettori, spingendoli a diventare soggetti attivi e interattivi di un progetto. Ed ha anche ottenuto la partecipazione spontanea di artisti e designer che hanno realizzato per lui magliette, poster e video di alta qualità.

In altre parole, Obama si è trasformato in un simbolo, ma anche in un  logo, un brand, che trasmette un messaggio fortissimo: la speranza nel cambiamento.

In Italia, ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale il Pd ha tentato di fare propria questa strategia, ma invece di comprendere la forza del concetto “change”, ha fatto proprio “yes, we can”,  tradotto in “si può fare”. Un equivoco, più che un errore: è suonato nelle orecchie degli elettori come una affermazione autoreferenziale, ego riferita alla nascita delPd e non un nuovo progetto di paese cui partecipare con entusiasmo. Il risultato di queste equivoco non è solo nelle urne elettorali, ma è diventata un fatto politico. Oggi in Italia nessuno pensa che il Pd sia stata una vera innovazione, né che Veltroni ne sia il simbolo.

 D’altra parte, i discorsi di Obama hanno incarnato il desiderio di cambiamento americano, e i prodotti audiovisivi a lui riconducibili si sono distinti per un’elevata qualità sia della grafica sia del contenuto.

Senza contare  l’uso sapiente e consapevole dei social media: i progetti web di Obama hanno avuto la forza di incoraggiare le persone a diventare, esse stesse, parte del cambiamento, innescando meccanismi di condivisione e partecipazione che hanno portato i sostenitori di Obama a usare i social network in piena autonomia per incontrarsi e organizzare sia eventi sia raccolte fondi.

Un’esperienza vincente come quella di Obama insegna che il web non è un semplice spazio virtuale dove sparare messaggi, per entrare nel mondo dei new media non basta mettere un banner su qualche sito o aprire un blog, perché su Internet non basta esserci, bisogna esserne parte: occorre diventare un nodo, un anello, della Rete stessa. Anzi, bisogna saper essere il bandolo della matassa  della  rete stessa. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Crisi dei quotidiani: il piano del NYT è vendere il grattacielo di Piano.

(Fonte: repubblica.it)

Il New York Times è con l’acqua alla gola e invece di ipotecare il nuovo grattacelo realizzato da Renzo Piano a fine 2007 (come annunciato ai primi di dicembre) il gruppo ha deciso di fare cassa vendendo la sede.

Affossata dal crollo della raccolta pubblicitaria (-21,2% nel solo mese di novembre 2008) il quotidiano più prestigioso d’America, ma solo il terzo per diffusione (1 milione di copie in media), ha annunciato di essere in fase di “avanzate trattative” per cedere al gruppo immobiliare W.P. Carey e Co. i 19 piani sui 52 dell’intero edificio dove lavorano i giornalisti e l’amministrazione del giornale.

Il Nyt resterà in affitto nello stesso edificio sull’Ottava Avenue con il diritto di riacquistare gli spazi entro 10 anni. Il gruppo ‘The Times. Co.’, che edita anche ‘Boston Globe’ e l’ ‘International Herald Tribune’, possiede il 58% del grattacielo. L’8 dicembre aveva annunciato di voler accendere un’ipoteca per 225 milioni di dollari con cui avrebbe fatto fronte a un debito di 400 in scadenza a maggio di quest’anno. Oggi la svolta senza fornire particolare sull’entita’ dell’operazione.

Lunedi’ il magnate delle tlc messicano Carlos Slim, che gia’ possiede il 6,9% del gruppo, aveva fornito al Nyt una linea di credito di 250 milioni di dollari che non sono bastati a tamponare la falla. All’inizio dell’anno pur di aumentare la raccolta pubblicitaria il Nyt aveva fatto cadere l’ultimo tabu’ accettando inserzioni pubblicitarie in prima pagina: una pratica comune in Italia e in altre testate Usa ma il Times era rimasto finora immune da tutto cio’ che non fosse “una notizia degna di essere pubblicata”. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Società e costume

” Il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media.”

di Francesco De Carlo – Megachip.info

A che serve il web? A far circolare le idee, catturare l’attenzione dei consumatori, promuovere beni e servizi, soddisfare le fantasie erotiche di giovani e meno giovani. Tanti modi di utilizzare uno strumento oramai divenuto centrale nelle abitudini dei cittadini di buona parte del pianeta. Ma quali sono i contenuti più popolari? Qual è l’argomento più discusso? Quale il personaggio più cliccato?

Una recente indagine di Liquida, un portale aggregatore della blogosfera, ci offre uno spunto per ragionare sul tipo di consumo del web fanno le masse attraverso un’analisi semantica di 600mila post contenuti in più di 10mila blog.
Il giornalista Massimo Russo ha riportato la ricerca (http://massimorusso.blog.kataweb.it/cablogrammi/2009/01/19/berlusconi-e-il-piu-citato-dai-blog-ecolalia-dei-media/) che ha preso in esame l’ultimo quadrimestre 2008.

Interessanti i dati relativi alle prime 10 posizioni. Dunque la parola più cliccata è “Berlusconi” (9.807 volte) e certo non può considerarsi una grossa notizia. Stacca di gran lunga “Obama” (7.951) e soprattutto “Veltroni” (3.863) che chiude la top ten, leccandosi, ancora una volta, le ferite. Prima considerazione: nonostante la grande attenzione del leader del Pd (e naturalmente del suo beniamino statunitense) per il web, è Silvio Berlusconi, imperatore televisivo, a dominare la scena. Certo andrebbe affrontata anche la prospettiva qualitativa, quella che descrive come si parla di questi soggetti. Ma l’evoluzione dei mezzi di comunicazione è stata accompagnata da un credo, empirico più che teorico: bene o male, l’importante è che se ne parli. Il Presidente del Consiglio ha fatto e farà di tutto per dimostrare l’incrollabile fede in questo principio.

Tra le prime dieci parole, oltre ad altre due keyword politiche (Partito Democratico, quinta, e Gelmini, settima) spiccano Windows, Facebook e Iphone. E questo potrebbe spiegarsi innanzitutto con la connaturata tendenza dei media a parlare di se stessi. È chiaro, peraltro, che gli utenti di internet sono i più interessati a tali tematiche, spesso ignorate dagli altri media tradizionali.
Terza considerazione. Tutte o quasi le parole della top ten sono marchi. Che si tratti di un brand politico o commerciale il consumatore resta il protagonista del processo comunicativo, costantemente bombardato da messaggi chiaramente pubblicitari, ma anche disposto a sfruttare gli spazi più liberi della discussione per trattarne i diversi aspetti.

In conclusione, si può dire che il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media (interessante la parte dell’analisi dedicata ai temi dell’attualità). L’interattività permette sì la possibilità di discutere liberamente, ma gli argomenti restano sempre gli stessi. Questo per dire che a qualche tempo dalla sua esplosione internet ancora non ha sicuramente espresso a pieno le sue potenzialità, in termini di organizzazione del dissenso, capacità di condizionare le decisioni pubbliche, possibilità di disegnare scenari alternativi e porli al centro di un progresso culturale che accompagni quello tecnologico.

Forse manca solo un po’ di coraggio, forse un po’ di immaginazione, ma nel 2009 scoprire che Maria de Filippi è più cliccata di Roberto Saviano e Simona Ventura di Marco Travaglio, dà il senso e la misura di quanta strada c’è ancora da fare. Anche se i tanti segnali di una involuzione intellettuale del pubblico scoraggiano ogni forma di ottimismo: più il consumo di web si diffonde più viene utilizzato dagli strati sociali affezionati al trash televisivo e non c’è da stupirsi se nelle prossime classifiche le parole legate all’impegno civile troveranno sempre meno spazio. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini.”

 I NUOVI ITALIANI  di Corrado Giustiniani da ilmessaggero.it
  La guerra dei bambini in tv: ha ragione Michele Santoro
pubblicato il 19-01-2009 alle 14:03
 
Non credo di uscire dal seminato de “I nuovi italiani” se dico la mia sulla puntata di Annozero intitolata “La Guerra dei bambini”, che tante polemiche ha suscitato nei confronti del conduttore Michele Santoro. Non esco dal seminato, perché in studio o in collegamento con Santoro c’erano diversi “nuovi italiani”, immigrati palestinesi ma anche giovani israeliani che vivono nel nostro paese. E poi perché la sfida della convivenza fra religioni diverse è una delle più complesse che si pongono in tutti i paesi di immigrazione, Italia compresa, e quella guerra è un letale controspot alla convivenza.

Intanto, sono convinto che molti giornalisti che hanno scritto di quella puntata, non l’abbiano vista attentamente. Non c’è da stupirsi che questo accada. Annozero va in onda in diretta, e alla nove di sera i giornalisti dei quotidiani sono impegnati nella chiusura della prima edizione, difficile che abbiano due ore di tempo da dedicare tutte a Santoro, a meno che non vi siano state polemiche politiche preventive, che suscitano una particolare attesa proprio per quella puntata. Così, a informarli sono per lo più le agenzie di stampa, che nei loro servizi riportano le battute più salienti dei personaggi intervenuti. Credo, soltanto per fare un esempio fra i tanti possibili, che potrebbe non aver visto Annozero Giovanni Valentini, saggista e commentatore di cose televisive, autore su Repubblica di un fondo, dal titolo “La parabola del tribuno tv”, che a me è parso squilibrato ed esageratamente livoroso nei confronti di Santoro: se l’avesse seguita con attenzione, avrebbe certamente montato il suo ragionamento in modo diverso. Visionando la cassetta della trasmissione o  la registrazione su Internet della stessa, vi sarebbe la possibilità di dare il giorno successivo un giudizio più pertinente e obiettivo. Ma per pigrizia si tralascia quest’incombenza. Anche perché decidere di fare un passo indietro sarebbe comunque imbarazzante.

Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.

Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini. La spessa corteccia di indolenza e cinismo che tutto ci fa accettare, perché in fondo non succede a noi, o addirittura perché “mors tua vita mea” (pensiamo solo alla richiesta effettuata a Gheddafi di non farci arrivare più barconi di migranti: decida lui se decimarli a fucilate, torturarli, o farli morire di sete nel deserto) all’improvviso si squarcia, perché si mette in atto un processo di immedesimazione: quel bambino che vedi, e se è ancora in vita senti, potrebbe essere tuo figlio. Non è forse l’immedesimazione che crea la solidarietà, vera anima di ogni società democratica? Non è, per chi ci crede, il “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” uno dei principi fondanti del cristianesimo, che quando ci fa comodo siamo orgogliosi di sbandierare come nostra religione? E non è il documentare senza paura, l’essere testimoni diretti, sul campo, il vero, profondo valore del giornalismo?

Di quel reportage che valeva, da solo, l’intera trasmissione, si sono dette cose pazzesche. Che “strumentalizzava le emozioni” e che trasformava “il dramma in drammaturgia”. Ma andiamo avanti. Finito il filmato, si apre il dibattito. Ci sono in studio, oltre a Santoro e a Marco Travaglio, Lucia Annunziata, una scrittrice israeliana, un esperto di guerra, una giornalista palestinese che da molti anni vive in Italia, un giornalista di Al Jazira. Un parterre, come si vede, composito e sufficientemente equilibrato. Proprio all’Annunziata viene data per prima la parola. E ha il tempo di dire tutto quello che pensa: un contributo così lungo che a un certo punto sente quasi il bisogno di scusarsi (“sto per finire”). Dura per l’esattezza 5 minuti e 30 secondi, un’eternità per la televisione, e sarà il primo di ben tre interventi. Osserva tra l’altro, la giornalista ex-presidente della Rai, che «è molto difficile parlare come terzi, mi scuso se dipano l’emozione dalla razionalità, Israele dimostra di non saper far bene la guerra, non ci possiamo dividere dicendo chi ha torto e chi ha ragione…»

Il confronto si apre agli altri interlocutori, e poi si allarga a giovani palestinesi che vivono in Italia, attraverso un collegamento esterno con Corrado Formigli, ma ci sono anche giovani ebrei in studio, a cominciare da Tobia Zevi. Margherita Granbassi introduce una ragazza israeliana, che entra in vivace polemica con una palestinese. A questo punto Lucia Annunziata interviene per la seconda volta, per tre minuti: «Michele non sono d’accordo  su come stai conducendo il dibattito, non si possono far parlare così due ragazze» e sostiene che dalla trasmissione dovrebbe venir fuori «un punto di vista italiano».

Un punto di vista italiano? Non hanno diritto a dire la loro dei giovani che vivono le loro reciproche cause, israeliana e palestinese, non per sentito dire, ma come stimmate su cui è impressa tutta la loro esistenza? E perché mai? E il punto di vista italiano, non viene forse arricchito da “nuovi italiani” come quei giovani? L’obiettivo di quella trasmissione non era fare la storia della questione palestinese a partire dal 1948, e la Annunziata aveva comunque avuto ampio spazio per esprimere il suo pensiero, attaccando, giustamente, i terroristi di Hamas e il loro rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele. C’erano, è vero, più ragazzi palestinesi che ebrei. Ma a nessuno è stata tolta la parola. La proposta più bella e innovativa è venuta fra l’altro da una ragazza religiosamente meticcia, se così possiamo dire, in quanto figlia di padre palestinese e madre ebrea: ha proposto uno scambio di famiglie, per un’estate, fra ragazzi delle due diverse religioni.

Ma il bello deve ancora venire. Lucia Annunziata interviene per la terza volta: «Michele ti disturbo…Non mi piace come hai condotto finora la trasmissione al 99,9 per cento». Dunque, non salvava niente. Ma come può, ragiono io, un collega contestare professionalmente un altro, in diretta, davanti a milioni di persone? Un atteggiamento eticamente e deontologicamente sbagliato. Se voleva, glielo diceva dopo, a riflettori spenti. E se la ferita era così grave da non sanarsi, a mente fredda poteva chiedere a Giulio Anselmi, il direttore de “La Stampa” di cui Lucia è editorialista, di poter scrivere una riflessione sul tema. 

Il conduttore ha fatto male a perdere le staffe. Ma attenzione, rivediamo la sua frase-chiave, quella che ha causato il plateale abbandono del posto da parte di Lucia Annunziata. «Sei venuta a fare l’ospite? E allora dì quello che pensi. Stai acquisendo dei meriti nei confronti di qualcuno? No, e allora fai il tuo lavoro e dì quello che vuoi». I giornali hanno riportato questa domanda, con successiva negazione e invito a parlare, come una gravissima offesa senza punti interrogativi, e non hanno tenuto conto di quella professionale che Santoro aveva ricevuto. Se l’avessi subita io, incassare mi sarebbe stato difficile, lo confesso. Il conduttore, in realtà, è uscito fuori dai gangheri soprattutto dopo che l’Annunziata se n’è andata, e ha commesso degli errori, mettendosi contro tutti.

E’ una cronaca diversa, cari amici, da quella che avete letto su altri media e che ha fornito assist per interventi pro-Annunziata all’universo mondo, dall’ambasciatore israeliano a Pippo Baudo. Magari anche io, per dare il succo, avrò forzato alcuni passaggi. Ma la democrazia di Internet sta nel fatto che potete rivedervi la trasmissione e giudicare con la vostra testa. Un’ultima cosa. Quello stesso giovedì 15 gennaio, all’ora di pranzo, ero in macchina e sentivo alla radio, sul secondo programma Rai, Barbara Palombelli che aveva in studio due esperti, il professor Israeli e un altro. Entrambi di parte israeliana, senza contraddittorio. Uno dei due diceva che i bambini muoiono unicamente perché Hamas li usa come scudi umani, a protezione dei terroristi. Questa trasmissione, però, non ha fatto scandalo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro. Ecco la lettera di Santoro al cda della Rai.

* Gentile Presidente, gentili Consiglieri *

Non è mia abitudine replicare a chi commenta le nostre trasmissioni e
ritengo, anche in questa circostanza, di non rinunciare a questo mio
comportamento. Tuttavia nel florilegio di dichiarazioni che hanno fatto
seguito ad Annozero, a volte assumendo le forme del linciaggio, sono
completamente scomparsi i contenuti del nostro lavoro. Siamo stati definiti
terroristi, portavoce di Hamas, giornalisti spazzatura. Senza che questi
insulti suscitassero adeguate reazioni.

Eppure siamo il più seguito appuntamento informativo della televisione
italiana in prima serata, con introiti pubblicitari che ci consentono il
completo autofinanziamento senza far ricorso al canone, permettendo di
destinare risorse importanti alle altre attività del servizio pubblico.
Siamo anche tra le trasmissioni meglio posizionate della Rai, tra le poche
seguite in prevalenza dal nord del Paese e dalle fasce più acculturate. Vi
invito a leggere lo studio pubblicato questa settimana dalla Sipra per
vedere quanto poco felice ed approssimativa sia la descrizione di Annozero
come un programma populista e pericoloso per la democrazia, dal momento che
a guardarlo non e’ un esercito di sempliciotti ma una fetta di opinione
pubblica che ricorre a molte fonti per informarsi.

Personalmente considero l’intervento dell’Ambasciatore dello Stato
d’Israele, Gideon Meir, una grave interferenza nella libertà d’espressione
del nostro Paese. Ma non gliene faccio una colpa. La responsabilità ricade,
piuttosto che sulla politica di quel governo, sul difetto di liberalismo del
sistema politico italiano e della categoria alla quale appartengo, che non
reagisce adeguatamente a queste clamorose invasioni di campo.

Repubblica ha pubblicato un intervento di David Grossman, che si concentra
sulle caratteristiche dell’ultima rappresaglia israeliana, lasciando sullo
sfondo le ragioni storiche che hanno prodotto il conflitto. Ho realizzato
molte trasmissioni sui rapporti tra Stato d’Israele e palestinesi e posso
rassicurare il nostro Presidente – che di queste cose si è occupato
sicuramente meglio di me quando era Direttore de l’Unità: niente può
scatenare una rissa in uno studio televisivo quanto l’evocazione della
Storia. Ricorrere all’approccio storico avrebbe sicuramente consentito ai
sostenitori di Hamas (assenti nel parterre) di mettere in discussione
l’esistenza dello Stato d’Israele. Con la nostra impostazione, unica
trasmissione, abbiamo potuto affrontare l’argomento in prima serata,
decidendo (proprio come Grossman) di parlare dei bambini e della possibilità
di fermare il massacro, domandandoci se fossero necessari quei corpi
straziati per restituire sicurezza allo Stato di Israele.

Sono accusato di essere fazioso. Ma a quale fazione apparterrei? Ad una
piccolissima fazione che conta qualche centinaio di aderenti. Se qualcuno
avesse chiesto a quei bambini: “Preferireste vivere?”, cosa avrebbero
risposto? “Certo che sì”. Bene, io la penso esattamente come loro.

Su quanto è avvenuto ho trovato su Internet un’ analisi di un giornalista de
“Il Messaggero” che non conosco, Corrado Giustiniani. L’unico che ha rivisto
il documento “La guerra dei bambini” minuto per minuto. Vi allego il suo
scritto insieme alla trascrizione completa del programma. Così potrete
controllare comodamente che l’insulto più grave è quello che mi è stato
rivolto affermando: “La trasmissione, come l’hai impostata finora, scusate
ma questo è il mio lavoro farlo, non entro nel merito, è al 99,9%, eccetto
la voce della ragazza di prima, tutta mirata…”.

Un insulto gratuito, assolutamente non giustificato da quello che era stato
trasmesso fino a quel momento. Contate le parole, classificatele pure a
seconda di quello che dicono. Soffermatevi poi sulla frase pronunciata da
Lucia Annunziata quando gli animi erano calmi: “Faccio una parte
assolutamente da stronzissima”. Cosa voleva dire? Che parte voleva fare?
Fornite voi una spiegazione plausibile, visto che lei avrebbe potuto dire
tutto quello che voleva sull’argomento trattato, ragioni storiche comprese.
Purtroppo, siccome siamo scomodi per il sistema politico, è invalsa
l’abitudine di entrare nel nostro studio non per discutere o argomentare ma
per insultarci. Tanto non si rischia niente. Io questo non l’ho tollerato la
scorsa settimana e non lo tollererò nelle settimane a venire.

Tra le tante menzogne scritte su di noi ce n’e’ una insopportabile: avremmo
addebitato la morte dei bambini soltanto alla responsabilità dello Stato di
Israele. Vi prego di leggere almeno questo stralcio di dialogo tra me e la
scrittrice israeliana Manuela Dviri all’inizio della nostra trasmissione,
traendone le dovute conclusioni.

*DVIRI*
*E quando guardo queste immagini sento una grande pesantezza, mi sembra che
sia tornato il tempo della retorica, delle parole vuote, che, della
stupidità umana. Siamo tutti assassini, sono un’assassina anch’io*

*SANTORO*
*Siamo tutti responsabili e tutti impotenti, insomma*

*DVIRI*
*Tutti, siamo tutti responsabili, tutti impotenti, io sono un’assassina,
siamo tutti degli assassini, siamo degli assassini dei bambini del Darfur,
del Congo, della Palestina, anche dei bambini israeliani che sono morti in
questi anni. Siamo tutti degli assassini. Io sono un’assassina.*

*SANTORO*
*Non abbiamo fatto abbastanza per evitare tutto questo*

*DVIRI*
*Non abbiamo fatto nulla. Non facciamo nulla.*

Infine qualcuno di voi ha ritenuto di dover ricordare che siamo in onda
grazie ad una sentenza della magistratura. Ma dovrebbe dedurne che solo
grazie ad una sentenza della magistratura la Rai può oggi venderci come un
prodotto pregiato del listino della Sipra. Tuttavia, prendete pure le vostre
decisioni editoriali serenamente e a prescindere. L’importante è che siano
rispettose delle leggi e dei contratti in essere. Io credo di aver lavorato,
da 25 anni a questa parte, con coscienza, serietà e producendo grandi
profitti per l’Azienda.

Per il resto, buon lavoro

*Michele Santoro*

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro.

Per il cda della Rai, la trasmissione di Anno Zero del 15 gennaio sui bombardamenti israeliani a Gaza, che ha già scatenato una furiosa polemica, «ha peccato di intolleranza e faziosità». Come è noto, Lucia Annunziata aveva abbandonato la diretta, accusando Santoro di non fare una trasmissione “equidistante” tra le posizioni filo israeliane e quelle filo palestinesi.

 

 

In ambienti vicini la redazione di Anno Zero si fa notare che quanto è accaduto ha un paio di risvolti un poco singolari. Essi riguarderebbero: a) la volontà di chiudere per sempre il programma, manifestata già prima della messa in onda della puntata “incriminata”(Santoro avrebbe ricevuto una telefonata tre giorni prima, nella quale lo si informava di questa volontà); b) uno degli invitati alla trasmissione avrebbe declinato l’invito un paio d’ore prima della messa in onda, adducendo motivi di salute; c) pare che lo stesso abbia però lasciato la sera stessa un post it recante parole di ringraziamento, sul portone d’ingresso della giornalista che aveva abbandonato la trasmissione. C’è anche chi ha notato che mentre Lucia Annuziata si alzava e si toglieva il microfono per andarsene dallo studio, avrebbe detto:”io stavolta non farò niente”. La cosa verrebbe interpretata come se la giornalista fosse a conoscenza del proposito di chiudere il programma.

 

Più volte la giornalista aveva detto “scusate se faccio la stronza”. Anche qui si vorrebbe vedere una sorta di “ti sto aiutando a non farti chiudere e tu per tutta risposta mi tratti pure male”. Insomma, una sorta di “eccesso colposo di buona volontà” male interpetato da Santoro, che perdendo poi le staffe in diretta non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, fino al clamoroso abbandono della trasmissione. Comunque, va rilevato che, nonostante presunti bigliettini e la pubblica telefonata di “solidarietà” da parte di Fini, Lucia Annunziata ha mantenuto uno stretto riserbo sulla vicenda, sottraendosi a ogni ulteriore polemica diretta, la qual cosa è un punto a suo favore. Chi l’ha criticata per il suo comportamento in trasmissione, non ha preso in considerazione che quello che ha detto lo pensasse davvero, tanto da agire di conseguenza.

 

 

Si tratta di gossip? Di dietrologie? Di un processo alle intenzioni? Di una delle solite “teorie del complotto”? Fatto sta che la reazione politica nei confronti di Santoro è stata immediata e ben orchestrata: come ricorderete, il la è stato dato con una durissima dichiarazione del presidente della Camera, alla quale hanno fatto subito coro le dichiarazioni dell’apparatnik del centro-destra.

 

Fino alla presa di posizione del cda della Rai di oggi. Al di là di ogni ulteriore commento relativo a questa ultima polemica contro la tv pubblica, che vede ancora una volta al centro Michele Santoro, resta il fatto sconcertante che il cda della Rai abbia sostenuto la tesi per cui “il Consiglio sottolinea che nel suo complesso l’informazione della Rai sul conflitto è completa ed equilibrata”. Come sarebbe potuta esserlo se agli inviati Rai, come a tutti i corrispondenti stranieri è stato vietato l’ingresso nella Striscia di Gaza? Come potevano essere completi ed equilibrati i servizi trasmessi al di qua del confine con Gaza, costringendo gli inviati a mostrare da lontano i fumi che si alzavano nelle città bombardate? Perché la Rai non ha protestato contro il governo israeliano per l’embargo della stampa internazionale, quella italiana compresa?

 

 

Ha scritto Corrado Giustiniani, sul blog “I nuovi italiani” (ilmessaggero.it): “Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.”

 

 

Mi pare che questo sia il succo di tutta la vicenda. Si sono scagliati contro Santoro, perché “la guerra dei bambini”, come era intitolata la puntata di Anno Zero “incriminata” di “intolleranza e faziosità” era “assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato”. Questa è la verità. Piaccia o non piaccia. Al di là delle alchimie politiche, al di fuori delle dietrologie. Alla verità importa un fico di piacere a qualcuno. Non ha bisogno di equidistanze, di moderazione, di equilibrio. E’ la verità, il suo ruolo è essere scomoda e irritante. Se no, che verità sarebbe? 

La trasmissione di chiamava “la guerra dei bambini”, non “chi ha ragione: Israele o Hamas?”. Aveva un taglio giornalistico preciso e molto chiaro. Dunque, non si trattava di spiegare il conflitto, ma di guardare dentro un conflitto che ha ammazzato centinaia e centinaia di bambini. Questa semplice, quanto terribile verità, raccontata senza troppi fronzoli è stata  però artatamente offuscata dalle polemiche, a cominciare da quella esplosa proprio in trasmissione. Sarebbe bene che sia Annunziata che Santoro, a mente fresca, passate le polemiche, riflettessero su questo. Sempre che, nel frattempo a qualcuno non venga in mente davvero di azzerare Anno Zero. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Diamo una mano al quotidiano.

Mentre in Italia è stata annunciata una partership tra il Gruppo Espresso e la Rcs per dare vita a una piattaforma comune per la raccolta pubblicitaria sul web, arriva dagli Usa una brutta notizia per i quotidiani americani.

 

Google ha deciso di  eliminare, a partire dal prossimo 28 febbraio Print Ads, un programma per vendere la pubblicità sui quotidiani perché non rende abbastanza..Il programma, era nato per agevolare gli inserzionisti nelle strategie multi-piattaforma (web e stampa). Lo riferisce Giovanni Gagliardi da New York, per repubblica.it.

“Non abbiamo avuto un impatto significativo nei profitti per i nostri quotidiani partner”, ha ammesso il portavoce di Google Brandon McCormick. “Speravamo che Print Ads potesse creare un nuovo canale di entrate per i quotidiani, ma invece il prodotto non ha avuto l’impatto che speravamo”, aggiunge la stessa società attraverso il suo blog.

Print Ads fu lanciato da due anni ed era stato progettato per aiutare i quotidiani a fare soldi attraendo gli inserzionisti di Google affinché si espandessero verso la carta stampata. Vi erano state coinvolte 807 testate, inclusi il New York Times, New York Post, The Boston Globe, Chicago Tribune, The Washington Post, San Francisco Chronicle, San Jose Mercury News e Los Angeles Times

La situazione economica e finanziaria della stampa americana è andata via via aggravandosi negli ultimi anni. Secondo la Newspaper Association of America, il mercato pubblicitario statunitense, quasi esclusiva fonte di reddito per la stampa Usa, si era già molto ridotto negli ultimi anni, passando dai 48,7 miliardi di dollari  di fatturato del 2000 ai 42,2 miliardi di dollari del 2007.

 

La situazione è andata aggravandosi e la decisione di Google non è certo un bel segnale. Ne è una riprova, ad esempio, la decisione del New York Times di mettere in vendita lo storico palazzo dove ha sede la redazione, nonché la scelta di concedere spazi pubblicitari anche in prima pagina. A poco vale la rassicurazione secondo cui Google “resta comunque impegnata a lavorare con gli editori nello sviluppo di nuove strade per aumentare le entrate, distribuire e aggregare contenuti e attrarre nuovi lettori online”.

 

Anche in da noi sembra ci sia una nuova sensibilità sulla questione della sopravvivenza della carta stampata. A parte la già citata partneship tra il Gruppo Espresso e la Rcs, è stata recentemente espressa la volontà da parte di Upa di attivare più attenzione alla pubblicità sulla stampa italiana.“Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti”, ha detto di recente Lorenzo Sassoli de Bianchi. (vedi “La pubblicità italiana e la carta stampata”, pubblicato il 15 gennaio in “Beh,buona giornata”). Lodevole intenzione a cui bisognerebbe dare seguito con atti concreti. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Scuola Società e costume

I figli e il computer.

L’ansia di apparire fa miracoli, così succede che la tv sforna opinionisti. Tutti sanno tutto su tutto e su tutti.  Stavolta tocca a Claudio Amendola, star de “I Cesaroni”. Che dice: ‘Tutta sta’ gente che chatta e va su Facebook è  demenziale. Se volete parlare con qualcuno andate al bar’. L’attore si è sfogato in un’intervista a Nostrofiglio.it. ‘Molti ragazzi passano la giornata sul web? Perché non passiamo più tempo con loro? Dobbiamo sforzarci – osserva – Importa la qualità del tempo che gli dedichiamo, non la quantità. Abbiamo solo un’ora? Giochiamo con loro a battaglia navale’ (Ansa, 20 gennaio).

 

Ma per favore. Ma ti pare che uno si mette a fare un gioco noioso come la battaglia navale? Tuo figlio ti affonda prima ancora di cominciare. Facciamo così: mettiamoci insieme davanti al computer. Tu gli insegni dove navigare per trovare qualcosa di buono e interessante. Lui ti fa vedere come si cazzeggia sul web. Tutti e due avremmo qualcosa da imparare, l’uno dall’altro. Insieme, si potrebbe navigare in acqua migliori, lasciando fuori gioco moralismi para-pedagogici, più dannosi che inutili.

 

Quanto al fatto che la qualità è meglio della quantità del tempo che si dedica ai figli, anche questo mica è vero. Basta provare a rovesciare l’ordine degli addendi per scoprire che il risultato non torna: se fosse tuo figlio a dirtelo, ti incazzeresti come una bestia. Se fosse la tua donna, penseresti che ha un altro. Altro che battaglia navale: poi dice che i rapporti tra padri e figli fanno acqua da tutte le parti. (A Clà, gnente de perzonale, ma quanno ce vò ce vò). Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Comincia la tregua, finisce l’embargo della libertà di stampa nella Striscia di Gaza.

Per la prima volta dal 27 dicembre Israele ha autorizzato oggi l’ingresso nella striscia di Gaza di giornalisti della stampa estera. Per la prima volta dall’inizio di ‘Piombo Fuso’ e dopo ore di attesa al valico di Erez, fra Israele e Gaza, sei giornalisti hanno potuto entrare nella Striscia nel pomeriggio e raggiungere la vicina citta’ palestinese di Beit Lahya, dove hanno constatato ingenti danni materiali alle abitazioni, alle automobili, e alle infrastrutture. Lo riferisce l’Agenzia Ansa. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

Chi di tv ferisce, di tv perisce.

“In tv, soprattutto nei programmi di seconda serata, mi basta al massimo cinque minuti per sentire dire qualcosa contro di me”, ha detto Berlusconi, che aggiunge: “C’e’ una volonta’ di colpire chi si impegna allo strenuo per il bene del Paese, per gli interessi di tutti i cittadini e colpisce anche quelli della sinistra”. Per il presidente del Consiglio, questa situazione “non accade in nessuna tv nazionale del mondo, di nessun Pese civile del mondo”. Berlusconi vittima delle  televisioni fa rima, ma fa verità. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La pubblicità italiana e la carta stampata.

 La notizia è che Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell’Upa, l’associazione degli investitori di pubblicità, riferendosi all’analisi proposta da Giovanni Valentini ne “Il sabato del villaggio”, su Repubblica del 10 Gennaio, ha scritto: “Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti.” E’ una notizia perché in passato Upa è sembrata essere sempre molto più attenta alla tv che alla stampa.

Fatto sta che è un bene che si torni a parlare di pubblicità e carta stampata. Lo si è fatto recentemente in un convegno a Milano, lo si è letto in questi giorni sui giornali, appunto. E’ un bene perché si mette in discussione, finalmente, un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l’intrattenimento attira pubblicità più dell’informazione.

E’stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare la tv. Quando dico scoppiare mi riferisco all’efficacia, o sarebbe meglio dire l’inefficacia del mezzo televisivo, che mostra la corda proprio in tempo di crisi: i consumi crollano nonostante la enorme pressione pubblicitaria televisiva.

La necessità di ampliare a tutta la filiera dei mezzi di comunicazione i messaggi pubblicitari, alleggerendo la pressione sulla tv è una “conditio sine qua non” del ruolo della pubblicità italiana, sul modello di quanto avviene in tutti i mercati occidentali. Bisogna aggiungere che se l’intrattenimento è un “bene voluttuario”, l’informazione è “un bene comune”, un fondamentale della nostra democrazia. La mediazione che i giornali forniscono tutti i giorni tra gli avvenimenti e i significati, vale a dire tra ciò che è successo e ciò che significa, è il ruolo irrinunciabile di ogni paese democratico, che ha il dovere di alimentare l’informazione, corretta e puntuale, perché la democrazia è tale se i cittadini sono consapevoli, aggiornati e partecipati della vita pubblica. Questo dovere e il relativo vantaggio valgono anche per le aziende che spendono soldi in comunicazione commerciale, per informare correttamente i propri clienti attuali e potenziali.

I lettori dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola“, ha detto recentemente  Ferrucio De Bortoli, direttore de Il Sole 24 ore. A cui ha fatto eco Emanuele Pirella: “I giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole“. Osservazioni pertinenti col problema del rapporto tra la stampa e la pubblicità.

Non ci si può nascondere, tuttavia, quanta diffidenza ci sia su questo punto: i giornalisti non amano la pubblicità, perché la vivono intrusiva del loro lavoro, invadente gli spazi fisici del giornale. Se fanno buon viso a cattivo gioco è solo perché la pubblicità aiuta il giornale a vivere. Insomma, giornalisti e pubblicitari non si amano, va bene se al limite si sopportano. Ha scritto  Giovanni Valentini: “I giornali e i giornalisti sono chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. La svolta del New York Times insegna. Nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, vanno ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, occorre incrementare l’ offerta di un servizio.”

I pubblicitari, dal canto loro hanno a lungo rincorso la tv e attualmente quasi si sentono diminuiti a prendere in mano penna e matita e fare una bella campagna su un quotidiano. Lo diceva recentemente anche Pirella, sottolineando quanto questo atteggiamento sia sbagliato e un poco patetico: “In passato era l’immagine, l’idea, il messaggio scelti dal creativo a fare la differenza in una campagna. Oggi sono i budget, che consentono il ricorso a effetti speciali, a registi famosi ...”.

Quanto ai clienti, cioè agli inserzionisti, essi continuano ad essere persuasi che più spot meno stop alle vendite. “La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti”, ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. “E’ un fatto assodato che la gente  non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario”, ha detto una volta Howard Luck Gossage, grande copy writer.

In altri termini, l’esperienza, nonché la pratica ci dice che il consumatore moderno passa senza soluzione di continuità, nell’ arco temporale di una giornata-tipo, dalla tv (la mattina a casa), alla radio (in auto per andare al lavoro), dalle affissioni (che incontra movendosi in città, compresi i mega schermi che cominciano ad essere sempre più numerosi sugli  edifici), ai free press (ai semafori o in metro), dal giornale (che vede la bar durante il caffè, che compra all’edicola, che trova in ufficio), a internet (che ha in ufficio sulla scrivania), da i monitor che sono stati piazzati nelle stazioni ferroviarie e negli aeropori, fino alle news che trova sul telefonino a ogni ora del giorno, fino di nuovo alla tv che ritroverà a casa la sera, rifacendo a ritroso il percorso-tipo, scandito dagli appuntamenti informativi e pubblicitari che ho appena descritto. In questo contesto,  il messaggio pubblicitario non può che essere “neutro” rispetto al mezzo che lo contiene e lo veicola, capace di adattarsi di più alle esigenze di chi il messaggio lo fruisce.

Bisogna essere invece molto d’accordo con Sassoli de Bianchi quando dice: “Noi dell’Upa riteniamo che sia un errore per le aziende sane privarsi di una spinta che ha un obiettivo molto ambizioso: tenere desta la fiducia.” Ma soprattutto, si deve sottoscrivere in pieno quanto aggiunge poco dopo: “E’ vero: i consumi ristagnano e gli investimenti in comunicazione arrancano, ma le aziende sane e le marche hanno il dovere di andare controcorrente.” Sembrerebbe davvero un buon viatico per attraversare la crisi, e uscirne tutti migliori di prima. 

Ridare forza attrattiva alla stampa per la pubblicità significa riscoprire un principio basilare: l’autorevolezza di una testata attribuisce credibilità al messaggio pubblicitario, dunque ristabilisce i fili della fiducia tra marca e consumatore. Contemporaneamente, obbliga il marketing e il creativo a essere all’altezza della reputazione della testata e della sua autorevolezza presso i lettori.

Occorre tuttavia superare vecchi preconcetti e vecchi tabù, anche per consentire alla carta stampata di reggere meglio la concorrenza sempre più aggressiva e invadente della tv che bombarda quotidianamente i telespettatori di spot, mini-spot, telepromozioni e televendite – ha scritto Giovanni Valentini, che aggiunge -Colpisce a questo proposito l’ immediato exploit della tv pubblica in Francia che lunedì scorso, nella sua prima serata senza spot in seguito alla riforma voluta da Sarkozy, ha registrato un boom di tre milioni e centomila spettatori in più.

Qui a quanto pare c’è  il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise,  ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa.  A tutto vantaggio del resto della filiera della comunicazione commerciale. Infatti, se gli investimenti nella tv rientrano nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale: dal web al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che l’idea farebbe la differenza, che la strategia farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza  si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv, non solo quella pubblica. Beh, buona giornata.

 

 

 

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Attualità Media e tecnologia

Una brutta notizia.

da zeusnews.com

L’Unione Europea ha autorizzato le forze di polizia a compiere perquisizioni a distanza sui Pc dei cittadini.

Il Consiglio dei Ministri Europeo ha dato l’assenso e subito Inghilterra e Germania si sono mosse per adeguarsi con gioia al nuovo corso: nell’Unione Europea è ora possibilie l’hacking di Stato.

Le forze di polizia degli Stati membri non hanno più bisogno di un mandato e di essere in possesso di prove per perquisire da remoto i computer dei cittadini: ora hanno ufficialmente il permesso di avviare una “sorveglianza intrusiva della proprietà privata” in maniera del tutto autonoma e anonima.

I gruppi in difesa dei diritti umani, Liberty in testa, stanno insorgendo. Shami Chakrabarti, membro di Liberty, sostiene che “Non è diverso dall’irrompere a casa di qualcuno, analizzare i suoi documenti e sequestrare l’hard disk”. Solo che in questo modo il sospettato (se ancora così lo si può definire) non ne ha nemmeno coscienza.

Ovviamente, intromettersi nel computer di qualcuno è un’attività che richiede la compromissione del sistema che opera su quel determinato Pc: assisteremo forse all’invio di mail che contengono virus da parte delle forza dell’ordine? E i produttori di antivirus e software per la sicurezza come si porranno in questa situazione?

Nonostante il Ministero dell’Interno inglese si sia subito attivato per sminuire la portata di questo provvedimento ma senza negare le conseguenze paventate, non solo la privacy dei cittadini viene messa a rischio (qualcuno potrebbe anche dire “Ma tanto io non ho nulla da nascondere”) ma la sicurezza stessa dei loro computer.

Senza contare, poi, le sempre presenti possibilità di abuso di un potere esercitabile senza bisogno dell’autorizzazione di alcuno.

Tratto da: ZEUS News – www.zeusnews.com

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Guerra da orbi nella Striscia di Gaza.

di VITTORIO ZUCCONI da repubblica.it

Il 31 dicembre scorso, la Corte Suprema dello Stato di Israele, non il governo di Teheran o i Fratelli Mussulmani, ha ordinato al governo di permettere l’accesso ai giornalisti internazionali nella striscia di Gaza per osservare gli effetti dei bombardamenti e seguire le operazioni dell’esercito.

Fino a questo momento – siamo alla mattina di mercoledì 7 gennaio – risulta che la stampa internazionale resti bloccata all’interno della linea di frontiera, dettaglio che non viene mai ben chiarito dai giornalisti nei loro servizi.

In compenso, la stampa estera è condotta diligentemente da ufficiali e portavoce di Tzahal, l’esercito d’Israele, a visitare tutti i luoghi dove sia caduto uno razzo di Hamas.

La giustificazione del rifiuto dei generali di obbedire all’ordine della loro Corte Suprema è che la presenza dei giornalisti complica il “lavoro” delle truppe e crea agitazione e confusione nell’opinione pubblica interna e internazionale.

Curiosa e controproducente giustificazione, questa. Il risultato pratico è che le immagini che comunque arrivano da Gaza sono sempre e soltanto filmate da operatori di Hamas o comunque palestinesi, dunque sospettabili di strumentalizzazioni propagandistiche, come sempre e come in tutte le guerre.

Per paura dei giornalisti, le forze israeliane lasciano ai propri nemici il monopolio delle immagini che illuminano d’orrore i nostri televisori. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In tempi di crisi, il fine giustifica i mezzi (pubblicitari).

NYT, pubblicità in prima pagina per far fronte alla crisi economica.

di RAFFAELLA MINICHINI, da repubblica.it

La crisi colpisce il cuore del quotidiano forse più celebre del mondo: il New York Times da oggi vende un “pezzo” della sua prima pagina alla pubblicità contaminando quello che storicamente è sempre stato considerato lo spazio sacro dell’informazione.

La “striscia” comparsa oggi a colori nel taglio basso della prima pagina è stata acquistata dalla Cbs. Come di consueto, il giornale ha informato i lettori delle motivazioni e modalità dell’ennesimo provvedimento d’emergenza per tappare le falle del bilancio aziendale in quello che lo stesso Nyt ammette essere stato il “peggior periodo di entrate dai tempi della Depressione”. Le cifre sono allarmanti per il quotidiano di New York: meno 13,9% rispetto a novembre 2007, meno 7,6% nell’ultimo anno.

All’inizio di dicembre il giornale aveva annunciato un’altra iniziativa clamorosa: l’ipoteca per 225 milioni di dollari del grattacielo di 52 piani nel cuore di Manhattan progettato da Renzo Piano e inaugurato con grande esposizione mediatica poco più di un anno fa, di cui l’azienda editoriale possiede il 58%. Altre misure comprendono il ridimensionamento delle pagine, la chiusura di alcune attività sussidiarie, l’aumento dei prezzi degli abbonamenti.

La pubblicità in prima pagina non è consuetudine di tutti i quotidiani americani: finestre pubblicitarie compaiono sulla copertina di Wall Street Journal, Usa Today, Los Angeles Times, ma non ad esempio sul Washington Post. l prezzo degli ambiti 6 centimetri non è stato reso noto, anche se il giornale sostiene che non c’è differenza con gli spazi interni ma si procede con accordi di acquisti di spazi multipli su varie sezioni del giornale se l’inserzionista desidera comparire sulla “vetrina” di prima. “Resta da vedere quanto si riuscirà a vendere nel clima attuale di crollo degli investimenti pubblicitari”, è però la realistica valutazione fatta dallo stesso New York Times nell’edizione di oggi.

In passato il Nyt aveva pubblicato “in rare occasioni” spazi pubblicitari in prima pagina fatti di poche righe di testo. Erano comparse finestra composte da testo e immagini nelle copertine delle sezioni intermedie, ma la testata – scrive oggi Richard Perez-Pena sullo stesso Nyt – “non aveva mai venduto finestre in prima pagina, considerandola un’intrusione commerciale nello spazio informativo più importante del giornale”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Cosa significa il tonfo dei consumi di Natale.

 

Secondo i dati del Codacons i consumi italiani, nel periodo natalizio, sono scesi del 20% rispetto all’anno scorso e per i prossimi saldi le attese sono per un calo degli acquisti del 30% rispetto all’anno scorso. Secondo Federconsumatori-Adusbef, inoltre, per i regali di Natale, gli italiani hanno speso quest’anno 2 miliardi in meno rispetto all’anno scorso.  A questo dato si aggiunge il rilevamento del’Osservatorio del turismo, secondo il quale i viaggi per le vacanze invernali registrano una flessione del 15%.  Se confermati, il combinato disposto tra questi due dati ci dice che non solo i ceti meno abbienti, ma anche i ceti medi si sono trovati in grave difficoltà economica in questa fine d’anno.

Il tonfo dei consumi che si è registrato a Natale significa almeno tre cose.

La prima è che gli appelli all’ottimismo e le professioni di fiducia sono risultati del tutto vani, se non addirittura hanno peggiorato la percezione della crisi. In principio si è voluto sottacerne la portata, poi si sono fatte ammissioni a mezza bocca, infine si cercato di minimizzare. E’ sembrata la barzelletta del medico che chiama il suo paziente per annunciargli una brutta notizia e una pessima: “ la brutta notizia è che lei ha ventiquattro ore di vita, la pessima è che mi sono dimenticato di telefonare ieri.” Per una volta,  nello spazio di poche settimane, realtà e percezione della realtà sono arrivate in perfetta sincronia alle feste natalizie.

La seconda cosa che il tonfo dei consumi ha dimostrato è che le misure anticrisi si sono rivelate del tutto tardive e inefficaci. L’attitudine “compassionevole” ha deluso e preoccupato. Non si è avuto il coraggio di operare scelte coraggiose, come in altri paesi della Ue si è fatto per tempo. Bonus figli e social card sono scivolate via come l’acqua.  In proporzione, ha fatto meglio il cardinale Tettamanzi a Milano che il capo del governo a Roma. Chi diceva che il pacchetto anti-crisi era vuoto aveva ragione. Chi sosteneva e sostiene ancora la necessità di un forte intervento del welfare (Obama docet) ha visto per tempo la portata della crisi economica. Le ragioni dello sciopero generale indetto dalla Cgil, dai sindacati di base e dall’Onda degli studenti c’erano tutte. Avrebbero, per altro, fermato la tendenza alla messa in cassa integrazione generalizzata, nonché ai tagli pesanti e generalizzati degli occupati, scelte spesso proditorie, più politiche che economiche assunte da Confindustria per forzare la mano degli aiuti alle imprese. Ostinarsi a non favorire salari e stipendi, chiudere gli occhi di fronte al precariato ha materialmente depresso i consumi, oltre che frustrato i livelli economici delle famiglie, impoverendole sia di soldi che di futuro.

Il tonfo dei consumi ha un terzo risvolto, che riguarda l’inefficacia dimostrata della pubblicità durante questa crisi. La tv ha fallito. In Italia circa il 70% delle risorse pubblicitarie sono investite in televisione, a danno della carta stampata e degli altri mass media, compreso internet. Dunque, il fallimento della tv è ancora più clamoroso. C’è una vera e propria emergenza che colpisce la comunicazione commerciale in Italia. Allo strutturale ritardo nello sviluppo di forme più moderne e articolate di comunicazione pubblicitaria si è aggiunta la cecità di chi crede ancora che prendere a ceffoni il telespettatore con una gragnola di spot e di telepromozioni sia sufficiente per superare il crollo della propensione alla spesa di milioni di italiani.

Il comune denominatore dei tre significati del tonfo dei consumi natalizi è che le cure si sono rivelate peggiori del male. Bisogna cambiare medico (infermieri compresi).  Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il Solstizio d’Inverno della pubblicità italiana.

Una gelida ventata di licenziamenti ha attraversato le agenzie di pubblicità italiane in prossimità di queste vacanze invernali. La crisi pensa più velocemente dei manager: sarà perché forse leggono poco i giornali, sarà perché forse evitano le trasmissioni televisive “ansiogene”, fatto sta che nei dieci giorni precedenti al Natale sono andati perduti decine e decine di posti di lavoro nello stesso lasso di tempo, con la stessa frettolosa decisione.  Che le cose sarebbero andate così come sono poi andate era ben chiaro da mesi. Ciononostante, abbiamo assistito, non senza stupore, a varie e insistenti dichiarazioni rese alla stampa di settore da importanti manager di agenzie italiane nelle quali si diceva che non c’erano problemi, che tutto andava bene. Un perdita talmente secca del senso della realtà non si era mai verificato in modo così evidente. Poi la verità ha preso il sopravvento su piccole strategie comunicative.

Non è mai stata una novità nel mercato della comunicazione commerciale il fatto che alla perdita di un budget corrispondesse la perdita di lavoro di creativi e addetti al contatto col cliente, tuttavia questa volta si è verificata una dose inconsueta di sadismo: una agenzia tra le prime dieci in Italia ha comunicato il licenziamento  agli interessati via telefono; un’altra lo ha fatto all’indomani della festa aziendale, inaugurando un rituale che potrebbe essere definito “stasera brindo con te, domattina ti sbatto fuori”. Si hanno notizie, nonostante la cortina di silenzio che si è innalzata tra l’omertà dei manager e il pudore degli interessati, di tagli consistenti a tutti i livelli, in ogni ordine e grado, tra le grandi e le piccole agenzie che compongono il mercato della pubblicità italiana.

Quando, appunto, la verità è venuta a galla, nonostante proclami di buona salute finanziaria che alla luce dei fatti suonano viepiù grotteschi si è finalmente capito che la crisi ha esondato perché le agenzie sono state completamente impreparate ai nuovi scenari economici; che la crisi ha travolto  gli argini perché i livelli di cultura professionale erano fradici e pericolanti; che la crisi ha alluvionato giovani talenti, tra i quali molte giovani donne perché le agenzie italiane non si sono rinnovate in tempo. Quando non si vogliono vedere i nodi che vengono al pettine, è il pettine che viene ai nodi e li strappa con dolore, invece che scioglierli.

Esistono responsabilità personali tra coloro che dirigono le agenzie, non fosse altro perché la sola cosa che sono stati capaci di fare è stato tagliare tutto, tranne che i propri emolumenti. Cionondimeno le responsabilità collettive sono ancora più evidenti. La pubblicità italiana, avvitata su sé stessa ha smaccatamente rinunciato a essere uno strumento valido, efficace e duraturo per aiutare le aziende a resistere alla crisi e a prepararsi alla ripresa. Quelli che dovevano far vedere come si fa, hanno semplicemente dato il peggio di sé.

Se gli utenti della pubblicità italiana, gli investitori nella comunicazione commerciale avevano dubbi sulla effettiva capacità delle rispettive  agenzie, oggi sembrano maturare la certezza che così come è organizzato il mercato della comunicazione  in Italia l’agenzia di pubblicità vale poco, per non dire che serve a niente.

Anzi, l’agenzia di pubblicità così come la conosciamo in Italia sembra confermare in pieno le scelte di quegli imprenditori che da tempo hanno deciso di pagare sempre meno le loro agenzie. La perdita di autorevolezza ha fatto spazio alla mancanza di fiducia, la mancanza di fiducia ha raffreddato la propensione agli investimenti, la crisi degli investimenti ha ridotto l’agenzia da azienda di servizi a  incerto fornitore di servigi.

Con quale risultato? Proprio quello che si legge nelle misere cifrette che annaspano sotto la bottom line dei fogli elettronici che avvelenano il sonno dei direttori finanziari.  E’ inutile nasconderselo: quest’anno la pubblicità italiana nella stragrande maggioranza dei casi non è riuscita nemmeno nell’obiettivo del break even.

Sarebbe troppo comodo dare la colpa alla crisi che attraversa l’economia reale, dopo aver fatto scempio di quella finanziaria. Comunque, non risolverebbe il problema. Perché l’elenco degli errori esiziali è tanto lungo quanto noto, da ben prima si appalesasse l’attuale crisi.  L’agenzia di pubblicità “classica” dopo aver distrutto cultura professionale, sta distruggendo valori economici e, come logica conseguenza, distrugge talenti e azzera posti di lavoro.

Chi ha pensato di essere così furbo da fare profitti senza produrre idee, ha scoperto che senza idee si fanno solo perdite.

 Il sistema-paese avrebbe bisogno di una spinta innovativa nella comunicazione commerciale.  Lo chiedono le imprese, lo avvertono i consumatori: ci vuole una spinta che sappia  attraversare il nostro sistema dei media, riorganizzare i centri di produzione di idee; urge un nuovo modo di fare e di pensare la pubblicità, che sappia essere il centro motore di un forte e complessivo rinnovamento.

Le nostrane agenzie di pubblicità non ne sono capaci. Chi è causa della crisi non può essere la soluzione della crisi che ha oggettivamente (ma anche soggettivamente, sia chiaro) contribuire ad aggravare. Ci sono ovviamente brillanti e solitarie eccezioni, ma che, come tutte le eccezioni confermano la regola.

Sono proprio quelle eccezioni, però, che ci dimostrano che è urgente un cambio di punto di vista, la prefigurazione di nuove prospettive, sia nel pensare che nell’agire. La concomitanza tra la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria globale è stata definita “la tempesta perfetta” da Jeremy Rifkin. Dobbiamo prendere seriamente in considerazione che la crisi dell’informazione mondiale è la  “quarta crisi” che si aggiunge alla tempesta perfetta. Le implicazioni con la democrazia e il rapporto con l’opinione pubblica che la  “quarta crisi” porta con sé meritano un approfondimento in altra sede. Qui basti ricordare che anche i consumatori fanno parte dell’opinione pubblica, raggiunta a vario titolo dai media. Se i  media classici sono in crisi da tempo, la pubblicità, che è nata e cresciuta all’interno dei media non può che subire e pagare il suo tributo alla “quarta crisi”.

Allora non c’è che da rimboccarsi le maniche  e dare vita a un agenzia di “nuova generazione” che sappia raccordare i messaggi commerciali delle aziende con il sentimento comune dei cittadini- consumatori, con i quali costruire nuove relazioni, utilizzando tutti gli strumenti, tutti i veicoli, in una piattaforma multicanale e convergente che sappia fare delle nuove tecnologie le proprie fondamenta. Sulle quali rifondare cultura professionale, liberare intuizioni, creare un ambiente favorevole alla creatività pubblicitaria e a lungimiranti strategie di marketing.

Fuori dalle pastoie delle agenzie “classiche” ci sono concrete possibilità che la “quarta crisi” sia il luogo favorevole per dare vita  all’agenzia di “nuova generazione”. Perché  idee forti e nuove  siano creative di scenari, più ricchi e promettenti per le aziende, per i consumatori, per il mercato. Beh, buona giornata.

p.s.: a tutti i lettori ‘guri (pare che in tempi di crisi bisogna tagliare).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Alla faccia di Facebook.

Con Amici come questi…
di Tom Hodgkinson – The Guardian

Facebook ha 59 milioni di utenti – e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.

Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?

E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l’uno dall’altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.

Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l’altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all’amicizia: sembra che nell’amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei “popolare”, nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell’editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».

Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d’identità e le proprie scelte di consumatore a un’azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all’attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell’anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un’accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».

Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.

Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti “di rischio” della Silicon Valley, hanno un’ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un’espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.

Malgrado il progetto sia stato concepito inizialmente dalla star da copertina Mark Zuckerberg, il vero volto che sta dietro Facebook è il quarantenne venture capitalist della Silicon Valley e filosofo “futurista” Peter Thiel. Ci sono soltanto tre consiglieri di amministrazione per Facebook, e sono Thiel, Zuckerberg e un terzo investitore che si chiama Jim Breyer, che proviene da un’azienda di venture capital, la Accel Partners (di lui parleremo più avanti). Thiel investì 500 mila dollari in Facebook quando gli studenti di Harvard Zuckerberg, Chris Hughes e Dustin Moskowitz lo incontrarono a San Francisco nel giugno del 2004, non appena fecero partire il sito. Thiel, secondo la stampa, oggi possiede il 7 per cento di Facebook, quota che, secondo l’attuale stima del valore dell’azienda di 15 miliardi di dollari, vale più di un miliardo. Chi siano esattamente i cofondatori originali di Facebook è controverso, ma chiunque siano, Zuckerberg è l’unico rimasto nel consiglio d’amministrazione, malgrado Hughes e Moskowitz lavorino ancora per l’azienda.

Thiel è considerato da molti nella Silicon Valley e nel mondo del venture capital a stelle e strisce come un genio del liberismo. È il cofondatore e amministratore delegato del sistema bancario virtuale Paypal, che vendette a Ebay per un miliardo e mezzo di dollari, tenendo per sé 55 milioni. Gestisce anche un hedge fund da 3 miliardi di euro, il Clarium Capital Management, e un fondo di venture capital, Founders Fund. La rivista Bloomberg Markets l’ha recentemente descritto come «uno dei manager di hedge fund più di successo del paese». Ha fatto i soldi scommettendo sul rialzo del prezzo del petrolio e azzeccando la previsione che il dollaro si sarebbe indebolito. Lui e i suoi straricchi compagni della Silicon Valley sono stati recentemente etichettati come “La mafia di Paypal” dalla rivista Fortune, il cui cronista ha notato anche che Thiel ha un maggiordomo in livrea e una supercar della McLaren da 500 mila dollari. Thiel è anche un campione di scacchi ed ama la competizione. Si dice che una volta dopo aver perso una partita, in un accesso d’ira, abbia gettato a terra tutte le pedine. E non si scusa per la sua iper-competitività: «Un buon perdente resta sempre un perdente».

Ma Thiel è più di un semplice capitalista scaltro e avido. Infatti è anche un filosofo “futurista” e un attivista neocon. Filosofo laureato a Stanford, nel 1998 fu tra gli autori del libro The Diversity Myth [Il Mito della Diversità, ndt], un attacco dettagliato all’ideologia multiculturalista e liberal che dominava Stanford. In questo libro sosteneva che la “multicultura” portava con sé una diminuzione delle libertà personali. Da studente di Stanford, Thiel fondò un giornale destrorso, che esiste ancora, la Stanford Review, il cui motto è Fiat Lux (“Sia la luce”). Thiel è membro di TheVanguard.org, un gruppo di pressione neoconservatore basato su internet, nato per attaccare MoveOn.org, gruppo di pressione liberal attivo sul web. Thiel si dichiara «estremamente libertario».

TheVanguard è gestito da un certo Rod D. Martin, capitalista-filosofo molto ammirato da Thiel. Sul sito, Thiel dice: «Rod è una delle menti di spicco nel nostro paese per quanto riguarda la creazione di nuove e necessarie idee sulle politiche pubbliche. Ha una comprensione dell’America più completa di quella che hanno della propria azienda molti amministratori delegati».

Il piccolo assaggio che segue, preso dal loro sito, vi darà l’idea della loro visione del mondo: «TheVanguard.org è una comunità online che crede nei valori conservatori, nel libero mercato e nella limitazione del governo come gli strumenti migliori per portare speranza e opportunità sempre maggiori per tutti, specie per i più poveri fra noi». Il loro scopo è quello di promuovere linee politiche che «diano nuova forma all’America e al mondo intero». TheVanguard descrive le proprie politiche come «reaganiane-thatcheriane». Il messaggio del presidente recita così: «Oggi daremo a MoveOn [il sito liberal], a Hillary e ai media di sinistra una lezione che non si aspetterebbero mai».

Non ci sono dubbi sulle idee politiche di Thiel. Ma qual è la sua filosofia? Sono andato ad ascoltarmi, in un podcast, un discorso di Thiel circa le sue idee sul futuro. La sua filosofia, in breve, è questa: fin dal XVII secolo, alcuni pensatori illuminati hanno strappato il mondo dalla sua antiquata vita legata alla natura – e qui cita la famosa descrizione fatta da Thomas Hobbes della vita come «meschina, brutale e breve» – per portarlo verso un nuovo mondo virtuale nel quale la natura è conquistata. Il valore è ora assegnato alle cose immaginarie. Thiel afferma che PayPal è nato proprio da questa credenza: che si possa trovare valore non in oggetti concreti fatti da mano d’uomo, ma in relazioni fra esseri umani. Paypal è un modo di spostare denaro in giro per il mondo senza limitazioni. Bloomberg Markets la pone così: «Per Thiel, PayPal significa libertà: permetterebbe alla gente di scansare i controlli sulla valuta e spostare denaro in giro per il mondo».

Chiaramente, Facebook è un altro esperimento iper-capitalista: si possono ricavare soldi dall’amicizia? Si possono creare comunità libere dai confini nazionali, e poi vendere loro Coca Cola? Facebook non è per niente creativo. Non produce assolutamente nulla. Tutto quello che fa è mediare relazioni che si sarebbero allacciate in ogni caso.

Il mentore filosofico di Thiel è un certo René Girard dell’università di Stanford, ideatore di una teoria del comportamento umano chiamata “desiderio mimetico”. Girard ritiene che le persone siano essenzialmente come pecore e si imitino l’una con l’altra senza pensarci troppo su. La teoria sembra essere provata anche nel caso dei mondi virtuali di Thiel: l’oggetto desiderato è irrilevante; è sufficiente soltanto che gli esseri umani abbiamo la tendenza a muoversi in greggi. Da qui derivano le bolle finanziarie. Da qui deriva l’enorme popolarità di Facebook. Girard è un habitué delle serate intellettuali di Thiel. Tra l’altro, una cosa che non potrete trovare nella filosofia di Thiel sono gli antiquati concetti che appartengono al mondo reale, come Arte, Bellezza, Amore, Piacere e Verità.

Internet è un’immensa attrattiva per i neocon come Thiel, perché promette, in un certo senso, libertà nelle relazioni umane e negli affari, libertà dalle noiose leggi nazionali, dai confini nazionali e da altre cose di questo genere. Internet apre un mondo di espansione per il libero mercato e per il laissez-faire. Thiel sembra approvare anche i paradisi fiscali offshore, e sostiene che il 40 per cento della ricchezza mondiale si trova in posti come Vanuatu, le isole Cayman, Monaco e le Barbados. Penso sia giusto dire che Thiel, come Rupert Murdoch, è contrario alle tasse. Gli piace anche la globalizzazione della cultura digitale, perché rende quasi inattaccabili i padroni delle banche: «I lavoratori non possono fare una rivoluzione per impossessarsi di una banca, se quella banca ha sede a Vanuatu», dice.

Se la vita del passato era meschina, brutale e breve, Thiel vuole rendere la vita del futuro molto più lunga, investendo a questo fine in un’azienda che esplora tecnologie per allungare la vita. Ha promesso tre milioni e mezzo di sterline a un gerontologo di Cambridge, Aubrey de Grey, che sta cercando la chiave dell’immortalità. Thiel è anche membro del collegio dei consulenti di qualcosa come il Singularity Institute for Artificial Intelligence. Nel suo fantastico sito internet, si trovano le seguenti parole: «La Singularity è la creazione tecnologica di un’intelligenza superiore a quella umana. Ci sono parecchie tecnologie […] che vanno in questa direzione […] l’Intelligenza Artificiale […] interfacce che collegano direttamente computer e cervello […] ingegneria genetica […] differenti tecnologie che, se raggiungessero una certa soglia di complessità, permetterebbero la creazione di un’intelligenza superiore a quella umana».

Per sua stessa ammissione, quindi, Thiel sta cercando di distruggere il mondo reale, da lui chiamato anche “natura”, e di installare al suo posto un mondo virtuale. Ed è in questo contesto che dobbiamo vedere il successo di Facebook. Facebook è un esperimento volto deliberatamente alla manipolazione mondiale, e Thiel è un brillante personaggio del pantheon neoconservatore con un debole per incredibili fantasie “tecno-utopiche”. E io non voglio aiutarlo a diventare più ricco.

Il terzo membro del consiglio di amministrazione di Facebook è Jim Breyer. È parte della ditta di venture capital Accel Partners, che ha messo 12 milioni e 700 mila dollari per il progetto Facebook nell’aprile 2005. Oltre a essere membro di questi giganti statunitensi, della stessa caratura di Wal-Mart e Marvel Entertainment, è anche ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA). Sono queste le persone che hanno successo in America, perché investono in nuovi e giovani talenti, come Zuckerberg. La più recente raccolta di finanziamenti di Facebook fu portata avanti da un’azienda, la Greylock Venture Capital, che fornì 27 milioni 500 mila dollari. Uno dei più vecchi soci di Greylock è Howard Cox, altro ex presidente della NVCA, e membro del CdA di In-Q-Tel. Che cos’è In-Q-Tel? Beh, che ci crediate o no (andatevi a vedere il suo sito), è la costola della Cia nel capitale di rischio. Dopo l’Undici Settembre, la comunità dei servizi segreti Usa divenne così entusiasta delle possibilità della nuova tecnologia e delle innovazioni del settore privato, che nel 1999 costituì il proprio fondo di capitale di rischio, l’In-Q-Tel, che «identifica e collabora con le aziende che sviluppano tecnologie all’avanguardia, per aiutare a rilasciare questi ritrovati alla Central Intelligence Agency e alla più vasta US Intelligence Community (IC) al fine di promuovere la loro missione»*.

Il dipartimento della difesa statunitense e la Cia amano la tecnologia perché rende lo spionaggio più facile. «Abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per dissuadere i nuovi avversari», disse nel 2003 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld. «Dobbiamo fare il salto nell’era dell’informatica, che costituisce le fondamenta essenziali dei nostri sforzi di cambiamento». Il primo presidente di In-Q-Tel fu Gilman Louie, che sedette nel CdA di NVCA assieme a Breyer. Un’altra figura chiave nel team di In-Q-Tel è Anita K. Jones, ex direttrice della sezione ricerca e ingegneria del dipartimento della Difesa, e, assieme a Breyer, membro del CdA di BBN Technologies. Quando abbandonò il dipartimento della Difesa, il senatore Chuck Robb le fece questo omaggio: «Lei ha unito tecnologia e comunità militari operative per dare vita a piani dettagliati con il fine di sostenere il dominio Usa sui campi di battaglia del prossimo secolo».

Ora, anche se non si accetta l’idea che Facebook sia una specie di estensione del programma imperialistico statunitense incrociata con uno strumento per raccogliere immense quantità d’informazioni, non si può in nessun modo negare che, come affare, sia davvero geniale. Qualche smanettone online ha fatto intendere che la sua valutazione di 15 miliardi di dollari sia eccessiva, ma io direi semmai che è troppo contenuta. La sua grandezza dà le vertigini, e il potenziale di crescita è virtualmente infinito. «Vogliamo che tutti siano in grado di usare Facebook», dice l’impersonale voce del Grande Fratello sul sito. E penso proprio che lo faranno. È l’enorme potenziale di Facebook che spinse Microsoft a comprarne l’1,6 per cento per 240 milioni di dollari. Recentemente circolano voci secondo cui un investitore asiatico, Lee Ka-Shing, il nono uomo più ricco della terra, abbia comprato lo 0,4 per cento di Facebook per 60 milioni di dollari.

I creatori del sito non fanno altro che giocherellare col programma. In genere, stanno seduti con le mani in mano a guardare milioni di “drogati” di Facebook fornire di spontanea volontà i dettagli della loro carta d’identità, le loro foto e la lista dei loro oggetti di consumo preferiti. Ricevuto questo smisurato database di esseri umani, Facebook vende semplicemente le informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in uno degli ultimi post sul blog, «cerca di aiutare le persone a condividere informazioni con i loro amici riguardo alle cose che fanno sul web». Ed è infatti proprio ciò che accade. Il 6 novembre dello scorso anno, Facebook annunciò che 12 marchi mondiali erano saliti a bordo. Tra essi, c’erano Coca Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. Ben allenati in stronzate da marketing di altissimo livello, i loro rappresentanti gongolavano con commenti come questo:

«Con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo di comunicare e interagire degli utenti su Facebook», disse Carol Kruse vicepresidente della sezione marketing interattivo globale, gruppo Coca Cola.

«È un modo innovativo di far nascere e crescere relazioni con milioni di utenti di Facebook permettendo loro di interagire con Blockbuster in maniera conveniente, pertinente e divertente», disse Jim Keyes, presidente e amministratore delegato di Blockbuster. «Ciò va al di là della creazione di pubblicità efficaci. Si tratta piuttosto della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con gli amici».

“Condividere” è la parola in lingua di Facebook che sta per “pubblicizzare”. Chi si registra a Facebook diventa un girovago che parla delle reclame di Blockbuster o della Coca Cola, e tesse le lodi di questi marchi agli amici. Stiamo assistendo alla mercificazione delle relazioni umane, l’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia.

Ora, in confronto a Facebook, i giornali, per esempio, come modello d’impresa, sembrano disperatamente fuori moda. Un giornale vende spazi pubblicitari alle imprese che cercano di vendere la loro roba ai lettori. Un sistema che è però molto meno complesso di quello di Facebook. E questo per due ragioni. La prima è che i giornali debbono sopportare fastidiose spese per pagare i giornalisti che forniscono contenuti. Facebook, invece, i contenuti li ha gratis. La secondo è che Facebook può calibrare la pubblicità con una precisione infinitamente superiore rispetto a un giornale. Se, per esempio, si dice su Facebook di amare il film This Is Spinal Tap, quando uscirà nei cinema un film simile, state pur sicuri che vi terranno informati. Mandandovi la pubblicità.

È vero che Facebook ultimamente è stato nell’occhio del ciclone per il suo programma di pubblicità Beacon. Agli utenti veniva recapitato un messaggio che diceva che i loro amici avevano fatto acquisti in un certo negozio online. Furono 46 mila gli utenti a reputare questo tipo di pubblicità troppo invasiva, tanto che giunsero a firmare una petizione dal titolo «Facebook, smettila di invadere la mia privacy!». Zuckerberg si scusò nel blog aziendale, scrivendo che il sistema era ora cambiato da “opt out” [1] a “opt in” [2]. Io ho il sospetto però che questa piccola ribellione per essere stati così spietatamente mercificati sarà presto dimenticata: dopotutto, ci fu un’ondata di protesta nazionale da parte del movimento delle libertà civili quando si dibattè nel Regno Unito l’idea di una forza di polizia a metà del XIX secolo.

E per di più, voi utenti di Facebook avete mai letto davvero l’informativa sulla privacy? Ti dice che non è che di privacy ne hai poi molta. Facebook fa finta di essere un luogo di libertà, ma in realtà è più simile a un regime totalitario virtuale mosso dall’ideologia, con una popolazione che molto presto sarà superiore a quella del Regno Unito. Thiel e gli altri hanno dato vita al loro paese, un paese di consumatori.

Ora, voi, come Thiel e gli altri nuovi signori del ciberuniverso, potreste reputare questo esperimento sociale tremendamente eccitante. Ecco qui finalmente lo Stato illuminista desiderato ardentemente fin dal tempo in cui i Puritani, nel XVII secolo salparono verso l’America del Nord. Un mondo dove tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, a seconda di chi li sta guardando. I confini nazionali sono un’anticaglia. Tutti ora fanno capriole insieme in uno spazio virtuale dove ci si può esprimere a ruota libera. La natura è stata conquistata attraverso l’illimitata ingegnosità umana. E voi potreste decidere di inviare a quel geniale investitore di Thiel tutti i vostri soldi, aspettando con impazienza la quotazione ufficiale dell’inarrestabile Facebook.

O, in alternativa, potreste riflettere e rifiutare di essere parte di questo ben foraggiato programma, volto a creare un’arida repubblica virtuale, dove voi stessi e le vostre relazioni con gli amici siete convertiti in merce da vendere ai colossi multinazionali. Potreste decidere di non essere parte di questa Opa contro il mondo.

Per quanto mi riguarda, rifuggirò Facebook, rimarrò scollegato il più possibile, e trascorrerò il tempo che ho risparmiato non andando su Facebook facendo qualcosa di utile, come leggere un libro. Perché sprecare il mio tempo su Facebook quando non ho ancora letto l’Endimione di Keats? Quando devo piantare semi nel mio orto? Non voglio rifuggire la natura, anzi, mi ci voglio ricollegare. Al diavolo l’aria condizionata! E se avessi voglia di mettermi in contatto con la gente intorno a me, tornerei a usare un’antica tecnologia. È gratis, è facile da usare e ti permette un’esperienza di condivisione di informazioni senza pari: è la parola.

L’informativa sulla privacy di Facebook

Per farvi quattro risate, provate a sostituire le parole “Grande Fratello” dove compare la parola “Facebook”

1 Ti recapiteremo pubblicità

«L’uso di Facebook ti dà la possibilità di stabilire un tuo profilo personale, instaurare relazioni, mandare messaggi, fare ricerche e domande, formare gruppi, organizzare eventi, aggiungere applicazioni e trasmettere informazioni attraverso vari canali. Noi raccogliamo queste informazioni al fine di poterti fornire servizi personalizzati»

2 Non puoi cancellare niente

«Quando aggiorni le informazioni, noi facciamo una copia di backup della versione precedente dei tuoi dati, e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole per permetterti di ritornare alla versione precedente»

3 Tutti possono dare un’occhiata alle tue intime confessioni

« […] e non possiamo garantire – e non lo garantiamo – che i contenuti da te postati sul sito non siano visionati da persone non autorizzate. Non siamo responsabili dell’elusione di preferenze sulla privacy o di misure di sicurezza contenute nel sito. Sii al corrente del fatto che, anche dopo la cancellazione, copie dei contenuti da te forniti potrebbero rimanere visibili in pagine d’archivio e di memoria cache e anche da altri utenti che li abbiano copiati e messi da parte nel proprio pc».

4 Il tuo profilo di marketing fatto da noi sarà imbattibile

«Facebook potrebbe inoltre raccogliere informazioni su di te da altre fonti, come giornali, blog, servizi di instant messaging, e altri utenti di Facebook attraverso le operazioni del servizio che forniamo (ad esempio, le photo tag) al fine di fornirti informazioni più utili e un’esperienza più personalizzata».

5 Scegliere di non ricevere più notifiche non significa non ricevere più notifiche

«Facebook si riserva il diritto di mandarti notifiche circa il tuo account anche se hai scelto di non ricevere più notifiche via mail»

6 La Cia potrebbe dare un’occhiata alla tua roba quando ne ha voglia

«Scegliendo di usare Facebook, dai il consenso al trasferimento e al trattamento dei tuoi dati personali negli Stati Uniti […] Ci potrebbe venir richiesto di rivelare i tuoi dati in seguito a richieste legali, come citazioni in giudizio od ordini da parte di un tribunale, o in ottemperanza di leggi in vigore. In ogni caso non riveliamo queste informazioni finché non abbiamo una buona fiducia e convinzione che la richiesta di informazioni da parte delle forze dell’ordine o da parte dell’attore della lite soddisfi le norme in vigore. Potremmo altresì condividere account o altre informazioni quando lo riteniamo necessario per osservare gli obblighi di legge, al fine di proteggere i nostri interessi e le nostre proprietà, al fine di scongiurare truffe o altre attività illegali perpetrate per mezzo di Facebook o usando il nome di Facebook, o per scongiurare imminenti lesioni personali. Ciò potrebbe implicare la condivisione di informazioni con altre aziende, legali, agenti o agenzie governative»

*Nota del Redattore: nella versione originale l’articolo è preceduto dalla seguente rettifica:

“La rettifica che segue è stata stampata nella sezione Rettifiche e chiarimenti del Guardian, mercoledì 16 gennaio 2008

L’entusiasmo della comunità dei servizi segreti statunitensi per il rinnovamento hi-tech dopo l’Undici Settembre e la creazione dell’In-Q-Tel, il suo fondo di venture capital, nel 1999, sono stati anacronisticamente correlati nell’articolo qui sotto. Dal momento che l’attentato alle Torri Gemelle avvenne nel 2001, non può essere stato ciò che ha portato alla fondazione dell’In-Q-Tel due anni prima.”

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] Con il termine inglese opt-out (in cui opt è l’abbreviazione di option, opzione) ci si riferisce ad un concetto della comunicazione commerciale diretta (direct marketing), secondo cui il destinatario della comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di opporsi ad ulteriori invii per il futuro. (fonte: Wikipedia)

[2] Si definisce opt-in il concetto inverso, ovvero la comunicazione commerciale può essere indirizzata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il consenso a riceverla. (fonte: Wikipedia)

Tom Hodgkinson è uno scrittore britannico. Ha collaborato con testate quali ‘The Sunday Telegraph’, ‘The Guardian’ e ‘The Sunday Times’ ed è direttore della rivista ‘The Idler’. Hodgkinson è autore di due libri: ‘How To Be Idle’ (‘L’ozio come stile di vita’, Rizzoli, 2005) e ‘How To Be Free’ (‘La libertà come stile di vita’, Rizzoli, 2007).

Titolo originale: “With friends like these…”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Tradotto da PAOLO YOGURT per ComeDonChisciotte ;
Link originale: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il vero conflitto di interessi.

Fatto salvo il diritto di critica a una misura adottata dal governo, diritto esercitato da Sky, diretta parte in causa, ma anche giustamente esercitato dai giornali italiani, la polemica attorno al conflitto di interessi è un modo tipicamente italiano di affrontare la realtà. Qualcuno ha giustamente detto che in Italia gli scandali non sono fatti, ma semplici opinioni. Il che di per se è proprio uno scandalo. Le parole logorano gli avvenimenti, i commenti esagerano il racconto dei fatti, il dibattito va sopra le righe, i toni si accendono, la polemica infuria. Dopo di che tutto si spegne, alla maniera del detto popolare che recita “passata la festa, gabbato lo santo”.

Il fatto è che il conflitto di interessi c’è. Il fatto è che la legge Frattini contro il conflitto di interessi non è mai stata efficace. Il fatto è che il precedente governo Prodi non ha modificato quella legge inefficace. Il fatto è che l’attuale governo nega l’esistenza del fatto che il conflitto di interessi c’è. Dopo di che ognuno può legittimamente esprimere il suo punto di vista in merito. Ma le opinioni passano, i fatti restano. Questo modo di ragionare fa molto male alla comprensione della realtà, proprio in un momento cruciale della nostra economia, che perde colpi, sotto la pressione dei mercati globali, ma subisce i colpi di una visione per niente lucida della gravità della situazione.

Un lampante conflitto di interessi si sta sviluppando, ancora una volta tra i fatti e le opinioni. Telecom Italia annuncia altri 4000 esuberi, che si aggiungono ai 5000 già dichiarati. Fiat annuncia un massiccio ricorso alla cassa integrazione. Motorola ha chiuso a Torino. Panasonic ha chiuso a Pisticci, in Lucania. La CGIL parla di 450.000 precari che perderanno il posto di lavoro. I sindacati di base parlano dell’allontanamento di oltre 500.000 precari dalla scuola e dal pubblico impiego. La CISL prevede una perdita del posto di lavoro pari a 980.000 unità. La vicenda Alitalia ha messo nell’incertezza migliaia di dipendenti. E’ un fatto assodato che i consumi stiano crollando. E’ un fatto assodato la crisi finanziaria stia impattando ferocemente sull’economia reale. Si possono avere opinioni diverse sull’efficacia delle misure anti-crisi adottate dall’attuale governo. Ma non si può negare la gravità di una situazione che giorno per giorno si sta allargandosi a tutti i comparti della nostra economia: dalla manifattura ai servizi, dal commercio ai trasporti, dalla grande alla piccola e media azienda, dal lavoro dipendente a quello autonomo, dai media alla pubblicità.

Il vero conflitto di interessi del Paese è negare i fatti, a favore di una professione di ottimismo che non ha solide basi, se non quelle di un atteggiamento fondamentalista nelle capacità automatiche del mercato di rigenerare se stesso.
La consapevolezza della gravità della situazione aiuta la ricerca di soluzioni credibili ed efficaci. Al contrario, diffondere vaghi appelli all’ottimismo e alla fiducia fa perdere tempo alle decisioni, confonde le idee, disperde energie altrimenti meglio utilizzabili. Non è più il tempo in cui l’emozione può prendere il posto della ragione. Se guardiamo in faccia la crisi, siamo già nella condizione di superarla. Se ne neghiamo la portata, ne diventiamo gregari, ci trasformiamo in portatori sani di una delle peggiori malattie economiche mai viste.

E’ bene allora che l’informazione dica le cose come le cose stanno. E’bene che lo facciano i giornali, che lo faccia la tv. Sarebbe un sollievo lo facesse la politica. E’ bene che lo capisca anche la pubblicità: basta emozioni, intenti aspirazionali, ragionamenti con “la pancia”.

E’ il momento dell’intelligenza, dell’arguzia, della sobrietà, dell’irriverenza verso il convenzionale e il conformismo. Sia nella creazione di nuove idee, sia nel metodo e negli strumenti. Solo così le marche non entrano in conflitto di interessi con il sentire comune dei consumatori. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.

Spotandweb.it nel numero del 28 novembre, in una intervista raccolta da Stefania Salucci mi ha proposto una riflessione sulla stato dell’arte della pubblicità italiana, in occasione di Eurobest, un premio europeo dedicato alla creatività, organizzato da un consorzio di riviste del settore della comunicazione commerciale nella Eu. Ecco il testo dell’intervista.

Lei ha seguito numerosi clienti internazionali. Esiste una creatività europea? Se sì, per cosa si caratterizza rispetto alla creatività americana, o asiatica, o africana?

Poiché la presenza sul mercato globale delle marche made in Usa ha fatto scuola, è abbastanza complicato immaginare che esista una comunicazione commerciale di stampo continentale. Basti pensare alle grandi holding finanziarie che posseggono le più importanti sigle della pubblicità quotate in borsa. In questo senso, quando parliamo di pubblicità europea ci riferiamo soprattutto a quella generata in Gran Bretagna e in Francia e in parte in Germania. Si tratta di paesi che hanno un posto solido nella globalizzazione, perché le loro aziende si sono da tempo internazionalizzate, e le loro agenzie hanno fatto network, a seguito della globalizzazione dei loro clienti e della commercializzazione dei prodotti su più mercati. Anche dal punto di vista della cultura della comunicazione commerciale, fare network ha finito per significare l’annullamento delle caratteristiche stilistiche, derivanti dalla cultura specifica di un paese, di un continente. Il capitalismo globale fa presto a fare a meno di tutto ciò che non gli è utile. La pubblicità si è adeguata: la creatività è di un mega-brand, non di un paese, figuriamoci di un continente.

L’Italia come si “posiziona”, creativamente parlando, in Europa?

La pubblicità italiana è l’unica in Europa, ma anche nel mondo che ha una caratteristica peculiare, riconoscibile, inimitabile: è brutta, stupida, fa pena. E’ arroccata, con le unghie e con i denti all’ultimo banco, e come il più ottuso dei ripetenti, se ne vanta. Come la scema del villaggio globale, la pubblicità italiana continua infarcire la tv di migliaia di spot, si è immolata al tubo catodico come a un totem. Ha perso il senso della realtà, più è ossessiva più è distante dalla mente dei consumatori. Siamo il paese con la più alta concentrazione di pubblicità televisiva, ma siamo anche il paese che in Europa soffre di più la crisi dei consumi. Come un gregge senza pastore, ce ne stiamo andando allegramente giù per il dirupo del ridicolo. Comunque, segnali della consapevolezza di un approccio più moderno ci sono, bisognerebbe tenerli d’occhio con più attenzione: penso a Draftfcb, a Brand Portal o ad Altavia. Da quelle parti possono venire stimoli rigeneratori del nostro mercato.

Di chi è la colpa se la pubblicità italiana è è brutta, stupida, fa Pena? Dei creativi, dei clienti o degli italiani?

Parlavo di questo con Hans Suter, la S della mitica STZ. Mi diceva che quando, anni fa, era andato per la prima volta a New York, era rimasto terribilmente deluso dalla pubblicità americana, print, tv, outdoor, tutto.
Forse si sentiva condizionato dalle grandi campagne americane che conosceva, ma che tutte queste belle campagne non rappresentavano più dello zero virgola per mille della comunicazione commerciale, questo non se lo sarebbe l’aspettato. Secondo lui, e mi pare di essere d’accordo, l’unico paese che è un poco diverso è la Gran Bretagna, così come avevano e forse ancora hanno un serbatoio enorme di attori bravi così avevano e forse hanno ancora un serbatoio enorme di art director e copywriter. Questo favorisce che la buona qualità arriva anche a livelli più estesi. Credo che non sia più tempo della ricerca delle colpe, quanto sia urgente investire nei creativi, creargli intorno un ambiente favorevole alla creazione di nuove idee. E’ l’unico vero antidoto al conformismo, a quella diffusa dittatura dell’autocensura che ha fatto retrocedere in serie B la nostra creatività, una mediocrità che arriva anche nei concorsi internazionali. Siamo ancora in tempo per invertire la tendenza che ci fa apparire rinunciatari di fronte alle innovazioni e refrattari alla sfida nei confronti di regole che sono superate dai fatti economici, sociali e culturali di questi primi otto anni del Terzo millennio.

Cosa possiamo aspettarci dall’Italia in occasione di Eurobest?

Che non ci caccino, una volta per tutte.

E cosa può dare Eurobest all’Italia?

L’ennesima lezione, come succede ormai in tutti i consessi internazionali, a cominciare dal festival di Cannes. Ormai siamo un lontano cugino un po’ intronato del mondo della pubblicità, di quelli che si sopportano, perché tanto non cè proprio niente da fare. Ogni volta torniamo a casa piagnucolando come mocciosi, poi tiriamo su col naso e ricominciamo a fare le stesse cazzate di prima.

Cosa ne pensa dei concorsi internazionali: sono ancora un valido termometro per misurare la creatività di un’agenzia? E di una nazione? Sono un traguardo o un trampolino professionale per i creativi?

Tutte le occasioni di incontro e di confronto tra le idee sono utili. Parlo di idee, quelle che da noi sono viste come la peste. Infatti, quando raramente ancora vinciamo qualcosa, il dibattito, invece che sull’idea, si sposta sull’auto-valorizzazione delle sigla o del creativo che ha vinto. Vedere, capire e approfondire le ragioni di una approccio creativo vincente è qualcosa di molto più importante che trastullarsi all’idea di dove mettere il trofeo: in sala riunioni dell’agenzia o sul tavolo del creativo che lo ha vinto? Qui il problema non è il trampolino di lancio, quando ogni giorno c’è chi toglie l’acqua dalla piscina. Vincere un premio fa bene alla salute, diceva un famoso creativo italiano. Ma i premi passano, le campagne restano, come segnale del livello raggiunto dalla creatività sul quel prodotto, su quel settore merceologico, sul quel media. I concorsi internazionali sono un contributo alla crescita della cultura professionale. Tutto il resto ha un valore relativo al contesto al quale si è partecipato. Sedersi sugli allori fa venire i foruncoli sulle natiche.

Secondo lei, c’è una tendenza internazionale (e di questi festival) a premiare campagne che funzionano visivamente (o concettualmente) indipendentemente dal testo? Se sì, cosa ne pensa?

In genere vincono idee innovative, approcci sorprendenti, esecuzioni inusuali. In una parola, quello che chiamiamo creatività. C’è stata una certa tendenza a produrre campagne “da concorso”, con grandi foto e piccoli testi.
Però, l’esame autoptico di una campagna, del rapporto tra immagine e testo, francamente non mi appassiona. Anzi, lo trovo un bel po’ fuorviante, mi fa pensare alla relazione che sempre si stabilisce tra il saggio, lo stolto, la luna e il dito.

Esiste davvero e funziona una comunicazione globalizzata, standard in tutto il mondo, oppure per essere efficacie deve adattarsi (in termini creativi e di contenuti) al paese in cui viene trasmessa?

Tra le esigenze della marca globale e le aspettative del consumatore locale si stabilisce sempre una relazione dialettica, che deve essere interpretata dalla creatività. Le strategie della comunicazione commerciale moderna non sono semplicemente riconducibili alle esigenze tra globale e locale di uno specifico veicolo, come la tv o la stampa. Le marche moderne usano tutta la filiera della pubblicità. Ciò che conta, che fa la differenza tra una campagna di successo e un flop, sta nello stesso superamento del concetto di campagna, così come lo abbiamo pensato nel ‘900. La grande marca ha aperto una piattaforma multicanale di comunicazione col suo mercato, di cui la campagna specifica è solo un segmento. Internet ha svoltato il Terzo millennio della comunicazione commerciale, rendendo mobile sulla filiera degli strumenti la sintesi che una volta era di puro appannaggio dell’advertising classico, con la tv come punta di diamante. A seconda della risposta dei mercati, la sintesi si può verificare in altri ambiti, che non è detto siano semplicemente le azioni sulla pubblicità tabellare. L’attuale grave crisi finanziaria ed economica che sta attraversando tutto il mondo spingerà sempre di più la pubblicità verso multidisciplinarità e multicanalità. Non è una mera questione di economie di scala, ma la prospettiva di nuovi traguardi che le grandi marche devono sapersi dare. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. E’ con questo spirito che dobbiamo andare ai concorsi internazionali: prendere le misure di una nuova realtà, prepararsi a esserne all’altezza. Qui se non si è capaci di volare alto, possiamo dire addio a ogni velleità, a cominciare da un ambìto pezzo di latta da mettere nella bacheca dei trofei. (Beh, buona giornata.)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Risolto lo strano caso.

Ho scritto: “Francamente credo si tratti di un banale incidente di percorso nella confezione del giornale.” Antonio Tricomi, sabato 22 ha commentato:“Vedendo l’intervista, ho notato anch’io l’amara coincidenza”. E ha aggiunto, nel suo commento di domenica 23: “L’articolo è stato impaginato alle 22 di domenica e gli spazi pubblicitari vengono decisi la mattina.”

Al netto di attacchi personali e non richieste difese d’ufficio di una prestigiosa testata giornalistica, ciò che si evince è che ho scritto il vero: si è effettivamente verificato “un banale incidente di percorso nella confezione del giornale”. Lo strano caso di product placement sulla carta stampata è risolto. Il caso è chiuso. Beh, buona giornata.

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