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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

A Est della crisi economica globale/2.(Fine).

di SIMONE SANTINI – www.clarissa.it

Nelle province rurali ad est della Cina si moltiplicano le manifestazioni di rivendicazione di condizioni di vita più eque e contro la corruzione. L’affermazione di un ceto sociale di nuovi miliardari contro l’impoverimento complessivo attuale è sempre più avvertito come profondamente ingiusto.

Negli ultimi venticinque anni, da quando Deng Xiao Ping annunciò che arricchirsi non era più un peccato contro il socialismo, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato del 50% e in questo campo le politiche del governo per un maggiore bilanciamento del benessere sono fallite. Un rapporto di polizia di inizio dicembre lanciava l’allarme: “I rischi di sommosse su larga scala sono reali”.
Mentre nella regione più produttiva del paese, il Guangdong, le fabbriche chiudono e si licenzia massicciamente, il governo cerca di correre ai ripari. Il presidente della Commissione economica, massimo organo del partito comunista nel settore, ha chiesto alle imprese di stato di non licenziare nessuno nel corso del nuovo anno, le imprese “dovranno mantenere la stabilità dei propri effettivi”. Gli ha fatto eco il presidente della Commissione per le riforme: “Se non gestiremo al meglio le difficoltà attuali, potremmo correre dei seri rischi”.

È la situazione dell’occupazione che si fa grave, ed in modo paradossale. Il tasso di sviluppo per il 2009 è previsto all’8%, straordinario rispetto agli altri paesi industrializzati ma in netto calo rispetto alle due cifre cui era abituata la Cina. Questo non permetterebbe al sistema economico di svilupparsi per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. E i nodi vengono al pettine tutti insieme. Le imprese lamentano i lacci anti-inquinamento dovuti alle riforme ambientali che non erano più rinviabili e l’export frena perché lo yuan si sta apprezzando sul dollaro come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si deve aggiungere che la crisi recessiva in occidente potrebbe anche determinare politiche protezionistiche nei confronti della Cina: il partito democratico americano, tornato alla Casa Bianca, ha tra i suoi massimi esponenti dei noti fautori di questa linea (come Nancy Pelosi e Hillary Clinton).

La crisi economica del colosso asiatico è dunque strutturale e rischia di esplodere in crisi sociale anti-sistema. La situazione internazionale può diventare così una formidabile arma di destabilizzazione ed eventualmente ricatto nei confronti della classe dirigente cinese da parte di forze che sapessero controllare e indirizzare la crisi mondiale. La domanda da cui siamo partiti si colora di una luce rivelatoria: qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi per ottenerne un vantaggio geopolitico di straordinario valore? Alcuni analisti prevedono che il nuovo equilibrio del pianeta post-guerra fredda, che prevedeva la divisione ideologica tra occidente ed oriente del blocco eurasiatico sotto il controllo della “isola” nordamericana, sarà determinato dalla integrazione tra il grande debitore (gli Usa) e i grandi creditori (Cina e Giappone).

Ovvero, dal secolo Atlantico al secolo Pacifico, in cui la zona eurasiatica non sarà più tenuta sotto controllo attraverso la divisione ma attraverso l’accerchiamento. E, ovviamente, questa architettura, come la precedente, sarà plasmata dal potere finanziario transnazionale: il caos economico mondiale, dunque, come fucina del nuovo ordine mondiale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

A Est della crisi economica globale.(Continua).

di Simone Santini – www.clarissa.it

Qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi economica globale? Se la “crisi terminale del capitalismo” sembra essere stata scongiurata con la socializzazione delle perdite del sistema finanziario internazionale e il suo essere riversata in termini di recessione sulla economia reale (ovvero su imprese e lavoratori), dal punto di vista geopolitico dinamiche parallele appaiono altrettanto chiare.

La globalizzazione, negli ultimi quindici anni, ha avuto questo motore fondamentale: la Cina produceva e gli Stati Uniti consumavano; la Cina vendeva e gli Stati Uniti compravano a debito. Il fenomeno è estremamente più complesso e con molti altri attori, ma questa sintesi essenziale ne svela il meccanismo più vero e cruciale.
Il risultato è che il colosso asiatico è stato il protagonista assoluto della crescita mondiale in questi anni, al punto che l’Asia (o più precisamente la “Cindia” come la chiama Federico Rampini) potrebbe essere il motore dell’umanità di questo secolo e soppiantare la civiltà occidentale.Ma c’è un rovescio della medaglia. La Cina è diventata anche il più grande creditore degli Stati Uniti, avendo sopravanzato in termini assoluti il Giappone nel corso del 2008 detenendo 1.200 miliardi di dollari del debito pubblico americano (seguono in questa classifica, dopo il paese del Sol Levante, i paesi arabi produttori di petrolio del Golfo). Questo elemento apparentemente di forza è in realtà il punto debole centrale della Cina. L’economia di Pechino è legata a filo doppio con Washington e il collasso degli Usa non farebbe che trascinare con sé il Paese del Dragone.

Non è un caso che i cinesi abbiano promesso 600 miliardi di dollari, il 20% del PIL, per salvare il sistema monetario internazionale (il piano Paulson americano ne prevede 700 e la BCE ne ha erogati 550).
La Cina, dunque, nel momento di sua massima espansione si trova anche nel momento di sua massima vulnerabilità e debolezza. Gli americani hanno tutto l’interesse strategico a mantenere legato, e dunque in una dimensione di controllo e dipendenza, l’amico/nemico cinese; questi non può fare altro che cercare di sfuggire alla tutela a stelle e strisce per provare a giocare la sua sfida al mondo voluta dalla sua odierna leadership.

La partita si delinea attualmente su due livelli nevralgici: Pechino ha assoluta necessità di avere un accesso stabile, sicuro ed indipendente, alle materie prime, in particolare alle fonti energetiche. Questo aspetto viene contrastato dagli americani sul piano militare con l’occupazione diretta di Asia centrale e Medio Oriente di cui le guerre di Afghanistan e Iraq sembrano essere solo il preludio.
Sotto un altro aspetto, la crisi economica mondiale sta avendo effetti dirompenti sul fragile equilibrio della società cinese. Nel paese si è innescata una bomba sociale che ora rischia di deflagrare.

Il capitalismo di stato si era retto finora su alcune variabili molto vantaggiose rispetto l’occidente. Da una parte una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, con livelli di produttività altissimi e una possibilità quasi illimitata di sfruttamento. D’altro lato pochi vincoli ambientali e conseguente abbattimento dei costi di produzione, almeno dal punto di vista strettamente economico. Infine, il mantenimento del valore della moneta nazionale, lo yuan, artificialmente basso rispetto al dollaro per favorire l’esportazione.
Ma l’equilibrio si è rotto. Il risultato dello sviluppo tumultuoso di questi anni è stato lo spopolamento delle campagne.

Si calcola ormai che la migrazione interna, l’inurbamento dei contadini che divengono operai, assommi a 230 milioni di persone. In termini assoluti, se 730 milioni di cinesi vivono ancora nelle zone rurali, sono ormai 570 a vivere e lavorare in città. In settori come l’edilizia ed il tessile, i nuovi migranti rappresentano il 70-80% della forza lavoro.
Questo ha determinato la creazione di grosse sacche di povertà e disagio sociale.

Nel 2009 saranno oltre 40 milioni i cittadini che beneficeranno del programma di aiuto statale per gli indigenti nonostante i parametri della soglia di povertà siano un terzo di quelli fissati dalla Banca mondiale (0,31 euro giornalieri contro 0,90). E nonostante tutto, la migrazione interna non si arresta poiché se un contadino guadagna mediamente 425 euro l’anno, un operaio impiegato nei cantieri dei giochi olimpici arrivava ad oltre 200 al mese. (beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In tempi di crisi, il fine giustifica i mezzi (pubblicitari).

NYT, pubblicità in prima pagina per far fronte alla crisi economica.

di RAFFAELLA MINICHINI, da repubblica.it

La crisi colpisce il cuore del quotidiano forse più celebre del mondo: il New York Times da oggi vende un “pezzo” della sua prima pagina alla pubblicità contaminando quello che storicamente è sempre stato considerato lo spazio sacro dell’informazione.

La “striscia” comparsa oggi a colori nel taglio basso della prima pagina è stata acquistata dalla Cbs. Come di consueto, il giornale ha informato i lettori delle motivazioni e modalità dell’ennesimo provvedimento d’emergenza per tappare le falle del bilancio aziendale in quello che lo stesso Nyt ammette essere stato il “peggior periodo di entrate dai tempi della Depressione”. Le cifre sono allarmanti per il quotidiano di New York: meno 13,9% rispetto a novembre 2007, meno 7,6% nell’ultimo anno.

All’inizio di dicembre il giornale aveva annunciato un’altra iniziativa clamorosa: l’ipoteca per 225 milioni di dollari del grattacielo di 52 piani nel cuore di Manhattan progettato da Renzo Piano e inaugurato con grande esposizione mediatica poco più di un anno fa, di cui l’azienda editoriale possiede il 58%. Altre misure comprendono il ridimensionamento delle pagine, la chiusura di alcune attività sussidiarie, l’aumento dei prezzi degli abbonamenti.

La pubblicità in prima pagina non è consuetudine di tutti i quotidiani americani: finestre pubblicitarie compaiono sulla copertina di Wall Street Journal, Usa Today, Los Angeles Times, ma non ad esempio sul Washington Post. l prezzo degli ambiti 6 centimetri non è stato reso noto, anche se il giornale sostiene che non c’è differenza con gli spazi interni ma si procede con accordi di acquisti di spazi multipli su varie sezioni del giornale se l’inserzionista desidera comparire sulla “vetrina” di prima. “Resta da vedere quanto si riuscirà a vendere nel clima attuale di crollo degli investimenti pubblicitari”, è però la realistica valutazione fatta dallo stesso New York Times nell’edizione di oggi.

In passato il Nyt aveva pubblicato “in rare occasioni” spazi pubblicitari in prima pagina fatti di poche righe di testo. Erano comparse finestra composte da testo e immagini nelle copertine delle sezioni intermedie, ma la testata – scrive oggi Richard Perez-Pena sullo stesso Nyt – “non aveva mai venduto finestre in prima pagina, considerandola un’intrusione commerciale nello spazio informativo più importante del giornale”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Società e costume

“Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi”.

Italiani brava gente.

di Barbara Spinelli, da lastampa.it

Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre – la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» – che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).

Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.

Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.

Non così in Italia, dove proprio queste parole – eversione, guerra – s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile – ogni politico lo è – ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.

Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.

Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».

All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.

Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando». (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume Teatro

I soldi tagliati al cinema e al teatro andranno per allestire uno altro spettacolo: il G8 costerà 400 milioni. Presenta Silvio Berlusconi. Dall’8 al 10 Luglio non cambiate canale (di Sardegna), rimanete con noi.

di Sergio Rizzo, da laderiva.corriere.it

Non è uno scherzo: avete capito bene. Per il G8 in programma sull’Isola della Maddalena, dirimpetto a villa Certosa, residenza privata del premier, dall’ 8 al 10 luglio 2009 si spenderanno 400 milioni di euro.

Quattrocento milioni, per intenderci, è l’entità dei tagli apportati dal governo di Silvio Berlusconi ai fondi per lo spettacolo e il cinema che metteranno in ginocchio un bel pezzo delle cultura italiana.

Questa somma sarà spesa per le opere accessorie al vertice, come una nuova strada che collegherà Olbia a Sassari (ma che c’entra con il vertice?), i lavori per il palazzo della conferenza (58 milioni), l’hotel sede del vertice (59 milioni), la riconversione dell’ospedale militare (73 milioni) e perfino la rete fognaria dell’isola. Siccome il G8 è classificato come Grande evento, la sua gestione sarà curata dalla Protezione civile nella persona del commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla presidenza. Quanto costerà l’organizzazione: “soltanto” 30 milioni.

“Soltanto”, dicono gli esperti, considerando che giapponesi e tedeschi per i vertici internazionali spendono molto di più. Bene. Ma ammesso che sia giusto che pure Giappone e Germania spendano una barca di soldi in questo modo, per i paragoni è meglio restare in Italia.

L’ultimo G8 è stato quello tragico del 2001 a Genova. Per l’organizzazione vennero stanziati 20 miliardi di lire, cioè un terzo di quello che verrà messo a disposizione per la Maddalena. Per le opere accessorie, invece, lo Stato stanziò 90 miliardi (meno di 47 milioni di lire) in quindici anni.

Considerando tutti gli altri fondi, compresi quelli del Comune, il conto fu di 200 miliardi. Poco più di un quarto di quello che si spenderà nel 2009.

Perché, signori, 400 milioni di euro sono sempre 774 miliardi di lire. Ma ha un senso spendere una somma del genere per un vertice alla Maddalena? (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: l’attuale presidenza della Ue è ceca.

di Andrea Bonanni, dal blog europe, su repubblica.it

Dopo aver dichiarato che l’invasione israeliana di Gaza (preceduta da bombardamenti che hanno fatto oltre quattrocento morti) era una <operazione difensiva piuttosto che offensiva>, il governo ceco ha fatto inizialmente una mezza marcia indietro (<il diritto all’autodifesa non giustifica azioni che infliggono gravi sofferenze alla popolazione civile>), poi una netta inversione di rotta, definendo la prima dichiarazione <un errore>. La presa di posizione filo-israeliana (o bisognerebbe dire filo-americana, visto che ricalca le dichiarazioni dell’amministrazione Bush?) era del portavoce del primo ministro Topolanek. Le successive correzioni sono del ministro degli esteri Karel Schwarzenberg.

Più che dividere l’Europa, la presidenza ceca sembra divisa al proprio interno. Ma forse non tanto. Mentre si accingeva a partire per una missione diplomatica in Medio Oriente tesa ad ottenere il cessate il fuoco, mentre il responsabile della politica estera europea Solana assicurava che l’Europa è pronta ad inviare osservatori e truppe di peacekeeping, mentre la commissaria per le relazioni esterne Ferrero Waldner tuonava che <le violenze devono cessare immediatamente>, Schwarzenberg ha seraficamente annunciato che nutriva ben poche speranze di ottenere un accordo per la fine dei combattimenti. Con simili premesse, poteva risparmiarsi il cherosene del viaggio. <Pace in terra agli uomini di buona volontà> sta scritto sulle riproduzioni della grotta di Betlemme: se aspettiamo la buona volontà della presidenza ceca, la pace può attendere. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Israele: la guerra è la continuazione della campagna elettorale con altri mezzi.

Perché Israele ha attaccato Gaza?

di Enrico Franceschini, da mytube, blog su repubblica.it

Un amico telefona dall’Italia e, memore degli anni da me trascorsi in Israele come corrispondente di “Repubblica”, si chiede se i leader israeliani sono stupidi o sono pazzi. I bombardamenti e poi l’attacco di terra a Gaza hanno provocato unanimi condanne mondiali isolando lo Stato ebraico, scatenato proteste di popolo nelle piazze arabe del Medio Oriente e apparentemente distrutto le residue speranze che l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca possa portare a una soluzione del conflitto. Poichè era largamente prevedibile che l’attacco desse questi risultati, per quale motivo i leader israeliani l’hanno deciso lo stesso? Questo si domanda il mio amico, convinto che i leader di Israele non siano affatto stupidi nè pazzi, non prendano decisioni simili alla leggera: ma allora, perchè l’hanno fatto?

La stampa inglese e americana è piena di risposte a questa domanda, risposte che peraltro si ripetono, in modo simile, ad ogni riaccendersi del conflitto in circostanze analoghe. Israele non lancia un’azione simile senza una profonda riflessione e un calcolo di tutti i pro e i contro. Provo a riassumere i “pro”, dal punto di vista israeliano. 1) Israele si è ritirato da Gaza tre anni fa e non può tollerare che ora da “Gaza liberata” i palestinesi la bombardino, per quanto scarsa sia l’efficacia dei razzi sparati da Hamas sulle città israeliane. 2) Israele ritiene che non reagire ai razzi di Hamas darebbe un segnale di debolezza, di arrendevolezza, ad altri suoi nemici, ben più pericolosi di Hamas, per esempio Hezbollah nel Libano del sud e, ancora di più, l’Iran con i suoi programmi nucleari. 3) Israele spera di distruggere Hamas non solo militarmente, ma soprattutto politicamente, dimostrando alla popolazione di Gaza quanto sia insensata la politica seguita da Hamas, e aprire così la strada a un ritorno al potere a Gaza dell’Autorità Palestinese del presidente Abu Mazen, l’unica entità con la quale pensa sia possibile raggiungere un accordo di pace.  4) Israele è alla vigilia di elezioni, e i suoi leader più favorevoli alla trattativa di pace con i palestinesi, il ministro degli Esteri Livni e quello della Difesa Barak, sperano di guadagnare consensi usando la mano dura contro Hamas, in modo da battere alle urne il “falco” Netanyahu, la cui vittoria farebbe fare probabilmente un ulteriore passo indietro alle speranze di pace. 5) L’attuale coalizione vuole ottenere una vittoria militare, per riabilitarsi dopo l’imbarazzante risultato della criticatissima operazione militare in Libano nel 2006.

 Questi sono più o meno i ragionamenti della leadership israeliana per l’offensiva in corso. Può darsi che alcune di queste ragioni si dimostrino valide: per esempio i sondaggi segnalano ora una possibile vittoria della Livni alle urne contro Netanyahu. Ma nuovi sviluppi del conflitto potrebbero capovolgere questa tendenza e consegnare ugualmente la vittoria a Netanyahu. E il rischio che l’offensiva si riveli comunque controproducente, non solo dal punto di vista internazionale ma anche per gli interessi israeliani, resta alto. Un aspetto negativo, dal punto di vista di Israele, è la sproporzione delle vittime: cento palestinesi morti per ogni israeliano. Un altro è che se il numero delle vittime israeliane salisse, l’opinione pubblica israeliana potrebbe finire per considerare l’offensiva un insuccesso. Un terzo è che l’offensiva potrebbe rafforzare politicamente Hamas, anzichè indebolirla, mettendo in una condizione ancora più difficile l’Autorità Palestinese del presidente Abu Mazen. Come ricorda per esempio l’Observer di Londra, molti palestinesi non vedono l’offensiva come una reazione ai razzi di Hamas ma come il proseguimento di una politica punitiva e repressiva: nei tre anni successivi al ritiro da Gaza, gli attacchi israeliani hanno ucciso 1700 palestinesi a Gaza, tra cui, nell’ultimo anno, 68 bambini o ragazzi, inclusi quattro bambini da uno a cinque anni in aprile, colpiti da un missile caduto sulla loro casa mentre facvano colazione. Vittime a parte, il blocco economico creato da Israele attorno a Gaza, anche quello con l’obiettivo di indebolire politicamente Hamas facendo pagare un alto prezzo alla popolazione della striscia, ha dato scarsi risultati: “Certamente non è stato produttivo dal nostro punto di vista, ed è possibile che sia stato controproduttivo”, dichiara all’Observer Yossi Alpher, ex-ufficiale del Mossad ed ex-consigliere militare di Barak quando quest’ultimo era primo ministro. Commento dell’Economist: “Poichè Hamas non sembra in procinto di scomparire, (Israele) deve trovare il modo di cambiare il modo di pensare di Hamas (per spingerla a riconoscere lo Stato ebraico e accettare una soluzione negoziata del conflitto). Le bombe da sole non riusciranno mai nell’intento”.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Pubblicità ingannevole? No, ingannata.

 E’ una brutta notizia scoprire che la liberalizzazione del mercato dell’energia, avvenuta operativamente nel luglio del 2007, invece che benefici abbia al contrario dato vita ad abusi ai danni dei consumatori, che poi sono la totalità delle famiglie italiane.

 

La  brutta notizia è che l’Antitrust ha condannato nove società di vendita di elettricità e gas per pratiche commerciali scorrette, infliggendo loro multe per un totale di un milione e 275 mila euro. Secondo l’Autorità, le aziende multate hanno attuato pratiche commerciali scorrette nelle modalità di pubblicizzazione dei prezzi praticati nel mercato libero dell’energia e del gas.
Le sanzioni decise dall’Antitrust ammontano in particolare a 250 mila euro per Enel Energia, 260 mila per Eni, 135 mila per AceaElectrabel Elettricità, 140 mila per Aem Energia, 110 mila per Asm Energia e Ambiente, 90 mila per Trenta, 95 mila per Enia Energia, 100 mila per Mpe Energia e 95 mila per Italcogim Energie.

E’ una bruttissima notizia scoprire, scorrendo l’elenco delle società sanzionate, che due di loro sono, per esempio a partecipazione azionaria pubblica: Eni ed Enel. Altre due sono, sempre per esempio aziende municipalizzate: Acea di Roma e Aem di Milano. Cosa farà il ministero dell’Economia, azionista di Eni ed Enel? Cosa faranno i sindaci di Roma e Milano, azionisti di Acea e Aem? Come minimo, c’è una bella “questione morale” a carico dei manager delle rispettive società, visto che le nomine sono, per prassi, “politiche”.

 

E’ una pessima notizia scoprire di aver comprato sul mercato azionario titoli di aziende che ingannano il mercato. Che faranno gli azionisti delle società sanzionate, visto che le ammende comminate pesano sui bilanci e quindi impoveriscono i dividendi?

 

C’è poi la questione della pubblicità ingannevole. Secondo l’Antitrust, le nove società sanzionate hanno organizzato campagne pubblicitarie, attraverso diversi mezzi di comunicazione, in grado di indurre in errore i consumatori sul prezzo complessivo applicato per l’erogazione del servizio richiesto, con indicazioni non rispondenti al vero, inesatte o incomplete. Le campagne hanno riguardato in particolar modo le offerte “prezzo fisso”, “prezzo certo”, “prezzo bloccato” e quelle relative alla tariffa bioraria di energia elettrica e gas. Insomma, alle agenzie di pubblicità è stato affidato l’incarico di mentire ai consumatori. Un bel danno alle loro reputazioni. Ma soprattutto una danno grave alla credibilità della pubblicità italiana, che già di suo non vive momenti esaltanti.

 

Ma ciò che ne esce a pezzi è la fiducia nel libero mercato. In epoca di crisi economica, con la concomitanza proprio della crisi energetica, scoprire che trucchi e inganni sono stati resi possibili proprio dalle liberalizzazioni, che sembravano semplificare e rendere trasparenti le regole è un colpo ferale alla fiducia degli utenti, cioè dei cittadini italiani.

 

Le aziende dell’energia sono state sanzionate. Ma il danno attuale e pregresso a carico degli utenti chi lo risarcisce? Chi e come si farà carico di rimettere le cose a posto? E in quanto tempo? La correttezza delle tariffe avrà la stessa vistosa pubblicità che hanno avuto le campagne pubblicitarie, sanzionate come ingannevoli dall’Antitrust?

 

C’è da sperarlo. Ma c’è poco da sperare se non c’è un intervento deciso e definitivo sul tassativo rispetto delle regole del mercato. Beh buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./4.

Crisi, il Nobel Solow: «Garantire credito
alle imprese e difendere i posti di lavoro»

di Anna Guaita da ilmessaggero.it
NEW YORK (2 gennaio) – Salvare i posti di lavoro, creandone di nuovi e proteggendo quelli ancora esistenti: per il premio Nobel Robert Solow questo deve essere il «primo comandamento» a cui i governi devono ispirarsi per avviare la ripresa economica: «Chi è senza lavoro, chi ha paura di perderlo, vive in una condizione di incertezza. Non è solo ingiusto per la persona stessa, è sbagliato per l’economia: l’incertezza affonda i consumi».

Professore, quanto sarà lunga la crisi?
«Gli ottimisti dicono che finirà entro il 2009, mentre i pessimisti la allungano fino alla metà del 2010. Io mi pongo a metà, penso che cominceremo a uscirne fra la fine dell’anno e l’inizio dell’anno nuovo. Ma bisognerà lavorare per arrivare a questa soluzione. Nel mondo è scomparsa la fiducia, se non la recuperiamo, non ne usciamo».

Tre anni fa, in un’intervista con il nostro giornale, lei esprimeva preoccupazione per le politiche aggressive delle banche, per l’eccessivo indebitamento degli americani, in particolare dei meno abbienti. Era il settembre del 2006 quando disse: ”Chi sta bene finanziariamente cadrà in piedi, ma le classi più povere soffriranno”. E’ successo quel che temeva?
«Mi dispiace dire che avevo ragione. Ma adesso i governi che hanno lasciato che questo succedesse, nella convinzione che i mercati si autoregolamentano, devono trovare delle vie d’uscita. E la prima è di proteggere i posti di lavoro. Sono convinto che Barack Obama intenda muoversi proprio in questa direzione, almeno nei primi tempi della sua presidenza. Sono altrettanto certo che non appena l’economia si sarà rimessa in moto, passerà alla seconda parte del suo programma, che è quello di avviare una riforma che riporti controlli più seri e affidabili».

Lei è stato consigliere di Obama durante la campagna. E il presidente eletto ha scelto vari suoi studenti nella nuova Amministrazione. Quali consigli gli state dando?
«Riguardo alla crisi io la vedo così: è necessario rimettere in moto il credito ed è necessario ridare fiducia alla gente. Il credito è compito della Federal Reserve, che sta facendo del suo meglio per aiutare le istituzioni finanziarie insolventi o con scarsità di liquidi. Qui negli Usa vediamo che qualcosa si sta muovendo. Il congelamento del credito dà i primi segni di scongelamento. La nostra prosperità dipende dalla possibilità delle aziende di avere credito, sia per investire che per pagare i salari. Credo che la Bce stia facendo lo stesso, o almeno me lo auguro».

E come si ridà fiducia alla gente?
«Ripeto: proteggendo il loro posto di lavoro. Ma qui negli Usa Obama ha anche un’altra carta: avviare una riforma sanitaria. Uno dei grandi incubi per i lavoratori americani, che voi fortunatamente non avete, è che con il licenziamento perdono l’assicurazione medica. Spesso quando trovano un altro lavoro, è di qualità inferiore, con meno benefici. Quindi per limitare il senso di insicurezza, bisogna che il lavoratore sappia che anche se per un certo periodo è disoccupato, potrà continuare a curare se stesso, sua moglie e i suoi figli».

Professore lei ha ancora fiducia nel capitalismo americano?
«Ho fiducia che abbiamo imparato la lezione, che abbiamo capito finalmente che il laissez faire non funziona, che dobbiamo accettare un progetto di riforma, e che Obama si sforzerà di realizzarlo».

Lei fu un sostenitore dell’euro. Nel decimo anniversario della sua introduzione, ne è soddisfatto?
«Penso che il mondo, e l’Europa in particolare, abbiano tratto un grande vantaggio dall’euro, che ha portato stabilità nel vostro continente, e una valida alternativa al dollaro sui mercati mondiali. Penso tuttavia che in questo momento anomalo di crisi mondiale, l’Ue dovrebbe permettere ai Paesi in difficoltà dei margini di manovra nel patto di stabilità. Essere rigidi in presenza di una crisi così vasta è da miopi. Garantire una flessibilità, magari temporanea, è saggio. E anche chi si oppone oggi potrebbe finire per averne bisogno presto».
(Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./3.

Dalla crisi allo sviluppo

di Mario Monti da corriere.it

 

«Possiamo limitare le conseguenze economiche e sociali della crisi mondiale per l’Italia, e creare anzi le premesse di un migliore futuro, se facciamo leva sui punti di forza e sulle più vive energie di cui disponiamo ». L’auspicio del Presidente Giorgio Napolitano trova fondamento nelle prove che l’Italia ha saputo dare in passato di fronte a gravi crisi: la terribile eredità della seconda guerra mondiale e in seguito il terrorismo, come ricorda Napolitano, ma anche, negli anni Novanta, le crisi della lira prima dell’approdo nell’euro.

Si è spesso notato che il nostro Paese riesce a dare il meglio solo in condizioni di emergenza, quando non è più possibile rinviare decisioni impopolari. Nei casi citati, si trattava però di emergenze specificamente italiane. Sapremo dare prova della stessa capacità di reazione ora che l’Italia è afflitta da una crisi grave, ma non specificamente italiana?

Perché la risposta sia positiva, occorre evitare due atteggiamenti. Nella diagnosi, non si deve trovare troppo conforto in distinzioni che paiono, per una volta, a favore dell’Italia. Nella terapia, non è prudente ritenere che la pesante eredità del passato, incontestabile, impedisca interventi di ampia portata per contrastare la crisi.

E’ vero che l’economia italiana — rispetto a quella britannica, irlandese, spagnola o americana — è meno sbilanciata verso i due settori (finanziario e immobiliare) dai quali si è scatenata la crisi; che le famiglie italiane hanno risparmi elevati e indebitamenti modesti; che la nostra industria manifatturiera, in alcuni settori, è ancora un punto di forza. Ma rimane il fatto che l’Italia, prima della crisi, era uno dei paesi «avanzati» in corso di «arretramento», con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita. La crisi è come un’ orribile marea che copre e offusca tutto. Il suo effetto immediato è stato sì, per noi, meno dirompente che per altri. Ma non dobbiamo credere che, una volta ritiratasi la marea, il nostro sistema produttivo emerga più competitivo di prima.

«Dobbiamo considerare la crisi come grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo», ha indicato il Presidente Napolitano. Alla stessa ora, il Presidente Nicolas Sarkozy rivolgeva ai francesi parole molto simili: «Dalla crisi nascerà un mondo nuovo, al quale dobbiamo prepararci lavorando di più, investendo di più. Non aspettatevi che io fermi le riforme strutturali intraprese all’interno della Francia, esse sono vitali per il nostro avvenire, per diventare più competitivi ».

L’Italia affronta la crisi con una duplice pesante eredità, di cui il governo è ben consapevole: l’alto debito pubblico e riforme strutturali non ancora sufficienti. Il debito pubblico consiglia prudenza, ma oggi sarebbe imprudente non prendere misure espansive, reversibili nel tempo, adeguate alla gravità della crisi. Una simultanea accelerazione delle riforme strutturali, meglio se sostenuta da un impegno bipartisan e dall’adesione delle forze sociali, sarebbe ben colta dai mercati ed eviterebbe che il temporaneo maggiore disavanzo renda più gravoso il rifinanziamento del debito.

In questo modo, la durata e la profondità della crisi sarebbero minori. E l’economia italiana ne uscirebbe più moderna, meglio attrezzata per le sfide della competitività mondiale. (Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./2.

Uguaglianza e sviluppo
di FRANCO BRUNI da lastampa.it
La crisi come opportunità: su questo insiste il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica. E auspica, fra l’altro, che sia colta l’occasione per ridurre le disparità dei redditi e delle condizioni di vita. È davvero possibile? Si può diminuire l’ingiustizia sociale mentre si è affannati dall’emergenza macroeconomica internazionale? Si può accentuare la funzione ridistribuiva della finanza pubblica quando il bilancio è stressato dalle conseguenze del rallentamento produttivo, come mostrano i dati forniti ieri dal governo?La crisi è esplosa in una fase della crescita globale caratterizzata da crescenti disuguaglianze. Esse sono una ragione di fragilità dello sviluppo e rendono la recessione socialmente e politicamente più preoccupante. Combattere la crisi facendo attenzione agli aspetti distributivi e di giustizia sociale sembra l’unica via per ottenere risultati duraturi. Come si fa?Il cattivo funzionamento e l’inadeguata regolazione di alcuni mercati hanno favorito lo scoppio della crisi. È diffusa la tentazione di dedurne che dalla crisi e dall’ingiustizia si esce andando «contro il mercato». È un’idea sbagliata. Va invece migliorato il quadro di regole e politiche pubbliche.All’interno di quel quadro funzionano liberamente i mercati, permettendo ai loro meccanismi di ottenere sia una ripresa della crescita dei redditi che una loro miglior distribuzione.

Lo strumento principale per influenzare la distribuzione del reddito rispettando i mercati sono le imposte progressive. Una riduzione delle imposte e degli oneri sociali sui redditi da lavoro medio-bassi, migliorerebbe la distribuzione, oltre a stimolare la domanda e ad abbassare i costi del lavoro. È però arduo tagliare le aliquote proprio quando già la crisi contrae il gettito fiscale allargando il fabbisogno. Perché la crescita del debito pubblico non appaia insostenibile ai mercati finanziari, la riduzione immediata delle tasse andrebbe associata a una credibile contrazione, graduale e futura, di molte spese pubbliche. Di quelle inutili e di quelle, come alcuni trattamenti pensionistici, che sono, proprio loro, gravi cause di ingiustizia distributiva fra categorie e generazioni di lavoratori. Occorre inoltre insistere nella riduzione dell’evasione fiscale. Ovvio da dire e difficile da fare: ma la spudoratezza con cui l’evasione continua, per alcune categorie di operatori e di transazioni, rende precaria e artificiale la condizione apparentemente migliore di chi evade, è fonte di distorsioni competitive, di ingiustificate disuguaglianze, ed è insopportabile, soprattutto in tempi di crisi.

Per favorire, insieme, il mercato e la giustizia distributiva, è indispensabile, soprattutto in Italia, arricchire e migliorare gli ammortizzatori sociali. In una fase di profonde ristrutturazioni produttive, gli aiuti per chi perde il posto vanno messi a disposizione, senza ingiusti privilegi per le categorie di lavoratori più protette, in forme che aiutino a chiudere le imprese meno efficienti e spostare i lavoratori verso nuovi impieghi. Le regole devono avere applicazione generale e vanno evitati trattamenti ad hoc, come quelli proposti per il caso Alitalia, che sono fonte di maggiori, anziché minori disuguaglianze.

Complementare all’assistenza alla disoccupazione è l’adozione di salari minimi e imposte negative per i più poveri. Inoltre, quando gli ammortizzatori sono adeguati, una forte decentralizzazione della contrattazione salariale può migliorare, insieme, l’allocazione di mercato delle risorse, la velocità di crescita dei redditi e la giustezza della loro distribuzione. Una giustezza che deve riflettere la crescente importanza e diversità delle competenze e delle abilità dei singoli lavoratori.

È stato calcolato, in molti Paesi, che una parte considerevole dell’aumento della disuguaglianza dei redditi dell’ultimo decennio è dovuta alle retribuzioni fuori misura dei dirigenti di imprese e banche. Non è demagogico sperare che la crisi sia occasione per rimediare alle anomalie di sistemi di fissazione dei compensi che, oltre a eccessive disparità distributive, hanno creato incentivi per comportamenti manageriali arrischiati e inopportuni. I rimedi vanno decisi soprattutto all’interno delle imprese, anche se la politica può facilitarne e sollecitarne l’adozione.

Il contenimento delle disparità dei redditi e delle condizioni di vita, oltre al risultato di provvedimenti specifici, è prezioso sottoprodotto di diverse altre politiche utili a gestire la crisi. Esse non sono contro i meccanismi di mercato ma, anzi, li rendono più fluidi e produttivi. Le politiche in difesa della concorrenza, contro i privilegi oligopolistici e i protezionismi corporativi, rafforzano i mercati e hanno ovvie implicazioni di giustizia distributiva. Parlare oggi di liberalizzazioni può apparire stonato: eppure si tratta di provvedimenti che, oltre a rilanciare la crescita, servono proprio a far giustizia. Il miglioramento dell’efficienza e la riduzione degli sprechi nella produzione dei servizi pubblici, dalle scuole alla sanità alla giustizia al verde delle città, beneficia molto di più i meno fortunati e i più deboli. Il drastico ridimensionamento del numero e dei privilegi della casta politica libera risorse per la crescita dei mercati e fa giustizia, nel senso più elementare del termine.

Ha dunque ragione il Presidente: non c’è affatto contrasto fra le politiche per riprendere a crescere e l’attenzione alla giustizia distributiva. Il nostro Paese, come tanti altri, può svincolarsi meglio dalla morsa della crisi se ha anche l’ambizione di uscirne più giusto. (Beh, buona giornata).

franco.bruni@unibocconi.it

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Affrontare la crisi economica oltre il mantra dell’ottimismo.

La scienza della felicità nell’anno più buio.
di TIMOTHY GARTON ASH, da repubblica.it
Buon Anno? State scherzando, vero? Il 2009 inizierà con lamenti che col passare del tempo non potranno che aggravarsi. Milioni di persone in tutto il mondo sono già state licenziate, per colpa di questa prima crisi davvero globalizzata del capitalismo, e decine di milioni di altre resteranno molto presto anch’ esse senza lavoro. Quanti tra noi saranno abbastanza fortunati da continuare ad avere un lavoro, si sentiranno più poveri e meno sicuri. Per festeggiare il suo Premio Nobel per l’ economia, Paul Krugman ci garantisce “mesi di inferno economico”. Grazie, Paul, e buon anno anche a te.
I problemi economici esacerberanno le tensioni politiche ovunque. Malgrado tutto, le voci che circolano sulla morte dell’ economia sono però esagerate: io non credo che il 2009 sarà per il capitalismo ciò che il 1989 è stato per il Comunismo. Forse, il 1 gennaio 2010 sarò costretto a rimangiarmi queste parole: fare previsioni è tempo sprecato. (Nell’ almanacco di previsioni e considerazioni dell’ Economist “The World 2009” è stato pubblicato un coraggioso e divertente articoletto intitolato “Per quanto riguarda il 2008, scusateci”).
Ora che inizia un nuovo anno, non vedo però un altro avversario sistemico all’ orizzonte, come invece c’ era – o per lo meno pareva esserci – nei giorni del Comunismo sovietico antecedenti al 1989. Il modello di socialismo alla Hugo Chavez è dipendente in tutto e per tutto dai capitalisti che acquistano il suo petrolio, mentre se vi appare appetibile il modello nordcoreano fareste bene a farvi visitare da un medico.
Sarebbe nondimeno un errore marchiano se in occasione del loro ventesimo anniversario non si rivedessero e riesaminassero le premesse di quel tipo di capitalismo del libero mercato – talora denominato “neoliberal” – che a partire dal 1989 appare trionfare da due decenni.
Prima di tutto e palesemente l’ equilibrio tra Stato e mercato, pubblico e privato, mano visibile e mano invisibile. Anche prima del tracollo del settembre scorso, Barack Obama aveva cercato di esortare i suoi compatrioti ad accettare l’ idea che il governo non sempre è una parolaccia.
Nei mesi successivi si è assistito a un plateale spostamento verso un più importante ruolo dello Stato, di solito con iniziative di improvvisazione governativa a dir poco disperate, in altri casi (come nella Londra di Gordon Brown) ideologicamente legittimate come Keynesianesimo, e in altri ancora (per esempio nella Washington di George Bush), come puro e semplice Disperazionismo.
Quanto di questo spostamento sia temporaneo e quanto sia invece destinato a durare più a lungo non potremo saperlo entro la fine di quest’ anno: quantunque la maggior parte di questo spostamento stia attualmente avendo luogo in direzione di un rafforzamento della mano visibile del governo, potrebbe anche non continuare a essere così.
Un illustre riformista economico cinese poco tempo fa mi ha detto che la crisi finanziaria asiatica di dieci anni fa ha catalizzato una riforma maggiormente orientata al mercato dell’ economia cinese, e che anche questa farà altrettanto. Se ha ragione, si potrebbe arrivare a ipotizzare addirittura una sorta di convergenza globale su qualche variante di economia di mercato sociale in stile europeo, con Stati Uniti e Cina più vicini rispetto alle attuali posizioni in contrasto tra loro. è importante tuttavia tener presente che ho usato le seguenti parole: “qualche variante”.
Anche in Europa, infatti, ci sono notevoli varianti tra le combinazioni possibili di Stato e mercato e il modo col quale esse funzionano. Ciò che si rivela adeguato a un piccolo Paese del Nord, può non essere efficace per un grande Paese del Sud. Non esiste una formula universale. Ciò che conta davvero è che cosa va bene per voi.
Una seconda considerazione per il 2009 riguarda ciò che serve a una crescita sostenibile, verde, a bassa emissione di anidride carbonica, indispensabile a prevenire l’ imminente punto di non ritorno del riscaldamento globale. In discussione, adesso, ci sono due cose: quanta crescita e quale tipo di crescita. Ancora una volta, Obama sta cercando di individuare le chance che questa crisi offre, orientando parte del suo incentivo fiscale keynesiano verso investimenti in energie alternative. Nel suo complesso, però, verosimilmente il 2009 pare prospettarsi come un altro pessimo anno, dal punto di vista della lotta al riscaldamento globale. Orientarsi verso un’ economia sostenibile, a ridotta emissione di anidride carbonica, impone sia alle aziende sia ai governi di accollarsi spese a breve termine per benefici a lungo termine.
Quando le aziende e i governi si ritrovano con le spalle al muro, di solito fanno il contrario.
Quasi certamente, il meglio che possiamo augurarci è che i nostri leader stiano alla larga dal nazionalismo economico-rubamazzo degli anni Trenta: per consentir loro di andare oltre, si renderà inevitabile uno spostamento più incisivo delle aspettative nei loro confronti da parte degli elettori e degli azionisti. Pertanto fino a quando noi, la popolazione, saremo guidati nelle nostre scelte finanziarie e politiche dalla stella polare dei profitti economici a medio termine, non dovremmo biasimare i nostri leader di adoperarsi per darci ciò che chiediamo.
Una terza, essenziale presa di coscienza ci obbliga dunque a guardare alle nostre personali stelle polari: quanti più soldi e “cose materiali” ci occorrono? Siamo sicuri che chi si accontenta gode? (“No”, dicono all’ unisono i pubblicitari). Potremmo farcela con meno? Che cosa vi sta davvero a cuore? Che cosa contribuisce in misura maggiore alla vostra felicità personale? Che lo crediate o meno, esiste ora un intero sottocampo di studi accademici sulla felicità: l’ economista Richard Laynard ha scritto un libro molto interessante che si intitola “Happiness, Lessons from a New Science”.
Sarà questa ciò di cui parlava Nietzsche, alludendo alla “gaia scienza”? Uno studioso olandese, Ruut Veenhoven, ha creato un database mondiale della felicità che annovera classifiche nazionali: ha illustrato i risultati delle sue ricerche su un sito web canadese in un articolo intitolato “Il Canada supera gli Stati Uniti nell’ indice di felicità globale”, nel quale ovviamente è la vittoria sugli Usa a contribuire in buona parte alla felicità materiale dei canadesi.
Una classifica diversa e una “mappa mondiale della felicità” a quanto pare sono state messe a punto dall’ università britannica di Leicester. La Danimarca si colloca in entrambe al top della classifica. Infine, esiste anche un “Giornale di studi sulla felicità” (il cui editore molto verosimilmente se la ride per tutto il tragitto che compie fino alla banca).
Indipendentemente da ciò che pensate del valore sostanziale di questa roba – scusatemi, di questa scienza – potete trascorrere tranquillamente un’ oretta a navigare in Rete per leggerne di più e chiedervi quanto di ciò sia inventato di sana pianta. Tornando a questioni più serie, invece, alcune scelte effettivamente ricadono sui singoli cittadini della middle-class dei Paesi più ricchi. Deve essere chiaro che il pianeta non può tollerare che 6,7 miliardi di persone vivano come vive oggi la middle-class in America settentrionale e in Europa occidentale, per non parlare delle previsioni entro la metà del secolo di arrivare a nove miliardi di abitanti del pianeta: o una più ampia parte del genere umano dovrà essere escluso dai benefici del benessere, o il nostro stile di vita dovrà necessariamente cambiare.
Il mantra col quale la maggior parte dei nostri leader politici e del mondo degli affari entra nel 2009 è “torniamo alla crescita economica, costi quel che costi”. Similmente all’ equipaggio di una barca in piena tempesta, si ripropongono di tenerla a galla e in moto sui marosi, senza curarsi di quale sia la rotta da seguire, ma mentre ci dirigiamo verso l’ epicentro della tempesta, che ancora non ci ha colpiti, dovremmo dare enorme importanza alla rotta che seguiamo.
Ciò rende inevitabile una leadership di alto livello, ma anche cittadini in grado di esigere una tale leadership. Per quanto mi riguarda, sarei felice di apportare al mio stile di vita i cambiamenti che dovessero rendersi necessari? Quasi sicuramente no, ma quanto meno mi piacerebbe sapere quali dovrebbero essere. (Beh, buona giornata)
Traduzione di Anna Bissanti
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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Oui, je suis Alitalia.

di TITO BOERI da repubblica.it


DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all’unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi.

Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all’offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme.

Sarà Air France-KLM l’azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia “non è nulla”, chi mette la testa “è tutto”.


La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all’italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell’acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell’unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E’ sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza.

Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa.

Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei “patrioti” della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l’Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull’ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz’altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia.  (Beh, buona giornata).

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