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L’occupazione crea preoccupazione.

(fonte: repubblica.it)
Il numero di persone con un lavoro, nei paesi dell’area euro, è diminuito nel quarto trimestre del 2008 dello 0,3%, pari a 453 mila unità. Lo rende noto Eurostat, l’ufficio europeo di statistica, che anche per l’Unione (i Ventisette) registra un calo dello 0,3% (672.000 persone). Un anno fa la diminuzione era stata dello 0,1% nella zona dell’euro e dello 0,2% nell’Unione.

Su base annua, nell’ultimo trimestre del 2008 il tasso di occupazione è rimasto stabile in entrambe le zone, dopo un aumento dello 0,6% sia nell’area euro che nella Ue, nel terzo trimestre.

Nel quarto trimestre dell’anno, le stime di Eurostat indicano complessivamente in 225,3 milioni le persone con un’occupazione, di cui 145,4 milioni merlla zona dell’euro.

Eurostat conferma anche le stime dello scorso 2 marzo relative al tasso annuo di inflazione che, nei paesi che compongono l’area euro, in febbraio è stato dell’1,2%, contro l’1,1% del mese precedente. Un anno fa l’inflazione si era attestata al 3,3%, mentre il tasso mensile, a febbraio, è stato dello 0,4%.

Quanto ai Ventisette, il tasso annuo d’inflazione a febbraio è stato dell’1,7%, dunque in calo rispetto all’1,8% di gennaio. Un anno fa era stato del 3,5%, mentre il tasso mensile anche nell’Ue è stato dello 0,4%. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi economica: nell’automotive, nella siderurgia e negli elettrodomestici l’aumento della cassa integrazione è del 1.048%.

(Fonte: dazebao.org)

La gravità della crisi è pienamente dimostrata dai dati resi noti dall’Inps nell’insieme dei settori dell’industria metalmeccanica, industria di punta del nostro paese: con 23 milioni di ore di Cassa integrazione nel solo mese di febbraio 2009, e con un incremento del 430% sullo stesso periodo dello scorso anno, tali settori rappresentano più del 60% di tutta la Cassa integrazione nell’industria.

Questo ammontare di ore di Cassa integrazione è pari all’assenza dal lavoro per l’intero mese di 150.000 lavoratori. In realtà, i metalmeccanici interessati dalla Cassa integrazione guadagni superano le 200.000 unità in quanto la sospensione è realizzata, in molte aziende, a rotazione, e mediamente, riguarda un periodo di due o tre settimane.”

“Se si guarda alla sola Cassa integrazione ordinaria, che è il vero indicatore della violentissima crisi che interessa ormai tutti i principali comparti dell’industria metalmeccanica (Automotive, Siderurgia, Elettrodomestici)- afferma un comunicato della Fiom Cgil- si registra un aumento vertiginoso di oltre il 1.048% rispetto al febbraio 2008, confermando l’andamento preoccupante del dicembre 2008, che aveva avuto poi una lieve attenuazione nel mese di gennaio 2009.”

Le regioni più colpite sono il Piemonte e la Lombardia che, da sole, rappresentano oltre il 60 % di tutta la Cassa ordinaria del settore ed il 53% della totalità della Cassa nei metalmeccanici.

Un segnale di particolare gravità viene dalle Marche, dove si registra una vera e propria esplosione della Cassa integrazione straordinaria, e dalla Campania che, con quasi 1,2 milioni di ore di Cassa, è la terza regione del settore con una quantità di sospensioni di poco superiore al Veneto e al Lazio.

“Nel periodo novembre 2008-febbraio 2009, sono state autorizzate dall’Inps, per le aziende metalmeccaniche, oltre 67 milioni di ore di Cassa integrazione. Di questi, 50,3 milioni di ore riguardano la Cassa integrazione ordinaria ch – Afferma la Fiom-, ha interessato centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori. Una condizione socialmente insostenibile, questa, che rischia di protrarsi, se non di aggravarsi, nel corso dell’anno, con una perdita di salario che varia oramai tra il 40 e il 50% dello stipendio mensile, senza considerare che è frequente che in una stessa famiglia siano in Cassa integrazione sia la moglie che il marito.”

“Questi dati-conclude la nota del sindacato– confermano per intero la piattaforma con cui la Fiom ha chiamato allo sciopero lavoratrici e lavoratori metalmeccanici lo scorso 13 febbraio. Piattaforma in cui veniva affermata la necessità di misure straordinarie di politiche industriali e occupazionali che siano in grado di rispondere con efficacia alla crisi a partire dal blocco dei licenziamenti, dall’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori che ne sono privi e dall’aumento dell’indennità di Cassa integrazione, arrivando al reale 80% dei salari di fatto.” (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Nel nostro governo credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera.”

di Marcello Villari – Megachip

Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.

Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.

Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri – cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.

E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.

Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.

Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.

Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.

All’origine di questa visione “leggera” – per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.

Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud – i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).

Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.

Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.

In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.

Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?

In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.

Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola – era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.

Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…

Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…

Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama – ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia… (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’assegno di disoccupazione non piace alla maggioranza al governo, ma piace alla maggioranza degli elettori.

di Renato Mannheimer da corriere.it

E’ opportuno rendere disponibile a tutti coloro che perdono il lavoro, in questo difficile periodo di crisi economica, un assegno di disoccupazione? La proposta, avanzata qualche giorno fa dal neosegretario del Pd, Franceschini, ha suscitato molte reazioni, di diverso segno. Il presidente del Consiglio l’ha decisamente rigettata, definendola incompatibile con l’attuale situazione dei conti pubblici e, per di più, possibile stimolo per ulteriori licenziamenti. Accanto a questa posizione, ne sono però emerse altre più concilianti. C’è chi, ad esempio, si è dichiarato favorevole all’idea della distribuzione di un sussidio ai disoccupati, sottolineando tuttavia che attualmente sono già previsti, in caso di perdita del posto di lavoro, una serie di ammortizzatori e che quindi l’effetto dell’assegno è già in larga misura realizzato. E c’è, infine, chi ha aderito in toto o quasi alla proposta, ricordando anche come essa potrebbe essere una buona occasione per semplificare e mettere ordine ai molteplici — ma spesso confusi — benefici previsti dalle attuali normative. Sin qui le opinioni dei commentatori. Ma è interessante, anche in questo caso, conoscere il giudizio della popolazione. Che non è spesso in grado, nella sua maggior parte, di effettuare complesse e delicate valutazioni di carattere economico, ma che può — e in certi casi deve — costituire un punto di riferimento per le scelte politiche.

Interpellati al riguardo, gli italiani si dividono in due segmenti, entrambi di grandi dimensioni. Il primo, decisamente più ampio, è rappresentato da chi si dichiara favorevole alla proposta di Franceschini: il 60% della popolazione, con significative accentuazioni tra gli strati più deboli: le donne, gli anziani, chi risiede al Sud. Il secondo, pari al 37%, è costituito dai contrari, per diversi motivi, all’idea avanzata dal segretario Pd. La differenza di opinione, naturalmente, è determinata soprattutto dall’orientamento politico. Ne consegue un molto maggior consenso tra gli elettori del centrosinistra (78% di parere favorevole dei votanti del Pd, 68% tra quelli per l’Idv). Ma si rilevano percentuali assai elevate di approvazione anche nell’Udc (57%) e perfino nei partiti di governo (42% tra i votanti del Pdl, 38% tra gli elettori della Lega). Insomma, il consenso all’assegno mensile per chi perde il lavoro appare abbastanza trasversale e presente — in misura minoritaria ma consistente — anche all’interno dell’elettorato del centrodestra.

Ciò che cittadini e osservatori apprezzano maggiormente nella proposta è la semplicità e generalizzabilità a tutti. Che permetterebbe tra l’altro — come ha efficacemente sottolineato sulla Stampa Luca Ricolfi — di combattere gli abusi e le arbitrarietà che connotano oggi frequentemente la distribuzione dei sussidi di disoccupazione. Resta il fatto che, come tutti sanno, lo stato attuale dei nostri conti pubblici sembra rendere problematica l’attuazione di proposte, sia pur attraenti, come quella di Franceschini. A meno di una riforma organica di tutto lo scenario degli ammortizzatori sociali. (Beh, buona giornata).

Renato Mannheimer

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Attualità

Berlusconi e i mattoni.

di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it

Obama guarda avanti e punta sul rilancio tecnologico per prendere due piccioni con una fava: uscire dalla crisi e difendere il clima. L’Italia guarda indietro: per far girare il motore del’economia si torna al mattone con un piano di rilancio edilizio che potrebbe essere stato scritto trent’anni fa: tutto quantità e niente qualità. Si poteva usare l’occasione per spingere sull’edilizia bioclimatica, sulla manutenzione del patrimonio edilizio e sul recupero dei centri storici. Invece, dopo i due condoni edilizi varati da Berlusconi nel 1994 e nel 2003, arriva una deregulation strutturale. Invece di un’opportunità il mattone rischia di trasformarsi in una trappola che può diminuire l’appeal del paese. (Beh, buona giornata).

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Il ministro che si è accorto che l’Italia è nel pieno della crisi economica.

“Il 2009 sarà un anno ancora più difficile del 2008. Il che è tutto dire. E’ necessario uno sforzo collettivo Governo, imprese, parti sociali, istituzioni bancarie e finanziarie devono agire per ridurre, per quanto possibile, l’impatto della crisi. Gli obiettivi fondamentali sono due: coesione, nella società e conservazione della base industriale”.E’ assolutamente strategico contrastare il ‘rischio dei rischi’, la stretta creditizia in cui si avvitano prima le imprese, poi i lavoratori e infine le stesse banche”. Parola di Giulio Tremonti, ministro dell’economia in Italia, il paese che stava meglio degli altri, secondo Silvio Berlusconi. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano soldi finti.”

di TITO BOERI da La Repubblica

AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.

“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.

Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.

A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.

Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.

L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.

Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.

Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.

Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».

Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).

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