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Attualità Popoli e politiche

Gaza: “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”. Dedicato al ministro degli esteri italiano.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”.

Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’. “Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel.

“Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”. Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’.

“Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel. “Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Alitalia: anche con un poco di zucchero la pillola non va giù.

Dice Bonaiuti, il ventriloquo di Berlusconi:
“Con il centrosinistra, Air France si sarebbe presa tutta l’Alitalia, ora solo una quota. E’ stato rispettato l’assunto fondamentale, è cioè l’italianità è stata mantenuta”. Lo afferma Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ai microfoni di Rainews 24.

 

Scrive Le Figaro:

Air France domina i cieli europei”, è il grande titolo in prima pagina di Le Figaro questa mattina. Il quotidiano francese celebra l’acquisizione del 25% di Alitalia e il fatto che, “con 99 milioni di passeggeri trasportati ogni anno nel mondo, la compagnia francese supera i suoi concorrenti British Airways e Lufthansa”.

Dice Gasparri, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Mi auguro che senso di responsabilità e soprattutto fiducia nella nuova compagnia prevalgano presto sull’incoscienza di alcuni agitatori che oggi, limitando i servizi essenziali con proteste e scioperi, stanno causando gravi disagi per i viaggiatori. La soluzione che si è profilata per Alitalia era l’unica possibile per mantenere la nostra compagnia di bandiera e soprattutto per darle una prospettiva”. Lo dichiara il presidente del Pdl al Senato Maurizio Gasparri.

Scrive le Figaro:

“La compagnia franco-olandese sborserà 323 milioni di euro per acquistare il 25 per cento del capitale della sua omologa italiana, ottenendo tre sedie nel consiglio d’ amministrazione”. Lo scrive Le Figaro, sottolineando che “questa volta la notizia è veramente ufficiale”. Al suo fianco, prosegue il quotidiano francese, ci saranno “gli imprenditori italiani mobilizzati dal premier Silvio Berlusconi”. Per Le Figaro questa rappresenta “una bella vittoria per Air France-Klm”, ma soprattutto “per il suo presidente”.

 Dice Sacconi, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Tutti i profeti di sventura sono stati smentiti: ce l’abbiamo fatta, la nuova Alitalia c’è” dice il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Di fronte alle agitazioni che hanno interessato alcuni aeroporti, per il ministro bisogna usare gli strumenti opportuni: “credo che si debba garantire la continuità del servizio – ha spiegato Sacconi – penso che sia davvero giunta l’ora di riformare la regolazione del diritto di sciopero nei servizi di pubblica utilità”.

A proposito di strumenti opportuni per “garantire la continuità del servizio”:

La terza sezione del tribunale civile di Roma si è riservata in merito alla possibilità di inviare gli atti alla Corte costituzionale, per decidere di una eventuale questione di legittimità costituzionale del decreto 138 del 2008, che ha modificato la legge Marzano e ha permesso il commissariamento e la vendita di Alitalia. Lo comunica il Codacons, che ha promosso un giudizio di fronte al tribunale civile per veder annullata “l’ammissione della società Alitalia alla procedura di amministrazione straordinaria”.

Beh, buona giornata.

 

 

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: D’Alema tira il sasso, poi nasconde la mano.

“Non c’e’ dubbio che il sovrapporsi della guerra contro Hamas con la campagna elettorale in Israele sia particolarmente sgradevole”. Lo ha detto l’esponente del Pd ed ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, durante la conferenza stampa tenuta oggi presso la sede della Stampa estera a Roma. Sollecitato dalle domande dei giornalisti D’Alema ha pero’ precisato che “e’ improprio parlare, a questo riguardo, di guerra elettorale”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Pubblicità e mass media

La sfiducia nella fiducia.

 

 Secondo quanto reso noto da Isae, l’Istituto di studi e analisi economica (www.isae.it), la fiducia  è crollata ai minimi storici in Europa sia tra i consumatori che tra le imprese. E’ quanto emerge dalla rilevazione relativa al mese di dicembre, nella quale si  sottolinea che l’indice di fiducia dei consumatori è sceso da -25 a -30 che è il minimo storico dal 1985, anno di inizio della serie storica di riferimento.

In particolare peggiorano le previsioni sulla situazione economica generale e aumentano fortemente le preoccupazioni sull’occupazione. “L’indice continua a calare in Germania, Francia e Spagna” mentre al di fuori dell’area euro “la fiducia si deteriora anche nel Regno Unito”, si legge nel comunicato stampa diffuso da Isae.

La fiducia delle imprese manifatturiere nell’area euro si attesta a -33 da -25 del mese precedente, segnando anche in questo caso un record negativo dal 1985. “Il peggioramento è diffuso ovunque- sostiene Isae- pur essendo particolarmente sensibile in Germania, Spagna e Francia; al di fuori dell’area euro la fiducia migliora, seppur leggermente, nel Regno Unito”.

 

Anche negli Usa, gli indici della fiducia sembrano migliorare leggermente. Per quanto riguarda la fiducia nei consumatori, Isae rileva che l’indice elaborato dal Conference Board subisce un nuovo sensibile calo e si riporta al minimo storico registrato ad ottobre (a 38 da 44,7); peggiorano sia il sottoindice relativo alla situazione corrente (a 29,4 da42,3) sia quello relativo alle aspettative ( a 43,8 da 46,2)

 

Di segno opposto, appare l’indicatore elaborato dall’Università del Michigan, che invece risale a 60,1 (da 55,3); contemporaneamente migliora il sottoindice che raccoglie i giudizi sulla situazione presente (a 69,5 da 57,5), mentre è quasi stabile quello relativo alla situazione futura (a 54 da 53,9).

 

Poiché la politica e le politiche anticrisi giocano un ruolo determinante sull’andamento degli indicatori della fiducia, è evidente il ruolo positivo giocato da Gordon Brown in Uk e, per quanto riguarda gli Usa, il prossimo atteso insediamento alla  Casa Bianca di Barak Obama.

 

Della situazione italiana, Isae si era occupato il 30 dicembre scorso, rilevando il preoccupante crollo  del clima di fiducia tra le imprese italiane. Dalle costruzioni, al commercio ai servizi di mercato l’indice di fiducia registrato dall’Isae a dicembre risulta  in calo, e in alcuni casi scende ai minimi da dieci anni.

L’Istituto di Studi e Analisi Economica aveva diffusi tre diverse inchieste dalle quali emergeva lo stesso dato: le imprese continuano a vedere nero. In particolare, per le costruzioni a novembre l’indice di fiducia delle imprese diminuisce per il terzo mese consecutivo e “si posiziona sul livello più basso registrato da dicembre 1998”.

“In forte caduta”, secondo l’Isae anche la fiducia dei commercianti (in questo caso il dato è di dicembre e non sembrano aver avuto effetto positivo i tradizionali acquisti di Natale): l’indice, considerato al netto della componete stagionale, continua a scendere e, portandosi da 96,9 a 88,8, raggiunge il valore minimo dall’ottobre del 2001″.

Male anche il clima di fiducia nei servizi di mercato: a dicembre l’indice è sceso a -26 da -23 dello scorso mese “a causa del marcato peggioramento – spiega l’Istituto – dei giudizi sugli ordini”.

 

Su base territoriale, l’indice èsceso da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorate anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese hanno confermato le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese di novembre: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è stato dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche italiane hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, poco compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche se le banche non hanno fiducia nelle famiglie e nelle piccole e medie imprese?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela  già cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica se la politica non si accorge del crollo di tutti gli indicatori sulla fiducia?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali appaiono frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella informazione se l’informazione non ha fiducia nella sue capacità di dire con chiarezza come stanno davvero le cose?

La pubblicità italiana  vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità se la pubblicità rinuncia a costruire fiducia nelle marche da parte dei consumatori?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman:” Molto prima che l’ultima bolla del mercato esplodesse, c’erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra”. (“Così cambia il nostro stile di vita”, Repubblica 10 gennaio).

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori in campo. Beh, buona giornata.



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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Italia, paradiso capitalista.

di Hans Suter.

I nuovi azionisti di Alitalia hanno guadagnato, prima ancora che si fosse alzato in volo un solo aereo, il loro bel aggio per la vendita del 25% ad Air France. E questo dopo che lo stato italiano è rimasto con la bad company. Fantastico. Aspettiamo di leggere le lodi dell’operazione sul foglio della Confindustria. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Socializzare le perdite, privatizzare i profitti.”

NON TOCCA A NOI PAGARE LA LORO CRISI! PDF Stampa E-mail
da sdlintercategoriale.it 
 

Appello internazionale già sottoscritto da 30 organizzazioni sindacali tra cui SdL intercategoriale

Partita dagli Stati Uniti, la crisi finanziaria si è estesa al mondo intero, per due ragioni. Innanzitutto, tutti i meccanismi che avrebbero potuto arginarla sono stati distrutti dalla deregulation finanziaria attuata dai governi, che hanno rimosso ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

Inoltre, poiché quasi tutte le istituzioni finanziarie del mondo hanno partecipato alla corsa alle speculazioni in ambito finanziario, nessun paese è stato protetto dalla deflagrazione.

 

Questa crisi è la prova del fallimento totale dell’ideologia neoliberista e delle politiche che mirano a mettere le sorti dell’umanità nelle mani del mercato.

Se non fosse in gioco il destino di miliardi di esseri umani, verrebbe da ridere a vedere quelli che erano gli adoratori beati della libera concorrenza, come i nostri governanti, trasformarsi in apostoli dell’intervento dello Stato. Ma questa apparente inversione di tendenza non deve ingannare nessuno.

Perché l’invocato intervento dello Stato è finalizzato a salvare interessi privati, secondo la ben nota regola “socializzare le perdite, privatizzare i profitti”.

Così migliaia di miliardi di denaro pubblico, i nostri soldi, vengono oggi riversati senza batter ciglio nelle tasche di banche e grandi azionisti da salvare, mentre è “impossibile” destinare la minima risorsa a far fronte ai bisogni sociali.

Ma non è tutto. La crisi finanziaria ha colpito l’economia reale, c’è la recessione con il suo strascico di licenziamenti; padroni e governi sono ben decisi a continuare ad attaccare i diritti sociali di lavoratrici e lavoratori, soprattutto sul terreno della previdenza sociale, del welfare e del diritto del lavoro.

Il loro obiettivo è di far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori, predicando l’“unità nazionale” in ogni paese per cercare di indorare la pillola.

In quanto sindacaliste e sindacalisti, noi costruiamo invece la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori per contrastarli! Padroni e azionisti si sono ingozzati di dividendi, sgravi fiscali di ogni genere, remunerazioni demenziali e si sono assicurati delle fortune la cui entità supera la comprensione.

Tocca a loro pagare la loro crisi.

A noi tocca il compito di imporre le nostre esigenze sociali. Più che mai, la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori è all’ordine del giorno. Per salvare il loro sistema capitalista, loro si sono organizzati internazionalmente: Il movimento sindacale deve agire al di sopra delle frontiere per imporre un sistema alternativo a quello che sfrutta chi lavora, saccheggia i paesi sottosviluppati, pianifica a tavolino la carestia in gran parte del pianeta… Ovunque ci troviamo, sviluppiamo il conflitto sociale e costruiamo la resistenza comune!

Union syndicale Solidaires (Francia) 

  • Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale SdL Intercategoriale (Italia) 
  • Union Syndicale des Travailleurs Kanaks et Exploités USTKE (Kanaky) 
  • Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique SNAPAP (Algeria) 
  • Confederazione Unitaria di Base CUB (Italie) 
  • Confederazione Italiana di Base Unicobas (Italia) 
  • Confederazione COBAS (Italia) 
  • Conseil des Lycées d’Algérie CLA (Algeria) 
  • Syndicat des Travailleurs Corses STC (Corsica) 
  • Syndicat indépendant des écoliers, des étudiants et des apprentis SISA (Suisse) 
  • Syndical libre Agosto 80 (Polonia) 
  • La Fragua (Argentina) 
  • Confederazione Intersindacale (Stato Spagnolo) 
  • Coordinadora Sindical (Stato Spagnolo) 
  • Sindacato dei Lavoratori Andalusi STA (Andalusia) 
  • Intersindacale Canarie 
  • Intersindacale Aragona 
  • Intersindacale Baleari 
  • Intersindacale Valencia 
  • STEE-EILAS (Paesi Baschi) 
  • Corrente sindacale di sinistra Asturia 
  • Confederazione Intersindacale Alternativa d Catalogna IAC (Catalogna) 
  • Central de los Trabajadores Argentinos CTA (Argentina) 
  • Central Unitaria de los Trabajadores CUT (Colombia) 
  • Confédération des Syndicats Autonomes CSA (Sénégal) 
  • Renouveau de l’Action Syndicale RAS (Congo) 
  • Fédération SUD service public (cantone del Vaud, Svizzera) 
  • Syndicat unique des travailleurs des transports aériens et activités annexes du Sénégal SUTTAAAS (Sénégal) 
  • Organisation Démocratique du Travail ODT (Maroc) 
  • Confederacion General del Trabajo CGT (Etat espagnol)

 

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Di seguito la versione in francese, inglese e spagnolo dell’appello

NOUS N’AVONS PAS À PAYER LEUR CRISE !

Partie des Etats-Unis, la crise financière s’est étendue au reste du monde et ce pour deux raisons. Tout d’abord, tous les pare-feux qui auraient pu permettre de la contenir ont été détruits par la déréglementation financière mise en œuvre par les gouvernements, aucune entrave n’étant plus mise à la libre circulation des capitaux. Ensuite, la quasi totalité des institutions financières du monde ayant participé à la course spéculative engagée dans la finance, aucun pays n’a été protégé de la déflagration. Cette crise marque l’échec absolu de l’idéologie néolibérale et des politiques qui visent à confier au marché le sort de l’humanité. Si le sort de milliards d’êtres humains n’était pas en jeu, il serait comique de voir ceux qui, comme tous nos gouvernants, étaient des adorateurs béats de la libre concurrence, se transformer en apôtres de l’intervention de l’Etat. Mais ce changement de posture ne doit tromper personne. Car s’ils décident que l’Etat intervienne, c’est pour sauver des intérêts privés suivant le précepte bien connu : “socialiser les pertes et privatiser les profits”. Ainsi des milliers de milliards d’argent public, notre argent, sont aujourd’hui déversés, sans discuter, pour sauver les banques et les actionnaires, alors qu’il est « impossible » de trouver le moindre sou pour répondre aux besoins sociaux. Mais ce n’est pas tout. La crise financière a touché l’économie réelle, la récession est là avec son cortège de licenciements ; patrons et gouvernements sont bien décidés à continuer à s’attaquer aux droits sociaux des salarié-e-s, notamment en matière de protection sociale ou de droit du travail. Leur objectif est de faire payer la crise aux salarié-e-s en prônant dans chaque pays « l’unité nationale » pour essayer de faire passer la pilule. Syndicalistes, nous construisons la solidarité internationale des travailleurs/ses pour leur répondre ! Les patrons et les actionnaires se sont gavés de dividendes, de cadeaux fiscaux de toutes sortes, de rémunérations démentielles avec, à la clef, des fortunes qui dépassent l’entendement. C’est à eux de payer leur crise. A nous de leur imposer nos exigences sociales. Plus que jamais, la mobilisation des salarié-e-s est à l’ordre du jour ! Pour sauver leur système capitaliste, ils sont organisés internationalement : le mouvement syndical doit agir à travers les frontières pour imposer un autre système que celui qui exploite les travailleurs/ses, pille les pays sous développés, organise la famine d’une partie de la planète, … Partout, développons les luttes sociales, et construisons la résistance commune !

 

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WE DON’T HAVE TO PAY FOR THEIR CRISIS!

Originated in the US, the financial crisis spread to the rest of the world for two reasons. The first of them is that all the firewalls that could have been able to contain it had been destroyed by the financial deregulation put in force by the governments, with no more interference with the free circulation of capital. The second one is that because of the involvement of the world financial institutions into the financial speculative run, no country had been protected from the explosion. This crisis shows the absolute failure of both the neoliberal ideology and policies whose aim is to entrust to the market the future of the humanity. If the destiny of billions of human being were not at stake, it should be comical to see those who, as for example our governments, were blessed worshippers of free competition, transformed into apostle of State intervention. But this move in the posture must not mislead anyone. Because if they decide that the State has to intervene, it’s only in order to save private interest according to the well-known precept: “socialize the losses and privatize the profits”. Thus, thousands of billions of public money, i.e. our money, are to-day poured, without any bargaining, in order to save the banks and the shareholders. At the same time, it is said that it is “impossible” to find out a single penny to satisfy social needs. But that’s not all. The financial crisis impact the “real economy” , the recession is there, with a lot of redundancies. Employers and governments are well decided to attack the social rights of the employees, especially about social protection and labour laws. Their aim is to make the employees pay for the crisis, advocating in each country “national unity” in order to get them to accept that. We have to build up international solidarity to riposte! Employers and shareholders filled up with dividends, tax exemptions, mad remunerations, with fortunes beyond all understanding as well. They have to pay for their crisis. It’s up to us to impose them our social claims. More than ever, the agenda is to mobilize the employees! To save their capitalist system, they are worldwide organize: the trade union movement must act throughout boundaries in order to impose an other system that this one which exploit the employees, pillage the developing countries, organize the famine in a part of the planet….. Everywhere, we have to develop social struggles and build up a common resistance!

 

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NO NOS TOCA PAGAR SU CRISIS!

La crisis financiera arrancó en EE-UU, y se extendió al mundo entero por dos motivos. Primero, todos los cortafuegos que habrían podido mantenerla a raya han sido destruidos por la desregulación financiera implementada por los gobiernos, pues ya no existe ninguna traba para la libre circulación de los capitales. Luego, habiendo participado la casi totalidad de las instituciones financieras del mundo en la carrera especulativa que se da en la banca, ningún país se halló a salvo de la deflagración. Esta crisis significa el fracaso integral de la ideología neoliberal y de las políticas cuya óptica es entregar al mercado la suerte de la humanidad. Si la suerte de miles de millones de seres humanos no estuviera en juego, sería para reírse ver a quienes, como todos nuestros gobernantes, eran adoradores beatos de la libre competencia, convirtiéndose en apóstoles de la intervención del Estado. Pero ese cambio de postura no debe engañar a nadie. Pues si deciden que intervenga el Estado, es para salvar intereses privados según el conocido precepto: “socializar las pérdidas y privatizar las ganancias”. Así billones de dinero público, nuestro dinero, se vierten hoy día sin regatear para rescatar los bancos, mientras que resulta “imposible” encontrar ni un real para responder a las necesidades sociales. Pero hay más: la crisis financiera ha alcanzado la economía real, la recesión está aquí, con su comitiva de despidos; patronos y gobiernos se ven muy resueltos a seguir atacando los derechos sociales de l@s asalariad@s, tanto en la protección social como en el derecho laboral. Su objetivo es hacer pagar la crisis a l@s asalariad@s, pregonando en cada país “unidad nacional” para tratar de que traguemos la píldora. Sindicalistas, vamos construyendo la solidaridad internacional de l@s trabajadores-as para responderles. Los patronos y accionistas se han atiborrado de dividendos, de regalos fiscales de toda clase, de remuneraciones demenciales, que desembocaron en fortunas propiamente inimaginables. A ellos les toca pagarse su crisis. A nosotros, imponer nuestras exigencias sociales. ¡Más que nunca, la movilización de l@s asalariad@s está en la agenda! Para rescatar su sistema capitalista, se han organizado a escala internacional: el movimiento sindical debe actuar a través de las fronteras para imponer otro sistema que no sea el que explota a l@s trabajadores-as, saquea a los países subdesarrollados, organiza el hambre de una parte del planeta… En todas partes, ¡a desarrollar las luchas sociales y a construir la resistencia común! (Beh, buona giornata).

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Riuscirà l’Operazione Piombo Fuso a far vincere le prossime elezioni ai laburisti in Israele?

 
di MARIO VARGAS LLOSA da lastampa.it
C’è qualche possibilità che l’invasione militare di Gaza messa in atto da Israele distrugga le infrastrutture terroriste di Hamas – obiettivo ufficiale dell’operazione – e faccia terminare i lanci di razzi artigianali degli integralisti palestinesi che controllano la Striscia sulle città israeliane di frontiera? Penso che non ce ne sia nessuna e che l’operazione militare nella quale, sino al momento in cui scrivo, sono morti oltre 600 palestinesi – un gran numero di bambini e di civili innocenti – e che ha causato migliaia di feriti, avrà, nella comunità palestinese piuttosto l’effetto d’una potatura dalla quale uscirà rafforzata Hamas e parecchio indebolita la parte moderata, l’Autorità Palestinese guidata da Mohamed Abbas.

Per dare una parvenza di realtà al motivo brandito come giustificazione dell’attacco da Ehud Olmert e dai suoi ministri, Israele dovrebbe occupare Gaza con un immenso e permanente spiegamento militare o perpetrare un genocidio di cui neppure i suoi falchi più fanatici oserebbero farsi carico e che, speriamo, il resto del mondo non tollererebbe; anche se l’opinione pubblica internazionale ha mostrato, più d’una volta, una supina indifferenza per la sorte dei palestinesi.

La verità è che, per quanto feroce sia stata la punizione inflitta dall’esercito d’Israele a Gaza e, anzi, proprio a causa del sentimento d’impotenza e di odio per ciò che è accaduto al milione e mezzo di palestinesi che vivono ridotti alla fame e mezzo asfissiati in questa trappola, è probabile che, quando Tsahal si sia ritirato dalla Striscia e sia tornata «la pace», gli atti terroristici riprendano con maggior vigore e con un desiderio di vendetta attizzato dalle sofferenze di questi giorni.

I fautori dei bombardamenti e dell’invasione rispondono a chi li critica con questa domanda: «Sino a quando un Paese può sopportare che le sue città siano bersaglio di razzi terroristi lanciati dalle frontiere per giorni e mesi da un’organizzazione come Hamas che non riconosce l’esistenza di Israele e non nasconde le sue intenzioni di distruggerlo?». L’interrogativo è davvero molto pertinente e nessuno, a meno che non sia un terrorista o un fanatico, può trovare giustificazioni alla continua stretta criminale che Hamas esercita sulla popolazione civile d’Israele. D’accordo. Ma se si tratta di cercare le ragioni del conflitto non è onesto, a mio modo di vedere, fermarsi solo a questo, ai razzi artigianali di Hamas, e non andare, invece, un po’ indietro nel tempo per capire – il che non vuol dire giustificare – ciò che accade in quest’esplosivo angolo di mondo. La vittoria elettorale che ha portato Hamas al potere nella Striscia non è stato un atto di massiccia adesione dei palestinesi di Gaza né al fanatismo integralista né alle azioni terroristiche, ma un modo del tutto legittimo con il quale i cittadini hanno detto no all’inefficienza e, soprattutto, alla vergognosa corruzione dei dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese. E, anche, un tipico atto di autodistruzione verso la quale gli esseri umani, individualmente o collettivamente, si orientano quando toccano situazioni limite di debolezza e di disperazione totale.

Indubbiamente la ritirata israeliana da Gaza e l’abbandono dei 21 insediamenti di coloni che lì s’erano stabiliti, nell’estate del 2005, suscitò grandi speranze che questo gesto potesse dare impulso al processo di pace destinato a portare alla creazione d’uno Stato palestinese che coesistesse con Israele e fosse garanzia della sua futura sicurezza. Non solo tutto ciò non accadde: Hamas si ribellò e i suoi scontri con Al Fatah – con sparatorie e uccisioni – da una parte e, dall’altra, la politica di Israele volta a isolare Gaza e a mantenerla in una condizione d’implacabile quarantena impedendole di esportare e di importare, vietandole l’utilizzo del cielo e del mare, concedendo alla popolazione di uscire da questo ghetto solo con il contagocce e dopo pratiche burocratiche opprimenti e umilianti, contribuirono a determinare quel grande «fallimento economico» che oggi i falchi d’Israele mostrano come prova dell’incapacità dei palestinesi di autogovernarsi.

Mi domando se qualsiasi Paese del mondo avrebbe potuto progredire e modernizzarsi nelle atroci condizioni in cui vive la gente di Gaza. Non parlo per sentito dire, non sono vittima di pregiudizi nei confronti di Israele, un Paese che ho sempre difeso, in particolare quando era al centro d’una campagna internazionale orchestrata da Mosca che appoggiava tutta la sinistra latino-americana. Ho visto le cose con i miei occhi. E ho provato nausea e indignazione per la miseria atroce, indescrivibile in cui languono senza lavoro, senza futuro, senza spazio per vivere, negli antri stretti e immondi dei campi profughi o in quelle città sommerse dalla spazzatura dove i topi scorrazzano sotto gli occhi pazienti dei passanti, le famiglie palestinesi condannate a poter solo vegetare, ad aspettare che la morte arrivi a mettere fine a un’esistenza senza speranza, completamente inumana. Sono questi poveri infelici, bambini e vecchi e giovani, privati ormai di tutto ciò che rende umana la vita, condannati a un’agonia ingiusta proprio come quella degli ebrei nei ghetti dell’Europa nazista, quelli che, ora, vengono massacrati dai caccia e dai carrarmati d’Israele, senza che tutto ciò serva per avvicinare d’un solo millimetro la sospirata pace. Al contrario, i cadaveri e i fiumi di sangue di questi giorni serviranno solo ad allontanarla, la pace, e ad alzare nuovi ostacoli e a seminare altri risentimenti e altra rabbia sulla strada dei negoziati.

Tutto questo lo sanno – molto meglio di me e di qualsiasi altro osservatore – i dirigenti d’Israele. La classe dirigente d’Israele è di altissimo livello, assai più colta e preparata rispetto alla media dell’Occidente. E se è così, perché, allora, scatenare un’operazione militare che non sconfiggerà il terrorismo dei fanatici di Hamas e che, in cambio, serve solo a screditare uno Stato che, con azioni punitive come questa, ha ormai perso quella superiorità morale mostrata in passato nei confronti dei suoi nemici quando Yitzhak Rabin firmò gli accordi di Oslo del 1993?

Credo che la risposta sia questa: dal fallimento dei negoziati di Camp David e di Taba del 2000-2001 in cui il governo israeliano guidato da Ehud Barak era disposto a fare importanti concessioni che Arafat fu così sconsiderato da rifiutare, la società israeliana, profondamente delusa, ha vissuto una deriva destrorsa radicale e, per massima parte, legata alla convinzione che con i palestinesi non siano possibili accordi ragionevoli. E che, quindi, solo una politica basata sulla forza, sulla repressione e su sistematiche punizioni li piegherà inducendoli ad accettare, alla fine, una pace imposta secondo le condizioni di Israele. Questo spiega la popolarità avuta da Ariel Sharon e il crescente appoggio al movimento dei coloni che continuano a installare insediamenti ovunque in Cisgiordania e alla costruzione del Muro che isola e divide la Cisgiordania palestinese. E ciò spiega, inoltre, perché, da quando le bombe hanno incominciato a piovere su Gaza, sia schizzata in avanti, come una freccia, la popolarità dei laburisti di Ehud Barak, l’attuale ministro della Difesa, e della leader di Kadima, la cancelliera Tzipi Livni, i quali, grazie all’operazione militare contro Gaza, hanno ridotto il vantaggio che, in vista delle prossime elezioni, aveva nei loro confronti il conservatore Benjamin Netanyahu. Non bisogna dimenticare che, secondo indagini demoscopiche, oltre due terzi degli israeliani approvano l’azione militare contro Gaza.

«I nostri cuori si sono induriti e i nostri occhi si sono coperti di nuvole», dice il giornalista israeliano Gideon Levy in un articolo pubblicato sul giornale Haaretz il 4 gennaio 2009 commentando l’incursione di Tsahal a Gaza. Come tutto ciò che scrive, il suo testo è ricco di onestà, lucidità e coraggio. È un rimpianto per questa progressiva scomparsa della morale nella vita politica del suo Paese – quel fenomeno che, secondo Albert Camus, precede sempre i cataclismi della storia – e una critica a quegli intellettuali progressisti come Amos Oz e David Grossman che, prima, levavano le loro energiche proteste contro eventi quali il bombardamento di Gaza e, adesso, timidamente, rispecchiando la generale involuzione della vita politica israeliana, si limitano a invocare la pace. (Bah, buona giornata).

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Attualità

Parte la nuova Alitalia, volano parole grosse.

La Moratti va alla guerra. Ed è gelo con Berlusconi.

di FRANCESCO VERDERAMI, da corriere.it

La «guerra di Letizia» era iniziata giovedì scorso, quando il sindaco di Milano si era presentata scura in volto nell’abitazione romana del premier, scagliandosi contro l’intesa Alitalia-Air France e il ridimensionamento di Malpensa. Ma Berlusconi non avrebbe mai immaginato che la Moratti si sarebbe espressa allo stesso modo in tv. Perché domenica in tv la Moratti ha utilizzato gli stessi concetti, le stesse parole brandite nel colloquio con il premier. Quell’affondo pubblico contro il governo e i «patrioti» dell’ «operazione Az» è stato vissuto dal Cavaliere come un vero e proprio «attacco personale», argomentato con espressioni «ingenerose» e «gratuite».

La «guerra di Letizia» ha messo in subbuglio i palazzi romani della politica e quelli più felpati del mondo economico milanese. Dai vertici societari filtra una «forte irritazione» verso la Moratti, stato d’animo che accompagna il premier da lunedì della scorsa settimana, quando il sindaco si recò nella sede del Carroccio di via Bellerio, dove Umberto Bossi aveva riunito lo stato maggiore leghista per intestarsi la battaglia a difesa di Malpensa e degli «interessi del Nord»: «Che c’è andata a fare? Che bisogno c’era? È sbagliato correre dietro alla Lega. Non è così che si compete con loro. Così si accredita invece l’idea che solo loro rappresentino il Nord». Perciò Berlusconi uscì allo scoperto, perciò pose l’altolà al Senatùr: «Al Nord ci penso io», disse.

Doveva contrastare quelle «manovre elettorali» che danneggiavano la sua immagine e aprivano la competition in vista delle Europee. L’intervista della Moratti a Lucia Annunziata incide, se possibile, in modo ancor più pesante: perché è dal sindaco di Milano —non dall’opposizione e nemmeno dalla Lega—che giungono critiche severe al progetto su cui il premier ha messo la faccia. Non è un caso se tra Berlusconi e la Moratti sia calato il gelo. D’altronde già quel giovedì della scorsa settimana il sindaco aveva interpretato il mancato invito a pranzo con Bossi come un gesto politico prima che di «scortesia». A muso duro era iniziato e si era concluso anche il rendez vous con Colaninno, incontrato a palazzo Grazioli insieme al sindaco di Roma Gianni Alemanno.

La Moratti a più riprese aveva insistito perché tornasse in gioco la compagnia aerea tedesca. «Guarda che non ci hanno offerto nulla, Letizia ». «No Roberto, voi state affossando Malpensa». È stato un crescendo rossiniano. «Noi punteremmo su Malpensa se Linate fosse ridimensionata, altrimenti non si può fare». «Lufthansa è interessata a entrambi gli scali». «È interessata solo a far fallire la trattativa con Air France». «Non è vero, dovete insistere». A quel punto un Colaninno esasperato, ha chiuso il discorso provocatoriamente: «Va bene, Letizia. Se le cose stanno così, chiama subito il presidente di Lufthansa. Chiamalo ora. Digli che sono pronto a cedergli la mia quota di Alitalia, se vuole. Ottanta milioni e la facciamo finita». Sembrava dovesse finire lì, invece la «guerra di Letizia» è proseguita in tv. «È stato imbarazzante ascoltare certe cose dal mio sindaco», commenta il forzista Mario Valducci, che fa capire l’umore nell’inner circle del Cavaliere: «È andata eccessivamente sopra le righe. È stata irriconoscente verso Berlusconi ».

Eppure alla Moratti era chiaro fin da giovedì che sarebbe stata una battaglia solitaria, l’aveva intuito facendo capolino al vertice tra il premier e Bossi, che si erano intanto messi d’accordo sull’intesa Az-Air France e sull’emendamento a favore di Malpensa, presentato poi nel dl anti-crisi. Perciò non si capisce il motivo per cui non si sia fermata. C’è chi rammenta che si è candidata alla guida della città da indipendente, facendo balenare l’incredibile scenario di una rottura con Berlusconi. Ma il Cavaliere, per quanto irritato, troverà il modo di ricucire lo strappo. C’è poi chi, più semplicemente, ricorda il carattere della Moratti. «Letizia è fatta così», commenta olimpico il ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «Giovedì scorso mi ha chiamato alle sette di sera. Milano era bloccata sotto la neve e lei aveva bisogno subito di 400 militari per pulire le strade. Mi sono attivato. Mi avesse detto grazie…».

In realtà, al fondo delle tensioni con Berlusconi resta il contenzioso su Expo 2015, quando la Moratti non si è sentita sostenuta dal premier nel braccio di ferro con Giulio Tremonti, che ha accentrato sull’Economia i meccanismi di controllo dei fondi pubblici. Anche Tremonti è stato colpito dagli strali in tv della Moratti. Vecchie ruggini tra i due. Nel 2001, «Giulio» fu sarcastico nel centellinare i soldi per la riforma scolastica: «Letizia, devi capire. Questo è il governo, mica tuo marito». Qualche tempo fa si è ripetuto con una battuta che ha fatto il giro dei ministri: «Politicamente non ne azzecca una. In Francia aveva puntato su Ségolène Royale, in America su Hillary Clinton…». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale”.

Pubbblico un ampio stralcio di “Con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano” di EUGENIO SCALFARI, da repubblica.it

(* * *)

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell’economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l’azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L’affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l’altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l’intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l’Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d’una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita “svendita” da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell’azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l’insensatezza di questo “vaudeville” per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c’era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la “Meridiana” il cui amministratore ha scodellato le cifre in un’intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d’amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt’altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l’azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all’ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l’aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

“Malpensa ha tutte le chance per essere l'”hub” (l’aeroporto internazionale) italiano” ha detto il ministro dell’Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un’impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l’opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata “liberalizzazione”, alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola “liberalizzazione” nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l’ha per l’area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell’Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l’ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli “slot”.

Per arrivare ad un’effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l’elemosina della “social card” finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d’una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell’abolizione dell’Ici e nel costo dell’Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l’evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l’ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano. (Beh, buona giornata).

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Crisi: stiamo perdendo fiducia nella fiducia.

Così la crisi cambia il nostro stile di vita

Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all’ origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno~)?
Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni che assillano gli americani in cima all’ elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori. Gli americani sono stati i primi a dover stringere la cinghia e ad avvertire la morsa della crisi, poiché gli enti che erogavano mutui subprime, e ancor più coloro che erogavano prestiti, erano nei guai già a luglio.
In Gran Bretagna nessuno di questi cupi presagi ha raggiunto il vertice della classifica delle paure, e nessuno ha trovato posto tra le prime otto preoccupazioni più di frequente citate dagli intervistati. Nel novembre 2008, però – dopo cinque mesi appena – un altro sondaggio ha permesso di apprendere che un britannico su due dormiva meno bene di quanto dormisse sei mesi prima, che uno su quattro si svegliava più di tre volte ogni notte, che due su tre imputavano la loro insonnia soprattutto alla penuria di soldi e allo spettro della disoccupazione.
Uno dei risultati più sconcertanti tra i molteplici della crisi creditizia, è – come possiamo constatare da altre prove e da una consapevolezza comune che si diffonde rapidamente – quanto connesse (anzi, in realtà, interconnesse e reciprocamente dipendenti) siano le nostre vite, le nostre prospettive e le nostre paure nel nostro mondo globalizzato. Non soltanto gli americani e i britannici, che per molti anni hanno vissuto a credito, spendendo e spandendo ben al di sopra dei loro mezzi, ma anche popoli di nazioni relativamente puritane – parsimoniose e prudenti, fiere delle loro esportazioni che superavano le loro importazioni, orgogliose dei loro budget di governo come pure di ogni singolo nucleo famigliare che non precipitavano nell’ insolvenza – avvertono ora queste preoccupazioni e scoprono di colpo che dormire bene di notte è un vero e proprio lusso (come i clienti della Germania, per esempio, che non sono più in grado di permettersi i beni che essa vorrebbe esportare).
In un paese lontano del Queensland in Australia, una giovane che oggi ha 23 anni e si chiama Siobhan Healey alcuni anni fa ha ottenuto la sua prima carta di credito: quello è stato – a suo dire – il giorno della sua emancipazione. Finalmente era libera di poter gestire da sola le proprie finanze, libera di scegliere le sue priorità, libera di far corrispondere i suoi desideri alla realtà. Non molto tempo dopo, la giovane ha chiesto e ottenuto una seconda carta di credito per far fronte agli interessi e ai debiti accumulati sulla prima.
Passato poco tempo ancora, ha appreso altresì il prezzo della sua tanto agognata “libertà finanziaria”, per la precisione nel momento in cui ha scoperto che la seconda carta di credito non bastava a far fronte e a coprire gli interessi dei debiti della prima. Si è quindi rivolta a una banca per ottenere un prestito necessario a saldare gli scoperti di entrambe le carte, che a quel punto avevano già raggiunto la spaventosa cifra di 26.000 dollari australiani. Seguendo però l’ esempio degli amici ha preso in prestito altri soldi ancora, per finanziarsi un viaggio oltreoceano – un must per chiunque abbia la sua età. Adesso, finalmente, è stata assalita dalla consapevolezza di avere pochissime chance di poter mai ripagare da sola il proprio debito, e ha compreso che sottoscrivere sempre più prestiti non è il modo giusto per farlo. E così ha dichiarato – purtroppo per lei, con uno o finanche due anni di troppo – di aver “cambiato completamente mentalità e di aver imparato che per fare acquisti è necessario risparmiare”. Attualmente ha assunto un consulente finanziario, ha interpellato un amministratore e conciliatore che la aiuterà poco alla volta a tirarsi fuori dal baratro nel quale è caduta. Ma costoro la aiuteranno davvero a “cambiare radicalmente mentalità”? Resta da vedere. E quale aiuto trarrà dalle loro lezioni, se nessuno sarà disposto a offrirle un’ altra sospensione della pena? Ben Paris, portavoce di Debt Mediator Australia, non si stupisce né si sconcerta più di tanto: paragona la tragica vicenda di Healey a “giocare al gioco delle sedie sul ponte del Titanic”, per aggiungere quindi senza indugio che è del tutto normale per i giovani “prendere soldi in prestito ben oltre i propri mezzi”, e fa notare che il caso di Siobhan Healey non è affatto unico e fuori dalla norma: «Ogni anno riceviamo 25.000 giovani che sono in situazione critica dal punto di vista finanziario, e questa è soltanto la punta dell’ iceberg».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Germania e in Australia per uomini e donne, per giovani e vecchi è ormai lapalissiano che sono giunti al termine i bei tempi in cui potevano ancora credere che nel caso in cui fossero finiti nei guai ci sarebbe sempre stato qualcuno accanto a loro o nei paraggi disposto in qualche modo a offrire un “prestito ponte” fino al momento in cui le loro fortune non fossero tornate a sorridere loro.
Tre anni fa, mentre raccoglieva materiale per un suo articolo, Tim Adams del londinese Observer riuscì in pochissimo tempo a mettere insieme “la cifra teorica di centomila sterline semplicemente dando ripetutamente il cognome da nubile della madre in qualche telefonata a banche cordiali e società di credito in competizione tra loro per accaparrarsi un nuovo cliente”, mentre di recente non è riuscito a ottenere un’ estensione di diecimila sterline per il mutuo da una società bancaria con la quale ha rapporti da ben quaranta anni.
Molto prima che l’ ultima bolla del mercato esplodesse, c’ erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’ affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra. Ma l’ esplosione della bolla dei prestiti erogati e sottoscritti ha inferto un duro colpo a quella fiducia, proprio dove più fa male e dove la ferita è più deleteria.
Nel nostro mondo pullulante di rischi, un mondo che ci blandiva, spronava e costringeva a essere temerari e coraggiosi e a proseguire nelle nostre acrobazie al trapezio anche se le reti di sicurezza andavano scomparendo una dopo l’ altra, le banche in fin dei conti si sono presentate come l’ ultimo riparo sicuro, si sono spacciate per l’ ultimo bastione della fiducia: hanno promesso di ammortizzare la nostra caduta, se fossimo mai caduti. E noi abbiamo creduto anche che le banche avrebbero calcolato i rischi meglio di quanto fossimo capaci noi, e che ci avrebbero pertanto difeso dalle temibili conseguenze di mosse azzardate, sconsigliabili e stolte. Il fatto che riconoscessero il nostro status di individui meritevoli di fiducia costituiva una sorta di certificato della nostra sagacia, era la prova indiscutibile della nostra competenza che ci serviva per andare avanti.
Adesso, invece, i direttori di banca hanno perso fiducia nell’ affidabilità di coloro ai quali erogavano i loro prestiti – affidabilità che loro stessi hanno messo maggiorente a rischio, esortando i loro clienti esistenti e i loro aspiranti clienti a vivere al di sopra dei loro mezzi, a spendere soldi non ancora guadagnati e che tutto sommato avevano ben scarse speranze di poter mai guadagnare, rassicurandoli che in caso di necessità il soccorso da parte delle loro banche amichevoli e sorridenti, sempre-pronte-ad-arrivare-anche-con-breve-preavviso non sarebbe venuto meno. Invece, noi tutti abbiamo perso fiducia nell’ affidabilità delle capacità di giudizio delle banche e nell’ attendibilità delle loro promesse. Una volta sparito il sorriso dalle facce benevolenti dei manager di banca, ciò che è affiorato da sotto la maschera non era affatto rassicurante: sinistre e spietate maschere facciali di contenimento di esperti in recupero crediti e agenti addetti agli espropri.
Abbiamo perso fiducia anche nei nostri esperti, nei consiglieri, negli specialisti in previsioni economiche, in coloro che pretendevano di avere una linea diretta con il futuro e di sapere perfettamente come riconoscere le iniziative sicure e prudenti da quelle avventate e stolte. Le banche assumevano – non è forse vero? – i consulenti migliori, quelli che non ci saremmo mai sognati di poter interpellare né tanto meno di retribuire per i loro servigi, e guarda un po’ in quali guai sono finiti! La fiducia – così sembra – sta vivendo tempi quanto mai difficili, come mai prima d’ ora. Non possiamo più seguire la fiducia nello spazio intergalattico nel quale è stata proiettata.
Siamo infatti abituati ad avere a che fare con “questioni di fiducia” a nostra dimensione, umana, modesta: la maggior parte di noi si è imbattuta in questa questione faccia a faccia quando si è trattato di prendere in prestito o di prestare qualche centinaio, forse qualche migliaio di sterline o di euro, al più cento o duecentomila al massimo, nella rara circostanza in cui si comperava una casa o si apriva un’ attività.
Ogni giorno dai giornali apprendevamo che mentre noi eravamo in coda per ricevere magri sussidi statali, le scuole, gli ospedali, i teatri, le ferrovie, i trasporti municipali e altre istituzioni fondamentali per la nostra vita di tutti i giorni dovevano arrabattarsi e farsi in mille per ottenere finanziamenti di un milione o di qualche milione di sterline o di euro che – così sostenevano – avrebbero fatto la differenza tra la normalità e la catastrofe. Adesso su quegli stessi giornali leggiamo che al fine di ripristinare la fiducia tra banche e clienti, occorrono miliardi di sterline o di euro. Anzi, neppure miliardi, ma un numero non meglio quantificato di centinaia di miliardi. Il presidente eletto americano qualche giorno fa ha parlato di un trilione di dollari, nel momento stesso in cui alcuni commentatori facevano notare che le misure e i provvedimenti che egli ha in mente di realizzare costeranno molto, molto di più.
Come ha calcolato Tim Adams, le cifre sbandierate in questi giorni in relazione al probabile costo che comporterà il ritorno alla normalità è equivalente (in valori attuali) all’ importo complessivo speso per il Piano Marshall (l’ Italia e Trieste ricevettero, per procedere alla ricostruzione post-bellica, poco più di un miliardo di dollari del budget complessivo previsto dal Piano Marshall e corrispondente a poco più di 12 miliardi di dollari), per il programma spaziale della Nasa e per la guerra del Vietnam. Tale cifra mette a dura prova la nostra comprensione. Va al di là di quello che riusciamo anche solo a immaginare.
Non siamo più saggi e non sappiamo che cosa fare di più (al di là di quello che noi, intesi come voi e io, possiamo singolarmente fare), non più di quanto saremmo e sapremmo fare se ci fosse stato detto che i ministri delle Finanze nel loro meeting d’ emergenza indetto per un certo giorno avessero convocato una schiera di angeli e l’ avessero fatta arrivare sulla Terra per porre rimedio a ciò che noi – indolenti esseri umani – abbiamo così rovinosamente distrutto. Unica reazione ragionevole dovrebbe sembrarci la preghiera, se solo sapessimo a quale arcangelo in carica indirizzare debitamente le nostre invocazioni.
E’ troppo presto per dire se la crisi finanziaria ci stia cambiando e se all’ uscita dal tunnel saremo di fatto diversi. Per quanto riguarda la prognosi, ammiro – anche se non necessariamente invidio – gli esperti che non avendo apparentemente perduto un briciolo della loro fiducia in loro stessi, malgrado tutti i rovesci di fortuna e il fatto di averci rimesso la faccia, si precipitano a fare previsioni su quanti lavoratori complessivamente perderanno il loro posto di lavoro prima che torni a esserci un certo benessere, a che ora dell’ anno prossimo o di quello dopo ancora le banche riprenderanno a erogare prestiti e noi potremo ricominciare a chiederli, e a quali comodità della nostra esistenza dovremo rinunciare temporaneamente o per sempre: la cena al ristorante? Le vacanze all’ estero? I regali di Natale? Gli alimenti biologici, per altro costosi? Temo che, come il resto di noi, gli esperti siano sopraffatti dalla smisurata entità di questo enorme problema col quale siamo attualmente alle prese. Come i generali, anche loro combattono le battaglie del passato, le uniche che conoscono~
Ma il crollo collettivo di quella fiducia che aveva caratterizzato, sorretto e mantenuto nei binari la nostra esistenza nei decenni recenti, e la sua fuga nel regno dell’ inimmaginabile, non hanno sicuramente precedenti, e pertanto non vi è alcuna ovvia e naturale lezione di storia che possiamo trarre e mandare a mente. L’ unico confronto storico che sembra all’ altezza della nostra situazione è quello con Winston Churchill che dichiarò, proprio mentre stava per diventare palese a tutti, che l’ unica strada verso la vittoria che egli si sentiva di poter responsabilmente promettere alla nazione in difficoltà, era quella che prevedeva ancora più sudore, più fatica, più sacrifici~ (Beh, buona giornata). 
Traduzione di Anna Bissanti
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Crisi: il piano di Obama non è minimamente adeguato. Parola di Paul Krugman.

Il piano obama non basta

«Non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma lo sarà se non adotteremo quanto prima provvedimenti drastici. Se non faremo nulla, questa recessione potrà durare anni».Questo è ciò che ha dichiarato giovedì scorso il presidente eletto Barack Obama, spiegando perché l’ America ha bisogno che il governo reagisca alla depressione economica in modo estremamente aggressivo. Ha ragione.
Questa è la crisi economica più pericolosa dai tempi della Grande Depressione, e potrebbe facilmente trasformarsi in una prolungata recessione. Tuttavia la ricetta di Obama non è all’ altezza della sua diagnosi. Il piano da lui suggerito non è energico come le parole che ha usato per la minaccia economica. In realtà, esso è al di sotto di quanto sarebbe necessario. Consideriamo quanto è grande l’ economia americana. In presenza di una domanda adeguata alla capacità produttiva, nei prossimi due anni l’ America potrebbe produrre beni e servizi per un valore di oltre 30 miliardi di dollari. Ma con la flessione dei consumi e degli investimenti si sta aprendo un enorme divario tra ciò che l’ economia americana è in grado di produrre e ciò che è in grado di vendere.
E il piano di Obama non è minimamente adeguato a riempire questo “scarto produttivo”. Agli inizi di questa settimana, il Congressional Budget Office (CBO) ha reso nota la sua ultima analisi del bilancio e del panorama economico. Il CBO ha spiegato che, in assenza di un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe salire al di sopra del 9 per cento già agli inizi del 2010 e rimanere elevato per gli anni successivi. Per quanto tetra, tuttavia, questa previsione, è in realtà ottimistica, se paragonata ad alcune previsioni indipendenti.
Obama stesso ha ripetuto che, senza un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe diventare a due cifre. Nondimeno, anche il Congressional Budget Office afferma che “nei prossimi due anni la produzione economica sarà mediamente del 6,8 per cento al di sotto del suo potenziale”. Ciò si traduce in una perdita di produzione di 2,1 trilioni di dollari.
«La nostra economia potrebbe rimanere di un trilione di dollari al di sotto della sua piena capacità», ha dichiarato giovedì scorso Obama. Bene, in realtà egli ha sottostimato la situazione. Per ridurre uno scarto di oltre 2 trilioni di dollari -forse molti di più, se le previsioni del CBO dovessero rivelarsi troppo ottimistiche – Obama presenta un piano da 775 miliardi di dollari. E ciò non è sufficiente. A volte, lo stimolo fiscale può avere un effetto “moltiplicatore”: oltre agli effetti diretti degli investimenti nelle infrastrutture sulla domanda, per esempio, ve ne può essere anche un altro, in quanto profitti più elevati portano ad una maggiore spesa destinata ai consumi. Le valutazioni medie suggeriscono che un dollaro di spesa pubblica aumenta il Pil di circa 1 dollaro e mezzo. Tuttavia, solamente il 60 per cento del piano di Obama consiste in spesa pubblica. Il resto è composto da tagli fiscali – e molti economisti sono scettici sulla misura in cui molti di questi tagli, in particolare quelli destinati alle attività economiche, potranno effettivamente incoraggiare la spesa (numerosi senatori Democratici condividono questi dubbi).
Howard Gleckman, dell’ organismo indipendente Tax Policy Center, li ha riassunti nel titolo di un recente post del suo blog : “molti dollari, non un grande affare”. La sostanza è che non è probabile che il piano di Obama possa ridurre di più della metà l’ incombente scarto produttivo, e facilmente potrebbe svolgere meno di un terzo del compito che è chiamato ad assolvere. Perché Obama non cerca di fare di più? E’ il timore di far aumentare il debito a limitare il suo piano? Vi sono dei pericoli collegati al prestito governativo su vasta scala – e il rapporto del CBO di questa settimana per l’ anno in corso prevede un deficit di 1,2 trilioni di dollari. Tuttavia, sarebbe ancora più pericoloso intervenire in modo inadeguato nel salvataggio dell’ economia.
Giovedì scorso, il presidente eletto ha parlato in modo eloquente e preciso circa le conseguenze dell’ inazione -esiste un rischio reale di scivolare in una prolungata trappola deflazionistica di tipo giapponese- ma le conseguenze di un’ azione inadeguata non sono molto migliori. E’ la mancanza di opportunità di spesa a limitare il suo piano? Esiste soltanto un numero limitato di progetti di investimento pubblico “shovel-ready”, vale a dire, progetti a cui può essere dato inizio abbastanza rapidamente da riuscire ad aiutare l’ economia nel breve termine. Tuttavia, vi sono altre forme di spesa pubblica, specie nel campo dell’ assistenza sanitaria, che possono fare del bene e allo stesso tempo favorire l’ economia nel momento del bisogno. Oppure il piano è limitato dalla prudenza politica? Lo scorso dicembre alcuni servizi giornalistici indicavano che gli assistenti di Obama erano ansiosi di mantenere il costo finale del piano economico al di sotto della soglia, politicamente sensibile, del trilione di dollari.
C’ è stato anche chi ha suggerito che l’ inclusione nel piano di ampie riduzioni fiscali per le attività commerciali , che vanno ad aggiungere il loro costo ma che faranno ben poco per l’ economia, sia un tentativo di conquistare voti Repubblicani al Congresso. Qualunque sia la spiegazione, il piano di Obama non sembra adeguato alle necessità dell’ economia. Certo, un terzo di pagnotta è meglio di niente. Ma in questo momento abbiamo di fronte due gravi divari economici: quello tra il potenziale economico e il suo probabile rendimento e quello tra l’ austera retorica economica di Obama e il suo deludente piano. (Beh, buona giornata).
Copyright New York Times (Traduzione di Antonella Cesarini) 
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Attualità Popoli e politiche

Il dilemma storico di Israele:”puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?”.

Il fardello dell’uomo israeliano
 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (…). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa. (beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Società e costume

L’Antitrust e le banche italiane:”Un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza.”

Il conto al consumatore
 
di FRANCESCO MANACORDA da lastampa.it
E dunque – ci spiega l’Antitrust – i salotti buoni del capitalismo sono presumibilmente salotti dove ci si annoia parecchio: sempre le solite facce; sempre tutti assieme senza troppe distinzioni tra amici e nemici, concorrenti o alleati; sempre tante poltrone occupate da pochi noti e mai una ventata d’aria nuova.
Ci si annoia, ma – dato non secondario – si esercita un potere vero. E un potere tanto più forte perché autoreferenziale.

Basta mettere a confronto le tabelle dell’Autorità con le cronache finanziarie di questi anni – ma anche di qualche decennio fa, proprio a dimostrazione di un sistema bloccato – per vederlo con chiarezza. Sono le Assicurazioni Generali e Mediobanca i grandi gruppi dove si affolla il maggior numero di azionisti che sono anche concorrenti delle società, ossia che di lavoro fanno gli assicuratori o i banchieri. E ancora questi due nomi, assieme alla Premafin dei Ligresti, a Intesa Sanpaolo e alla roccaforte della finanza cattolica lombarda Ubi Banca, sono quelli che spiccano nella classifica delle società dove trionfano i recordmen delle cariche incrociate. Un’intesa cordiale che attraversa il fior fiore della finanza di casa nostra e il cui conto – questo l’indagine Antitrust non lo dice, ma i confronti internazionali sui costi dei servizi finanziari sono lì a dimostrarlo – lo paga il consumatore.

Certo, dopo le tempeste finanziarie che hanno spazzato via tanta finanza anglosassone con relativa pretesa di superiorità etica e funzionale, ci sarà anche chi cercherà di dimostrare che il rugginoso sistema italiano non è così malvagio: avremo pure banchieri inamovibili, ma da queste parti ancora non si è visto un Bernie Madoff. Il punto però non è questo, bensì il fatto che – patologie alla Madoff a parte – un sistema così bloccato è un sistema che in una certa misura assicura dai rischi, ma di sicuro elimina a monte molte opportunità: siano quelle di potenziali concorrenti che si vedono la strada bloccata da una concentrazione anche informale come quella che si crea nella riservatezza dei consigli d’amministrazione, e per questo ancor più difficile da affrontare, o quelle dei consumatori. E che il bilancio tra rischi evitati e opportunità perdute alla fine sia positivo è tutto da dimostrare.

Ma in fondo è miope anche gettare tutte le colpe sulle stanze chiuse del capitalismo. I risultati dell’indagine Antitrust si possono allargare ben oltre quei confini – per quanto significativi – arrivando a definire un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza, l’affermarsi della pura e semplice relazione su qualsiasi criterio di merito. Se ne trovano tracce ovunque, anche scendendo le scale che portano dall’empireo della grande finanza al mondo reale: dai piloti Alitalia sicuri che senza di loro non si vola, ai notai davanti ai quali si blocca ogni semplificazione burocratica, passando per farmacisti, tassisti, dinastie universitarie. E anche per i giornalisti, tuona chi propone di abolirne l’ordine professionale.

Poco da meravigliarsi, allora, se il tema civile prima ancora che politico del conflitto d’interessi è affondato in Italia per anni nella palude del dibattito a oltranza fino a scomparire definitivamente. L’affermarsi di quello che Guido Rossi ha chiamato il «conflitto endemico» nasce anche da un terreno assai propizio dove nessuno ha interesse a riconoscere il conflitto d’interesse altrui perché troppo spesso ne ha a sua volta un altro da difendere. E dove alla concorrenza si preferisce troppo spesso la connivenza: seduti nello stesso cda o magari in due botteghe o due scrivanie vicine. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Human Rights Watch:”Fosforo bianco a Gaza”. Tsahal:”Israele usa munizioni autorizzate dal diritto internazionale.”

Secondo repubblica.it alle ore 20,28 da Gerusalemme, nell’offensiva a Gaza, Israele sta usando i proiettili al fosforo bianco, le controverse munizioni che creano spesse cortine fumogene ma causano anche terribili ustioni.

La denuncia, circolata gia’ nei giorni scorsi, e’ stata rilanciata da Human Rights Watch. Si tratta delle stesse munizioni impiegate dagli Usa in Iraq nel novembre del 2004 a Falluja.

Anche se non ne e’ vietato l’impiego come cortina fumogena o come bengala per illumunare le aree dove operano le truppe, il fosforo bianco e’ vietato dal Trattato di Ginevra del 1980 nelle aree popolate di civili. In realta’, viene usato nelle aree urbane per snidare i cecchini o quanti restano appostati tra le macerie per far esplodere gli ordigni improvvisati al passaggio delle truppe. Israele ha riconosciuto di aver usato il fosforo bianco nel Libano meridionale durante la disastrosa guerra dell’estate del 2006 contro le milizie sciite di Hezbollah.

Ma usarlo a Gaza, una delle zone piu’ densamente popolate del mondo, puo’ essere dannosissimo per la poolazione, denuncia HRW. Tsahal finora ha negato l’uso del fosforo, ma non ha voluto precisare il tipo di armi adottate limitandosi a ribadire che “Israele usa munizioni autorizzate dal diritto internazionale”. Battezzato tra i militari come “Willy Pete” fin dalla I guerra Mondiale, il fosforo bianco e’ stato ampiamente utilizzato dagli Usa nel Vietnam. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi:”Sulla questione Alitalia non c’e’ nulla di agghiacciante.”

L’italianità è già costata allo Stato 3,3 miliardi

di LUCA IEZZI da repubblica.it

«Le condizioni poste da Air France sul taglio del cargo e su Malpensa sono assolutamente irricevibili» diceva Silvio Berlusconi il 19 marzo scorso rimandando al mittente un’ offerta che dopo dieci mesi non è paragonabile a quella di Cai, ma nel senso opposto a quello inteso dal premier.

I francesi avevano messo 1,85 miliardi di euro, un miliardo subito per azzerare i debiti e 850 milioni d’ investimenti dal 2009 in poi. Ma soprattutto davano in cambio titoli Air France allo Stato e agli altri azionisti. Nel dicembre scorso, dopo quattro mesi di commissariamento, la cordata di 20 «patrioti», come li ha definiti lo stesso premier, ha pagato 427 milioni cash (solo 100 versati) per rilevare una parte di un gruppo con un passivo da 3,2 miliardi.

Il conto tra quanto incassato da Cai (427 milioni), il debito rimasto in capo alla bad company e il mancato incasso del pacchetto Air France, il primo bilancio del salvataggio dell’ italianità già segna un passivo di 3,3 miliardi per i contribuenti italiani. In attesa che il commissario Augusto Fantozzi recuperi qualcosa dalla vendita di quanto rimasto.

Ancor più negativo il bilancio occupazionale: la nuova Alitalia ha circa lo stesso personale (12.650 persone immaginato da Parigi, ma gli ex lavoratori della Magliana sono solo 10.150 perché a loro si aggiungono oltre 2 mila addetti Air One.

Gli esuberi sono raddoppiati (2.120 dicevano i francesi, contro i 4 mila del piano Cai) anche perché circa 3 mila persone della manutenzione e dei servizi di terra non saranno riassorbiti da Fintecna come previsto nel marzo scorso.

Tra le “vittime” del rifiuto ad Air France vanno anche considerati i circa mille lavoratori a tempo determinato di Air One cui non sarà rinnovato il contratto.

Non è finita: Air France era disposta a pagare il 20% del costo degli esuberi da lei provocati. Il piano francese è stato respinto perché chiudeva il trasporto merci, depotenziava Malpensa e dirottava i flussi turistici verso Parigi, direttive confermate dal piano industriale della cordata tricolore.

Complice l’ accordo che porterà Air France-Klm a rilevare il 25% del vettore rinato, Alitalia chiuderà il cargo nel 2009, ha scelto Fiumicino come aeroporto principale e Roma e Milano sommano circa cento voli a settimana con Parigi Charles de Gaulle.

Dal punto di vista delle prospettive future l’ Alitalia presieduta da Roberto Colaninno nasce con 300 milioni in cassa, poco meno di 600 milioni di debito operativo e 490 milioni di debiti sugli aerei acquistati da Air One.

Senza contare che nella flotta di 148 aerei della nuova Alitalia la quota dei velivoli in leasing (da pagare mensilmente al socio Carlo Toto) è ben più alta di quella cui avrebbe fatto affidamento la società guidata da Jean-Cyril Spinetta.

 I prossimi cinque anni, periodo che per statuto vede i soci italiani rimanere alla guida della società quindi saranno molto difficili. Forse il costo finale dell’ operazione “Alitalia agli italiani” lo potremo fare solo quando sarà finita, cioè quando Air France diventerà l’ unico proprietario. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il sistema bancario italiano è solido? No, è sodale. L’Antitrust scopre che il conflitto di interessi tra concorrenza e corporate governance “interessa” l’80 per cento del settore finanziario.

da repubblica.it

Nel settore finanziario italiano ci sono intrecci personali e azionari fra concorrenti senza paragoni in Europa. Lo rileva l’Antitrust che ha chiuso l’indagine conoscitiva su banche, assicurazioni e sgw, rilevando che l’80% dei gruppi esaminati ha nei propri organismi soggetti con incarichi in società concorrenti. Secondo l’Autorità serve un'”attenzione alta sulla corporate governance” e occorre rivedere la governance per aumentare la trasparenza e recuperare la fiducia necessaria per superarare la crisi.

Così l’Antitrust descrive la grave situazione riscontrata: “Un azionariato, anche per le società quotate, spesso concentrato in capo a pochi soggetti e legato da patti, nonché una gestione caratterizzata da incarichi personali doppi o addirittura multipli in società concorrenti e da intrecci del tutto peculiari rispetto al resto d’Europa”.

L’indagine conoscitiva sui rapporti tra concorrenza e corporate governance è stata avviata oltre un anno fa. Ricostruisce il quadro aggiornato degli assetti di governo societario di banche, compagnie assicurative e società di gestione del risparmio, quotate e non quotate in Italia, evidenziando i punti di forza e i punti di debolezza del settore e suggerendo, anche alla luce dell’attuale crisi, i necessari interventi.

La situazione attuale, è l’ovvia conclusione degli esperti dell’Antitrust, impone “un’attenzione alta sulla corporate governance”. Emerge “l’esigenza di un nuovo processo – di regolazione, autoregolazione e di modifiche statutarie – che innovi, ad esempio, sotto il profilo della trasparenza nei processi decisionali, della chiarezza nella attribuzione delle funzioni e responsabilità dei vari organi/comitati, nella eliminazione dei cumuli di ruoli e incarichi tra concorrenti, nonchè nella definizione più puntuale dei requisiti per figure rilevanti come gli amministratori indipendenti”.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi: lo spettro della disoccupazione in Italia.

da repubblica.it

Un dipendente su due nel settore privato in Italia è senza ammortizzatori sociali. Un esercito di 7.141.300 persone, rileva un’indagine della Cgia di Mestre, pari al 50,9% del totale dei dipendenti italiani (escluso il pubblico impiego). Sono questi, assieme ai precari, sottolinea la Cgia, i lavoratori più a rischio in questa fase di crisi economica. Si tratta di dipendenti che nel caso di esplusione dall’azienda non hanno nessuna misura di sostegno al reddito, come la cassa integrazione ordinaria o straordinaria.

Quanto ai settori di appartenenza di questi lavoratori “senza ombrello”, spicca per numeri assoluti quello dei servizi. In questo comparto ci sono 2.336.400 lavoratori dipendenti. Seguono gli occupati del commercio alle dipendenze di aziende con meno di 200 dipendenti (1.968.000), quelli dell’artigianato (889.500, con l’esclusione degli edili che usufruiscono della Cigo), i dipendenti di alberghi e ristoranti (870.000), quelli del credito/assicurazione (544.400 unità) e quelli delle comunicazioni (338.100 dipendenti). Chiudono la classifica i trasporti con 194.800 dipendenti.

“Sono dei veri e propri lavoratori invisibili – dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – che quando stanno a casa non se ne accorge nessuno. Per questo chiediamo al Governo di intervenire e di mettere in campo dei sussidi senza nessun aggravio per le imprese”. (Beh, buona giornata).

http://cgia.slowdata.com/

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi: la disoccupazione negli Usa.

da repubblica.it

L’economia statunitense a dicembre ha perso 524.000 posti di lavoro, poco meno di quanto stimato dagli analisti, facendo salire il tasso di disoccupazione al 7,2% (a novembre era al 6,7%), un dato peggiore delle attese (ferme al 7%). Complessivamente nel corso del 2008 l’economia Usa ha perso 2,6 milioni di posti di lavoro, come non accadeva dal 1945, al termine della Seconda guerra mondiale.

Il calo degli occupati ha toccato quasi tutti i settori. Tra i peggiori quello manifatturiero (-149.000 posti), le costruzioni (-101.000) e la distribuzione (-23.900). Lieve incremento nel pubblico impiego (+7.000), mentre sale in modo consistente solo il settore sanitario (+32.000 posti di lavoro). Il costo orario medio, sempre secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro Usa, è salito dello 0,3% mensile a 18,36 dollari, contro un previsto aumento dello 0,2%. Su base annua il costo orario medio è cresciuto del 3,7%.

L’apparente contraddizione tra il dato assoluto di dicembre (migliore delle attese) e la percentuale (peggiore delle previsioni) è spiegata con il fatto che il Dipartimento del Lavoro Usa ha rivisto in peggio il dato del mese precedente con 584.000 posti di lavoro in meno, circa 50.000 in più rispetto ai 533.000 comunicati nella prima rilevazione. Rivista in peggio anche la statistica di ottobre con 423.000 posti cancellati, vale a dire 183.000 in più di quanto comunicato nella prima lettura (che a sua volta era già stata rettificata al rialzo di 80.000 unità a quota 320.000). (Beh, buona giornata),

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Attualità Popoli e politiche

“I media israeliani non mostrano ai loro spettatori gli orrori né le voci delle dure critiche mosse contro questi crimini”. Appello di cittadini d’Israele contro l’Operazione Piombo Fuso.

(Scritto da 540 cittadini israeliani l’8 gennaio 2008)

A sostegno dell’appello della comunità palestinese per i diritti umani per una azione internazionale

Come se l’occupazione non bastasse, la brutale repressione della popolazione palestinese in corso, la costruzione degli insediamenti e l’assedio di Gaza, ora pure il bombardamento della popolazione civile: uomini, donne, vecchi e bambini, ragazzi.
Centinaia di morti, centinaia di feriti, ospedali sovraccarichi, il deposito centrale di medicinali di Gaza bombardato. Persino l’imbarcazione Dignity del movimento Free Gaza che portava forniture mediche di emergenza e numerosi medici è stata attaccata. Israele ha ripreso apertamente a commettere crimini di guerra, peggiori di quelli che abbiamo visto in un lungo periodo di tempo.

I media israeliani non mostrano ai loro spettatori gli orrori né le voci delle dure critiche mosse contro questi crimini. La storia che viene raccontata è uniforme. Gli israeliani dissidenti vengono denunciati come traditori. L’opinione pubblica compresa quella della sinistra sionista appoggia la politica israeliana acriticamente e senza riserve.

La politica criminale distruttiva di Israele non cesserà senza un massiccio intervento da parte della comunità internazionale. Tuttavia, ad eccezione di alcune condanne ufficiali piuttosto deboli, la comunità internazionale è riluttante ad intervenire. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente la violenza israeliana e l’Europa, nonostante qualche voce di condanna, non è disposta a prendere seriamente in considerazione il ritiro del “regalo” concesso ad Israele col potenziamento delle sue relazioni con l’Unione Europea.

In passato, il mondo ha saputo combattere le politiche criminali. Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto: le sue relazioni commerciali sono fiorenti, la cooperazione accademica e culturale continua a intensificasi con il sostegno diplomatico.
Questo sostegno internazionale deve cessare. Questo è l’unico modo per fermare la insaziabile violenza israeliana.

Noi chiediamo al mondo di fermare la violenza israeliana e di non permettere il proseguimento della brutale occupazione. Rivolgiamo un appello al mondo perché condanni i crimini di Israele e non ne diventi complice.

Alla luce di quanto sopra, chiediamo al mondo di applicare l’appello delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi che esortano:

• “Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a convocare una sessione di emergenza e ad adottare misure concrete, compresa l’imposizione di sanzioni, al fine di garantire l’adempimento da parte di Israele dei suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario.
• Le Alte Parti contraenti alle Convenzioni di Ginevra per l’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 1, per garantire il rispetto delle disposizioni delle convenzioni, prendendo le opportune misure per costringere Israele a rispettare i suoi obblighi nel quadro del diritto internazionale umanitario, in particolare dando importanza fondamentale al rispetto e alla protezione dei civili dagli effetti delle ostilità.
• Le Alte Parti contraenti di adempiere il loro obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 146 della quarta Convenzione di Ginevra, a perseguire i responsabili di gravi violazioni della Convenzione.
• Le istituzioni dell’UE e gli Stati membri a rendere efficace l’uso delle linee guida dell’Unione europea per favorire l’osservanza del diritto internazionale umanitario (2005 / C 327/04) al fine di garantire che Israele osservi il diritto umanitario internazionale di cui al paragrafo 16 (b), (c) e ( d) di tali orientamenti, compresa l’adozione immediata di misure restrittive e le sanzioni, così come la cessazione di tutti i rafforzamenti del dialogo con Israele.”

Sottoscritto da 540 cittadini israeliani (prima lista):

Avital Aboody, Sami Abu Shehadeh, Moshe Adler, Haim Adri, Gali Agnon, Bilha Aharoni, Hagit Aharoni, Saida Ahmed, Danny Aisner, Orna Akad, Aviv Aldema, Ra’anan Alexandrowicz, Joseph Algazy, Omer Allon, Dan Almagor, Orly Almi, Tali Almi, Tamar Almog, Udi Aloni, Yuli Aloni-Primor, Colman Altman, Janina Altman, Ahmad Amara, Eitan Amiel, Nitza Aminov, Gish Amit, Yossi Amitay, Naama Arbel, Tal Arbel, Rana Asali, Maisoon Assadi, Keren Assaf, Zohar Atai, Najla Atamnah, Rutie Atsmon, Michal Aviad, Hanna Aviram, Jasmin Avissar, Amira Bahat, Noam Bahat, Daniela Bak, Abeer Baker, Saleh Bakri, Rim Banna, Oshra Bar, Yoav Barak, Daphna Baram, Michal Bareket, Hila Bargiel, Ronny Bar-Gil, Yoram Bar-Haim, Ronnie Barkan, Osnat Bar-Or, Racheli Bar-or, Yossi Bartal, Raji Bathish, Dalit Baum, Shlomit Bauman, Esther Ben Chur, Hagit Ben Yaacov, Tal Ben Zvi, Yael Ben-Zvi, Avner Ben-Amos, Ronnen Ben-Arie, Ur Ben-Ari-Tishler, Ofra Ben-Artzi, Yotam Ben-David, Smadar Ben-Natan, Shmuel Ben Yitzchak, Avi Berg, Daniel Berger, Tamar Berger, Anat Biletzki, Itai Biran, Rotem Biran, Shany Birenboim, Rozeen Bisharat, Yafit Gamilah Biso, Liran Bitton, Simone Bitton, Yahaacov Bitton, Rani Bleier, Yempa Boleslavsky, Hagit Borer, Ido Bornstein, Irith Bouman, Haim Bresheeth, Aya Breuer, Shlomit Breuer, Dror Burstein, Smadar Bustan, Shai Carmeli-Pollak, Smadar Carmon, Zohar Chamberlain-Regev, Sami Shalom Chetrit, Chassia Chomsky-Porat, Arie Chupak, Isadora Cohen, Kfir Cohen, Matan Cohen, Nahoum Cohen, Raya Cohen, Ron Cohen, Stan Cohen, Yifat Cohen, Alex Cohn, Scandar Copti, Adi Dagan, Yael Dagan, Yasmeen Daher, Silan Dallal, Tamari Dallal, Leena Dallasheh, Eyal Danon, Uri Davis, Hilla Dayan, Relli De Vries, Maoz Degani, Ruti Divon, Diana Dolev, Yfat Doron, Ettie Dotan, Keren Dotan, Ronit Dovrat, Daniel Dukarevich, Arnon Dunetz, Maya Dunietz, Udi Edelman, Shai Efrati, Neta Efrony, Rani Einav, Asa Eitan, Danae Elon, Ruth El-Raz, Noam Enbar, Amalia Escriva, Anat Even, Gilad Evron, Ovadia Ezra, Basma Fahoum, Avner Faingulernt, Ghazi-Walid Falah, Naama Farjoun, Yvonne Fattal, Dror Feiler, Pnina Feiler, Micky Fischer, Sara Fischman, Nadav Franckovich, Ofer Frant, Ilil Friedman, Maya Galai, Dafna Ganani, Gefen Ganani, Yael Gazit, Yoram Gelman, Yakov Gilad, Amit Gilboa, Michal Ginach, Rachel Giora, Michal Givoni, Ednna Glukman, Angela Godfrey-Goldstein, Bilha Golan, Neta Golan, Shayi Golan, Tsilli Goldenberg, Vardit Goldner, Tamar Goldschmidt, Lymor Goldstein, Dina Goor, Shelley Goral, Joel Gordon, Ester Gould, Inbal Gozes, Inbal Gozes-Sharvit, Erella Grassiani, Adar Grayevsky, Gill Green, David Greenberg, Ela Greenberg, Dani Grimblat, Lev Grinberg, Yosef Grodzinsky, Hilik Gurfinkel, Galia Gur-Zeev, Anat Guthmann, Amos Gvirtz, Maya Gzn-Zvi, Yoav Haas, Iman Habibi, Connie Hackbarth, Uri Hadar, Mirjam Hadar Meerschwam, Rayya Haddad, Osnat Hadid, Dalia Hager, Tami Hager, Hava Halevi, Yasmine Halevi, Jeff Halper, Yuval Halperin, Rula Hamdan-Atamneh, Rania Hamed, Rola Hamed, Anat Hammermann Schuldiner, Doron Hammermann-Schuldiner, Ben Handler, Tal Haran, Elad Harel, Nir Harel, Shuli Hartman, Lihi Hasson, Amir Havkin, Shira Havkin, Amani Hawari, Areen Hawari, Iris Hefets, Ada Heilbronn, Ayelet Heller, Sara Helman, Ben Hendler, Aref Herbawi, Tamara Herman, Avi Hershkovitz, Yael Hersonski, Galit Hess, Hannan Hever, Ala Hlehel, Gil Hochberg, Tikva Honig-Parnass, Tikva Honig-Parnass, Inbar Horesh, Veronique Inbar, Rachel Leah Jones, Noga Kadaman, Ari Kahana, Dafna Kaminer, Aya Kaniuk, Ruti Kantor, Liad Kantorowicz, Dalia Karpel, Rabia Kassim, Amira Katz, Shai Katz, Uri Katz, Giora Katzin, Dror Kaufman, Adam Keller, Yehudit Keshet, Lana Khaskia, Efraim Kidron, Alisa Klein, Sylvia Klingberg, Yana Knopova, Ofra Koffman, Yael Korin, Alina Korn, Rinat Kotler, Meira Kowalsky, Noa Kram, Miki Kratsman, Rotem Kuehnberg, Assia Ladizhinskaya, Michal Lahav, Roni Lahav, Idan Landau, Yitzhak Laor, Orna Lavi, Ruti Lavi, Shaheen Lavie-Rouse, Yigal Laviv, Tamar Lehahn, Ronen Leibman, Miki Lentin, Ronit Lentin, Yael Lerer, Chava Lerman, Noa Lerner, Yair Lev, Yudith Levin, Abigail Levine, Eyal Levinson, Dana Levy, Inbal Lily-Koliner, Moran Livnat, Omri Livne, Amir Locker-Biletzki, Yael Locker-Biletzki, Yossi Loss, Yael Lotan, Guy Lougashi, Irit Lourie, Orly Lubin, Joseph Lubovsky, Aim Deuelle Luski, Naomi Lyth, Moshe Machover, Aryeh Magal, Liz Magnes, Noa Man, Ya’acov Manor, Arabiya Mansour, Roi Maor, Adi Maoz, Eilat Maoz, Yossi Marchaim, Alon Marcus, Esti Marpet, Ruchama Marton, Nur Masalha, Anat Matar, Doron Matar, Haggai Matar, Oren Matar, Samy Matar, Rela Mazali, Naama Meishar, Rachel Meketon, Yitzhak Y. Melamed, Remy Mendelzweig, Racheli Merhav, Yael Meron, Juliano Merr-Khamis, Esti Micenmacher, Maya Michaeli, Avraham Milgrom, Jeremy Milgrom, Elisheva Milikowski, Erez Miller, Katya Miller, Limor Mintz-Manor, Ariel Mioduser, Dror Mishani, Eedo Mizrahi, Avi Mograbi, Liron Mor, Magi Mor, Susan Mordechay, Susanne Moses, Haidi Motola, Ahuva Mu’alem, Ben Tzion Munitz, Norma Musih, Dorit Naaman, Michal Naaman, Gil Naamati, Haneen Naamnih, Naama Nagar, Dorothy Naor, Regev Nathansohn, Shelly Nativ, Salman Natour, Judd Ne’eman, Dana Negev, Smadar Nehab, Shlomit Lola Nehama, Ofer Neiman, David Nir, Eyal Nir, Tali Nir, Alex Nissen, Tal Nitzan, Joshua Nouriel, Yasmine Novak, Nira Nuriely, David Ofek, Tal Omer, Adi Ophir, Anat Or, Yael Oren Kahn, Norah Orlow, Gal Oron, Akiva Orr, Dorit Ortal, Noam Paiola, Il’il Paz-el, Michal Peer, Miko Peled, Nirit Peled, Nurit Peled-elhanan, Leiser Peles, Orna Pelleg, Tamar Pelleg-Sryck, Sigal Perelman, Amit Perelson, Nadav Pertzelan, Erez Pery, Tom Pessah, Dani Peter, Shira Pinhas, Yossi Pollak, Gil Porat, Dror Post, Eyal Pundik, Yisrael Puterman, Ilya Ram, Nery Ramati, Amit Ramon, Avi Raz, Ayala Raz, Hili Razinsky, Amnon Raz-Krakotzkin, David Reeb, Hadas Refaeli, Shlomo Regev, Dimi Reider, Noa Reshef, Amit Ron, Roee Rosen, Illit Rosenblum, Maya Rosenfeld, Danny Rosin, Yehoshua Rosin, Ilana Rossoff, Ilani Rotem, Natalie Rothman, Areej Sabbagh, Ahmad Sa’di, Sidki Sadik, Walid Sadik, Hannah Safran, Hiba Salah, Sana Salame-Daqa, Galit Saporta, Sima Sason, Sagi Schaefer, Tali Schaefer, Oded Schechter, Agur Schiff, Nava Schreiber, Idit Schwartz, Michal Schwartz, Noa Schwartz, Eran Segal, Keren Segal, Irit Segoli, Irit Sela, Dan Seltzer, Yael Serry, Shaul Setter, Meir Shabat, Aharon Shabtai, Michal Shabtay, Itamar Shachar, Erella Shadmi, Ilan Shalif, Hanna Shammas, Ayala Shani, Uri Shani, Arik Shapira, Bat-Sheva Shapira, Yonatan Shapira, Omer Sharir, Yael Shavit, Noa Shay, Fadi Shbita, Adi Shechter, Oz Shelach, Adi Shelesnyak, Mati Shemoelof, Ehud Shem-Tov, Yehouda Shenhav, Nufar Shimony, Khen Shish, Hagith Shlonsky, Tom Shoval, Sivan Shtang, Tal Shuval, Ivy Sichel, Ayman Sikseck, Shelly Silver, Inbal Sinai, Eyal Sivan, Ora Slonim, Kobi Snitz, Maja Solomon, Gideon Spiro, Neta Stahl, Talila Stan, Michal Stoler, Ali Suliman, Dored Suliman, Marcelo Svirsky, Yousef Sweid, Ula Tabari, Yael Tal, Lana Tatour, Doron Tavory, Ruth Tenne, Idan Toledano, Eran Torbiner, Osnat Trabelsi, Lily Traubmann, Naama Tsal, Lea Tsemel, Ruth Tsoffar, Ehud Uziel, Ivan Vanney, Sahar Vardi, Roman Vater, Ruth Victor, Yaeli Vishnizki-Levi, Roey Vollman, Roy Wagner, Michael Warschawski, Michal Warshavsky, Ruthy Weil, Sharon Weill, Shirly Weill, Elian Weizman, Eyal Weizman, Einat Weizman Diamond, Elana Wesley, Etty Wieseltier, Yossi Wolfson, Oded Wolkstein, Ayelet Yaari, Smadar Yaaron, Roni Yaddor, Sarah Yafai, Galia Yahav, Sergio Yahni, Niza Yanay, Amnon Yaron, Tamar Yaron, Mahmoud Yazbak, Oren Yiftachel, Sarit Yitzhak, Sharon Zack, Uri Zackhem, Jamal Zahalka, Sawsan Zaher, Adva Zakai, Edna Zaretsky, Beate Zilversmidt, Amal Zoabi, Haneen Zoubi, Himmat Zu’bi, Mati Zuckerman. (Beh, buona giornata).

Link originale: http://www.freegaza.org/en/home/658-a-call-from-within-signed-by-israeli-citizens.
Contatto: gazabfw@gmail.com
Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip

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Attualità Popoli e politiche

Israele: i pro e i contro della strategia BDS, secondo Naomi Klein.

Israele: boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni – 10/01/09
di Naomi Klein – «the Nation»

È ora. Un momento che giunge dopo tanto tempo. La strategia migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che pose fine all’apartheid in Sud Africa.
Nel luglio 2005 una grande coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid». Nasce così la campagna “Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni” (Boycott, Divestment and Sanctions), BDS per brevità.

Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tra gli ebrei israeliani. Proprio mentre è in corso l’assalto, circa 500 israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede «l’adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro parallelismo con la lotta antiapartheid. «Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto…. Questo sostegno internazionale deve cessare.»

Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. E semplicemente non sono abbastanza buone. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell’arsenale nonviolento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da contro-argomentazioni.

1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani. Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava “impegno costruttivo”. Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce costantemente la propria criminalità: l’espansione degli insediamenti, l’avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l’imposizione di punizioni collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti che gli Stati Uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo periodo chiave, Israele ha goduto di un notevole miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con moteplici altri alleati. Ad esempio, nel 2007, Israele è diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero scambio con il Mercosur. Nei primi nove mesi del 2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un nuovo accordo di scambi commerciali con l’Unione europea è destinato a raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati alimentari. E l’8 dicembre i ministri europei hanno “rafforzato” l’Accordo di Associazione UE-Israele, una ricompensa a lungo cercata da Gerusalemme.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di commercio durante la guerra, l’indice della Borsa di Tel Aviv è salito effettivamente del 10,7 per cento. Quando le carote non funzionano, i bastoni sono necessari.

2. Israele non è il Sud Africa. Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure più deboli (le proteste, le petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. Ed infatti permangono reminiscenze dell’apartheid profondamente desolanti: documenti di odentità con codici colorati e permessi di viaggio, case rase al suolo dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per soli coloni. Ronnie Kasrils, eminente uomo politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 è  “infinitamente peggiore dell’apartheid”.

3. Perché mettere all’indice solo Israele, quando Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe essere tentata contro Israele è pratica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio potrebbe effettivamente funzionare.

4. Il boicottaggio allontana la comunicazione, c’è bisogno di più dialogo, non di meno. A questa obiezione risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato “Shock Economy” ho voluto rispettare il boicottaggio. Su consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice attivista, profondamente coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l’unico editore israeliano dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo. Abbiamo redatto un contratto che garantisce che tutti i proventi vadano al lavoro di Andalus, e nessuno per me. In altre parole, io sto boicottando l’economia di Israele, ma non gli israeliani.

Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a Parigi, a Toronto, a Gaza City. A mio avviso non appena si dà vita ad una strategia di boicottaggio il dialogo aumenta tremendamente. D’altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta antiapartheid ricordano bene. L’argomento secondo il quale sostenendo i boicottaggi ci taglieremo fuori l’un l’altro è particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata delle nostre dita. Siamo sommersi dalla gamma di  modi di comunicare l’uno con l’altro oltre i confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.
Proprio riguardo ad ora, parecchi orgogliosi sionisti si stanno preparando per un punto a loro favore: forse io non so che parecchi di quei giocattoli molto high-tech provengono da parchi di ricerca israeliani, leader mondiali nell’Infotech? Abbastanza vero, ma mica tutti.

Alcuni giorni dopo l’assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey, direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di prendere in considerazione fare affari con voi né con qualsiasi altra società israeliana.»
Quando è stato interpellato da The Nation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non è stata politica. «Non possiamo permetterci di perdere neppure uno dei nostri clienti: è stata pura logica difensiva commerciale.»

È stato questo tipo di freddo calcolo che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sud Africa due decenni fa. Ed è proprio questo tipo di calcolo la nostra più realistica speranza di portare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.
(Beh, buona giornata)

Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip
Articolo orginale: http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently

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