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L’ombra del Cupolone sul Campidoglio: la giunta Alemanno e il fondamentalismo cattolico.

Suscita polemiche l’Agenzia Comunale per le adozioni e l’affidamento, favorevole il XX Municipio.
Posizioni contrastanti soprattutto sui toni e le affermazioni del testo introduttivo al decreto comunale.
di Alessandra Loffredi-Zona.

Nei primi giorni di aprile il Consiglio del XX Municipio, non senza contrasti, esprimeva parere favorevole nei confronti della delibera comunale per l’istituzione di un’ Agenzia delle Adozioni e dell’Affidamento. Promossa dal Consigliere Capitolino Bianconi, la proposta del Consiglio Comunale ha scatenato discussioni in tutti i Municipi interessati, non tanto riguardo ai contenuti dei suoi quattro punti, quanto piuttosto alla forma e alle affermazioni contenute nella premessa che la supportava.

“Sebbene mi renda conto che le premesse contenute nel decreto possano non essere condivisibili – è opinione di Clarissa Casasanta, Consigliere del nostro Municipio – non dobbiamo permettere che spostino la nostra attenzione da quei possibili interventi, che si renderebbero così attivi sul dispositivo risolutivo, comunque a favore di una fascia debole e fortemente svantaggiata”. Molto diversa la posizione di Elisa Paris, vicepresidente della Commissione Pari Opportunità, che non dissente sulla promozione della riforma dei Consultori e il potenziamento dei Servizi Sociali del Municipio, ma che ritiene la formulazione del decreto un evidente “attacco alla legge 194” poiché “quanto contenuto nella prima parte risulta sconnesso dal deliberativo finale, apparendo più un’affermazione fortemente ideologica che un testo istituzionale”.

Che sia il fine a giustificare i mezzi, o siano piuttosto i mezzi a mascherare un diverso fine, il decreto richiede un’accurata lettura (http://femminismo-a-sud.noblogs.org/gallery/77/Delibera%20sulla%20194.pdf). Nella sua apparente sostanza, presenterebbe interventi effettivamente non innovativi, ma che piuttosto fornirebbero un ulteriore supporto ad aiuti già previsti. “Istituire un’Agenzia Comunale per le adozioni e l’affidamento, affinché la donna non si ritrovi sola nella scelta della vita, il cui compito sia quello di favorire adozioni, con procedura riservata ed urgente, per quei bambini che sono sottratti ad una decisione abortiva di qualunque tipo” recita il primo punto del decreto.

Ebbene, la Legge consente già alle donne, che pur intendendo rinunciare al bambino decidono comunque di portare a termine la loro gravidanza, di partorire assistite in ospedale, nel più assoluto anonimato, non riconoscendo poi il piccolo, che diventa evidentemente presto adottabile. Inoltre, la legge 194 prevede la possibilità di una collaborazione mediante apposite convenzioni dei Consultori familiari con le associazioni di volontariato che hanno lo scopo di assistere le maternità in difficoltà sia prima che dopo la nascita.

“Istituire un fondo per il sostegno economico di giovani ragazze madri appartenenti a qualsiasi nazionalità, finalizzato alla prima accoglienza e all’educazione primaria dei bambini, attraverso l’erogazione di somme in denaro per i primi trentasei mesi di vita” prosegue il decreto. Nel secondo punto, fa sue e amplia forme di sostegno economico già proposte da associazioni di aiuto alla vita come il CAV (collegato con il Movimento italiano per la vita), che con il suo “Progetto Gemma” prevede l’erogazione di una somma minima di 160 euro per 18 mesi tramite il CAV locale (che, ovviamente, vi aggiunge tutti gli aiuti necessari al singolo caso, nei limiti delle sue possibilità). Resta comunque evidente che un miglior sostegno alla maternità, più che contributi parziali, richiederebbe lo stanziamento di fondi per la tutela del lavoro e dei diritti delle donne. “Promuovere, in accordo con lo spirito della legge 194, la riforma dei Consultori, rafforzandone il ruolo sociale di prevenzione all’aborto e di sostegno alle famiglie, previa idonea formazione del personale pubblico”. Ecco che nel suo terzo punto il decreto si presta a diverse interpretazioni. Con la legge 405/1975 si istituivano i consultori e con una successiva modifica del 1996 si prevedeva la presenza di un consultorio familiare ogni 20mila abitanti. Ai consultori veniva riconosciuto un compito fondamentale: trasmettere alle donne la competenza e la conoscenza necessarie per essere in grado di vigilare sulla propria salute riproduttiva, dall’adolescenza alla menopausa. Occupandosi di supportare una maternità responsabile e dunque comprendendo anche le interruzioni di gravidanza, che la legge 194 aveva sottratto alla clandestinità (con una media di 350mila aborti clandestini all’anno).

Grazie ad un approccio multidisciplinare si sosteneva nella donna la sua capacità di autodeterminazione. Questo quanto previsto dalla legge, ma non sempre praticato con efficacia. Bene quindi rafforzare “il ruolo sociale” dei Consultori, ma perché limitarne l’energia alla sola “prevenzione all’aborto”? Stando ai fatti, una diffusa e praticata conoscenza dei metodi anticoncezionali rappresenta la migliore barriera per limitare i casi di aborto (ricordiamo che a ricorrevi sono moltissime minorenni). Questa “idonea formazione del personale pubblico”è forse intesa in tal senso? O piuttosto l’opera di “sostegno alle famiglie” si limiterebbe a quei casi dove si rinunci a praticare un’interruzione di gravidanza? Infine, il quarto punto del decreto, indica di “potenziare, attraverso i Servizi Sociali dei Municipi il sostegno, sia in termini economici che di assistenza alle famiglie, dei malati gravi e dei portatori di handicap più bisognosi”, passando dai temi inerenti l’interruzione di gravidanza ad altro. O forse no? Questo, stando al testo effettivo del decreto, come si vede, piuttosto sintetico. Ampia e ricca di citazioni (persino ingiustificate, dal Papa a Giuliano Ferrara, passando per Pasolini e Norberto Bobbio, non includendo però alcuna donna… ) la polemica introduzione alla proposta del consigliere Bianconi, come se allo stesso premesse maggiormente più che l’affermazione del diritto sociale alla maternità, l’affermazione della propria personale posizione in merito.

“L’aborto farmacologico e chirurgico è diventato il metodo anticoncezionale più diffuso” afferma Bianconi, ma sulla base di quali dati? E sulla base di quali ricerche può sostenere con tanta determinazione che partorire un figlio per poi immediatamente privarsene possa per una donna essere meno lacerante di un tempestivo aborto? Parlando di “cultura mortifera” Bianconi indica donne “obbligate o incentivate ad abortire”, di “certezze ed evidenze della mente e del cuore censurate come espressioni di oscurantismo illiberale dalla comunità della tecno scienza (!?), dai guru in camice bianco” ignorando così, paradossalmente, il diritto all’autodeterminazione, dimenticando il riconoscimento del diritto alla maternità, omettendo i progressi della scienza medica nel campo della procreazione, non riconoscendo gli obiettori di coscienza. Perché mai confondere un progetto di sostegno comunque condivisibile con tante affannate parole?

Era prevedibile che una simile premessa scatenasse contrasti. Solo su un punto,potrebbe esserci una ricomposizione delle polemiche con Bianconi. “Con l’aborto non si è giunti ad una reale emancipazione della donna” sostiene Bianconi. Sì, è vero, non si è ancora giunti ad una reale emancipazione della donna, comunque penalizzata, discriminata, spesso svalutata, nel lavoro come nella maternità. E non saranno atteggiamenti personali estremizzati a facilitare la prosecuzione del suo percorso, ma un reale e tangibile sostegno ai suoi diritti sociali, da qualsiasi angolazione si guardi il problema. Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere

Influenza suina: il governo italiano prima dice “non c’è nessun pericolo”, adesso ammette la “diffusione del virus della nuova influenza, che comunque si presenta in forma molto blanda, con sintomi molto leggeri, «è inevitabile».

«Allo stato attuale non c’è nessun pericolo»: Silvio Berlusconi dixit il 28 aprile. Oggi 2 maggio, secondo il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio, la diffusione del virus della nuova influenza, che comunque si presenta in forma molto blanda, con sintomi molto leggeri, «è inevitabile».

Fazio ha spiegato che in Italia fino ad ora sono stati riscontrati 21 casi sospetti, 9 dei quali esaminati ad oggi dall’Iss: di questi uno, il caso di Massa, è risultato positivo e otto sono risultati negativi, 4 dei quali totalmente negativi e 4 (2 provenienti dalla California e 2 da New York) hanno riscontrato la presenza di un virus di influenza stagionale.
Ancora, 13 casi sono attualmente sotto osservazione: le persone resteranno a casa per 7 giorni attentamente monitorate e l’Iss ha in atto i controlli necessari. Una «hostess» con «tutto l’equipaggio» di un «volo da Cancun» sono «sotto osservazione», ha aggiunto Fazio, sottolineando che si registrerà «una progressiva diffusione del virus fino all’estate». (Beh, buona giornata).

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Come e perché è nata l’influenza suina messicana.

Pandemia? Non ve la prendete con i maiali di Mike Davis-Il Manifesto

Le orde di turisti primaverili sono tornate quest’anno da Cancún con un invisibile ma sinistro souvenir. L’influenza suina messicana, chimera genetica probabilmente concepita in qualche pantano fecale di un industria di maiali, all’improvviso minaccia di portare la sua febbre in giro per il mondo.

Il suo rapido propagarsi nel continente nord americano rivela una velocità di trasmissione superiore all’ultima varietà pandemica ufficialmente riconosciuta, la febbre di Hong Kong del 1968. Rubando la scena all’assassino ufficialmente designato, l’H5N1 altrimenti conosciuto come influenza aviaria – che oltretutto ha dimostrato di mutare vigorosamente – questo virus suino costituisce una minaccia di sconosciuta magnitudo. Sicuramente, sembra meno letale della Sars del 2003 ma, essendo un’influenza, potrebbe durare molto più di questa ed essere meno incline a tornare nelle segrete caverne da cui è saltata fuori.

Ammesso che una normale influenza stagionale di tipo A uccide un milione di persone ogni anno, un suo anche modesto incremento di virulenza, specialmente se accoppiato con un’alta incidenza, potrebbe produrre una carneficina pari a un grande conflitto bellico. Intanto, una delle sue prime vittime sembra essere la consolante fiducia, per lungo tempo predicata dagli spalti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la pandemia potesse essere contenuta tramite una rapida risposta della burocrazia medica, indipendentemente dalla qualità dello stato di salute della popolazione locale.

Sin dalle prime morti causate dall’H5N1 a Hong Kong nel 1997, l’Oms, con il sostegno della maggior parte dei servizi sanitari nazionali, ha promosso una strategia concentrata sull’identificazione e l’isolamento del ceppo pandemico e della sua area di contagio, cui segue la distribuzione alla popolazione di medicinali antivirali e, se disponibili, di vaccini. Un esercito di scettici ha giustamente contestato questo metodo di risposta all’insorgere di nuove minacce virali, sostenendo che i microbi sono ormai in grado di volare intorno al mondo (letteralmente parlando per quanto riguarda l’aviaria) più velocemente rispetto ai tempi di reazione dell’Oms o dei servizi sanitari nazionali.

Sono finite sotto accuse anche le primitive, spesso inesistenti misure di sorveglianza del rapporto tra le malattie animali e umane. Ma il mito dell’audace, preventivo ed economico intervento contro l’aviaria non è stato valutabile per colpa dei paesi ricchi, come Stati uniti e Gran Bretagna, che preferiscono investire in una loro linea Maginot biologica, piuttosto che incrementare drammaticamente gli aiuti nelle frontiere delle epidemie fuori dai loro confini. Allo stesso modo agiscono le multinazionali farmaceutiche, che combattono la domanda dei paesi del terzo mondo di fabbricazione pubblica di antivirali generici come il Tamiflu della Roche.

Ad ogni modo, è probabile che l’influenza porcina dimostri che la versione Oms/Ccd (Centro di controllo sulle malattie) della preparazione contro una pandemia – senza nuovi corposi investimenti in sorveglianza, infrastrutture scientifiche e regolatorie, salute pubblica generale e accesso globale a medicinali di base – appartenga alla stessa classe di rischio del truffaldino management piramidale dei derivati della Aig o i titoli di Madoff. Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni di commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare i lavoratori e gli animali. Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati nel campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie di saggi virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie.

Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all’oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell’epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo». Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione.

Sei anni fa “Science” aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che “dopo anni di stabilità, il virus nord americano dell’influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione. Dalla sua identificazione all’inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l’inferno. Una varietà altamente patogena cominciò a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del nord, e nuove, virulente versioni iniziarono ad apparire quasi ogni anno, inclusa un’insolita variante dell’ H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l’altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani. Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un’influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l’influenza suina. Quell’ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.

Ma cosa ha provocato l’accelerazione di questa evoluzione dell’influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell’influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale – un’ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici – sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli “spostamenti” stagionali sia dei “cambiamenti” episodici del genoma. (Più raramente, può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l’H5N1 nel 1997). Ma l’industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull’evoluzione dell’influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all’industria petrolchimica che all’allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola.

Nel 1965, ad esempio, c’erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie; oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture – la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza, è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie. Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah – dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica – capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l’agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.

Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo. La commissione ha anche avvertito che l’uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l’aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di E. Coli e Pfisteria (l’apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina, e fece ammalare decine di pescatori).

Tuttavia, ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell’allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall’ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporations, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori. Inoltre questa è un’industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell’espansione dell’influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l’epidemiologia forense dell’esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell’industria delle costolette. Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c’è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell’influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz.

Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato. (Beh, buona giornata).

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La rivista “Nature” conferma le affermazione del principe Carlo: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”.

“Se non si agisce subito
tra 20 anni sarà catastrofe”
Sull’ultimo numero della rivista “Nature” le ricerche di autorevoli istituti che danno base scientifica alle affermazioni fatte qualche giorno fa a Roma dal principe Carlo di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it

Il principe Carlo lo aveva detto pochi giorni fa in maniera un po’ esoterica: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”. Qualcuno ha alzato il sopracciglio considerando questo nuovo campanello d’allarme sul cambiamento climatico un vezzo reale. E invece la base scientifica – pur con qualche approssimazione sulle date – c’è. Lo dimostra l’ultimo numero della rivista Nature che in The Climate Crunch mette assieme le ricerche di istituti molto autorevoli (dal Potsdam Institute for Climate Impact Research all’università di Oxford). Conti alla mano, risulta che se non si agisce immediatamente, nel giro di un paio di decenni subiremo un danno di portata catastrofica. Le lancette del count down vanno spostate: l’ora X non scatta più nel 2050 ma tra 20 anni.

E’ un risultato a cui si arriva seguendo due percorsi logici diversi e convergenti. Partiamo dal primo: le emissioni di carbonio. Gli scienziati hanno calcolato che, per contenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi (il livello oltre il quale il prezzo per l’umanità diventa altissimo), bisogna stare ben al di sotto del tetto complessivo di mille miliardi di tonnellate di carbonio. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo consumato quasi metà di questi mille miliardi. Al ritmo attuale di aumento delle emissioni ci giocheremmo la dote restante in una ventina di anni.

Quest’ordine di grandezza torna seguendo un altro ragionamento. Prendiamo la concentrazione delle emissioni di anidride carbonica: in atmosfera c’erano circa 280 parti per milione di CO2 all’alba della rivoluzione industriale, oggi abbiamo superato quota 385 e l’incremento è sempre più veloce: ormai ha superato le due parti per milione l’anno e si avvia verso le 3 parti per anno. Con un incremento di 3 parti per milione l’anno per arrivare a una concentrazione di 450 parti, che è il tetto da considerare invalicabile, ci vorrebbero per l’appunto una ventina di anni.

Tutto ciò ha dei risvolti pratici molto concreti perché l’analisi scientifica lascia aperte due opzioni. O supponiamo che un virus sconosciuto si sia impossessato dei migliori climatologi del mondo portandoli ad affermazioni prive di senso, oppure li prendiamo sul serio e tagliamo subito le emissioni serra che sono prodotte dal consumo di combustibili fossili e dalla deforestazione. La rivista Nature, poco incline a credere all’esistenza del virus che colpisce gli scienziati, arriva a questa conclusione: “Solo un terzo delle riserve economicamente sfruttabili di petrolio, gas e carbone può essere consumato entro il 2100, se vogliamo evitare un aumento di temperatura di 2 gradi”.

E non è detto che anche la stima dei 20 anni non risulti troppo generosa. James Hansen, che per anni ha guidato il Goddard Institute della Nasa, sostiene che il tetto va abbassato e bisognerebbe restare molto al di sotto delle 450 parti per milione. “Anch’io credo che bisognerebbe partire subito e mettere il mondo in sicurezza nell’arco di un decennio perché le capacità di recupero degli ecosistemi stanno arrivando al limite di rottura”, precisa il climatologo Vincenzo Ferrara. “Gli oceani e le foreste che finora hanno assorbito circa una metà del carbonio emesso dalle attività umane sono sempre meno in grado di continuare a svolgere questa funzione: se queste spugne di anidride carbonica smetteranno di catturarla il cambiamento climatico subirà un’accelerazione drammatica”.

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Peste suina: il virus, il panico, i governi.

In un bell’articolo apparso oggi sul quotidiano la Repubblica, il professor Umberto Veronesi scrive: “Se da un lato i rischi per la salute in un mondo consumista e globalizzato aumentano, dall’altro aumentano anche gli strumenti per capirle e le misure per farvi fronte. Faccio quindi un appello alla gente perché, proprio nei momenti di maggiore insicurezza, come questo, abbia ancora più fiducia nella scienza, nella medicina, e nelle capacità dei suoi uomini di salvaguardare il loro bene più prezioso: la salute.”

Tutto giusto, se non fosse che il problema non è la fiducia nella scienza, quanto la sfiducia nellla politica, in particolare nei Governi. Ha detto una volta Nelson Mandela che certi governi dell’Africa sono stati una epidemia peggiore dell’Aids, virus ha ha flaggellato quel continente e che ancora continua a mietere vittime. I governi del mondo globalizzato hanno fatto “carne di porco” di quasi tutti i diritti, compreso il diritto alla salute, che ha sempre lasciato il posto al profitto. E’ questo che crea panico, più del virus della peste suina. Beh, buona giornata.

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Peste suina: quando lanciano gli allarmi, spesso esagerano. E se esagerassero anche quando dicono che non c’è pericolo?

Il Messico tra polemiche e panico
“Ci staranno dicendo la verità?” da repubblica.it

Strade semideserte, l’esercito che distribuisce a tutti mascherine azzurre, l’ordine di evitare ogni contatto non necessario con la gente, di non stringere mani, non condividere posate o bicchieri, non baciarsi. E’ quasi surreale l’atmosfera asettica che si respira a Città del Messico, paralizzata dall’emergenza influenza suina, e nelle altre zone del Messico dove si trovano i focolai del contagio. E la gente non sa bene come reagire all’allarme: le numerose testimonianze che arrivano ai giornali, alle reti tv, siti e network – locali ed internazionali – raccontano di persone spaventate, trovatesi da un giorno all’altro in un incubo che ha cambiato loro la vita, anche se qualcuno è convinto che l’allarme dato dai media sia esagerato.

“Ho paura, lavoro per una grande compagnia e credo che questa influenza sia molto contagiosa” scrive Nallely L alla Bbc. “E’ tutto molto strano”, continua, “la gente rimane in casa o esce solo per andare a fare la spesa o all’ospedale. La maggioranza gira con le mascherine sulla bocca, concerti, festival, perfino la messa sono stati cancellati. Le trasmissioni alla radio e alla tv sono interrotte da comunicati che informano sui sintomi, e dicono di andare subito dal dottore se ci si sente malati”.

Molti temono che le autorità non stiano dicendo tutta la verità: “Mia cognata vive nello stato di San Luis Potosi”, racconta Migdalia Cruz, da Phoeniz, in Arizona. “Lì ci sono già stati almeno 78 morti, solo in città, non 68 in tutto il Messico come continuano a dire”.

“La verità è che le cose sono ben lontane dall’essere sotto controllo” le fa eco Carla, da Città del Messico. “E’ peggio di quello che crediamo, qualcuno la prende come uno scherzo, ma io no”.

Neppure le famose mascherine azzurre, distribuite per le strade e su bus e metropolitane riescono a tranquillizzare e la fobia è ormai generalizzata: “Mi preoccupa vedere come stanno lavorando i soldati che distribuiscono le protezioni. Perché non si mettono i guanti di lattice?” chiede Amelia Batani, che scrive al forum online del quotidiano messicano El Universal.

Ansia condivisa anche da Araceli Cruz, studentessa di 24 anni, che dice: “Potevano fermarla in tempo, ora hanno lasciato che si diffondesse fra la gente”.

Si ha paura di ammalarsi anche andando al lavoro. Due colleghi di Adriana, che scrive sempre da Città del Messico, hanno avuto sintomi influenzali qualche giorno fa, ma il dottore li ha fatti tornare al lavoro. “Io lavoro in un call center, non ci sono finestre e non è possibile aerare i locali e ci sono almeno 400 persone che ci lavorano”, racconta preoccupata. “Fate voi i calcoli: i locali non sono stati sterilizzati e il rischio di contagio è altissimo”.

La preoccupazione non è solo della gente comune. Anche i medici non sono tranquilli: uno di loro, che si firma “medico mexicano” in servizio negli ospedali messicani scrive nella sezione dedicata di El Mundo, descrivendo una situazione da panico, dando vita ad un’accesa discussione sul forum. “Sono specializzato in malattie respiratorie e in terapia intensiva”, dice. “I trattamenti antivirali non stanno avendo il successo sperato e la gente continua a morire, anche giovani di meno di 30 o 20 anni. Il personale è molto spaventato, data la virulenza del virus. Nella struttura dove lavoro, almeno 3-4 persone al giorno muoiono per questa epidemia”. E aggiunge: “Ci dicono di non parlare con la stampa, che verremo sanzionati se lo facciamo”.

Qualche voce fuori dal coro c’è. Come Jordi, che invita tutti a darsi una calmata e dice che il quadro non è poi così fosco: “Siamo in uno stato di preoccupazione, ma non c’è alcun panico”. Difficile, però, che riesca a rasserenare qualcuno. (Beh, buona giornata).

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Peste suina: la Fattoria degli animali di Orwell si è globalizzata.

La peste nascosta fra i grattacieli
nelle strade un nemico invisibile
di VITTORIO ZUCCONI-Repubblica

WASHINGTON – Nella città della perenne Apocalisse reale e immaginaria, non poteva non sbarcare anche la peste orwelliana, la vendetta dei maiali sugli umani, sotto forma dell’influenza suina, un nemico invisibile che ha colpito il quartiere di Queens con otto studenti ammalati.

Con una densità di undicimila abitanti per chilometro quadrato, più del triplo di Milano, e una umanità che ogni giorno si accalca nelle sue strade, nella carrozze della metropolitana, nei treni dei pendolari, nelle conigliere dei suoi grattacieli, i quattro borghi che formano New York sono il terreno di cultura ideale per ogni batterio, virus e microrganismo che si trasmetta per contatto umano. E dunque l’incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi da fine del mondo che dalle porcilaie del Messico ha attraversato la frontiera del Rio Grande e si sta allargando al Nord.
Casi di questa variante del virus influenzale trasmissibile dai maiali e agli umani sono stati registrati anche in passato, creando addirittura una campagna di vaccinazione collettiva del tutto inutile e in molti casi micidiale ordinata dal presidente Ford nel 1976, e da giorni sono segnalati nelle zone di confine con il Messico, Stati come la California, l’Arizona e il Messico.

Ma è lo sbarco a New York del virus, individuato in otto studenti del Liceo San Francesco a Queens a trasformare l’epidemia di questa forma temibile, ma non nuova come le prime notizie frettolosamente indicano, di influenza in un evento che ha raggiunto addirittura la Casa Bianca, dalla quale il Presidente Obama è stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico.

Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia middle class debordata da Manhattan, l’ultimo e il massimo melting pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato “borough”, borgo, nel quale convivono emigrati arabi e africani, latinos e asiatici. Fu sopra le casette di Queens, che pochi giorni dopo l’11 settembre, precipitò un aereo di linea, facendo subito pensare a una nuova ondata di attacchi terroristici, che nei mesi scorsi virò senza più motori in funzione il jet che poi miracolosamente planò sul fiume Hudson.
Queens ospita quell’aeroporto nel quale si affolla ogni giorno la babele del mondo, il John F. Kennedy, e che le agenzia per la sicurezza guardano come al formicaio nel quale potrebbero annidarsi le cellule maligne del prossimo attacco.

Era dunque ovvio, se non atteso, che sarebbero stati i leggendari tabloid di New York a sporcare per primi le loro prime pagine con gli annunci della nuova peste, a mettere in guardia, e quindi a causare, l’onda di panico che sta afferrando il popolo della “Grande Mela” e che ha spinto 100 degli studenti del Liceo San Francesco a farsi visitare in massa tutti convinti di avere contratto il virus dell’influenza suina dopo una gita scolastica di massa proprio a Città del Messico. Risultandone infetti soltanto in otto, forse nove, in forme blande, anche grazie alla loro età e salute generale. Ma da ieri, dopo l’esplosione dei titoli e delle news locali, gli ospedali e i pronto soccorso di questa nazione città sono invasi da tutti coloro che esibiscono quei sintomi vaghi e insieme sinistri, mal di gola, stanchezza, brividi, tosse, particolarmente diffusi grazie alle allergie primaverili.

Da sempre, con orgoglio e con ansia contenuta, New York sa di essere, vuole essere la terra dove il mondo finirà, per essersi vista tante volte al cinema in quel ruolo. Anche questa ennesima “pandemia” che spazzerà via l’umanità, come la dovevano spazzare via l’influenza aviaria, la Sars, il prione della mucca pazza, l’Ebola, la febbre gialla, la nuova tubercolosi resistente agli antibiotici, il retrovirus, ha ora in New York il proprio palcoscenico ideale, capace di toccare il mondo che in questa città la lasciato qualcosa di se stesso e porta quel senso oscuro, orwellianamente perfetto, della vendetta del mondo dei maiali contro il mondo degli umani. (Beh, buona giornata).

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Il Senato approva la legge sul testamento biologico che voleva il Card. Bagnasco.

L’ EGEMONIA PERDUTA
di Stefano Rodotà. (da Repubblica — 24 marzo 2009)

UN MONDO vastissimo, compresi molti cattolici, è rimasto sbalordito di fronte ad alcune affermazioni del Papa, governo e istituzioni internazionali hanno protestato e i vescovi italiani, invece di interrogarsi seriamente e criticamente su una vicenda così grave, la trasformano in un pretesto per lanciare un proclama intimidatorio, un vero e proprio diktat al quale Parlamento e politica italiana dovrebbero inchinarsi. Non è nuova l’ arroganza di una politica vaticana che, debole nel mondo, cerca occasioni di rivincita nel giardino di casa, in questa povera Italia che, presentata come il luogo dal quale doveva partire la riconquista cattolica del mondo, appare sempre di più come un fortilizio dove una gerarchia disorientata cerca di rassicurare se stessa alzando la voce.

Con parole forti si vuole imporre l’ approvazione di una legge sul testamento biologico sgangherata e incostituzionale, lesiva dei diritti delle persone. Si urla contro una deriva verso l’ eutanasia mentre il Senato sta discutendo un disegno di legge lontanissimo dall’ apertura che, su questo tema, hanno mostrato le conferenze episcopali di Germania e Spagna. Siamo di fronte ad una prova di forza, alla volontà vaticana di sottomettere il Parlamento. Sono in gioco proprio la sovranità parlamentare e, con essa, l’ autonomia dello Stato. Una inerzia colpevole, una pavidità delle istituzioni lascerebbero oggi un segno profondo sulla stessa democrazia. E un intervento così diretto può addirittura far venire il sospetto che si voglia incidere sulle dinamiche interne del nascente Pdl, chiudendo ogni spiraglio di laicità e autonomia

I governi di Francia e Germania, l’ Unione europea, il Fondo monetario internazionale avevano criticato le parole del Papa sull’ uso del preservativo, con una presa di distanza che metteva in discussione il ruolo internazionale della Chiesa. Il governo tedescoè guidato da una donna cattolica, Benedetto XVI aveva compiuto un viaggio in Francia accompagnato da parole imp e g n a t i v e d e l p r e s i d e n t e Sarkozy sulla necessità di passare ad una laicità “positiva”, parole che lo stesso presidente aveva già pronunciato in occasione della sua visita ufficiale a Roma. Assume grande significato, allora, la decisione di governi “amici” di non riconoscersi nelle posizioni della Chiesa. A ciò dev’ essere aggiunta la decisione di Obama di firmare la dichiarazione sui diritti degli omosessuali, proposta all’ Onu proprio dalla Francia e che aveva suscitato una durissima reazione del Vaticano.

Viene così respinta la pretesa vaticana di dettare al mondo la linea etica su grandi temi della vita, ed emerge un isolamento che non è solo diplomatico, ma rivela una perdita di egemonia culturale. Ora il tema del conflitto è costituito dalla legge sul testamento biologico. Tardivamente ci si è accorti di quanto fosse saggia la richiesta di moratoria, di un tempo di riflessione che allontanasse emozioni e strumentalizzazioni nell’ affrontare un tema che riguarda la libertà stessa delle persone.

Forse anche i cento “ribelli” del Pdl che hanno firmato contro i medici-spia dovrebbero rendersi conto che quella legge è anch’ essa profondamente negatrice di diritti e che è necessaria una riflessione più profonda sui rischi di un uso sbrigativo e autoritario dello strumento giuridico. Riflessione, peraltro, che dovrebbe essere estesa ad altre materie, anch’ esse affrontate finora in modo sbrigativo. Non ci si è accorti dei rischi dello stillicidio di norme che riducono la tutela della privacy, della pericolosità di proposte che vogliono introdurre controlli e censure per Internet, della disinvoltura con la quale sono state approvate in prima lettura le norme sulla banca del Dna.

Se la nuova sensibilità per la dimensione dei diritti non è solo una fiammata, di tutto questo è bene che si cominci a discutere seriamente e fino in fondo. Moratoria o non moratoria, è indispensabile ribadire in ogni momento che il testo della maggioranza sul testamento biologicoè un ammasso di incostituzionalità, di regressioni normative, di piccoli deliri burocratici e linguistici, di procedure che produrranno nuove contraddizioni e nuove angosce. Non vi sono astuzie parlamentari che possano redimere quel testo dai suoi peccati. Ricordiamo che appena ieri, a fine dicembre dunque già nel fuoco della polemica sul caso Englaro, la sentenza 438 della Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ autodeterminazione costituisce un “diritto fondamentale” della persona. Come si concilia con questo diritto la pratica cancellazione del consenso informato, la sua degradazione da manifestazione di volontà a semplice “orientamento”, come fa il testo di maggioranza? Come non vedere che, dietro una versione assai fumosa della formula dell’ “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, il potere sul morire viene consegnato ai medici, facendo enormemente e impropriamente crescere la loro responsabilità? Come non vedere che il rifiuto da parte del medico di dare attuazione alle direttive anticipate creerà nuovi drammi, nuove rappresentazioni pubbliche del dolore e ricorsi che trasferiranno al giudice la decisione finale sul morire, cioè esattamente quello su cui si è tanto polemizzato?

Sono interrogativi provocati da pervicacia politica e incultura, dal fatto che la dimensione costituzionale non appartiene a questo governo e questa maggioranza, che vogliono cogliere ogni occasione per cercar di liberarsene. Proprio per questo si cerca di costruire una Costituzione abusiva, dove la possibilità di imporre per legge trattamenti obbligatori è svincolata dall’ unica sua premessa costituzionalmente corretta, il rischio per la salute pubblica, come hanno sempre messo in evidenza gli studiosi (venerata ombra di Costantino Mortati, grande costituente cattolico, manifestati!); dove si propongono indecorosi pasticci tra rifiuto delle cure e vendita di organi; dove il rispetto della dignità è convertito in strumento per imporre una misura della dignità in conflitto con la libertà di scelta della persona. Una vigile attenzione per i diritti dovrebbe segnare la discussione politica, il primo passo dovrebbe essere appunto il ritorno pieno nella dimensione costituzionale. E, insieme ad esso, i legislatori dovrebbero interrogarsi sui limiti della legge, su quanto si addica alla vita “l’ ipotesi del non diritto”, che attribuisce alla norma giuridica non un illimitato potere di ingerenza, ma la funzione di costruire le condizioni necessarie perché ciascuno possa decidere liberamente. – (Beh, buona giornata).

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Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Se il Forum mondiale sull’acqua continua a fare acqua.

(fonte: ilmessaggero.it)

Cambiamenti climatici, aumento popolazione, domanda di energia, e incapacità politico-gestionale. Questi i principali motivi che potrebbero assetare entro il 2030 quasi la metà della popolazione mondiale. Di fronte a queste emergenze, si è riunito a Istanbul il quinto forum mondiale sull’acqua.

Le previsioni. La popolazione mondiale di 6,6 miliardi di persone crescerà di 2,5 miliardi entro il 2050, per la maggior parte nei paesi in via di sviluppo che soffrono già di scarsità idrica. Questo tasso di crescita comporterà un aumento della domanda di acqua dolce di 64 miliardi di metri cubi all’anno. I rappresentati di governi, agenzie e organismi internazionali si troveranno a discutere delle questioni relative alla disponibilità e alla sicurezza dell’acqua. Più di 1,2 miliardi di persone (circa un quinto della popolazione mondiale) vive, infatti, in aree di scarsità fisica di acqua, e ulteriori 1,6 miliardi hanno accesso limitato all’acqua per ragioni economiche, politiche e di altra natura. L’agricoltura attualmente assorbe il 70% delle risorse mondiali di acque dolci utilizzate dagli esseri umani.

L’Italia ogni anno viene usata per scopi civili una quantità d’acqua pari a circa 7.940 milioni di m3, e pur se circondata da mare e ricca di fiumi e laghi (in condizioni di stress idrico), il Bel Paese ha problemi, in particolare al sud e nelle isole.

Scontri. La polizia di Istanbul è intervenuta stamani in tenuta antisommossa per disperdere con la forza circa 300 ambientalisti che andavano a manifestare verso il luogo dove si apre oggi il quinto Forum internazionale dell’Acqua. Lo hanno riferito tv locali turche mostrando le immagini degli scontri.

Il Forum. E’ il più grande evento relativo alla risorsa acqua che ha l’obiettivo di inserire la crisi idrica mondiale nell’agenda internazionale e vi prendono parte oltre a 3.000 organizzazioni, una ventina di capi di Stato e circa 180 ministri dell’ambiente da altrettanti Paesi del mondo. Per l’Italia prevista la partecipazione del ministro Stefania Prestigiacomo. Nell’aprire i lavori, il presidente del Consiglio mondiale dell’acqua, il francese Loic Fauchon, ha puntato il dito contro «le abitudini incoerenti» ed i «consumi stravaganti» che contribuiscono allo spreco delle risorse idriche in tutto il mondo.

Eventi alternativi. In parallelo al Forum «ufficiale», si terrà un Forum e altri eventi «alternativi» organizzati da molti movimenti internazionali che non riconoscono la legittimità del Consiglio Mondiale dell’Acqua, promotore dell’incontro, e da essi accusato di essere un think-tank privato strettamente legato alla Banca Mondiale, alle multinazionali dell’acqua e alle politiche dei governi più potenti del mondo.

La protesta. Robert Ramakant, portavoce dell’organizzazione «Corporate Accountability International» ha detto che stasera un gruppo di 118 organizzazioni da 33 Paesi presenterà ai partecipanti al Forum «ufficiale» copia di una lettera indirizzata al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon. Nella missiva si chiede al capo dell’Onu di ritirare il proprio sostegno al Consiglio Mondiale dell’Acqua del quale si mette in dubbio la legittimità e la trasparenza. Secondo Omer Madra, editore dell’emittente turca Acik Radio, «la gente ritiene erroneamente che il Forum sia stato organizzato dall’Onu per ottenere una gestione ottimale delle risorse idriche, ma il Forum Alternativo servirà proprio a smascherare questi tentativi di disinformazione». (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Salute e benessere

Report mette sotto torchio Scapagnini, ex sindaco di Catania, attualmente deputato e medico personale di Berlusconi.

di CONCETTO VECCHIO da repubblica.it

Che fine hanno fatto gli 850 milioni di euro, disposti nel 2002 dal governo Berlusconi per mettere in sicurezza la città di Catania dai rischi sismici e risolvere l’emergenza traffico? Una montagna di soldi che piovvero sul sindaco Umberto Scapagnini – medico del premier, la cui amministrazione ha portato il Comune a un passo dalla bancarotta – senza che dovesse passare dal consiglio comunale. Scapagnini fu nominato commissario dell’Ufficio speciale e il tesoretto poté essere speso “per cassa e non per competenza”: in altre parole, senza alcuna rendicontazione. Sette anni dopo il bilancio è desolante. Gli 850 milioni sono stati spesi per costruire cinque megaparcheggi scambiatori: tutti abbandonati.

Il più grande, il parking Fontanarossa, attaccato all’aeroporto, appaltato al consorzio Uniter, è costato 13 milioni, dopo i 5 milioni 700 mila euro sborsati per espropriare il terreno: è fermo da anni. Temendo lo tsunami – lo tsunami! – fu realizzata in alternativa al lungomare un’ipotetica via di fuga, ma la strada, il viale De Gasperi, finisce sfortunatamente in un vicolo cieco. Le scale antincendio nelle scuole penzolano nel vuoto, le crepe nei muri mascherate da una passata di intonaco, com’è avvenuto alla scuola Brancati, sul punto di crollare. E le caserme, gli ospedali, i palazzi strategici della città più sismica d’Europa? Perché non sono stati messi a norma? Il destino incerto di questi 850 milioni – ma secondo una relazione del capo della Protezione civile Guido Bertolaso si tratterebbe di una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro: fondi avanzati dalla legge 433/1990 – è stato denunciato ieri sera da “Report”, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, con un’inchiesta di Sigfrido Ranucci, “I Viceré”.

Quando piove il Villaggio Goretti sembra il Canal Grande e gli abitanti lo circumnavigano in gondola con amaro fatalismo: “Semu consumati”. Siamo rovinati. Si poteva sistemare con i fondi Fas, ma i 140 milioni concessi ad ottobre dal Cipe sono stati utilizzati per salvare il municipio dalla bancarotta. Un salvataggio che fa ancora piangere di rabbia i sindaci virtuosi.

Catania è una buona metafora del Mezzogiorno d’Italia. Benché sul lastrico, impazzita di traffico – i pochi vigili stanno al cellulare mentre tutt’intorno gli scooter transitano impuniti senza casco – sommersa da cumuli d’immondizia e con i cani randagi che percorrono indisturbati il centro storico, come denuncia un fotoservizio dell’onorevole Enzo Bianco, da sempre vota per Berlusconi. “Report” rivela che la società dedita alla riscossione dei tributi dell’acqua, la Sidra, vanta crediti con il Comune per 22 milioni di euro poiché le varie giunte si sono rifiutate per anni di riscuotere la tassa nei quartieri popolari, serbatoi di voti del centrodestra. La Sidra spende migliaia di euro per singolari sponsorizzazioni: il concorso di Miss Muretto, le feste dei zampognari di Lentini, castagne e ciondoli. “Ma lo volete capire che l’83 per cento della città non sta con voi” urla il sindaco Raffaele Stancanelli (An), durante un incontro con l’associazione Cittàinsieme, punta avanzata della società civile.

Stancanelli ha appena stanziato 553 mila euro per contribuire alla festa di Sant’Agata. Un miliardo di vecchie lire sono un mucchio di quattrini in un municipio che aveva accumulato debiti per quasi un miliardo di euro, le cui aziende partecipate lamentano passivi pari a 120 milioni di euro.

La mafia governa molti gangli vitali della città. Il 12 marzo è cominciato il processo al clan Santapaola, che sino al 2005 avrebbe controllato la rutilante festa di Sant’Agata per accrescere così il proprio prestigio. Nel circolo Sant’Agat la tessera numero uno era di Nino Santapaola, la numero due di un altro mafioso, Enzo Mangion. “Che significa? Sempre un cittadino catanese è?”, commentano i devoti. I Santapaola e i Mangion sorreggono le reliquie, dirigono la processione dal cereo, come dimostrano le foto allegate agli atti del dibattimento.

Nel 2004 la candelora venne fatta fermare nei pressi dell’abitazione di Giuseppe Mangion, detto “U zu Pippu”, scarcerato tre mesi prima dal carcere di Pisa. Esplosero fuochi d’artificio, spararono botti. Una città dove le regole del gioco sono truccate, denuncia la Gabanelli. Ogni tanto nel filmato fa capolino Scapagnini, affabile, suadente. “Berlusconi vivrà più di cent’anni in buone condizioni”. Il premier, rivela una farmacista del centro, si rifornisce da loro. Lei prepara con le sue mani un farmaco miracoloso. A che serve, le chiede Ranucci con la telecamera nascosta: “Ha anche un’azione tipo endorfine che rasserena e poi potenzia anche il coso muscolare…”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere

Le nuove centrali nucleari sono più pericolose di prima.

(da unita.it)

Le centrali nucleari di nuova generazione sono più pericolose, in caso di incidente, degli impianti che dovrebbero sostituire. A dirlo è un’inchiesta del quotidiano britannico «The Independent», secondo il quale alcuni documenti di natura industriale proverebbero come, in caso di incidente, la fuoriuscita di radiazioni da queste centrali sarebbe notevolmente più consistente e pericolosa che non in passato.

Documenti che provengono anche dalla francese Electricite de France. Si tratta di prove, scrive il quotidiano, «ben sepolte tra le carte della stessa industria nucleare» e che «mettono in dubbio le ripetute affermazioni secondo le quali i nuovi Epr, European Pressurised Reactors, sarebbero più sicuri delle vecchie installazioni». Semmai sarebbe vero il contrario: «Pare che un incidente ad un reattore o al sistema di smaltimento delle scorie, sebbene più difficile da verificarsi, potrebbe avere conseguenze ancor più devastanti in futuro». In particolare, tra gli studi esaminati, « ce n’è uno che suggerisce che le perdite umane stimate potrebbero essere doppie» rispetto al passato.
Un impianto della generazione Epr è già stato realizzato in Finlandia, due sono in fase di realizzazione o progettazione in Normandia. Quattro verrebbero realizzati dalla Edf in Gran Bretagna. L’India è interessata a costruirne sei.

«Finora questo tipo di centrali è stato generalmente considerato meno pericoloso di quelli attualmente in funzione», continua il giornale britannico, «solitamente perché dotato di maggiori misure di sicurezza e in grado di produrre meno scorie. Ma le informazioni contenute nei documenti da noi consultati dimostrano che in effetti producono una quantità di isotopi radioattivi di gran lunga maggiore tra quelli definiti tecnicamente «frazioni di rilascio immediato» proprio perché fuoriescono facilmente dopo un incidente».

Inoltre «i dati contenuti in un rapporto fornito dalla Edf suggeriscono l’idea che la quantità di particelle radioattive di rubidio, bromo, cesio e iodio sarebbero il quadruplo che con i reattori attualmente in uso». Un secondo rapporto, questa volta della Posiva Oy, una compagnia specializzata nel trattamento delle scorie nucleari e che è di proprietà di due ditte specializzate nella costruzione di centrali, «lascia intendere che la produzione di iodio 129 sarebbe addirittura sette volte superiore».
Non basta, c’è anche «un terzo dossier, redatto dalla Swiss National Co-operative for the Disposal of Radioactive Waste, che lascia concludere che il cesio 135 ed il cesio 137 sarebbero maggiori di
11 volte». Tanta disparità nei possibili effetti di un incidente è dovuta proprio all’idea attorno alla quale sono impostati i reattori di nuova generazione, che bruciano il loro combustibile nucleare ad una velocità doppia rispetto agli attuali«.
La Areva, l’azienda che progetta gli Epr, ha puntualizzato, una volta interpellata dall’Independent, «che la radioattività complessiva delle scorie in realtà aumenta solo in misura leggera». Inoltre «queste centrali sono state progettate esattamente per bloccare ogni fuga radiattiva».

Il quotidiano, però, ha fatto analizzare i dati ad alcuni esperti di propria fiducia. Conclusione: «Il motivo di preoccupazione è comunque la grande quantità di materiale radioattivo che può fuoriuscire», perché «nessun sistema dà la certezza matematica della sicurezza». A riguardo il commento della Edf è lapidario: «Siamo fiduciosi che i nuovi impianti possano essere costruiti e gestiti in assoluta sicurezza».

Per ora dunque, e proprio nel giorno in cui anche il governo Berlusconi prende accordi con la Francia per tornare al nucleare, pare non ci resti che la “fede”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Natura Salute e benessere

Energia nucleare? No, grazie.

“Dovremo affrontare la costruzione e la realizzazione di centrali nucleari in Italia”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

“Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?”

di STEFANO RODOTA’ da repubblica.it

Torna un’espressione che sembrava confinata nel passato – “legge truffa”. Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le “direttive anticipate di trattamento” (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l’opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone. Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita.

Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell’immediato futuro.

Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: “Hard cases make bad laws”, i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell’invito a separare la legge dall’occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall’emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L’ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione.

Il secondo ammonimento è nell’alta riflessione di Michel de Montaigne: “La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Quest’intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest’antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l’innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire.

L’occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l’impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall’altra, l’ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l’eguale libertà di coscienza.

La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d’un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all’irriducibile unicità di ciascuno – la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso “la rivoluzione del consenso informato” nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell’esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L’autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle “protettive”.

Riconoscere l’autonomia d’ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere “un nuovo soggetto morale”.

Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s’incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l’articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.

Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l’antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni “uomo libero”: “Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale “in nessun caso” si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.

La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l’arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le “direttive anticipate di trattamento”, di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell’interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a “orientamento”. La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente.

Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che “la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile”. Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico “la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente”. Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici – dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all’amputazione di un arto – decidendo così di morire. Si introduce così un “obbligo di vivere”, che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona.
E’ abusivo anche il divieto di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione, definite “forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze”, con una inquietante deriva verso una “scienza di Stato”. Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in “scienza e coscienza”: ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un’ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra “trattamento” e “sostegno”, si coglie la volontà di aggirare l’articolo 32, dove l’imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata “alleanza terapeutica” con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere.

Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un’altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?  (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Dall’inizio dell’anno 6 “senza tetto” sono morti a Milano. Ecco una ricerca sugli homeless in Italia.

SENZA TETTO, MA NON SENZA SPERANZA

di Michela Braga  e Lucia Corno da lavoce.info

Il 14 gennaio è stato effettuato a Milano il primo censimento dei senzatetto. La ricerca è stata realizzata grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini che due anni fa ci lasciava. A lui sono anche dedicati i Dossier Grazie Riccardo, Ricordando Riccardo e Riccardo, un anno dopo. Sono stati censiti quattromila adulti che dormono in strada, nei dormitori o in baraccopoli, campi nomadi ed edifici dismessi. E’ una popolazione estremamente variegata, ma con caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che aprono alla possibilità di politiche di reinserimento e non solo di mera assistenza.

Dopo la recente bolla del mercato immobiliare, che ha colpito progressivamente a macchia di leopardo i paesi su entrambe le sponde dell’oceano, il dibattito e l’attenzione sul tema della casa si sono fatti sempre più caldi. L’enfasi, tuttavia, è quasi sempre su chi già possiede una casa o, al più, è in procinto di acquistarla. Raramente, e solo nei mesi invernali, si parla di coloro che la casa non l’hanno: i senza tetto.
Sembra esserci un consenso unanime sul fatto che il possesso della casa debba essere un diritto acquisito in tutte le società sviluppate che davvero possano essere definite tali. Al contrario, proprio laddove la ricchezza è maggiore, questo diritto primario, che è alla base del vivere sociale, è spesso disatteso.
In Italia, la quota di popolazione che possiede una casa di proprietà è tra le più alte del mondo, oltre il 73 per cento: un dato che sembra far passare in secondo piano il problema dell’assenza di una casa tout court. In ambito accademico, a non accendere neppure il dibattito concorre il fatto che i dati affidabili sul fenomeno sono estremamente limitati a livello internazionale, e pressoché nulli in Italia.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Il primo censimento completo dei senza tetto in Italia è stato effettuato il 14 gennaio 2008, nel comune di Milano grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini promossa dall’Ere. In linea con la definizione internazionale, il censimento ha riguardato tutti coloro che nella notte di riferimento dormivano in luoghi non preposti all’abitazione. La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 nelle baraccopoli, campi nomadi o edifici dismessi. La distribuzione spaziale della popolazione mostra una maggior concentrazione  nel centro città ma una distribuzione regolare su tutto il territorio cittadino.  (Figura 1 e 2)
La sola quantificazione del fenomeno è già di per sé un risultato interessante. L’unico dato esistente in Italia, infatti, risaliva al 2001 e stimava una popolazione di 17mila persone sull’intero territorio nazionale, pari quindi allo 0,03 per cento della popolazione nazionale. L’assenza di dimora sembrava un fenomeno estremamente marginale e ben lontano dalle dimensioni assunte negli Stati Uniti, dove la quota di senza tetto sul totale della popolazione si attesta nell’ordine dello 0,2 – 0,3 per cento.

CHI SONO I SENZA TETTO?

Il secondo risultato interessante è quello connesso alle caratteristiche della popolazione, emerse dall’indagine condotta su un campione casuale di circa mille individui. I tratti distintivi sono, infatti, ben diversi da quelli dell’iconografia tradizionale del clochard come di un individuo che rifiuta il mondo e le sue convenzioni ed è pertanto completamente avulso dal tessuto dalle reti sociali.
La popolazione è prevalentemente composta da uomini nella parte centrale della vita. L’età media è 40 anni, ma ci sono differenze significative tra strada e dormitori rispetto alle aree dismesse, la cui popolazione è formata in egual misura da uomini e donne relativamente più giovani (30,7 anni).
Le persone relativamente più anziane tendono a preferire la strada ai dormitori. E ciò porta a riflettere su un aspetto non neutrale rispetto alle politiche di reinserimento. Se infatti, da un lato, la vita e la sopravvivenza in strada è più difficoltosa, una simile scelta da parte delle persone relativamente più anziane sembra suggerire che all’avanzare dell’età si è relativamente meno propensi ad accettare il grado di socialità e il rispetto di regole connesse alla residenza nei centri di accoglienza notturna.
Lo status di street homeless appare più cronico rispetto a quello di chi dorme nei centri di accoglienza notturna. In media, gli intervistati sono in strada in modo continuativo da 4,5 anni, mentre nei dormitori da 3,2 anni. Preoccupante è il livello di cronicità che si riscontra nelle aree dimesse, dove la permanenza continuata supera abbondantemente gli 8 anni. (1) La strada e le baraccopoli, perciò, rappresentano la forma più estrema di homelessness: dopo un periodo più o meno lungo di permanenza le difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale risultano maggiori.
La composizione etnica è variegata per effetto della netta maggioranza di stranieri (67 per cento) concentrati soprattutto nelle baraccopoli, mentre la quota scende al 60 per cento nei dormitori e al 44 per cento in strada. Le nazionalità di origine sono in linea con la popolazione straniera presente sul territorio nazionale e, per lo più, si tratta di immigrati di nuova generazione arrivati dopo il 2000.
Se gli italiani indicano come causa principale della loro situazione attuale problemi legati alle relazioni familiari e al mercato del lavoro, gli stranieri riconoscono nell’immigrazione con i connessi problemi di lingua, documenti, lavoro il motivo della mancanza di una casa. L’homelessness è quindi il punto di rottura di un percorso di vita per gli italiani: il risultato di un processo di impoverimento oggettivo progressivo i cui effetti si sommano a cause ed eventi di tipo soggettivo quali esperienze traumatiche, di tipo sia familiare (separazioni, lutti, abusi) sia istituzionale (problemi legali, mancanza di assistenza). Per gli immigrati, al contrario, l’assenza di una casa sembra essere accompagnata da un progetto migratorio, che consente di vivere in una condizione di privazione per un periodo di tempo sufficiente per realizzare i propri obiettivi e pervenire a un maggiore benessere.
La popolazione è mediamente istruita, con una quota non trascurabile di laureati (6 per cento), e attiva nel mercato del lavoro (74 per cento) (Tabella 1). Circa un terzo ha svolto un lavoro nell’ultimo mese. Di questi, oltre la metà ha operato nell’economia sommersa e non possiede alcun tipo di contratto, mentre circa un quarto ha contratti temporanei (Tabella 2).
La condizione di povertà materiale estrema non si riflette sul livello di conoscenza del tessuto sociale in cui i senza tetto vivono. Oltre il 57 per cento ha ascoltato un telegiornale o un radiogiornale il giorno della rilevazione, mentre il 15 per cento lo ha fatto al più nell’ultima settimana. Un’analoga proporzione si trova per la lettura di giornali (Tabella 1). Oltre i tre quarti degli intervistati sono informati sulla situazione politica del paese.

CHE COSA FARE?

Alla luce di questi risultati due riflessioni sono necessarie.
In relazione al quantum, sembrerebbe che il fenomeno sia notevolmente cresciuto negli ultimi anni anche in Italia. Usare il condizionale è d’obbligo poiché le metodologie di rilevazione adottate non consentono una perfetta comparabilità dei risultati.
La serietà del fenomeno è comprovata dal fatto che l’Unione Europea abbia incluso tra le priorità proprio l’individuazione di strategie tese ad aumentare la protezione e a favorire l’inclusione sociale di chi non possiede una casa.
Diventa quindi fondamentale la sistematicità e la periodicità delle rilevazioni sui senza tetto, al pari di quanto fatto con la popolazione generale. Solo se si hanno dati affidabili sul fenomeno, che consentano confronti intertemporali. è possibile attuare politiche pubbliche efficaci nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.
Realizzare sistemi integrati di rilevazione è meno difficile di quanto possa sembrare. La maggior parte delle realtà che operano con i senza tetto registrano quotidianamente informazioni sui loro utenti. In potenza, esiste quindi un patrimonio di dati amministrativi che se condiviso tra enti e messo al servizio della comunità scientifica consentirebbe di effettuare analisi più approfondite. Sarebbe sufficiente fissare poche linee guida e alcune direttive essenziali per creare banche dati da cui estrapolare le informazioni necessarie. (2)
Se si considerano invece i risultati qualitativi dell’indagine, emerge come l’homelessness non vada di pari passo con la hopelessness di reinserimento nel tessuto sociale. La popolazione è estremamente variegata, ma ha caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che sembrano suggerire la possibilità (e l’auspicabilità) del disegno di politiche di reinserimento piuttosto che di mera assistenza. Le politiche volte ad alleviare o attenuare il fenomeno, come gli interventi di emergenza e temporanei, sono sicuramente importanti, ma rischiano di accelerare fenomeni di cronicizzazione creando dipendenza: tanto è facile entrare nei circuiti di assistenza, quanto è difficile uscirne.
Viceversa, politiche di inclusione sociale che passino in primis dal mercato del lavoro e da quelo immobiliare, come interventi di supporto o di housing sociale, possono generare interessanti esternalità positive sulla società nel suo complesso e agevolare circoli virtuosi nel gruppo dei pari. (Beh, buona giornata).

Figura 1: La distribuzione spaziale dei senza tetto in strada (apri)

Figura 2: La distribuzione spaziale dei senza tetto nei centri di accoglienza (apri)

Tabella 1: La partecipazione al mercato del lavoro

  Tutto Maschi Femmine Italiani Stranieri
Tutto il campione 74.39 76.8 68.08 59.54 81.48
Strada 57.14 59.59 40.91 51.58 64.38
Dormitori 78.3 79.83 70.15 62.57 88.93
Aree dismesse 77.94 84.83 70.76 65.79 79.42

 

Tabella 2: La situazione contrattuale dei senza tetto attualmente occupati

  Tutto il campione Italiani Stranieri Strada Dormitori Aree dismesse
Contratto permanente 13.12 9.3 14.8 9.52 8.94 18.8
Contratto temporaneo 22.7 29.07 19.9 7.14 30.89 19.66
Non hanno un contratto 58.16 55.81 59.18 64.29 56.91 57.26
Non so 1.06 2.33 0.51 2.38 0.81 0.85
Non risponde 4.96 3.49 5.61 16.67 2.44 3.42

 

Tabella 3: Ultima volta in cui si è letto un quotidiano

  Tutto il campione Donne Uomini Italiani Stranieri
Oggi 56.22 31.92 65.49 64.59 52.2
1 settimana fa 14.24 20 12.04 10.49 16.04
1 mese fa 3.83 5 3.38 3.93 3.77
6 mesi fa 0.85 0.77 0.88 1.31 0.63
1 anno fa 0.11   0.15 0.33  
più di un anno fa 2.44 3.08 2.2 4.26 1.57
Mai letto un giornale 14.77 27.69 9.84 9.84 17.14
Non so 4.99 8.08 3.82 3.28 5.82
Non risponde 2.55 3.46 2.2 1.97 2.83

 
(1) La durata media è stata calcolata dal giorno di arrivo in strada/dormitorio/area dismessa al momento della survey. Quindi, non potendo osservare l’uscita dallo stato di homeless, il dato è sottostimato.
(2) Una metodologia informatizzata altamente sofisticata di questo tipo è l’Homeless Management Information System, utilizzata dal Department of Housing and Urban Development negli Stati Uniti su un campione di 80 città, in diverse aree geografiche del paese, che consente rilevazioni sistematiche cadenzate in modo regolare nel tempo.

PER SAPERNE DI PIU’:

Primo censimento dei senza dimora a Milano, Risultati preliminari e progetto di ricerca da www.frdb.it

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Attualità Leggi e diritto Salute e benessere

Caso Eluana:”La decisione d’un ministro ha la forza di impedire che una sentenza abbia corso.”

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

(…………)

La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l’intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall’intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.

La decisione d’un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d’un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l’opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l’esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.

Non c’è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell’ordinamento costituzionale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere Società e costume

Quando è “la capa che non è bùona”.

Secondo eminenti scienziati, noi uomini, nel senso di genere umano,  non possiamo rievocare un ricordo e apprendere cose nuove contemporaneamente: il nostro cervello è dotato di una ‘leva di scambio’ tra i due binari di apprendimento e memoria, che spegne le funzioni della memoria e accende quelle dell’apprendimento o viceversa.

 

Pubblicata sulla rivista PLoS Biology, la scoperta è di Sander Daselaar dell’Università di Amsterdam e Roberto Cabeza della Duke University, che sospettavano da tempo che nel nostro cervello due funzioni importanti come apprendimento e memoria non possono attivarsi contemporaneamente, ovvero se siamo presi dal richiamare alla memoria un fatto, difficilmente in quello stesso istante potremo incamerare nella memoria un fatto nuovo di zecca.

I ricercatori hanno monitorato il cervello di un gruppo di giovani con la risonanza magnetica funzionale mentre i volontari erano alle prese con un gioco, in cui dovevano imparare delle parole e contemporaneamente ricordare immagini.

E’ emerso prima di tutto che le due attività svolte insieme mandano ‘in tilt’ il cervello che non si mostra capace di portarle a termine contemporaneamente. E poi si è anche visto che quando si passa dalla ‘modalità  apprendimento’ a quella memoria, o viceversa, si attiva una regione della parte frontale sinistra del cervello, una ‘leva di scambio’ che gli permette di passare rapidamente dalla funzione memoria a quella apprendimento e viceversa.

Conosco un sacco di gente che deve avere un guasto alla leva di scambio: cerca di capire qualcosa quando invece dovrebbe ricordare, cerca di ricordare quando invece dovrebbe capire. Sono quelli che scambiano il passato col futuro, e vivono il presente in perenne tilt. Ne è piena la politica, la televisione e, ahinoi, la pubblicità. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Natura Popoli e politiche Salute e benessere Scuola

L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Attualità Natura Salute e benessere Società e costume

La birra fa fare pipì ecologica.

Lo so, lo so che lo sanno tutti che la birra è diuretica. Quello che non sapevo è che la birra diminuisce il contenuto salino nelle urine. Come lo so? Lo hanno detto gli esperti dell’università di agronomia di Vienna, che hanno lanciato un allarme inquinamento da urina a Euro 2008 in Austria.

Gli esperti temono infatti danni per alberi e cespugli nelle zone frequentate dai tifosi che potrebbero cercare di evitare le file davanti alle toilette pubbliche e urinare nel verde.

Secondo gli esimi scienziati della pipì, il ‘problema delle acque gialle’ riguarda soprattutto la cosiddetta ‘fan-zone’ di Vienna, un’area con maxi-schermi e gastronomia lungo il ‘Ring’, lo storico viale verde che delimita il centro, dove sono attesi 70.000 tifosi per ogni partita.

Grazie ai loro studi, apprendiamo che l’urina umana di per sé non è velenosa per le piante, ma il sale in essa contenuto potrebbe costituire una vera minaccia per gli ippocastani ultracentenari che punteggiano il Ring, ma anche per l’erba, i fiori e altre piante storiche dei giardinetti dell’area che sarà frequentata dai tifosi, perché la loro abbondante pipì potrebbe ostacolare l’assorbimento di acqua dal terreno.

È a questo punto che fa il suo ingresso la buona notizia: il consumo abbondante di birra diminuisce il contenuto salino nell’urina. Dunque, ora che lo sapete, potete farla fuori senza problemi ecologici. Ah, che sollievo.

A parte ogni altra considerazione di ordine pubblico, tipo quelle cose che hanno a che vedere con la buona educazione, il pudore, per non dire il convitato di pietra dell’epoca moderna, vale a dire il buon senso, questa straordinaria scoperta degli ineffabili esperti viennesi significa almeno un paio di cose: la prima è che sarebbe meglio aumentare il numero di vespasiani; la seconda è che sarebbe meglio aumentare la vendita e il consumo di birra.

La cosa di per sé fa scompisciare dal ridere. Però, è una buona opportunità per le marche di birra a Euro 2008, i campionati europei di calcio. O no?! Beh, buona giornata.

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Animali Attualità Salute e benessere

A passo di lumaca contro l’effetto serra.

Le esalazioni da combustione del carbone sono da sempre state una delle principali cause della sovrapproduzione di CO2, tanto caro all’inquinamento dell’atmosfera. Ma un rimedio c’è: non sono i trattati, che tanto non vengono né ratificati, né applicati. Alla lentezza della politica sulle problematiche della difesa ambientale ci stanno pensando le icone della lentezza: le lumache, appunto.

La principale compagnia mineraria ed esportatrice di carbone della Nuova Zelanda, la ‘Solid Energy’, ha perso circa 25 milioni di dollari neozelandesi in profitti (13,6 milioni di euro) da quando è stata scoperta la presenza di rare lumache giganti presso la sua miniera di Stockton, 19 mesi fa.

‘Powelliphanta Augustus’ è la denominazione esatta della rara specie di lumaca, carnivora e davvero gigante, che ha messo nei guai la altrimenti fortunata azienda neozelandese. Il suo guscio è grande quanto un pugno, fino a nove centimetri di larghezza, e le sue origini risalgono a 200 milioni di anni fa. Grazie all’isolamento in Nuova Zelanda queste lumache giganti hanno sviluppato caratteristiche uniche fra cui il gigantismo, a testimonianza della bio diversità unica del Paese. E i neozelandesi ne sono fieri, al punto da aver dedicato loro anche un francobollo.

Però, la Solid Energy, la compagnia mineraria di proprietà statale, è costretta dal momento dell’invasione delle lumache a procedere appunto a passo di lumaca nell’estrazione di carbone, a causa delle leggi per la salvaguardia dell’ambiente che prevedono la protezione della specie in estinzione. Non solo, la compagnia neozelandese è inoltre obbligata sostenere i costi per il trasloco in una zona migliore, oltre che per il monitoraggio e la protezione delle 5300 lumache trovate, per un totale di circa 5,45 milioni di euro.

Le lumache sono tenaci ambientaliste. Tanto che la compagnia neozelandese è stata costretta in flagrante violazione degli impegni contrattuali e a causa dei ritardi perderà fino a cinque forniture di esportazione che ammontano a circa 300 mila tonnellate di carbone e che dovrebbero essere spedite entro fine giugno in Cina, India, Giappone e Sudafrica. Chi va piano, va lontano, per la difesa dell’ambiente e contro l’inquinamento. 10, 100, 1000 ‘Powelliphanta Augustus’. Beh, buona giornata.

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