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Beh, buona giornata aderisce a No alla legge bavaglio alla Rete.

Premessa: ieri sera a PORTA A PORTA si è parlato del comma 29, il cosiddetto ammazza-blog, ma gli spettatori di certo non avranno capito di cosa si tratta. E siccome per Gasparri e dintorni Internet è uno strumento micidiale, è evidente che i nostri politici e la nostra classe dirigente 1) non sanno niente della rete e pure legiferano su di essa 2) non hanno idea del mondo che c’è qui dentro 3) hanno bisogno di un corso full immersion del comma ammazza-blog che stanno per legiferare. Bene il corso glielo offriamo noi, gratuitamente, perché caro Gasparri sì, Internet è uno strumento micidiale di libertà, di creatività, di condivisione di sapere e di conoscenza. Mondi inesplorati, capisco perfettamente (Arianna).

Probabilmente oggi stesso ricomincerà il dibattito parlamentare sul disegno di legge in materia di riforma delle intercettazioni, disegno di legge che introdurrebbe, una volta approvato, numerose modifiche al nostro ordinamento lungo tre direttrici: limitazioni alla utilizzabilità dello strumento delle intercettazioni da parte dei magistrati; divieto di pubblicazione di atti di indagine per i giornalisti, anche se si tratta di atti non più coperti da segreto; estensione di parte della normativa sulla stampa all’intera rete.
Cerchiamo di chiarire sinteticamente i dubbi espressi in materia.

Il disegno di legge di riforma delle intercettazioni ha un impatto significativo sulla rete?
Il ddl di riforma della normativa sulle intercettazioni influisce sulla rete in due modi, innanzitutto perché le limitazioni introdotte dal ddl in merito alla pubblicabilità degli atti di indagine riguarda, ovviamente, anche la rete, relativamente al giornalismo professionale, ma soprattutto perché in esso è presente il comma 29 che è scritto specificamente per la rete. Cosa prevede il comma 29? Il comma 29 estende parte della legislazione in materia di stampa, prevista dalla legge n. 47 del 1948, alla rete, in particolare l’art. 8 che prevede la cosiddetta “rettifica”.

Cosa è la rettifica?
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere dei media unidirezionali e di bilanciare le posizioni in gioco. Nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, un semplice cittadino potrebbe avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie, e comunque ne trascorrerebbe molto tempo con ovvi danni alla sua reputazione. Per questo motivo è stata introdotta la rettifica che obbliga i direttori o i responsabili dei giornali o telegiornali a pubblicare gratuitamente le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti che si ritengono lesi.

Il comma 29 estende la rettifica a tutta la rete?
La norma in questione estende la rettifica a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”. La frase “ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica” è stata introdotta in un secondo momento proprio a chiarire, a seguito di dubbi sorti tra gli esperti del ramo che propendevano per una interpretazione restrittiva della norma (quindi applicabile solo ai giornali online), che la norma deve essere invece applicata a tutti i siti online. Ovviamente sorge comunque la necessità di chiarire cosa si intenda per “siti informatici”, per cui, ad esempio, potrebbero rimanere escluse la pagine dei social network, oppure i commenti alle notizie. Al momento non è dato sapere se tale norma si applicherà a tutta la rete, in ogni caso è plausibile ritenere che tale obbligo riguarderà gran parte della rete.

Entro quanto tempo deve essere pubblicata la rettifica inviata ad un sito informatico?
Il comma 29 estende la normativa prevista per la stampa, per cui il termine per la pubblicazione della rettifica è di due giorni dall’inoltro della medesima, e non dalla ricezione. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

E’ possibile aggiungere ulteriori elementi alla notizia, dopo la rettifica?
Il ddl prevede che la rettifica debba essere pubblicata “senza commento”, la qual cosa fa propendere per l’impossibilità di aggiungere ulteriori informazioni alla notizia, in quanto potrebbero essere intese come un commento alla rettifica stessa. Ciò vuol dire che non dovrebbe essere nemmeno possibile inserire altri elementi a corroborare la veridicità della notizia stessa.

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?
La rettifica prevista per i siti informatici è sostanzialmente quella della legge sulla stampa, la quale chiarisce che le informazioni da rettificare non sono solo quelle contrarie a verità, bensì tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni “da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità”, laddove essi sono i soggetti citati nella notizia. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia. Non si tratta affatto, in conclusione, di una valutazione sulla verità, per come è congegnata la rettifica in sostanza si contrappone la “verità” della notizia ad una nuova “verità” del rettificante, con ovvio scadimento di entrambe le “verità” a mera opinione (Cassazione n. 10690 del 24 aprile 2008: “l’esercizio del diritto di rettifica… è riservato, sia per l’an che per il quomodo, alla valutazione soggettiva della persona presunta offesa, al cui discrezionale ed insindacabile apprezzamento è rimesso tanto di stabilire il carattere lesivo della propria dignità dello scritto o dell’immagine, quanto di fissare il contenuto ed i termini della rettifica; mentre il direttore del giornale (o altro responsabile) è tenuto, nei tempi e con le modalità fissate dalla suindicata disposizione, all’integrale pubblicazione dello scritto di rettifica, purché contenuto nelle dimensioni di trenta righe, essendogli inibito qualsiasi sindacato sostanziale, salvo quello diretto a verificare che la rettifica non abbia contenuto tale da poter dare luogo ad azione penale”).

Come deve essere inviata la richiesta di rettifica?
La normativa non precisa le modalità di invio della rettifica, per cui si deve ritenere utilizzabile qualunque mezzo, fermo restando che dopo dovrebbe essere possibile provare quanto meno l’invio della richiesta. Per cui anche una semplice mail (non posta certificata) dovrebbe andare bene.

Cosa accade se non rettifico nei due giorni dalla richiesta?
Se non si pubblica la rettifica nei due giorni dalla richiesta scatta una sanzione fino a 12.500 euro.

Che succede se vado in vacanza, mi allontano per il week end, o comunque per qualche motivo non sono in grado di accedere al computer e non pubblico la rettifica nei due giorni indicati?
Queste ipotesi non sono previste come esimenti, per cui la mancata pubblicazione della rettifica nei due giorni dall’inoltro fa scattare comunque la sanzione pecuniaria. Eventualmente sarà possibile in seguito adire l’autorità giudiziaria per cercare di provare l’impossibilità sopravvenuta alla pubblicazione della rettifica. È evidente, però, che non si può chiedere l’annullamento della sanzione perché si era in “vacanza”, occorre comunque la prova di un accadimento non imputabile al blogger.

La rettifica prevista dal comma 29 è la stessa prevista dalla legge sulla privacy?
No, si tratta di due cose ben diverse anche se in teoria ci sarebbe la possibilità di una sovrapposizione parziale. La legge sulla privacy consente al cittadino di chiedere ed ottenere la correzione di dati personali, mentre la rettifica ai sensi del comma 29 riguarda principalmente notizie.

Con il comma 29 si equipara la rete alla stampa?
Con il suddetto comma non vi è alcuna equiparazione di rete e stampa, anche perché tale equiparabilità è stata più volte negata dalla Cassazione. Il comma 29 non fa altro che estendere un solo istituto previsto per la stampa, quello della rettifica, a tutti i siti informatici.

Con il comma 29 anche i blog non saranno più sequestrabili, come avviene per la stampa?
Assolutamente no, come già detto con il comma 29 non si ha alcuna equiparazione della rete alla stampa, si estende l’obbligo burocratico della rettifica ma non le prerogative della stampa, come l’insequestrabilità. Questo è uno dei punti fondamentali che dovrebbe far ritenere pericoloso il suddetto comma, in quanto per la stampa si è voluto controbilanciarne le prerogative, come l’insequestrabilità, proprio con obblighi tipo la rettifica. Per i blog non ci sarebbe nessuna prerogativa da bilanciare.

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.

Se ritengo che la rettifica non sia dovuta, posso non pubblicarla?
Ovviamente è possibile non pubblicarla, ma ciò comporterà certamente l’applicazione della sanzione pecuniaria. Come chiarito sopra la rettifica non si basa sulla veridicità di una notizia, ma esclusivamente su una valutazione soggettiva della sua lesività. Per cui anche se il blogger ritenesse che la notizia è vera, sarebbe consigliabile pubblicare comunque la rettifica, anche se la stessa rettifica è palesemente falsa.

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica, il titolare del dominio, il gestore del blog?
Questa è un’altra problematica che non ha una risposta certa. La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi è il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Anche qui non è possibile dare una risposta certa al momento. In linea di massima un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento non dovrebbe essere soggetto a rettifica.

Pensavo di creare un widget che consente agli utenti di pubblicare direttamente la loro rettifica senza dovermi inviare richieste. In questo modo sono al riparo da eventuali multe?
Assolutamente no, la norma prevede la possibilità che il soggetto citato invii la richiesta di rettifica e non lo obbliga affatto ad adoperare widget o similari. Quindi anche l’attuazione di oggetti di questo tipo non esime dall’obbligo di pubblicare rettifiche pervenute secondo differenti modalità (ad esempio per mail).

Pensavo di aprire un blog su un server estero, in questo modo non sarei più soggetto alla rettifica?
Per non essere assoggettati all’obbligo della rettifica è necessario non solo avere un sito hostato su server estero, ma anche risiedere all’estero, come previsto dalla normativa europea. E, comunque, anche la pubblicazione di notizie su un sito estero potrebbe dare adito a problemi se le notizie provengono da un computer presente in Italia.

E’ vero che in rete è possibile pubblicare tutto quello che si vuole senza timore di conseguenze? E’ per questo che occorre la rettifica?
Questo è un errore comune, ritenere che non vi sia alcuna conseguenza a seguito di pubblicazione di informazioni o notizie online, errore dovuto alla enorme quantità di informazioni immesse in rete, ovviamente difficili da controllare in toto. Si deve inoltre tenere presente che comunque l’indagine penale od amministrativa necessita di tempo, e spesso le conseguenze penali od amministrative a seguito di pubblicazioni online, si hanno a distanza di settimane o mesi. In realtà alla rete si applicano le stesse medesime norme che si applicano alla vita reale, anzi in alcuni casi la pubblicazione online determina l’aggravamento della pena. Quindi un contenuto in rete può costituire diffamazione, violazione di norme sulla privacy o sul diritto d’autore, e così via… Il discorso che spesso si fa è, invece, relativo al rischio che un contenuto diffamante possa rimanere online per parecchio tempo. In realtà nelle ipotesi di diffamazione o che comunque siano lesive per una persona, è sempre possibile ottenere un sequestro sia in sede penale che civile del contenuto online, laddove l’oscuramento avviene spesso nel termine di 48 ore.

Ho letto di un emendamento presentato da alcuni politici che dovrebbe risolvere il problema della rettifica. È un buon emendamento?
Già lo scorso anno fu presentato un emendamento da alcuni parlamentari, che sostanzialmente dovrebbe essere riproposto quest’anno, con qualche modifica. In realtà l’emendamento Cassinelli, dal nome dell’estensore, non migliora di molto la norma: allunga i termini della rettifica a 10 giorni, stabilisce che i commenti non sono soggetti a rettifica, e riduce la sanzione in caso di non pubblicazione. L’allungamento dei termini non è una grande conquista, in quanto l’errore di fondo del comma 29 è l’equiparazione tra rete e stampa, cioè tra attività giornalistica professionale e non professionale, compreso la mera manifestazione del pensiero, tutelata dall’art. 21 della Costituzione, esplicata dai cittadini tramite blog. Per i commenti la modifica è addirittura inutile in quanto una lettura interpretativa dovrebbe portare al medesimo risultato, anzi forse sotto questo profilo l’emendamento è peggiorativo perché invece di “siti informatici” parla di “contenuti online” con una evidente estensione degli stessi (pensiamo alle discussioni nei forum). Tale emendamento viene giustificato con l’esempio del blogger che scrive: “Tizio è un ladro”, ipotesi nella quale, si dice, Tizio ha il diritto di vedere rettificata la notizia falsa. Immaginiamo invece che Tizio effettivamente sia un ladro, la rettifica gli consentirebbe di correggere una notizia vera con una falsa. Se davvero Tizio non è un ladro, invece, non ha alcun bisogno di rettificare, può denunciare direttamente per diffamazione il blogger ed ottenere l’oscuramento del sito in poco tempo.

Ma in sostanza, quale è lo scopo di questa norma?
Una risposta a tale domanda è molto difficile, però si potrebbe azzardarla sulla base della collocazione della norma medesima. Essendo inserita nel ddl intercettazioni, potrebbe forse ritenersi una sorta di norma di chiusura della riforma, riforma con la quale da un lato si limitano le indagini della magistratura, dall’altro la pubblicazione degli atti da parte dei giornalisti. Poi, però, rimarrebbe il problema se un giornalista decide di aprire un blog in rete e pubblicare quelle intercettazioni che sul suo giornale non potrebbe più pubblicare. Ecco che il comma 29 evita questo possibile rischio.

Bruno Saetta – BLOG
@valigia blu – riproduzione consigliata

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

Sergio Bonelli, la cultura a fumetti.

Sergio Bonelli è morto. Tex Willer vive. E con lui tutti i personaggi inventati proprio da Sergio Bonelli: primo fra tutti, per numero di copie vendute, Dylan Dog.

Ma se Tex vive, allora Sergio Bonelli non è morto, forse è solo un artificio della sceneggiatura, magari ritorna alla prossima puntata. Il fatto è che siamo tutti debitori del grande ingegno di Bonelli. Abbiamo amato i suoi personaggi, che sono riusciti ad entrare nelle nostre passioni. All’inizio, addirittura, leggere Tex era quasi una trasgressione. Succedeva che il professore scopriva il compagno di scuola con Tex mimetizzato dentro il libro di antologia latina. E magari glielo sequestrava, e tutti pensavamo, ecco così se lo legge lui.

I genitori, preoccupati delle distrazioni dai compiti a casa, rampognavano sempre di lasciar stare quei “giornalini”. Già, i giornalini: diminutivo spregiativo di giornali, che, come un rito che si officiava in edicola, venivano acquistati e letti dal capofamiglia e solo dopo sfogliati dagli altri famigliari. Beh, oggi che è tutto cambiato, che smartphone, computer, tv, internet hanno sostituito l’armamentario trasgressivo degli adolescenti, Tex Willer e soci potrebbero sembrare pezzi di modernariato, per non dire di antiquariato. E invece non è così.

Tex Willer e gli altri eroi e antieroi della Sergio Bonelli Editore continuano a macinare copie, un fenomeno fuori dall’ordinario in questa Italia spesso furbastra e cialtrona: vendono tanto e sono di qualità. Pazzesco, no? Perché sono sceneggiati bene, perché c’è tanto da leggere, perché sono disegnati con cura, perché via via negli anni si sono rinnovati gli stili. Tex Willer, poi è di una attualità a dir poco mozzafiato: si batte per la legalità, il che di questi tempi è alquanto eversivo. Poi, oltre che ranger, è un capo indiano, e non pago, col nome di Aquila della Notte, Tex ha pure sposato una squaw da cui ha addirittura avuto un figlio, Kit. Vi renderete conto ci sarebbe stato più di un motivo per cacciare dalla Padania Sergio Bonelli e tutti la banda dei suoi personaggi.

“Tizzone d’inferno”, impreca Tex quando scopre che qualcuno è marcio fino al collo. “Giuda ballerino”, intercala Dylan Dog, investigatore dell’occulto, al quale bello sarebbe chiedere di investigare a fondo il motivo occulto per cui a noi italiani è dovuto toccare in sorte un governo incapace di gestire la grave crisi economica che stiamo subendo. Certo che se Cicchitto, Gasparri, Capezzone e company scoprissero che l’assistente di Dylan Dog si chiama Marx (Karl o Graucho, quelli non vanno per il sottile), capace che inserirebbero un emendamento nella legge “bavaglio”, per chiudere la bocca, dopo alle intercettazioni e ai blog, anche alla Sergio Bonelli Editore.

Si sono letti elogi all’opera culturale di Bonelli. Succede spesso quando sono “sempre i migliori che se ne vanno”. Però, dietro la retorica da funerale e l’enfasi da epitaffio affiorano alcune verità, che si sono tramandate almeno da tre generazioni di lettori italiani: quando un prodotto editoriale è fatto con cura e amore, cioè fatto bene; quando è scritto, disegnato, confezionato e distribuito con attenzione verso i lettori, allora il successo è in agguato, come lo è sempre stato nei fumetti di Bonelli.

Invece che cercare facili scorciatoie editoriali, invece che fare i furbi con contenuti sciatti, nella speranza di raggiungere “un vasto pubblico” dovremmo seguire, anche noi pubblicitari, il percorso tracciato con la penna e la matita da Sergio Bonelli. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Finalmente libri italiani su iPad.

Gli ebook di RCS Libri sono disponibili da oggi, 30 settembre, anche sull’iBookstore di Apple sia in Italia che in molti altri paesi d’Europa e del Nord America. L’iBookstore è integrato nativamente all’interno di iBooks, il software gratuito di Apple per la lettura di ebook su iPad, iPhone e iPod Touch.

RCS Libri offre per la prima volta ai lettori in Italia e in decine di paesi stranieri più di 1000 titoli su iBookstore, grazie ai positivi risultati della sperimentazione commerciale di un catalogo campione in Paesi esteri come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Francia.

Le novità 2011 sono già disponibili su iBookstore così come moltissimi longseller e bestseller degli anni passati. Nelle prossime settimane molti altri titoli, incluse le novità di fine anno e ulteriori titoli di backlist, verranno offerti dagli editori del gruppo RCS che comprende Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Etas, Archinto, Sonzogno e Skira.

Tra i primi autori del vasto catalogo RCS Libri, sono già su iBookstore Edoardo Nesi, vincitore del premio Strega 2011, e molte altre grandi firme italiane e internazionali come Umberto Eco, Gianrico Carofiglio, Dacia Maraini, Stieg Larsson, Kathy Reichs, Christopher Paolini. E’ disponibile anche la vasta collezione storica delle case editrici: maestri della letteratura universale come Hermann Hesse e Fëdor Dostoevskij; i grandi pensatori da Platone a Hegel; i padri della letteratura per ragazzi da Dickens a Verne. Beh, buona giornata.

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Leggi e diritto Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Decreto ammazza blog: viva Venezia.

Il Comune di Venezia ha aderito alla protesta del web contro il comma 29 del Ddl Alfano sulle intercettazioni. Si tratta del cosiddetto “ammazza blog”, che equipara i blog ai siti di informazione e prevede multe di 12 mila euro per mancate rettifiche a notizie.

“Si tratta di un vero e proprio attacco alla libertà di comunicazione portato fino al cuore dei social network e, quindi, al cuore della moderna libertà di espressione”, si legge in un comunicato dell’assessore alla Cittadinanza digitale Gianfranco Bettin.

“Il Comune di Venezia – continua la nota – ritiene un diritto fondamentale l’accesso alla Rete e la libertà di espressione attraverso di essa. Per questo aderisce alla protesta contro ogni ottusa e prepotente limitazione alla piena libertà di espressione”. Venezia è davvero una gran bella città. Beh, buona giornata.

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democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Ci risiamo: il governo Berlusconi contro i blog.

INTERNET
Bavaglio al web col ddl intercettazioni
ritorna la norma “ammazza blog”-repubblica.it
Il governo ripresenterà lo stesso disegno di legge, inclusa la disposizione che obbliga i gestori di un sito a modificare i contenuti pubblicati se oggetto di richieste di rettifica. Nessuna possibilità di replica e multe salate. In Rete riparte la mobilitazione. Di Pietro sul web: “Non staremo con le mani in mano”

Il governo torna alla carica sul ddl intercettazioni, fortemente voluto dal premier Silvio Berlusconi. Una questione su cui l’esecutivo è orientato a porre la fiducia, bloccando la via a ogni eventuale emendamento.

Ma il disegno di legge attualmente allo studio contiene ancora la norma 1 cosiddetta “Ammazza blog”, una disposizione per cui, letteralmente, ogni gestore di “sito informatico” ha l’obbligo di rettificare ogni contenuto pubblicato sulla base di una semplice richiesta di soggetti che si ritengano lesi dal contenuto in questione. Non c’è possibilità di replica, chi non rettifica paga fino a 12mila euro di multa. Una misura che metterebbe in ginocchio la libertà di espressione sulla Rete, e anche le finanze di chi rifiutasse di rettificare, senza possibilità di opposizione, ciò ha ritenuto di pubblicare. Senza contare l’accostamento di blog individuali a testate registrate, in un calderone di differenze sostanziali tra contenuti personali, opinioni ed editoria vera e propria.

Ai fini della pubblicazione della rettifica, non importa se il ricorso sia fondato: è sufficiente la richiesta perché il blog, sito, giornale online o quale che sia il soggetto “pubblicante” sia obbligato a rettificare. Ecco il testo: “Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.

Al di là delle diffamazioni e degli insulti, ogni contenuto sul web diventerebbe potenzialmente censurabile, con l’invio di una semplice mail. E sul ddl intercettazioni, il governo ha particolarmente fretta: il documento potrebbe passare così com’è entro pochi giorni. Un caso unico in Europa che, come in passato 2, sta già allarmando il popolo del web e mobilitando i cittadini in favore della difesa della libertà di informazione, come già accaduto ai tempi della contestata delibera AgCom. 3

Sulla sua pagina di Facebook, il presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, scrive che “Il governo prova ancora una volta a mettere il bavaglio al web. Il ddl intercettazioni, infatti, prevede anche che qualunque blog, sito, portale o social network riceva una richiesta da soggetti che si ritengano lesi da un contenuto pubblicato, sia obbligato a rettificare entro 48 ore. E’ la solita norma ‘ammazzablog’. La rete si sta già ribellando e state certi che anche noi dell’IdV non staremo con le mani in mano”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Potere Pubblicità e mass media

Informazione, stampa e televisione nella globalizzazione.

Mentre, come è giusto che sia, ci si occupa del ruolo di Al Jazira nel mondo arabo e ci interroga sui condizionamenti che gli Usa gli avrebbero imposto in questi anni, mentre tutto questo succede, dunque, bisognerebbe fare due conti con la realtà dell’informazione ai tempi della globalizzazione.

Perché se il rapporto tra stampa e potere è sempre stato problematico, in questa epoca l’informazione, soprattutto televisiva, ha assunto un ruolo sproporzionato, sempre più spesso incentrato su una funzione di supplenza della politica, per non dire di alcuni casi in cui il maistream ha letteralmente surrogato partiti, governi, cancellerie.

Se la gestione imperiale dell’Amministrazione Bush impose al modo la guerra preventiva al terrorismo, questo fu possibile per un atteggiamento “patriottico” della stampa americana, un atteggiamento che sorprese un po’ tutti. Ci si è chiesti più di una volta: ma dov’è finito lo spiritaccio indipendente del giornalismo made in Usa, quello che non guarda in faccia a nessuno, men che meno se si tratta dell’inquilino della Casa Bianca?

Negli anni dell’amministrazione Bush, la stampa americana, consapevole della ferita provocata dall’Attacco alle Torri Gemelle ha avuto una condotta, diciamo così, morbida. Cominciavano le grandi difficoltà economiche strutturali della carta stampata, il grande sorpasso informativo della tv su quella che fino allora era stata la supremazia della stampa, cioè l’approfondimento, il commento, la formazione dell’opinione, il dialogo con l’opinione pubblica. Mentre il governo Bush faceva il bello e il cattivo tempo, praticamente senza contraltare, la tv lo ha sostenuto nella sua strategia mediatica. Non dimentichiamo che proprio la tv, la Fox in particolare, ebbe un ruolo strategico per la prima elezione di Bush, ai danni dello sfidante Al Gore.

Dunque non stupisce che Rumsfeld, allora ministro della Difesa degli Usa in guerra contro il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, cercasse di addomesticare Al Jazira, visto che c’era riuscito in patria. Né che l’attuale amministrazione Obama, attraverso il ministro degli Esteri, la signora Clinton, cerchi un megafono in Al Jazira per supportare le rivolte della così detta primavera araba.

Non stupisce neppure che l’emiro del Qatar usi Al Jazira per accreditarsi verso gli Usa. Succede regolarmente nel modo occidentale, come dimostra lo scandalo che ha coinvolto Murdoch e Camerun in Uk, perché non nei paesi arabi?

Insomma, per portare avanti i suoi piani di sviluppo, la globalizzazione usa il mainstream, e la tv in particolare, per ridefinire quegli assetti finanziari, quegli equilibri geopolitici, quegli sbocchi ai mercati, quelle politiche commerciali sovrannazionali che la politica ci metterebbe troppo tempo a mettere in atto.

E per stare al passo coi tempi scanditi dal commercio globale, dalla finanza sovrannazionale la politica deve trovare alleanze coi media globali. I quali, a loro volta, rinunciano a porzioni consistenti di indipendenza verso i loro lettori e telespettatori, a favore di un autorevolezza e un accreditamento presso i nuovi poteri forti globali.

Se questo è quanto sta succedendo, ancora più comica è la funzione della tv in Italia rispetto al morente berlusconismo. La tv italiana sembra non vedere altre prospettive che il passato politico dei Berlusconi. Uno come Minzolini, per esempio, è più vicino alla disperazione professionale di un giornalista libico che va in onda e dice che va tutto bene e che Geddafi vincerà, di quanto egli stesso non si renda conto. Se ne accorgono però i telespettatori del TgUno, che continuano a abbondare in massa la rete ammiraglia della tv pubblica italiana. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

I dolori finanziari di Mediaset.

di GIULIANO BALESTRERI-repubblica.it

Fine settimana di fuoco per Mediaset che tra mercoledì e oggi ha lasciato sul parterre di Piazza Affari oltre il 16% con una capitalizzazione crollata a 2,4 miliardi, 2 euro per azione: solo venerdì sono stati bruciati 100 milioni di euro. Sintomo di un malessere profondo. Che si intreccia con la politica, la congiuntura economica e il piano industriale del gruppo di Cologno.

Gli analisti sono convinti che il governo guidato da Silvio Berlusconi sia vicino al capolinea. Una sensazione diffusa anche tra gli investitori che stanno iniziando a riposizionarsi. Mediaset gode oggi di un primato ineguagliabile sul fronte della raccolta: grazie all’aggressiva strategia di Publitalia e alla forte riduzione dei prezzi, la tv assorbe metà degli investimenti in pubblicità. Con Mediaset che raccoglie il 63% degli introiti della tv. Come dire che al Biscione va il 31,5% di tutta la raccolta pubblicitaria del paese.

“C’è una sorta di sudditanza nei confronti di Mediaset. E’ un fatto ciclico che si ripete quando Berlusconi è al governo” spiega un ex dirigente di Sipra, la concessionaria della Rai che aggiunge: “Gli investitori cercano di compiacere il premier. Danneggiando la Rai. Anche il governo cerca di non pagare gli spot al servizio pubblico”. Un sistema che senza Berlusconi al governo non avrebbe ragione d’esistere.

A tutto questo si aggiunge la congiuntura economica. I timori di recessione rallentano gli investimenti per tutti. Anche per Publitalia che continua a rendere più del mercato, ma non riesce a tenere il passo con la performance scorso anno (in realtà solo La7 e Cairo riescono a fare meglio).

Sullo sfondo del crollo del titolo anche i dubbi sull’efficacia del piano industriale. Ieri Mediaset Premium si è aggiudicata i diritti tv per i prossimi tre campionati di Serie A sul digitale terrestre versando 268 milioni di euro l’anno contro i 210 dell’ultimo contratto. Il Biscione si è aggiudicato l’esclusiva per le migliori 12 squadre di Serie A, quelle che garantiscono il 90% degli ascolti, a un prezzo inferiore rispetto alla concorrenza: Mediaset paga 1,2 milioni a partita contro l’1,4 di Sky e l’1,4 che viene chiesto per ogni match tra le 8 squadre fuori dal pacchetto Mediaset (le partite che garantiscono meno del 10% di share). Il problema è che gli abbonati Mediaset pagano in media 10,5 euro al mese contro i 43 euro di Sky. Certo il trend è in crescita rispetto ai 9,6 euro del 2009, ma con questi numeri servono 2,1 milioni di abbonati solo per pagare i diritti sportivi. Esclusa la Champions League. E a fine giugno gli abbonati erano 2 milioni con 4,4 milioni di tessere attive. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Test clinici hanno dimostrato che i testimonial non vendono.

(apparso su advexpress.it)

Stando alle ricercatrici Vicki G.Morwitz, della New York University, ed Edith Shalev, dell’Israel Institute of Technology, attualmente a spingerci all’acquisto non sarebbe affatto il desiderio di emulazione, quanto, piuttosto, la paura di essere guardati dall’alto in basso da chi giudichiamo sotto di noi e la necessità così di rafforzare il nostro ego, pareggiando l’acquisto. Va così in pezzi, ed era ora, la logica “aspirazionale” che per troppo tempo ha condizionato la creatività italiana. La qual cosa è da salutare positivamente.

Perché dovrebbe finalmente convincere tutti a porre fine alla lunga stagione dei testimonial famosi, e molto costosi, e, diciamocelo, alquanto noiosi.

Ne dà conto Simona Marchetti, che dalle pagine de Il Corriere della Sera cita un paio di esempi. Le due ricercatrici hanno sottoposto alcuni studenti newyorkesi a test mirati su alcuni prodotti. Con il risultato che questi ragazzi hanno dimostrato molto più interesse per l’acquisto di un riproduttore digitale di musica perché glielo consigliava un garzone di un negozio di alimentari, che si è dimostrato più credibile di un uomo d’affari.

Oppure, il caso di una elegante t-shirt griffata che, indossata da un commesso, invece che da uno studente di un college prestigioso, ha fatto venire loro il desiderio di acquistarla.

Insomma, se torniamo a fare cose semplici e a utilizzare persone normali nelle nostre campagne pubblicitarie, la pubblicità torna a essere credibile, i prodotti appetibili, nonostante la crisi dei consumi che attanaglia le aziende italiane.

Signori clienti e amici pubblicitari, capìta l’antifona? Beh, buona giornata.

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Attualità Cinema Media e tecnologia Pubblicità e mass media Teatro

La rivincita del fumetto d’autore: menzione speciale al Premio Giancarlo Siani.

La giuria del Premio Giancarlo Siani – edizione 2011 – ha assegnato una menzione speciale per il fumetto “Il mistero del pescatore” al settimanale 3DNews, inserto culturale del quotidiano Terra.
3DNews, ideato e diretto da Giulio Gargia, ha riscoperto il fumetto come strumento giornalistico di indagine e approfondimento dei fatti di cronaca.

Da circa due anni a questa parte, 3DNews approfondisce tematiche legate alla comunicazione, ai mass media, al cinema e al teatro. Va dato merito alla giuria del premio Siani di aver individuato una innovazione nel panorama della carta stampata.

Un’innovazione che reca i nomi di Giulio Gargia, Paco Desiato, Tommaso Vitiello, Nico Piro. La cerimonia di premiazione sinterrà il prossimo 22 settembre alle ore 11,30 presso la sala Siani del quotidiano “Il Mattino”, a Napoli. Beh, buona giornata.

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business democrazia Dibattiti Media e tecnologia Potere

Undici Nove.

La guerra terrorismo? L’hanno vinta i terrorizzatori.

Poiché la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, come diceva il barone Carl von Cluasewitz, se facessimo un bilancio della guerra al terrorismo scatenata dall’Amministrazione Bush, scopriremmo chi ha vinto, a dieci anni dal quel tragico 11 settembre, che ne fu la causa scatenante.

Non l’hanno vinta i terroristi islamisti, anche se gli è stata data la grande opportunità di diventare i padroni della scena mediatica, facendone nemici più pericolosi nei breaking news che nel campo di battaglia. L’ultima fiction è andata in onda con la spettacolare uccisione di bin Laden in Pakistan.

Non l’hanno vinta i marines Usa, né i soldati della coalizione alleata: in Iraq non c’è pace, in Afghanistan la guerra continua. In compenso, abbiamo riempito le tv di funerali ai caduti occidentali e staccato la diretta alle vittime civili.

Ma allora, chi ha vinto la guerra? Il grande vincitore è stato il manistream. Ha inventato scenari inesistenti, come le provette di antrace mostrate in diretta tv o il famoso show di Bush, che vestito da pilota di caccia annuncia al mondo “mission accomplished”. Hanno vinto gli inventori del water boarding, delle rendiction, del Patriot Act.

Hanno vinto i neocons che con i loro mezzi mdiatici hanno teorizzato il destino imperiale degli Usa nel mondo post bipolare, vagheggiando un ruolo storico simile a quello che fu dell’Impero Romano. Hanno vinto gli emuli, i reggicoda, i passeggeri del carro del vincitore: i nostrani Ferrara, Farina (alias Agente Betulla), Panebianco. Quest’ultimo, dalle pagine del Corsera applaudì la tortura utile a far confessare quei cittadini britannici di origine pakistana che avrebbero progettato un attentato su un aereo di linea inglese. L’inchiesta stabilì che non ci fu nessun complotto contro la democrazia, se non, appunto, teorizzazioni come quelle sostenute dall’articolo in questione.

Hanno vinto i dietrologi e teorici del complotto di ogni tara e longitudine che, nel tentativo di confutare le tesi ufficiali relative all’attentato alle Torri Gemelle si sono ostinati a guardare il dito, e perso totalmente di vista la foresta. Mentre i terrorizzatori realizzavano su scala globale quello che De Andrè descrisse come l’epoca in cui “chi non terrorizza si ammala di terrore”, la ricerca delle armi di massa divenne la più colossale arma planetaria di “distrazione di massa”: ha permesso alla globalizzazione di dilagare senza controlli democratici, ha permesso alla finanza “creativa” di impestare di titoli marci l’economia reale, ha realizzato la fine del welfare nelle democrazie occidentali.

I terrorizzatori hanno vinto perché sono riusciti a prendere tempo, prima che la catastrofe finanziaria si abbattesse sull’economia Usa; prima che la speculazione infilzasse Grecia, Spagna, Portogallo e ora l’Italia; prima che la protesta popolare spazzasse vie i governi arabi “moderati”. Il maistream si è fatto le ossa con l’Attacco alle Torri Gemelle. Oggi governa il pianeta, alleato fedele della globalizzazione selvaggia. Non sopporta intromissioni della politica, neanche dal presidente Obama. La guerra al terrorismo non è stata la continuazione della politica, ma il suo sudario. Ecco chi sono i terrorizzatori, ecco perché l’11 settembre è il loro decimo compleanno. Auguri. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La nebbia informativa.

(fonte: Ansa.it)

“Siamo di fronte ad una nebbia informativa, una cortina impenetrabile di notizie ed informazioni in eccesso che non ci permette di sapere cosa c’e’ oltre. Siamo in una modernita’ di bambagia che ci impedisce di fare cio’ che vogliamo, sviluppa in noi un senso di ignoranza, di inadeguatezza e di frustrazione, uno stato di impotenza e di instabilita”, Zygmunt Bauman dixit (al Festival della Mente di Sarzana). Beh, buona giornata.

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Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E’ finito il postmoderno. Non se ne poteva più.

di EDWARD DOCX-la Repubblica

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2011 Prospect magazine Distributed by The New York Times Syndicate – EDWARD DOCX

Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la “prima retrospettiva globale” al mondo intitolata Postmoderno – Stile e sovversione 19701990. Un momento…. Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ ho mai capito.

Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è “postmoderno”. E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante.

Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l’ idea predominante della nostra epoca. Allora: di che cosa si è trattato, esattamente?

Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c’ era prima: il modernismo.

A differenza, per esempio, dell’ Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all’ apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull’ unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l’ opportunità, la ripetizione.

Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l’ apparenza e l’ ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l’ America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo.

I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell’ identità, del progresso storico e della certezza epistemica. Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico.

Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un “forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale”.

Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell’ intellettuale francese JeanFrancois Lyotard intitolato ” The Postmodern Condition “, nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine “verità” in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce – sostenne ancora Lyotard – che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano.

Questo confluire di interpretazioni costituisce l’ essenza del postmodernismo. Purtroppo, il 75 per cento di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia “continentale” per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via. Due sono gli elementi importanti.

Il primo è che il postmodernismo è un’ offensiva non soltanto all’ interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d’ arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l’ idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati.

Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento.

Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios Illuminismo. Bye bye Romanticismo.

Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti – classe sociale, genere, sesso, etnia – e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c’ è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall’ autodeterminazione alla determinazione dell’ altro.

Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l’ impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell’ ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando “soltanto” una delle possibilità che possiamo utilizzare.

Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l’ idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati. Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d’ arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo – mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale – è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione.

Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente.

Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell’ estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è.

Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l’ egemonia dei marketplace.

Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo.

La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d’ arte. Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale.

Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci.

Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell’ attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare.

Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero.

Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l’ autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell’ etica. I valori tornano ad avere importanza.

Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca.

Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata. Queste tre idee – specificità, valori, autenticità – sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla “l’ Età dell’ Autenticità”. Vediamo un po’ come andranno le cose. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Dopo aver fatto passi da gigante, nell’informatica e nell’advertising, Steve Jobs fa un passo indietro.

di Piergiorgio Odifreddi- repubblica.it

Steve Jobs si è dimesso da amministratore delegato della Apple. Sembra, dunque, che stia perdendo la battaglia contro il male che lo sta divorando da tempo, e che l’ha reso ormai quasi evanescente come un fantasma, soprattutto se paragonato al florido ragazzo che era quando ha dato inizio all’avventura dei computer user friendly.

Interessante paragonare la sua carriera con quella parallela dell’altro enfant prodige dell’informatica, Bill Gates. Naturalmente, nessuno dei due è responsabile nè dell’invenzione del computer, nè dello sviluppo della sua tecnologia di base. Siamo dunque lontani anni luce dai contributi cruciali di Charles Babbage, Alan Turing e John von Neumann, tanto per limitarci alla Santissima Trinità.

Volendo mantenere la metafora profana, Gates e Jobs sono però i Pietro e Paolo della diffusione del vangelo del computer. Cioè, gli uomini del marketing, che hanno provveduto a diffondere il verbo informatico tra le genti, incarnato nel silicio invece che nelle valvole.

Agli inizi, Gates predicava il vangelo canonico dei fondatori, quello della programmazione e dei sistemi operativi. Il suo colpo di genio, come racconta lui stesso nella sua autobiografia La strada che porta a domani, fu di comprare (non di sviluppare!) l’ormai storico Dos, e di regalarlo all’Ibm, senza permetterle però l’esclusiva. L’adozione del Dos da parte dell’Ibm, e la costruzione dei cloni che potevano utilizzarlo grazie all’uso pubblico, ruppe il monopolio del colosso e diede inizio alla rivoluzione dell’informatica prêt-à-porter.

Jobs tradì la vocazione iniziale dell’informatica, di essere una religione per il solo popolo eletto in grado di programmare, e la diffuse tra i gentili: cioè, tra la gente comune, che non voleva saperne della te(cn)ologia. La teoria sparì dietro le icone, e rimase soltanto la pratica: come le vecchiette russe che pregano di fronte alle immagini di Andrei Rublev, completamente ignare dei dogmi che queste occultano, così i giovanotti occidentali si sono convertiti alla nuova religione, completamente ignari di cosa sia l’informatica. Come d’altronde, già era successo per le auto e la meccanica.

Analogamente all’originale evangelico, anche nel remake informatico ad avere la meglio è stato appunto Paolo-Jobs. E Pietro-Gates ha da tempo dovuto riconoscerne la vittoria e adattare la sua visione a quella dell’amico-rivale. Oggi il frontedi conversione della tecnologia digitale passa per l’Iphone, l’Ipod e l’Ipad, in attesa dei prossimi Iped, Ipud e Ipid: cioè, per i prodotti Apple, alla cui filosofia si è da tempo convertita anche la tecnologia Microsoft.

La consolazione per Gates è che tutti questi aggeggi ci portano sempre più avanti lungo La strada che porta a domani tracciata nel suo libro. Verso l’ormai prossima meta, cioè, di un’unica macchina versatile, portatile e in grado non soltanto di calcolare, ma di riunire in sè tutti i possibili flussi di informazione digitalizzabile (telefono, giradischi, radio, televisione, macchina fotografica, videocamera e, naturalmente, computer).

Che Jobs pssa riuscire a vedere realizzato l’obiettivo finale, alla cui realizzazione ha tanto contribuito. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

L’Europa, la gallina dalle uova marce: l’Ungheria scivola in pieno fascismo tra l’indifferenza della Ue.

di ANDREA TARQUINI-la Repubblica (via dirittiglobali.it)
Budapest, estate 2011: ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in uno Stato membro dell´Ue. La grande purga non risparmia nessuno. Ai posti di comando solo uomini fedeli al premier Orban. E un´unica newsroom centrale distribuisce notizie ai media pubblici. La paura di perdere il lavoro perché sospettati di idee critiche la cogli in ogni ambiente. Nuove proposte di legge prospettano campi d´ospitalità per disoccupati o elementi asociali

 
Budapest. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato.

Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici.

Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite.

Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro.

Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.

“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po´ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell´Unione europea.

«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l´odio, l´invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l´istituzione della Nmhh, l´autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un´unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.

«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell´Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un´intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell´agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l´Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.

L´epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L´Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all´intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d´alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo.

Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all´opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l´Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell´Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.

Appena celata dalla gentilezza d´animo e dalla vivacità di questo adorabile popolo nel cuore dell´Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l´Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell´Impero del Male” si allontana.

Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell´emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà. Nuove proposte di legge prospettano “campi d´ospitalità” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.

«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà», dicono i colleghi del Népszabadsàg: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell´Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l´anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all´antennista di sintonizzare la tv su canali critici.

O vedi un razzismo da banalità del male. Come l´altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L´Arcipelago Gulash è così, l´Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l´Ungheria te lo allevia l´Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d´una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca. (Beh, buona giornata).
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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Una bella idea dello Herald Tribune: poter inviare da iPad articoli via e- mail. Qualcosa che i nostri giornali dovrebbero subito imitare.

Invece l’idea che con una campagna pubblicitaria si possa combattere l’evasione fiscale in Italia e’ un pessimo esempio di come si possa usare la pubblicita’. Sarebbe molto meglio fare pubblicita’ ai fatti, piuttosto che alle intenzioni. La pubblicita’ alle intenzioni e’ pura propaganda, e come tale rischia di trasformare un gesto inutile in un’azione sbagliata. Secondo i dati ufficiali “ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai al 20% della ricchezza nazionale”. Lo ha scritto Nunzia Penelope, in “Soldi rubati” (Adriano Salemi Editore, Milano 2011). Un libro da leggere, proprio di questi tempi, per sapere che “60 miliardi di corruzione e 120 miliardi di evasione ogni anno, moltiplicati per 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico”. Beh, buona giornata.
E adesso ecco la buona notizia: qui di seguito l’articolo dello Herald Tribune inviato tramite e-mail da iPad. Alla fine trovere i links pet scarcera l’applicazione da Apple Store. Sto facendogli pubblicita’? Si’, ma questo e’ un fatto concreto, proprio quello che serve alla pubblicità” per essere concreta e, se permettete, onesta con i lettori.

From The International Herald Tribune:

Italy hopes ads will cast tax cheats in a harsh light

BY ELISABETTA POVOLEDO
ROME — An advertising campaign for Italy’s revenue agency that starts Tuesday has set itself a lofty goal: to get Italians to pay taxes.

In the television and print campaign, created by Saatchi & Saatchi, tax evaders are described as parasites that live at the expense of others, undermining the foundation of the social state.

Coming as Italy has been called on to make significant sacrifices to weather the debt crisis that has stormed European financial markets, the campaign’s message may actually hit home in a country where little social stigma has ever been attached to evading taxes.

‘‘The point is to increase tax compliance by changing the mentality,’’ said Antonella Gorret, spokeswoman for the revenue agency, the Agenzia Delle Entrate. ‘‘It used to be that tax evaders were seen as crafty, but in a moment of economic crisis, demands have increased for more effective crackdowns to avert the possibility of taxes being raised.’’

‘‘We want to get through the idea that tax evaders are a parasite to society and that to pay taxes is to guarantee services,’’ Ms. Gorret added. ‘‘We hope that we will be able to get through to people and make them more aware of the consequences’’ of tax evasion.

Italians have been accused by some of making tax evasion a national sport. But now that the country must finance the national debt and is likely to cut pensions and services like health care so that the budget can be balanced, calls have grown to ensure that every citizen pay his or her way.

A poll commissioned by the association of Italian Banking Foundations and Savings Banks, released in October, found that 48 percent of Italians said that fighting tax evasion should be the country’s priority for stimulating growth, more important than reducing public spending or lowering taxes.

The ad campaign was conceived this year as part of the revenue agency’s long-running battle against tax cheats, which has netted about €37 billion in the past five years. On Monday, Luigi Magistro, the director of tax assessment for the revenue agency, estimated that increased controls would yield an additional €11 billion in taxes in 2011.

‘‘The numbers so far this year have been encouraging,’’ Mr. Magistro told the news agency ANSA.

Saatchi & Saatchi was chosen, Ms. Gorret said, because it had designed an campaign for the Agenzia del Territorio, the Italian agency that monitors properties and real estate. It sought to convince Italians to register undeclared homes in the land registry so that taxes could be levied on them.

‘‘The Agenzia del Territorio said that every time the ad was aired many people would go to their Web site, so we decided to use the same advertising agency because it was an effective campaign,’’ she said.

Though this is the first time the internal revenue agency had invested in an ad campaign, it had been actively working to teach fiscal responsibility for some time. Each year, Ms. Gorret said, officials from the revenue agency visit some 1,200 schools to teach elementary and middle school children the basics of fiscal responsibility

The campaign, created with the Italian Government’s publications department, will run on national state television and radio until the end of August. Print ads will begin in September, when tax returns for self-employed Italians are due. That month, ads will also be placed in airports and rail stations in Rome and Milan.

‘‘People will be returning from their holidays,’’ and will begin thinking about more serious matters, Ms. Gorret said. ◼

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Attualità democrazia Dibattiti Media e tecnologia

La crisi secondo Franco Piperno: “Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(seconda e ultima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

IX)
Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici. Ci proponiamo d’aiutarla a scavare fino in fondo. E questo vuol dire, portare la crisi a livello delle categorie concettuali del senso comune: l’amore, le relazioni di solidarietà e di reciprocità, l’amicizia, la morte, l’economia, il progresso e così via. Quello che puntiamo a conseguire è di porre una serie di domande di senso comune alle quali riuscire a dare risposte comunemente intellegibili e tecnicamente perfette.
Altrimenti detto, la nostra è una politica che privilegia lo sguardo, piuttosto che l’universo linguistico. Contrapponiamo, così, all’individuo medio che sa ma non vede, l’individuo sociale che, come il bambino, vede ma non sa. Spogliata delle forme accademiche o paludate, la domanda del filosofo è sempre infantile, giacché colui che interroga senza alcuna necessità è il bambino. Per dirla con Valery “vision an avant, aveglue quant aux mots”.

X).
Occorre, quindi, ai i redattori stessi di questa cosa, praticare una saggezza rischiosa che nel mettere in questione l’ordine delle cose non evita nel contempo d’interrogare l’ordine del pensare — suscitando così stupore e sconcerto insieme. Giacché tutto parte da un interruzione, affinché il percorso abbia inizio: oggi il ritardo è il segno della perfezione. Potremmo riassumere così le considerazioni oscure che siamo andati via via snocciolando, dicendo che la nostra cosa parte con un intento di diseducazione o meglio malaeducazione linguistica: per ritrovare quel reale che le parole occultano.
Facciamo qualche esempio: il tema delle libertà comunali affiora nei movimenti che si svolgono attorno la questione antica dell’abitare. Movimenti che esistono, anche quando i giornali non ne parlano, magari nella dimensione del fiume carsico che si inabissa alla vista continuando a scorrere. Qui la politica dello sguardo vuol dire vedere il grado zero dell’abitare, il suo estremo; ovvero, rivelare, a coloro che sono senza casa, la condizione di possibilità di un altro modo dell’abitare che sottragga la città al suo destino, iper-moderno, di nodo di flussi di merci e di capitali; e la riconduca alla sua natura di luogo della buona vita. In atri termini la complessità, anche tecnicamente filosofica, del tema dell’abitare trova nell’estremo il punto di possibilità di un riappropriarsi della città, vivere il legame urbano come bene comune — riportare la città alla sua origine. E’ qui evidente la qualità di questa prassi dove il fine e il mezzo coincidono, condizione che è la prova evidente del carattere autentico. Qui si vede come un dato volgare, un bisogno nudo, arcaico, pressoché sub-umano, si riscatti come punto di vista, sguardo dal quale si vede la degradazione della vita politica che attanaglia le nostre città — dove l’architettura, soprattutto quella d’avanguardia, non fa che tradurre visivamente la rottura di relazioni di reciprocità e solidarietà che sono alla base del vivere urbano. E’ un’architettura che non solo non entra in contatto con quello che sopravvive del genius loci, ma semplicemente, non si pone più il problema, lo ignora; e.g. l’Ara Pacis, rivisitata da Veltroni, risulta priva di ogni aura; il che mostra, senza ombra di dubbio, che poteva essere costruita a Tokyo come a Parigi, a Pechino come a Berlino–perchè così stravolta è divenuta un non-luogo.
Analoga considerazione vale per i movimenti che, specie nel Sud, si strutturano attorno alla richiesta del reddito di cittadinanza. Anche qui l’aspetto volgare, la richiesta di soldi che appare come un precipitare estremo nel mondo delle merci si risolve, nella forma del reddito erogato dai comuni, in una formidabile acquisizione cognitiva sulla potenza della cooperazione sociale; e in una conseguente liberazione d’energia e di passioni in grado di far emergere dalla vita quotidiana un altro universo di consuetudini e consumi..

XI)
La nostra cosa tenta, paradossalmente, di usare il mezzo elettronico contro il mondo virtuale e la comunicazione in assenza; noi ci ripromettiamo di adoperare il colore ed il suono nonché la subitanea sensazione della contemporaneità — essere in presenza– che essi, ingannandoci, suscitano; tutto questo, contro le parole esauste e le macchinose teorie; per ritrovare il reale occorre portare a termine una diseducazione linguistica che mira a riscattare il mondo umano dalle parole che lo incorniciano e lo diminuiscono.

Avendo letto più di dieci libri, sappiamo che un’opera, che si presenti come gravida di una teoria completa e coerente, è una falsificazione del mondo.

Proviamo a riassumere: la crisi comporta un’interruzione tanto nella vita quotidiana, quanto nel pensare quotidiano; lo sguardo sceglie di posarsi sul fondo volgare- il reddito monetario, la malattia, la casa-tana, la caduta, la morte- perché solo su questo sfondo fragile e comune possono risaltare le idee autentiche, i pensieri singolari, in grado di creare comunità. Il comune pensare non è il pensiero che abbiamo tutti, ma il pensiero che istituisce relazioni di solidarietà e di reciprocità, cioè propriamente comunitarie.
Non si tratta quindi di uno sguardo contemplativo, né di uno sguardo trasformativo di quello che c’è, piuttosto è un modo di porsi eccedente che rinnova le relazioni tra l’essere umano ed il mondo; senza peraltro aggiungere nulla di nuovo, poiché l’azione autentica non lascia traccia.
E’ quindi uno sguardo che comporta una sorta di cattiveria sognante, in grado di vedere ciò che l’opinione pubblica nasconde. Non bisogna fare null’altro se non rifare le stesse osservazioni possibili a tutti. Riprendere in proprio, come se mai fosse stata pensata, l’osservazione che tutti hanno già fatto. Il futuro rientra nel presente come se resuscitasse; mentre il passato, lungi dal ritornare appare per quello che è : il presente che rientra nel suo medesimo e lo rende così eterno.
Si tratta, in buona sostanza, di coniugare al perfetto, nel senso del compiuto, attraverso quel modo del tempo oggi più pertinente al perfetto, quello del ritardo. E non tanto per contrastare con la lentezza il tempo del “prestissimo” in cui siamo tutti immersi, ma perché guardare è un’attività che comporta il rifarsi, rifare se stessi– affinché la buona vita, che è un processo e non uno stato, si compia e la morte stessa funzioni come un suggello di questa perfezione.
Come canta il poeta, bisogna essere perfetti, non c’è più da esitare.

XII).
La nostra cosa è quindi una sosta nella smaniosa abitudine a comprendersi nel mondo lungo la via razionale-riduttiva del linguistico; e si offre per noi stessi come occasione per conoscersi e conoscere il mondo fuori dai concetti-sentimenti della riproduzione seriale. Solo introducendo nella temporalità stereotipata l’interruzione, ed il ritardo che ne consegue, ogni vita, nel tempo mortale che le è dato, può realizzare il suo autoperfezionamento– non quindi una vita esatta e certa, ma incerta e precaria.
La cosa che proponiamo cerca di utilizzare il virtuale per afferrare il reale, come si fa quando uno osserva la volta celeste dopo aver visitato il planetario del luogo. L’idea-forza è la costruzione della cassetta di attrezzi che servano a far precipitare la coscienza dei luoghi- coscienza che non è mai svanita anche quando è tenuta a vile e rattrappita. Il riferimento premoderno di quello che vogliamo fare è il breviario o il “libro a ore” dove, appunto, è dispiegata la temporalità del luogo, le ore come scansione qualitativa del tempo e non il loro supposto scorrere uniforme, come tutte uguali.
Naturalmente la sequenza sopra delineata nella pratica si rovescia: la nostra avventura riuscirà nel suo scopo se i luoghi ritroveranno le loro temporalità autentiche, le cento città italiane avranno cento tempi diversi. Qui è evidente come il ritardo sia un segno di perfezione si pensi alle città rurali del meridione. Per chiudere senza concludere, la cosa che cerchiamo di costruire è una sorta di ”General Intellect” dei luoghi che ha lo scopo, perfettamente provvisorio, di facilitare l’emersione del “genius loci”, gettando alla critica roditrice dei topi tutti quei concetti della modernità che hanno ridotto i luoghi a non luoghi; e fornendo, per quanto ci è possibile, quelle arti, quei saperi, quelle tecniche accademiche e non, volte a permettere di curare tutta la ricchezza di relazioni che c’è già nel mondo che ci è dato. Va da se che nel nostro caso i luoghi sono rappresentati da comunità locali individuate per una prassi concreta, già esistente, sulle tematiche sopraccennate. In barba a tutti i facitori di costituzioni noi pensiamo all’Italia come una nazione in grado di superare se stessa, divenendo ciò che già è : una confederazione di cento, e non più di cento,libere città.

Le cose ed i cosi della Cosa Multimediale di Cosenza.
-Fine della seconda e ultima parte-
(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Franco Piperno: “da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(prima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

Premessa

Queste note, non delineano la Cosa che ci proponiamo di realizzare giacché quella cosa lì è solo marginalmente linguistica: puntiamo a qualcosa che sia, prima di tutto, suono ed immagine — per criticare l’universo asfittico delle parole. Così ad esempio, la parte linguistica-discorsiva, che pure deve apparire nella nostra Cosa, ha sempre un fondo musicale appropriato; ancora, l’uso ossessivo della satira è un modo di tradurre la capacità espressiva di un’allegra cattiveria nei riguardi della rappresentazione del reale che si fonda sulla sua mutilazione- come accade per la tematica della rappresentanza nella vita civile del paese. Va da sé che la vera difficoltà è redigere un numero zero e non discettare su come redigerlo. Nel seguito quindi noi, come tutti gli altri coautori, cercheremo di approntare a titolo d’esempio un numero zero.

I).
La crisi, come attesta la filologia della parola, la vera crisi s’intende, è quella attuale ha tutta l’aria di esserlo, è prima di tutto “giudizio”, “decisione”; in altri termini la crisi è tale perché costringe a decidere. Non ci si può sottrarre al giudizio. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante e per il quale noi, da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto.
La crisi a cui guardiamo è quella che, distruggendo ad un ritmo esponenziale la stessa ricchezza che con quello stesso ritmo aveva creato, opera per modificare concetti e sentimenti comuni in maniera ben più micidiale di quanto possano mai fare milioni di libri sovversivi, migliaia di scioperi, centinaia di rivolte. La crisi compie il suo lavoro con un automatismo pressoché perfetto. Per questo ci sembra di poter dire: “ scitate Catarì ca l’aria è doce”.

II).
La crisi sconvolge l’ordine delle cose presenti, strutturato come proiezione valorizzante dell’homo laborans– il nostro compito è rovesciare anche l’ordine delle idee presenti, che incorniciano la realtà e la riconducono all’economia.
Nella crisi emergono altre anime collettive che spesso sono proprio le stesse o fortemente analoghe a quelle che abitavano il mondo prescientifico, quello che si svolgeva prima della modernità.
Il giornale è il luogo dove questa emersione viene registrata e le si conferisce consapevolezza.
Un giornale dei luoghi, dove nella parola luogo è presente il tempo del luogo.
Esso si configura come un esodo linguistico dalla semantica dominante, come abbandono e distruzione delle parole chiave dell’opinione pubblica, dei moderni luoghi comuni; e la coniazione collettiva di altre parole, di nuovi-antichi luoghi comuni.
Così il lavoro viene ricondotto alla sua vera natura di lavoro salariato: attraverso la trappola dei posti di lavoro sacralizza l’iniziativa del capitale, facendola apparire come bisogno universalmente umano di progresso e benessere- bisogno definitivamente indotto, dal momento che nell’uomo è l’attività che ha una base istintuale e non il lavoro salariato.

III).
Non informazione, quindi, per uniformizzare il mondo, bensì comunicazione volta ad esaltare le differenze; non un universo attorno al valore crescente delle merci, ma un pluriverso strutturato sulle passioni collettive e la determinazione a soddisfarle- oltre la semplice ripetizione sinonimica.
La politica riportata alla sua origine: l’autogoverno della città- non gestione dell’economia, né per la sopravvivenza e nemmeno per il benessere; bensì la libera vita comunale: a ciascuno il suo, ad ognuno la sua buona vita.

IV).
Il nostro interlocutore non è quindi l’individuo generico, quello descritto dalle statistiche attraverso grandezze quantitative come il reddito, la speranza di vita, insomma l’italiano medio, elettore-consumatore, etc.- giacché l’individuo medio è una cattiva astrazione, una vuota convenzione linguistica che riduce l’essere umano ad un inutile ripetizione, un semplice uno in più, mediante la cui esistenza non viene acquisito niente, non viene aumentato nient’altro che un numero, e il cui senso è solo un inutile aggravio di entropia.

V ).
L’esodo, l’uscire dalla ripetizione sinonimica vuol dire porsi domande diverse da quelle che appassionano l’opinione pubblica, che è solo l’opinione dominante.
Così il dibattito sulla degradazione ambientale assume la forma di mobilitazione generale proprio perché occulta il processo di riconversione energetica- uno degli enormi affari attorno a cui l’occidente capitalistico tenta di riorganizzare il processo produttivo per competere con i così detti paesi emergenti. Laddove il problema non è quello di riconvertire, ma di ridurre drasticamente l’inutile dissipazione d’energia, il gigantesco aumento d’entropia che deriva dalla logica stessa del progresso industriale.

VI ).
Ancora un esempio: nell’opinione pubblica prevale un’attitudine sacrale verso la scienza interpretata come innovazione di prodotto. Laddove è proprio la tecno-scienza, a svalorizzare ciò che già abbiamo, a lasciar fuggire il presente, ad inventare continuamente nuovi bisogni creando nuove merci che ormai invadono anche la sfera propriamente biologica dell’uomo e moltiplicano a dismisura le relazioni mercantili tra gli esseri umani. Sicché il malaugurato progetto di riorganizzare gli studi universitari attorno alle necessità d’innovazione dell’impresa si presenta come la minaccia più seria all’autonomia del sapere, alla comune libertà di creazione simbolica, una delle facoltà tra le più singolari della specie “homo sapiens”; e va combattuta come se si fosse in presenza dell’origine stessa del male. Infatti, l’innovazione più radicale, quella che rompe fin nelle radici con la tradizione è quella che cessa di innovare e brevettare, perché il nuovo è solo la tradizione del moderno.

VII ).
Infine, a proposito di fabbricazione dell’opinione pubblica, si pensi nel dibattito sui grandi media, a come è stata affrontata la questione della morte: la morte, grazie alla tecno-scienza, è sentita come scandalo della vita e non come suo compimento. La morte conferisce perfezione alla vita, non è il contrario della vita, è solo il contrario della nascita. E’ singolare l’alleanza fra la tradizione cattolica e la tecnoscienza nel tentare di allungare senza limite la vita biologica -testimonia quale profonda degradazione del mondo naturale si sia realizzata nelle società a tardo capitalismo; dov’è andata la virtù d’accettare la morte? Dove è finito quel gesto tragico dell’intelletto, quello scarto eccedente di coscienza rispetto al nostro fratello lupo, alla nostra sorella tigre, all’impersonalità dello sguardo della pecora? Come scrive il poeta “un bel morire tutta la vita onora”.

VIII ).
Il nostro interlocutore è certo l’individuo ma quello sociale: l’individuo consapevole di possedere una coscienza enorme, potenzialmente all’altezza del genere. L’individuo medio ignora ciò che non ha nome; per la maggior parte crede solo all’esistenza di tutto ciò che ha un nome; e quanto alle parole, alcune fanno sì che ciò che non esiste esista, altre che non esista ciò che esiste.
Sicché, risulta più facile cambiare le nostre idee sul mondo piuttosto che il mondo. Su una moltitudine di milioni d’individui generici, solo un esiguo numero sente e guarda la vita come potenza, avventura. Il resto la subisce senza pensarci, come un ciclo da cui sono posseduti inconsapevolmente. (Beh, buona giornata)
-Fine della prima parte-.

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Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media Teatro

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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