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Sicurezza: quer pasticciaccio brutto della Caffarella.

di Massimo Martinelli da ilmessaggero.it
ROMA (4 marzo) – L’indagine di polizia è come un mosaico: basta entrare in una qualsiasi Questura d’Italia, e lo dicono anche i muri: «Devi raccogliere elementi, frasi, sensazioni; mettere insieme facce, racconti, odori, oggetti. Alla fine, se hai lavorato bene, in fretta, con tempestività e fantasia, con equilibrio e buonsenso, quel mosaico assume un profilo umano».
Quello della persona da cercare. E’ andata esattamente così a Roma, dalla sera del 14 febbraio a quella del 18. Quattro giorni di facce. Su una di queste, la ragazza della Caffarella si è quasi accasciata: «E’ lui, mi ha rovinato la vita. Ti prego mamma, non farmelo vedere mai più». Sembrava fatta.

Ma l’indagine di polizia è anche amore per la verità. Occorrono certezze, riscontri da portare al pm. Soprattutto prove; e ne esistono di scientifiche, inoppugnabili, assolutamente attendibili. Alle quali si deve riconoscere il potere di cambiare una storia che sembrava già scritta.

In Questura lo sanno. L’esame del Dna scagiona in maniera definitiva i due romeni arrestati per lo stupro della Caffarella. E riduce ad un mucchietto di verbali inutili quella gran mole di elementi, frasi e sensazioni raccolte in quattro giorni di indagini senza sosta e senza sonno. «Ho dovuto costringere Vittorio Rizzi a dormire per qualche ora», disse il questore, Pietro Caruso, parlando del capo della Mobile. Ma poche ore, talvolta, possono cambiare un’indagine. E anche una storia professionale.

Perché a riguardarlo bene, il film della sera del 18 febbraio scorso, si scopre che l’unico cono d’ombra di questa indagine riguarda proprio la sessantina di minuti in cui Vittorio Rizzi non era in Questura, la notte del 18 febbraio. E’ il giorno in cui la ragazza ha riconosciuto il biondino in una fotografia scattata due settimane prima al campo nomadi di Torrevecchia: c’era stato lo stupro di Primavalle, il campo nomadi era stato sgomberato, la polizia aveva fotografato tutti quelli che ci abitavano. In Questura la ragazza della Caffarella aveva lavorato per ore con i disegnatori di identikit e ne era venuti fuori due: un biondo slavato, un castano con capelli lunghi. Le hanno fatto vedere dodici foto di biondi slavati somiglianti a quella ricostruzione e lei è quasi svenuta sulla faccia di Loyos Isztoika. Del castano nessuna traccia, nonostante le settecento foto tirate fuori dall’archivio.

Un’ora dopo, Loyos è in Questura. «Strafottente, irridente, quasi al limite della resistenza a pubblico ufficiale», ricorda un agente che lo accompagnava. Il biondino nega, dice che non c’entra, mai stato alla Caffarella. Ci sono anche gli agenti romeni, che avevano fornito indicazioni e supporto all’indagine. C’è fermento. I media assediano il palazzetto di via San Vitale. Attraverso i canali del Viminale la politica vuole risposte rassicuranti per la gente della Caffarella, per Roma. Comincia adesso il maledetto cono d’ombra di questa indagine: il biondino è in camera di sicurezza; si decide di interrogarlo con calma, il giorno dopo, perché la notte potrebbe ammorbidire quel carattere strafottente. Lo lasciano a colloquio con i poliziotti romeni, un’ora appena. Sessanta minuti che sembrano risolutivi, ma che poi si riveleranno avvelenati.

Dopo quattro giorni di caccia serrata, Vittorio Rizzi è appena arrivato a casa quando lo richiamano dalla Questura: Loyos Isztoika vuole parlare. Adesso. Chiamano anche Vincenzo Barba, il pm che segue l’indagine. E pure un tecnico video, perché l’interrogatorio possa essere ripreso. Il biondino canta che è una bellezza: «Fumo le Winston Light» e ci sono cicche del genere sul luogo dello stupro; «Abbiamo rubato i loro cellullari e ne abbiamo buttato uno nel parco, dopo aver estratto la scheda Sim»: ed ecco il telefonino della ragazza dietro una panchina, con la sim accanto. E poi il sangue: «Ne ho perso tanto» dice la vittima. E c’è un pantalone sporco di rosso nella tenda del biondino. Che indica pure il complice: Karol Racz, faccia da pugile. Lo pigliano a Livorno, non ha i capelli lunghi come l’identikit, ma nessuno ci bada; ed è alto un metro e mezzo e non parla italiano.

Due giorni dopo si replica in Procura. Ma il biondino ritratta: «Ho subito pressioni, mi hanno picchiato». Non sembravi picchiato la sera della confessione, gli dice il Pm. «Mi hanno strattonato», si corregge lui. Ma chi? La polizia italiana che si è precipitata a fare il Dna a caccia della prova regina? Difficile da credere: sapevano che la scienza e la genetica avrebbero smascherato qualsiasi trucco. Come avviene: niente Dna dei romeni sulle cicche del parco, niente impronte sui telefonini, niente sangue sui pantaloni. Resta quel cono d’ombra: i sessanta minuti che Loyos trascorse con gli agenti del suo Paese, mentre Rizzi era fuori dalla Questura e il pm Barba era a piazzale Clodio. E resta una frase, «mi hanno strattonato», che apre due ipotesi: o non si sono limitati a quello, oppure Loyos accusa a vanvera. In ogni caso, il Dna gli spalancherà le porte del carcere. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Berlusconi aveva detto che in Italia la crisi era meno preoccupante degli altri paesi europei.

Inps dice che la cassa integrazione è cresciuta del 553%. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Correva l’anno -2,6 per cento.

Bankitalia prevede nel 2009 il Pil a -2,6%. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il risultato di politiche sociali sbagliate: i consumi crollano ancora.

Deciso calo dei consumi a gennaio, con forti contrazioni nel settore della mobilita’, un declino del comparto abbigliamento che non e’ stato invertito dai saldi e le telecomunicazioni che continuano a tenere.

L’Indicatore dei Consumi Confcommercio (Icc) segnala a gennaio 2009 una riduzione tendenziale del 4,6% in quantita’, il terzo peggior risultato da un anno a questa parte nonche’ dodicesima variazione negativa da gennaio 2008; un dato – secondo l’analisi dell’ICC – decisamente piu’ negativo rispetto a quanto registrato in dicembre che conferma come i consumi non solo siano ancora in una fase critica ma, per il momento, non traggano nemmeno benefici dal rallentamento dell’inflazione.

Il dato dell’ultimo mese risulta peraltro significativamente peggiore rispetto a quanto registrato nello stesso periodo del 2008 (-1,1%). Il dato e’ sintesi di una flessione particolarmente accentuata della domanda relativa ai beni (-6,4%), a cui si e’ associata, per il terzo mese consecutivo, una riduzione della domanda per i servizi (-0,3%). In termini reali, il dato riflette essenzialmente il peggioramento della domanda relativa al settore della mobilita’ a cui si sono associate evoluzioni negative per quasi tutte le componenti considerate, ad esclusione delle comunicazioni che evidenziano peraltro un rallentamento nel trend di sviluppo. Dopo il -3,7% registrato nel mese di dicembre, la domanda per beni e servizi ricreativi ha quindi egistrato a gennaio 2009 una diminuzione dell’1,7%.

Particolarmente negativa e’ risultata appunto la dinamica della domanda relativa ai beni e servizi per la mobilita’ (-24,8% rispetto all’analogo mese dello scorso anno). Questo andamento e’ derivato da una serie di fattori che hanno inciso sulle diverse voci che compongono l’aggregato. Per gli acquisti di autovetture e motocicli da parte delle persone fisiche l’andamento ha riflesso, oltre alle difficolta’ che da tempo interessano il settore a livello mondiale, anche le attese di incentivi da parte del Governo che dovrebbero cominciare a produrre effetti positivi solo nei prossimi mesi.

Relativamente al calo della domanda per i trasporti aerei la forte riduzione deriva anche dalla concorrenza esercitata negli ultimi mesi, sulla tratta Roma-Milano, dal trasporto ferroviario che, con l’avvio dell’alta velocita’, ha registrato un sensibile incremento di passeggeri (del quale l’Icc non tiene conto per mancanza di dati sul traffico ferroviario di passeggeri). (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Stupro della Caffarella: gli esami del DNA smentiscono una sentenza già scritta.

di LUCA LIPPERA da ilmessaggero.it

ROMA (3 marzo) – L’inchiesta sullo stupro della Caffarella si complica ulteriormente. La Procura ha ammesso che esistono «discrepanze» tra il Dna dei romeni in carcere per la violenza di San Valentino e le tracce (di saliva, sudore e liquido seminale) individuate sulla vittima. Ma la vera novità sembra un’altra: le impronte sulle carte “sim” dei cellulari rubati ai fidanzatini, tirate fuori dagli aggressori nel parco e buttate nel bosco, sarebbero inservibili in quanto «troppo frammentarie»: potrebbe dunque diventare impossibile collegarle a Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, gli immigrati tuttora in carcere per la feroce violenza che ha scosso la città nel giorno di San Valentino.

I difensori dei romeni, Lorenzo Lamarca, e Giancarlo Di Rosa, convinti che «in uno Stato di diritto contino le prove e non le parole», hanno presentato due istanze al Tribunale del Riesame chiedendo la liberazione degli stranieri. I vertici della Procura, ieri, hanno fatto capire chiaro e tondo che i test del Dna sono negativi per entrambi i romeni. Ma c’è di più. Gli investigatori sembrano convinti che l’esperto della Criminalpol che ha eseguito gli esami possa aver commesso in buona fede un errore. I nuovi accertamenti, fatto non consueto, non verranno eseguiti dalla Polizia Scientifica: il compito è stato affidato a un biologo esterno che già domani potrebbe confermare l’esito del collega o ribaltare tutto. Nel qual caso dovrà spiegare dove e perché vi fu un errore.

È chiaro che la negatività dei primi test peserà. Se non ora, sull’eventuale processo. Il nervosismo tra gli investigatori si avverte ed è palpabile anche il timore di aver preso, magari solo parzialmente, un abbaglio. Non a caso nei prossimi giorni, per scongiurare la possibilità (più teorica che altro, ndr) di una commistione tra il Dna di diverse persone, il fidanzatino della quindicenne seviziata alla Caffarella potrebbe essere sottoposto a un prelievo per stabilirne il profilo genetico. I ragazzi verranno comunque risentiti. Perché, si fa capire in Questura, «ci sono da chiarire alcuni punti oscuri». Quali e quante siano le ombre non è dato, tuttora, sapere.
Ma gli investigatori, dopo la “bomba” sul Dna, ieri hanno manifestato ottimismo. Il capo della Squadra Mobile, Vittorio Rizzi, ha incontrato in Procura, a piazzale Clodio, Vincenzo Barba, il pubblico ministero che coordina l’inchiesta. La Procura giudica «del tutto parziali i test non attribuibili completamente agli indagati». Quello su Racz, in realtà, sarebbe completamente negativo. Quello su Isztoika, il “biondino”, ex pastore in Transilvania, lascerebbe invece qualche margine all’accusa. Il Pm ha confermato di aver «disposto nuovi accertamenti per cancellare i dubbi» convinto che ci siano «a carico dei due elementi pesanti come macigni».

Il capo della Mobile, rispondendo a un cronista dell’Ansa, ha anche parlato del giallo dei telefonini. I cellulari personali di Isztoika e Racz, all’ora dello stupro, sabato 14 febbraio, ore 18,30 circa, non erano agganciati ai ripetitori nella zona Caffarella. Rizzi ha definito il fatto «una fantasia giornalistica». I dati effettivamente non sono nel fascicolo dell’inchiesta, fascicolo che per ora nessuno (neanche la difesa) ha visto. È il comprensibile gioco delle parti tra chi raccoglie elementi d’accusa e chi si difende. La polizia sapeva, fin dai primi giorni dopo la violenza, che gli apparecchi erano altrove. La cosa può voler dire tutto e nulla: non è detto che un rapinatore porti sempre con sé il telefonino sapendo di poter essere “tracciato”. Così gli inquirenti hanno sorvolato.

Ora ci si concentra anche sulla successione di colloqui che ha portato la vittima a indicare Isztoika, il “biondino”, come uno degli stupratori. La ragazzina fu sentita una prima volta appena uscita dall’ospedale. Erano le 00,20 del 15 febbraio. La vittima parlò subito di un «giovane coi capelli chiari». Il pomeriggio dello stesso giorno, alle 16,30, con l’aiuto di una psicologa dell’associazione “Differenza Donna”, la quindicenne cominciò a far tracciare negli uffici della Mobile un primo fotokit dell’aggressore. Quattro ore dopo riconobbe, tra quelle che le venivano mostrate dalla polizia, la foto del romeno. Il giorno dopo la Mobile e il Questore di Roma potevano annunciare gli arresti. «Bravissimi o fortunatissimi disse Rizzi alla settima foto la vittima ha detto: “Ecco, è lui!”». Ma il bosco della Caffarella forse si è tenuto qualche lupo e molti misteri.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

La sicurezza, le ronde e le “facce da romeni”.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it

Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli – e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro – la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti – noi che facciamo informazione – a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Quello che deve sapere chi viaggia con la “Freccia Rossa”.

Si è chiuso a Firenze il processo per i danni ambientali causati dai lavori per l’Alta velocità tra Firenze e Bologna. La sentenza riporta 27 condanne da tre mesi d’arresto a 5 anni di reclusione e un risarcimento danni di oltre 150 milioni di euro.

Fra le persone condannate a 5 anni, figurano i vertici del Consorzio Cavet, che ha avuto in appalto i lavori Tav: Alberto Rubegni, Carlo Silva e Giovanni Guagnozzi, presidente, consigliere delegato e direttore generale di Cavet.

I risarcimenti sono stati riconosciuti per il ministero dell’Ambiente, in misura di 50 milioni, Regione Toscana, 50 milioni, Provincia di Firenze, 50 milioni, e per cifre da 5 a 25 mila euro per altre 5 parti civili costituite da Comuni e province interessate ai lavori.

In tutto gli imputati, accusati a vario titolo, erano una cinquantina, fra dirigenti e dipendenti Cavet, ditte in subappalto, gestori di cave e discariche. Il giudice del tribunale, Alessandro Nencini, ha ritenuto i 27 imputati condannati colpevoli di illecito smaltimento dei rifiuti. Assoluzioni invece per il danneggiamento dei corsi d’acqua e dei pozzi privati, mentre riguardo all’imputazione di furto di acqua ha sollevato la questione di costituzionalità.

Durante il processo i pm Gianni Tei e Giulio Monferini avevano chiesto condanne per un totale di 180 anni, tra queste le più alte, a 10 anni, per Rubegni, Silva e Guagnozzi. Per l’accusa, i lavori per la Tav avrebbero provocato danni per 750 milioni di euro, sia per un illecito smaltimento dei rifiuti, sia per l’impoverimento delle risorse idriche. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano soldi finti.”

di TITO BOERI da La Repubblica

AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.

“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.

Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.

A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.

Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.

L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.

Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.

Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.

Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».

Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno il pregio dell’efficacia sistemica.”

di TOMMASO DE BERLANGA – Il Manifesto

Il vertice straordinario dei capi di governo Ue si è concluso con un terribile nulla di fatto. Bocciato il piano di aiuti all’Est, i 27 premier si sono limitati a promettere interventi “caso per caso”. Una non-scelta che avvicina a grandi passi la bancarotta per diversi paesi di quell’area.
Stessa, assoluta, mancanza di idee per quanto riguarda gli asset tossici presenti nei bilanci bancari e che bloccano il rifornimento di liquidità all’economia reale: ogni paese se la vedrà da solo, ma in modo (forse) “coordinato”.

C’è un problema di interessi nazionali divergenti, ma soprattutto di cultura economica. I 27 leader sono cresciuti a champagne e neoliberismo, scolaretti modello di un “pensiero unico” che perseguiva l’integrazione incrementando la concorrenza e la libertà assoluta dell’impresa. Un programma strutturalmente contraddittorio che ha potuto ottenere risultati, a fronte di costi sociali incalcolabili, solo in presenza di una lunga fase di crescita economica. Ma che si rivela dannosa – e irrealizzabile – in una fase di profonda depressione.

Questa “politica” si è infatti fondata su una “deflazione salariale” ultraventennale, che ha congelato i salari occidentali delocalizzando parti consistenti della manifattura. Ancora oggi, con milioni di posti di lavoro un fumo e il moltiplicarsi del ricorso ai “contratti di solidarietà” (una socializzazione della riduzione di reddito), dalla Ue e dalla Bce arriva una sola raccomandazione: inchiodare a zero qualsiasi rivendicazione salariale. Peggio ancora Berlusconi, che rifiuta persino di introdurre i sussidi di disoccupazione.

La destra razzista e xenofoba cavalca la crisi indicando nemici di comodo (zingari, migranti, stranieri), nella speranza che intanto il vecchio meccanismo si rimetta in moto. La sinistra si lecca le ferite proponendo, nel migliore dei casi, ragionamenti non sempre lineari. Un tragico divario di efficacia comunicativa.

Il cuore del problema è la tenuta del sistema del credito. La politica dei “salvataggi” è stata fin qui costosissima e inutile, vista la sproporzione quantitativa tra voragini nei conti e disponibilità in mano ai singoli governi. Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno al tempo stesso il pregio dell’efficacia sistemica e dell’individuazione dei responsabili più indifendibili del tracollo in corso: banchieri, piazze finanziarie, “gestori di patrimoni”, ecc.

Jacques Attali, un mese fa, si è lasciato sfuggire un “bisognerebbe europeizzare le banche in crisi, non nazionalizzarle” o lasciarle in mano a quegli irresponsabili. “Europeizzare” significa trasformare le banche in un “servizio pubblico” sotto il controllo di un’istituzione europea di alto profilo. Ma una simile scelta porta con sé necessariamente tre iniziative per dare all’integrazione europea un volto diverso da quello fin qui dominante.

– Una politica fiscale continentale (armonizzare i vari sistemi nazionali per contrastare le delocalizzazioni incentivate da sconti fiscali locali);

– un’unica politica salariale per armonizzare i differenziali retributivi e di potere d’acquisto (e contrastare il dumping sociale);

– una politica industriale continentale che, riconvertendo gli attuali “fondi europei” (Fas, Fse, ecc), definisca “cosa vogliamo produrre, in che quantità, dove, in che modo”.

In una parola, un ripensamento globale dell’Europa che salvaguardi il “lato buono” della globalizzazione (il superamento dei conflitti commerciali) e ne elimini quelli negativi e impoverenti.

L’orizzonte prossimo più realistico non vede profilarsi la possibilità di una “ripresa” del vecchio meccanismo, ma pone la centralità della tenuta sociale. Il rischio principale è ancora quello della guerra di tutti contro tutti. Ovvero una Weimar al cubo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: “Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.”

C’è clamore – Giochiamo alla ronda. da alessandrorobecchi.it

Ha ragione Roberto Maroni: le ronde faranno diminuire gli stupri. Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.

E’ una mera notazione statistica, non se la prendano gli indagati per istigazione all’odio razziale che militano nello stesso partito del ministro degli Interni. Ha ragione anche Silvio Berlusconi: gli stupri sono diminuiti, ma le ronde si fanno lo stesso perché su questa faccenda c’è “clamore”. Ma che razza di bastardi sono quelli che fanno “clamore” su stupri e violenza? Non saranno mica i proprietari di televisioni che aprono con la cronaca nera ogni edizione del telegiornale! Tanto per gradire (fonte: Centro d’Ascolto sull’Informazione Radiotelevisiva), ecco qualche numero. Nel 2007 hanno aperto il loro notiziario con la cronaca nera, creando apprensione e paura nel paese, i seguenti telegiornali. Tg1, 36 volte, Tg2, 62 volte, Tg3 32 volte, Tg4 70 volte, Tg5 64 volte e Studio Aperto (record! Il tg tette&culi non delude mai) 197 volte.

Se ne deduce che durante la scorsa campagna elettorale le televisioni di proprietà del candidato Silvio Berlusconi hanno pompato sulla paura molto più delle altre (insieme al fedele Tg2). E’ un dato di fatto. Impaurito a dovere il paese, creato quel “clamore” che oggi si denuncia, si è passati all’incasso vincendo le elezioni e preparando il terreno per il razzismo applicato e la pulizia etnica di questi giorni. Ora la situazione è più complessa: lo statista Berlusconi deve dire (per forza!) che i reati sono calati, ma ricorre alla decretazione d’urgenza a causa del “clamore”.

In sostanza a causa della propaganda delle sue televisioni. Quanto alle ronde, si vorrebbe far credere che nascono per impedire la furia del popolo che vuole farsi giustizia da sé. In italiano tutto questo ha una sola definizione: la faccia come il culo. Resta da chiedersi, quando cominceremo noi a dire a questi ceffi: tolleranza zero? (Beh, buona giornata)

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Lavoro Leggi e diritto

Quello che succede quando si manda al governo la destra: “Atto autoritario e illegittimo del ministro Matteoli impedisce lo sciopero del 4 marzo del trasporto aereo.”

(riceviamo e pubblichiamo)

Atto autoritario ed illegittimo del Ministro Matteoli mpedisce lo sciopero del 4 marzo del trasporto aereo

Dichiarazione di Fabrizio Tomaselli
Coordinatore nazionale SdL intercategoriale

Il 4 marzo i dipendenti Alitalia volevano e potevano scioperare perché non sono minimamente
soddisfatti per come stanno andando le cose nella nuova azienda. Buste paga incomprensibili, orari di lavoro
lasciati alla più completa discrezionalità aziendale, migliaia di colleghi in cassa integrazione o fuori
dall’attività perché precari, tutti senza alcuna certezza di lavoro.

Il contratto di lavoro sottoscritto da sindacati “compiacenti” è del tutto simile a quello di una società lowcost
con pochissimi aerei, nessuna chiarezza nei criteri delle assunzioni, una pervicace ed insolente
indisponibilità a tener conto di qualsiasi elemento che possa migliorare le condizioni di lavoro, anche quando
ciò non comporterebbe alcun costo aggiuntivo per l’azienda, l’insistente ed evidente violazione della dignità
individuale e collettiva di migliaia di lavoratori: questo è ciò che misurano i dipendenti della “nuova” Alitalia.

Il Ministro Matteoli, dopo una inutile e formale incontro tra le parti avvenuto nella serata di ieri, ha
emanato una ordinanza che vieta lo sciopero. Non esisteva alcun rilievo della commissione di garanzia e
quindi lo sciopero era assolutamente regolare.
Nonostante ciò il Ministro, forse per anticipare il disegno di legge del suo Governo che vorrebbe
impedire quasi del tutto lo sciopero nei trasporti, ha compiuto un atto che consideriamo
gravissimo, dal punto di vista formale, giuridico e politico.

Impedire uno sciopero regolare vuol dire infatti schierarsi apertamente dalla parte delle aziende e non
tener in alcun conto il punto di vista del lavoratore.
Un diritto sancito dalla costituzione viene così subordinato al voler di un Ministro che lo vieta
attraverso una semplice ordinanza. Un diritto costituzionale viene messo in soffitta perché il Governo ha
deciso che esso non ha più valore.

Se questo è il livello di libertà e di democrazia nel nostro Paese, allora abbiamo probabilmente
più di qualche problema e l’intero popolo italiano dovrebbe cominciare a preoccuparsi
seriamente per il proprio futuro.(Beh, buona giornata).
Roma, 30 Marzo 2009

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Disoccupaaati? Tiè!

«L’assegno di disoccupazione proposto dal Pd? Non è sostenibile». Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Zagrebelsky: “Le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche.”

di Cesare Martinetti – «La Stampa»

L’ex presidente della Consulta Zagrebelsky prepara la Biennale di Torino. “Se non ci sono argini il potere è portato a espandersi e corrompersi”

In Italia c’è qualcosa che si può definire «disagio democratico»? Stiamo scivolando verso il populismo, la demagogia o l’oligarchia, come molti dicono? La crisi del Partito Democratico è una questione interna alla sinistra o investe l’intero quadro della democrazia? C’è materia sufficiente per rimettersi a ragionare sui principi. È quello che si propone di fare Biennale Democrazia che si svolgerà a Torino dal 22 al 26 aprile, alla quale Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista ed ex presidente della Consulta, sta lavorando con un gruppo di giuristi, filosofi e sociologi torinesi.

Professor Zagrebelsky, com’è nata e cos’è la Biennale?
«È nata dall’idea di Pietro Marcenaro di proseguire ciò che si fece con le “Lezioni Bobbio” nel 2004, una serie di incontri su grandi temi di etica pubblica e filosofia della politica che si svolse tra la primavera e l’autunno del 2004. Il successo fu straordinario, al di là delle previsioni».

Perché Biennale? E perché Democrazia?
«Perché si ripeterà ogni due anni e tratterà dei grandi temi della democrazia, a incominciare dalle sue “promesse non mantenute”, secondo la formula di Bobbio. Il tema è altamente “politico” ma le iniziative previste non saranno in alcun modo passerelle per “i politici”. Questa è una pre-condizione per evitare strumentalizzazioni e preservarne il carattere esclusivamente scientifico».

Ma il fatto stesso di porsi il problema dello stato della democrazia non è già prendere una posizione politica?
«La democrazia è un regime sempre problematico. È un insieme di diritti, regole e procedure che mirano a un ideale, l’autogoverno consapevole dei cittadini. È un ideale di convivenza da perseguire e nessuno mai potrà dire che esso è raggiunto definitivamente».

Un ideale sempre in bilico, dunque?
«Forze nemiche della democrazia sono sempre all’opera per il suo svuotamento. Per esempio, una condizione di successo della democrazia è l’uguaglianza delle posizioni. Ora le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche. La democrazia non è solo voto e elezioni. Voto e elezioni possono anche essere inganni, se non si nutrono di presupposti sostanziali».

Dunque, c’è un pericolo per la democrazia?
«In un certo senso, un pericolo c’è sempre. Con la conclusione della seconda guerra mondiale, la democrazia sembrava essere il regime politico acquisito per sempre. Oggi, questa fede ingenua in un movimento naturale della storia, come storia di emancipazione dei popoli dall’oppressione, non esiste. Tutto si è complicato, nulla è sicuro».

Ma lei crede che vi sia un «caso italiano»?
«Vi sono segni che non si possono non vedere. Toccano il modo di scegliere i rappresentanti e quindi la legittimità della sede principale della democrazia, il Parlamento. Il nostro sistema elettorale è così complesso che il cittadino elettore non ha la minima idea di come il suo voto viene poi “macinato” nella macchina elettorale, non sa nemmeno per chi vota, perché la scelta è fatta dai vertici dei partiti che detengono il monopolio delle candidature. Si conoscono solo le facce dei capi e queste facce trascinano i consensi per i loro adepti. E ci stupiamo se si parla di disagio democratico?».

Il disagio non è solo italiano, però.
«Certo, vi sono ragioni che vanno ben al di là. Per esempio, il fatto che la gran parte delle decisioni pubbliche presentano caratteristiche tecnico-scientifiche, fuori della competenza dei comuni cittadini. La potenza della tecnocrazia dipende da questo. Come coinvolgere i cittadini in modo consapevole – parlo di una questione ritornata d’attualità – nella politica dell’energia nucleare. La vita pubblica è sempre più determinata dalla scienza».
Come insegnano la vicenda Englaro e, in genere, le questioni bio-politiche.
«Certo. La tecno-crazia insidia la demo-crazia. Il destino sembra segnato da forze che si sono rese indipendenti, ineluttabili».

Ma questo non è sempre stato vero?
«Non nella misura odierna. Viviamo un’epoca in cui sembra che il corso degli eventi sociali non possa che essere così com’è. La politica ha perso in gran parte la sua funzione direttiva. Si risolve semplicemente nel correre dietro alle cose per tamponare le difficoltà, nei momenti di crisi. Sembra che il movimento sia imposto da fuori».

Da chi?
«Direi piuttosto: da che cosa? Da potenze immateriali che tutto muovono, che sembrano inesorabili. Per esempio, lo sviluppo, l’innovazione, il consumo: tre cose quantitative e non qualitative, che si legano e spingono tutte nella stessa direzione. Di fronte alla crisi dell’economia mondiale e alle sue conseguenze non si discute di alternative, che collochino sul terreno del possibile altri modi di vivere o di consumare».

È il pensiero unico?
«È un grave pericolo il non saper più guardare le cose da diversi lati, l’aver perso l’idea stessa di alternative. È cecità che riduce la politica alla gestione dell’esistente, magari nella direzione dell’abisso, senza nemmeno accorgersene. Se così è, a che cosa si riduce la partecipazione politica?».

Torniamo al nostro Paese. La crisi del partito democratico ha a che vedere con ciò che abbiamo chiamato disagio democratico?
«Direi di sì. Nessuna democrazia vive senza opposizione, senza qualcuno che, per l’appunto, sappia “guardare le cose dall’altra parte”. Oltretutto, senza una sponda, un limite, chi dispone del potere è portato a espandersi illimitatamente. Aggiungo: ma anche a corrompersi al suo interno. Senza opposizione, le forze dissolutici interne del potere non hanno ragione di trattenersi. È l’intero sistema che è in pericolo. Per questo, c’è da augurarsi che coloro che si sono assunti il compito di rimettere in piedi l’opposizione si rendano conto della responsabilità non solo verso un partito, ma verso la democrazia».

Diceva Bobbio: gli italiani sono democratici meno per convinzione che per assuefazione. L’assuefazione può facilmente portare a una crisi di astinenza e quindi a una ripresa delle energie democratiche ma anche a una crisi di rigetto. Ciò può spianare la strada a un regime?
«Forse solo favorirà la certa tendenza al rovesciamento della piramide democratica, alla concentrazione in alto del potere: il potere che scende dall’alto e produce consenso dal basso, lo schema della demagogia».

Sta succedendo in Italia, oggi?
«Poniamo mente alla concentrazione di potere economico, culturale (editoria, televisioni) e politico, i tre poteri su cui si fondano le società umane: concentrazione al loro interno e tra loro. Sono cadute le barriere. Chi parla ancora della necessità che il mondo dell’economia non sia oggetto di incursioni da parte della politica? Chi osa porre il problema dell’autonomia della comunicazione e della cultura? Quanti tra gli intellettuali si preoccupano dell’indipendenza dal potere economico e da quello politico? Quanti nel mondo della politica ritengono che sia un loro dovere occuparsi di politica, appunto, e non di banche, finanziamenti, posti in consigli di amministrazione? È venuta meno l’etica delle distinzioni. Il potere si accentra e procede dall’alto. Demagogia significa letteralmente: popolo che “è agito”, non “che agisce”».

Siamo già alla demagogia?
«Il pericolo è antico, anzi connaturato alla democrazia. Basta leggere Tucidide o Aristofane. Nulla di nuovo sotto il sole. Oggi, il pericolo è accresciuto da un certo modo d’intendere e organizzare il bipolarismo indotto dal sistema elettorale maggioritario, un modo che ingigantisce, fino al rischio della deflagrazione, la persona dei leader. Il culto del personaggio è certo una manifestazione di degrado democratico. Il presidenzialismo all’italiana potrebbe ridursi a questo».

Quali gli antidoti?
«Non vorrei sembrar tirar l’acqua al mio mulino, ma vorrei dire: difendere la Costituzione cercando di comprenderne i suoi contenuti, di cultura politica, di ethos civile, di promozione della partecipazione e dell’assunzione delle responsabilità. La Costituzione è nata in un certo momento storico a opera di certe forze politiche. Ma, se la raffrontiamo con gli esempi migliori del costituzionalismo mondiale, possiamo constatare facilmente ch’essa non sfigura affatto».

Perché?
«Al di là di tutto, degli interessi in gioco e del conflitto sociale, mi pare che ci sia una difficoltà maggiore, che allontana dalla politica e favorisce lo svuotamento della democrazia: la tirannia del tempo, cui tutti siamo drammaticamente sottoposti. Quando il tempo manca, perché non delegare a qualcuno la nostra esistenza?».

E che propone «Biennale Democrazia»?
«Propone una parentesi di cinque giorni nella routine di ogni giorno e chiede ai cittadini di riservarsi uno spicchio del loro tempo per dedicarlo a una riflessione comune sul nostro modo d’essere cittadini in una democrazia. Chiede di ribellarsi alla schiavitù del tempo che è nemica della libertà». (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Le bugie di un neocon.

di Stephen M. Walt* – «Foreign Policy»

Oggi mi è capitato di ripensare alle differenze tra due ex-funzionari del governo, e di come queste siano indicative per comprendere il perché gli Stati Uniti stiano attraversando un periodaccio.
Il primo funzionario è Eugene Kranz, il leggendario direttore di volo della NASA che il film Apollo 13 ha reso immortale.

Venerdì sera ho rivisto il film e sono rimasto colpito dalle sue notevoli capacità di coordinazione della squadra che ha improvvisato il salvataggio degli astronauti, dopo che un’esplosione mise fuori uso lo shuttle e spedì i piloti verso una morte quasi certa.
Molti lettori probabilmente ricorderanno la scena in cui Kranz dice ai suoi colleghi: “Il fallimento non è un’opzione”. Questa frase sarà pure apocrifa ma, quando studio la vasta gamma di problemi che stiamo affrontando a casa e all’estero, mi viene da pensare che ci vorrebbero più persone come Kranz in ruoli chiave del nostro governo.
Certo, so benissimo che stiamo parlando di un film, ma la recitazione di Ed Harris riesce a rendere fedelmente ciò che sappiamo del vero Kranz. In primo luogo, era un leader disposto ad assumersi piena responsabilità per le sue azioni. Ecco ciò che ha detto ai suoi colleghi in seguito al tragico incendio sulla piattaforma di lancio dell’Apollo 1, incidente in cui gli astronauti Gus Grissom, Ed White e Roger Chaffee hanno perso la vita:

«Il volo spaziale non tollera trascuratezza, incapacità o negligenza. Abbiamo sbagliato: in qualche modo, da qualche parte. Potrebbe essere stata una leggerezza nella progettazione, nella costruzione o nelle fasi di test. Qualsiasi cosa sia stata, l’avremmo dovuta individuare in tempo. Eravamo troppo concentrati sulla tempistica ed abbiamo tralasciato molti dei problemi che, quotidianamente, avevamo sotto i nostri nasi. Ogni elemento del progetto era nei guai, e noi con lui. Nessuno, tra noi, ha sbattuto il pugno sul tavolo ed ha detto: “Dannazione, fermatevi!”. La causa siamo noi! Non eravamo pronti! Non abbiamo fatto il nostro lavoro… d’ora in poi, la Direzione di Volo sarà conosciuta per due parole chiave: “Tenace” e “Competente”. “Tenace” significa che saremo per sempre responsabili per ciò che abbiamo fatto e per ciò che non siamo riusciti a fare. “Competente” significa che non daremo mai nulla per scontato. Appena abbiamo finito con questo incontro, voglio che andiate nei vostri uffici: la prima cosa che dovete fare è scrivere queste due parole sulla lavagna. Tenace e competente. Non cancellerete mai più. Ogni giorno, quando entrerete nelle vostre camere, queste parole vi ricorderanno il prezzo pagato da Grissom, White e Chaffee. Queste parole sono il prezzo che pagheremo per l’ammissione alla Direzione di Volo.»

È questo genere di mentalità che ci ha permesso di arrivare sulla Luna, costruire un’economia forte e, quando è stato necessario, vincere una guerra.
Ora, paragonate quella dichiarazione onesta e sincera con il comportamento di un altro ex-funzionario governativo: Richard Perle. In un articolo pubblicato di recente su «The National Interest» ed in un’apparizione pubblica al Nixon Center, Perle ha cercato di convincerci che né lui né i suoi compagni neocon hanno avuto alcun ruolo di rilievo della politica estera del governo Bush, specialmente sulla decisione di invadere l’Iraq. Entra nel vivo della questione, specificando che è “falso affermare che la rimozione di Saddam, ed in generale la linea politica di Bush, sia venuta o sia stata fortemente influenzata da ideologi neoconservatori”. Perle insinua che nessuno ha mai dimostrato la veridicità di questa influenza, sforzandosi di ignorare la valanga di libri ed articoli che testimoniano il contrario. Al massimo, quando lo ritiene necessario, Perle distorce il contenuto di questi ultimi.
L’Iraq è stato una sconfitta e gli Stati Uniti non riescono a liberarsene: non ci sorprende che Perle tenti di rinnegare il proprio operato. Ma, quando la guerra aveva un aspetto più promettente, dichiarava esattamente il contrario. In un intervista con il giornalista George Packer, riportata nel suo ultimo libro The Assassins’ Gate, Perle descrisse il ruolo chiave che i neoconservatori svolsero nell’architettare la futura guerra:

«Se Bush avesse riempito il suo governo di persone selezionate da Brent Scowcroft e Jim Baker, cosa che sarebbe potuta accadere, tutto sarebbe stato molto diverso. Avrebbero portato un bagaglio di idee differenti, rispetto a quelle che hanno guidato i membri dell’amministrazione Bush.»

Perle parlava di neocon di spicco come Douglas Feith, I. Lewis “Scooter” Libby, Paul Wolfowitz ed altri, che fin dalla fine degli anni ’90 chiedevano apertamente un cambiamento di regime in Iraq ed hanno fatto pesare il loro ruolo nel governo per scatenare una guerra in seguito all’11 settembre. Sono stati aiutati da pundit in sintonia con le loro idee, trincerati in strutture come l’American Enterprise Institute e il «Weekly Standard». È difficile immaginarsi una cabala segreta oppure una cospirazione neocon: esprimevano le loro idee nel modo più pubblico e chiassoso possibile. Nessun serio studioso può affermare che abbiano “ipnotizzato” o ingannato Bush e Cheney per convincerli a scatenare una guerra. Più che altro, molte fonti ci dimostrano come i neocon pressassero perché si facesse guerra fin dal 1998 ed hanno continuato sulla stessa linea dopo l’11 settembre. Come in seguito ha ammesso il pundit neoconservatore Robert Kagan, lui e i suoi compari hanno avuto successo anche perché avevano una “visione del mondo preconfezionata” che sembrava fornire una risposta alle sfide che gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare dopo l’11 settembre.
La morale di tutto questo è molto semplice: Richard Perle mente. Ciò che più inquieta non è stato lo sfacciato tentativo di falsificare la storia da parte di un ex funzionario del governo; Perle non è il primo legislatore a farlo e certamente non sarà l’ultimo. La vera fonte di preoccupazione è che Perle e gli altri neocon non hanno praticamente subito alcuna conseguenza per aver causato uno dei più grandi disastri della storia della politica estera americana. Se qualcuno può dare una mano a cucinare una guerra folle e rimanere un rispettato addetto ai lavori di Washington – esattamente come Perle – che rischi corre se, in seguito, può tranquillamente mentire?
Teniamo a mente qualche fatto. Perle e i suoi amichetti neocon hanno contribuito allo sviluppo e alla “vendita” di una linea politica che ha ucciso più di 4mila soldati statunitensi e ne ha ferito più di 30mila, è stata direttamente responsabile della morte di decine di migliaia di iracheni e costerà allo stato più di un trilione di dollari. E, al posto di avere l’integrità ed il coraggio per ammettere gli errori ed il suo ruolo in questa faccenda (come avrebbe fatto una persona onesta, ad esempio Gene Kranz), si occupa di spruzzare una nube d’inchiostro fatta di menzogne e prevaricazioni. Sebbene le sue affermazioni assurde siano state messe in discussione subito, e con ottime argomentazioni, qualcuno pensa sul serio che sarà costretto a pagare un prezzo maggiore per le sue azioni? Il «National Interest» ha colto al volo l’occasione per pubblicare le sue revisioni storiche e, senza dubbio, organizzazioni prestigiose come il Council on Foreign Relations saranno felici di dargli una platea per successive conferenze. Lo troverete su «Lehrer Newshour» e la CNN; cavolo, potrebbe addirittura finire su Fox News con una trasmissione tutta sua.
Dobbiamo riconoscerlo: il senso di responsabilità è evanescente a Washington, dove aver sbagliato implica non doversi mai scusare. Non è neanche necessario prendersi la responsabilità per gli errori passati, a prescindere dalla loro gravità. Alla fine dei giochi, il prezzo sarà sempre pagato con i soldi dei contribuenti e la vita dei soldati.
Come Frank Rich ed altri hanno ben compreso, oggi siamo nei guai perché abbiamo permesso che una cultura di disonestà e corruzione permeasse le nostre istituzioni ed il pubblico dibattito. Finché questo non cambierà, finché le nostre istituzioni non conterranno più Gene Kranz e meno bugiardi come Richard Perle, non sapremo che posizioni prendere, qual’è la nostra destinazione e chi è degno della nostra fiducia. Beh, buona giornata).

Articolo originale: Richard Perle is a Liar .
Traduzione per Megachip di Massimo Spiga

* Stephen M. Walt, l’autore di questo articolo, è professore di Relazioni Internazionali alla Harvard University.

Richard Perle (New York, 1941), detto ‘il Principe delle Tenebre’, fondatore del PNAC, è anche nel think tank neoconservatore American Enterprise Institute (AEI), un esperto dell’Institute for Advanced Strategic & Political Studies (IASPS), amministratore del Center for Security Policy, nonché della Foundation for the Defense of Democracies, del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA, collegato all’Hudson Institute), del Washington Institute for Near East Policy (WINEP), editorialista principale del «Jerusalem Post». Strettamente legato alla destra israeliana.

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Attualità Leggi e diritto

Stupro della Caffarella: presi i “mostri” sbagliati? Un altro grossolano errore sulla sicurezza? Possiamo dare l’addio definitivo alle “ronde”?

di Luca Lippera da ilmessaggero.it
ROMA (2 marzo) – Più dubbi – e quali dubbi – che altro. Il test del Dna sui romeni in carcere da dodici giorni per lo stupro della Caffarella ha dato risultati che potrebbero stravolgere l’inchiesta dalle fondamenta. Gli investigatori hanno chiesto una ripetizione degli esami dopo aver appreso i risultati ufficiosi delle prime analisi: i profili genetici dei due immigrati arrestati per la violenza non corrisponderebbero, con il grado di certezza richiesto dalle leggi, a quelli individuati sui vestiti, sul corpo e sugli organi sessuali della vittima. Un’equipe di biologi ha lavorato anche ieri, domenica, nel laboratorio della Criminalpol al Tuscolano, perché la pressione degli inquirenti è possente. È chiaro che tutta la vicenda sarebbe da riconsiderare se scarseggiassero i cosiddetti “punti di contatto” tra il Dna dei presunti mostri e i Dna individuati sulla ragazzina che ha denunciato l’aggressione.

I risultati ufficiali verranno consegnati tra oggi e domani al pubblico ministero Vincenzo Barba. Lo stupro di San Valentino, avvenuto a pochi giorni da quello di Guidonia, ha scosso la città. La cattura dei due romeni, Karol Racz, 36 anni, e Alexandru Isztoika, 19, sembrava aver tacitato ansie e paure. Almeno, hanno pensato in tanti, li hanno presi. Ma le incertezze che sembrano nascere dalle analisi non sono da niente: il Dna di Racz, il bassetto con la faccia da pugile, non avrebbe alcuna “somiglianza” con il profilo genetico individuato sui tamponi. Quello di Isztoika, secondo indiscrezioni, ha solo “alcune analogie” con le tracce di liquido seminale trovate sui vestiti della vittima. Insomma: i veri colpevoli, se tutto stesse così, potrebbero essere ancora liberi.
Ma c’è di più. I problemi nell’inchiesta non sembrano legati solo alla genetica e ai suoi misteri. Dalla Questura si fa sapere che i «due fidanzatini verranno risentiti per chiarire alcuni punti che restano oscuri». Quali siano le «ombre» per ora non è chiaro, perché la polizia, mai come questa volta, parla con il contagocce. Si percepiscono però diversi scricchiolii. Uno, il più insistente, riguarda i telefonini. Non quelli rubati (e mai ritrovati) ai fidanzatini della Caffarella, bensì quelli dei presunti stupratori. Gli apparecchi, all’ora della violenza sessuale, le sei e mezzo di pomeriggio del 14 gennaio, non erano agganciati ai ripetitori telefonici nella zona della Caffarella. Sembra che i cellulari di Racz e Isztoika fossero ognuno in zone diverse della città. Gli investigatori, che finora non hanno divulgato la notizia, hanno fatto notare come «non sia affatto detto che due rapinatori portino con sé i cellulari ogni volta che assaltano qualcuno». Ma i dubbi sul Dna, ovviamente, potrebbero far riconsiderare sotto una diversa luce anche questo “dettaglio”.

Isztoika, il “biondino”, e Racz sono tuttora in isolamento a Regina Coeli con l’accusa di stupro e rapina. Il primo, fermato nel pomeriggio di martedì 17 febbraio dagli agenti del commissariato Primavalle, confessò la notte successiva dopo un lungo interrogatorio nelle stanze della Squadra Mobile. Ma tre giorni dopo, sentito in carcere da Valerio Savio, giudice delle indagini preliminari, ritrattò tutto, sostenendo di aver subito in Questura «pressioni fortissime». C’era già, nella vicenda, un giallo che resta tale. La mattina della cattura di Isztoika una sua foto segnaletica era apparsa su un quotidiano gratuito. Gli agenti di Primavalle conoscevano il romeno perchè bazzicava la zona, ma dissero di aver saputo solo dal giornale che era ricercato. Misteri.
Racz è stato catturato a Livorno, su indicazione del presunto complice, la mattina di mercoledì 18 febbraio. Era in un campo nomadi. Disse subito: «Io non faccio queste cose». Non ha più cambiato versione. Ma gli agenti della Mobile di Roma, diretta da Vittorio Rizzi, avevano dalla loro elementi ritenuti «solidi e decisivi». La quindicenne vittima della violenza, dopo aver fornito una descrizione degli aggressori, dopo averne “ricostruito” i “fotokit” «con l’ausilio di una psicologa», dopo aver visto mazzi di foto segnaletiche, disse di aver riconosciuto il “biondino”. Cioè Alexandru Isztoika, ex pastore in Transilvania. Quattro zingari di Torrevecchia, giorni fa, si sono presentati in Questura offrendo un alibi a Racz. Ma il caso, dopo giorni di indagini frenetiche, veniva ormai ritenuto chiuso.

Ora tutto potrebbe complicarsi. La Questura invita alla «massima prudenza». «Cè un approfondimento sul Dna – ammette un funzionario – Ma aspettiamo a trarre conclusioni. Bisognerà vedere quanti sono i punti di contatto tra i profili del tampone e quelli degli indagati. Se ci sono discrepanze, quale “parte” del codice genetico riguardano? Una parte decisiva o irrilevante? Sono cose complesse. È chiaro che se i biologi accertassero diversità importanti, saremmo i primi a richiedere una mole di accertamenti in tutte le direzioni». A quel punto – chissà – potrebbe rispuntare l’ombra dell’uomo senza quattro dita. Se ne parlò, subito dopo lo stupro, come uno dei possibili autori della violenza. Non se ne scrisse sui giornali, anche se la vittima aveva accennato alla mutilazione, perché farlo avrebbe potuto aiutare un fuggiasco e configurare il reato di favoreggiamento. Poi il “monco”, così come era apparso, sparì. Tanto, dopo una lunga conferenza stampa in Questura, c’erano Isztoika e Racz, due romeni: i “mostri” che tutta Roma attendeva. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

L’Autodisciplina Pubblicitaria dice no alla censura di Atac di Roma contro la tv di Al Gore.

Siamo a un nuovo capitolo della bizzarra storia della censura “all’amatriciana”. Infatti, a quanto risulta a “Beh, buona giornata” l’Istituto per Autodiscipina della Pubblicità (IAP)avrebbe espresso un giudizio contrario alla censura che Atac di Roma ha applicato contro la campagna Vanguard di Current Tv. (vedi “Ricapitolando una bizzarra storia di censura “all’amatriciana, postato il 22.02 su “Beh, buona giornata)

Secondo IAP non ci sarebbero i requisiti per ritenere la campagna “inopportuna e offensiva della sensibilità dei cittadini romani”.

Allo IAP si era rivolta l’associazione dei Tecnici Pubblicitari (TP) per chiedere secondo quali criteri l’Atac di Roma poteva censurare una campagna pubblicitaria, senza neppure rivolgersi allo IAP. Per ora è una vittoria “morale” di Current Italia (il commitente della campagna censurata) e di Cookies ADV (l’agenzia di pubblicità che ha ideato la campagna).

In attesa si pronunci l’Autorità garante per e Comunicazioni (Agicom) , cui TP si è rivolta, rimane da capire come sia possibile che Atac, una azienda di interesse pubblico si sia potuta arrogare il diritto di operare una censura senza comprovati motivi. E da capire come sia possibile che per le fisime censorie del presidente di Atac, l’azienda dei trasporti pubblici sia stata privata delle somme copiscue del budget pubblicitario previsto da Current nel circuito delle affissioni di proprietà dell’azienda.

Forse anche il Campidoglio, che aveva prontamente spalleggiato la decisione del presidente di Atac dovrebbe spiegare ai cittadini romani come si fa, in tempo di crisi, a rinunciare a entrate di privati, che sarebbero andate a benificio delle casse di Atac, dunque degli utenti del servizio del trasporto pubblico nella Capitale.

Se la censura è stata un atto di superficialità nel valutare una campagna pubblicitaria, il procurato mancato introito pubblicitario appare un danno alla collettività.

Il che dimostrerebbe che le cose un po’ stupide alla fine si rivelano sempre molto dannose, non solo per l’intelligenza dei cittadini, ma anche per le casse pubbliche. Beh, buona giornata.

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