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Perché il Primo Maggio suscita disagio, sia a Destra che a Sinistra?

Primo maggio, dov’è la festa? di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

SI E’ APERTA una stagione senza feste civili. Dove i riti della memoria, che danno senso e identità alla nostra Repubblica, vengono guardati – e trattati – con insofferenza e indifferenza, da una parte del paese.
In particolare, dalla maggioranza politica di governo. Anzitutto il 25 Aprile, che il premier ha definito “Festa della Libertà”. Non della “Liberazione”. Quasi fosse una celebrazione del suo partito. D’altronde, ha sostenuto un amministratore del PdL, ci hanno liberato gli americani, non i partigiani, che erano comunisti.
Abbiamo motivo di credere, inoltre, che anche il prossimo 2 Giugno susciterà fastidio in alcuni settori del centrodestra, in particolare nella Lega. Che vede nel tricolore e nella nazione i simboli di un passato da superare. D’altronde, le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ormai prossime, non sembrano al centro dell’attenzione di questo governo. Anche perché parlare di Unità d’Italia, in un paese tanto diviso, appare un ossimoro.

Il Primo Maggio non si sottrae al clima del tempo. Al contrario. Non solo perché evoca le lotte del movimento operaio e sindacale. Una versione in grande della “Festa dell’Unità”, dove si canta “Bella Ciao” e sventolano le bandiere rosse. Il Primo Maggio disturba anche – e soprattutto – perché il lavoro e i lavoratori appaiono, ormai, entità inattuali. Si dovrebbe parlare, semmai, del “non lavoro”. Della disoccupazione reale e di quella implicita. Nascosta tra le pieghe dei lavoratori scoraggiati, che non risultano disoccupati solo perché, per realismo, non si “offrono” sul mercato del lavoro. E per questo non vengono calcolati nei “tassi di disoccupazione”. Ma anche dell’occupazione informale. E si dovrebbe parlare, ancora, degli imprenditori, piccoli e piccolissimi, che stentano a continuare la loro attività perché i clienti non li pagano, faticano ad accedere al credito. E non riescono a mantenere l’azienda e i dipendenti. Lavoratori e piccoli imprenditori “disperati”. Per fare parlare di sé, per essere “notiziabili”, devono darsi fuoco, sequestrare i dirigenti, appendersi alle gru. Oppure inventarsi
“l’Isola dei cassintegrati”, all’Asinara, recitando se stessi.

Lo abbiamo detto altre volte, ma vale la pena di ripetersi. C’è uno squilibrio violento fra la percezione sociale e la rappresentazione pubblica – mediatica – del lavoro e dei suoi problemi. La disoccupazione è ormai in testa alle preoccupazioni degli italiani, visto che 38% di essi la indica come l’emergenza più importante da affrontare (Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, Demos per Repubblica, novembre 2009). Eppure se ne parla poco, sui media. Soprattutto in tivù. Tra le notizie di prima serata del Tg1 monitorate dall’Osservatorio di Pavia (per la Fondazione Unipolis) nello scorso settembre, ai problemi legati al lavoro, alla disoccupazione, alla perdita dei risparmi era riservato il 7% sul totale delle notizie.

Per fare un confronto con le tivù pubbliche di altri paesi europei, nello stesso periodo, Ard (Germania) dedicava ai temi del lavoro e della disoccupazione il 21% delle notizie, Bbc One il 26%, France 2 il 41%. Eppure il tasso di disoccupazione in Italia continua a crescere e oggi ha raggiunto l’8,8% (dati Eurostat). Anche se il paese appare, anche in questo caso, diviso in due. Sotto il profilo territoriale: nel Sud il tasso di disoccupazione si avvicina al 20%. E sotto il profilo generazionale, visto che fra i giovani (15-24 anni) il tasso di disoccupazione sale al 28%. Il più alto d’Europa. Quasi 10 punti in più della media europea.

Ma i giovani, è noto, non esistono. Sospesi fra precarietà e dipendenza dalla famiglia. Protetti dai genitori, a cui affidano le chiavi del futuro (in cambio di quelle di casa). In modo assolutamente consapevole. Come emerge da una recente ricerca condotta da LaPolis dell’Università di Urbino per Coop Adriatica (che verrà presentata nei prossimi giorni). Una frazione minima di giovani (15-35 anni) pensa che, in futuro, riuscirà a raggiungere una posizione sociale migliore rispetto a quella dei genitori. Mentre il 56% pensa il contrario. Ancora: il 23% dei giovani è convinto che, per farsi strada nella vita, la risorsa migliore sia costituita dalla rete di relazioni e di “conoscenze familiari”. Quasi quanto l’istruzione, tradizionale fattore di mobilità sociale. E poco meno dell’esperienza di lavoro e studio in Italia e all’estero (26%). Inoltre, si sono abituati all’esperienza di lavoro temporaneo e intermittente. Ma non rassegnati. Molti di loro, anzi, inseguono il “posto fisso” (39%; ma tra i 15-17enni il 46%). Al tempo stesso si è raffreddato, fra loro, l’entusiasmo per il lavoro in proprio e la libera professione attira, oggi, il 25% di loro. Nell’insieme, il 49% dei giovani oggi si dice orientato verso un’attività autonoma o professionale. Circa 10 punti in meno di 4 anni fa.

Nello stesso periodo, parallelamente, è risalito l’interesse verso la grande impresa e il pubblico impiego. In altri termini, i giovani, sono flessibili “per forza”, non rassegnati alla precarietà. Sanno che li attende un futuro difficile. E per questo fanno affidamento alla famiglia. La considerano la risorsa mezzo per farsi strada nella vita. E, prima ancora, un rifugio e una protezione. Meccanismo fondamentale del welfare all’italiana. Pressoché ignorato dal sistema pubblico.
Così è più chiaro perché il Primo Maggio susciti disagio.

Nel centrodestra, dove è percepito, da molti, una festa comunista. Ma, anche altrove. Perfino a sinistra, dove molti la considerano un rito nostalgico. Dedicato a quando il lavoro era fonte di vita, riferimento dell’identità, motivo di orgoglio. Mentre oggi l’evento sindacale più significativo e partecipato, per celebrare il Primo Maggio, non è una manifestazione rivolta ai lavoratori. Ma il tradizionale concertone rock che si svolge in Piazza San Giovanni, a Roma. Affollata da una massa enorme di giovani. Per una volta, insieme. Per una volta, visibili. Normalmente isolati, intermittenti, frantumati, custoditi, controllati. Normalmente invisibili. Come il lavoro. (Beh, buona giornata).

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La crisi e gli italiani: e pensare che la pubblicità diceva che la vita comincia a 50 anni.

La crisi ha colpito anche le categorie di lavoratori che sembravano più garantite
Dal 1995 per la prima volta la crescita dei senza lavoro supera quella degli occupati
Maschio, sposato, di mezza età
Per l’Istat è il “nuovo disoccupato”
Dal Rapporto Annuale emerge anche una maggiore vulnerabilità degli immigrati
Un milione e mezzo di famiglie ha gravi difficoltà per il cibo, i vestiti e il riscaldamento
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

Aumentati nel 2008 i disoccupati maschi tra i 35 e i 54 anni

ROMA – Tra i 35 e i 54 anni, maschio, residente al Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, coniugato o convivente, ex titolare di un contratto a tempo indeterminato nell’industria. E’ il “nuovo disoccupato”, secondo la descrizione che ne fa il Rapporto Annuale dell’Istat. Perché la crisi non ha prodotto solo disoccupati ‘di lusso’ come i manager, non si è accanita solo sulle categorie da sempre in Italia ai margini del mercato del lavoro: i meridionali, i giovani, i precari, le donne. La novità della crisi è che a perdere il lavoro sono “i padri di famiglia”, le figure di riferimento, che magari portavano a casa stipendi mediocri, ma tali comunque da permettere ad altre persone (moglie, convivente, figli o altri parenti) di condurre un’esistenza dignitosa.

Più disoccupati anche tra gli stranieri. La crisi non ha risparmiato neanche gli stranieri, e anche in questo caso, i più colpiti sono stati gli uomini di età media: “L’andamento dell’ultimo anno – si legge nel Rapporto – segnala un forte calo delle donne disoccupate con responsabilità familiari, soprattutto di quelle con figli, arrivate a incidere non più del 70 per cento a fronte del 78 per cento di tre anni prima. Al contrario, gli effetti della crisi sembrano aver investito i loro coniugi/conviventi uomini, la cui incidenza è invece aumentata in maniera significativa, specie negli ultimi tre trimestri”.

Va peggio alla fascia 40-49 anni. Tanto che nel quarto trimestre del 2008 la quota dei disoccupati stranieri arriva a superare il 10 per cento del totale dei senza lavoro, contro il 6,1 per cento del primo trimestre del 2005. “In particolare – rileva l’Istat – gli stranieri tra i 40 e i 49 anni accusano più degli altri gli effetti della fase recessiva, e spiegano circa il 50 per cento dell’incremento della disoccupazione maschile”.

Il deterioramento del mercato. Dunque i due fenomeni sono collegati. I maschi adulti con carichi familiari, italiani o stranieri, sono diventati i più vulnerabili in una situazione di generale peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro: infatti nel 2008, per la prima volta dal 1995, la crescita degli occupati (183.000 unità) è inferiore a quella dei disoccupati (186.000 unità).

La disoccupazione si fa adulta. Perdono il lavoro i titolari di un contratto a termine, o atipico. Ma vengono licenziati anche i titolari di un contratto a tempo indeterminato ( 32 per cento nel 2008). In dettaglio, questa l’analisi dell’Istat: “Un disoccupato su quattro ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre l’aumento delle persone tra 35 e 54 anni spiega quasi i due terzi dell’incremento totale della disoccupazione. Si è passati nel tempo da una disoccupazione da inserimento, essenzialmente concentrata nei giovani con meno di 30 anni fino alla metà degli anni Novanta, a una sempre più adulta. Nel corso del 2008 questa tendenza ha accelerato”.

Più ‘padri’ atipici o precari. La crisi ha colpito di più le famiglie con figli, a loro volta vittime di un mercato del lavoro che più che mai li respinge (il tasso di occupazione dei ‘figli’, pari al 42,9 per cento, nel 2008 è sceso di sette decimi di punto rispetto al 2007). E allora, accanto alla disoccupazione dei ‘padri’, si registra un peggioramento del tipo di lavoro. “Tra il 2007 e il 2008 i padri con un’occupazione part time, a termine o con una collaborazione sono 17.000 in più; quelli con un’occupazione ‘standard’ 107.000 in meno”: cioè tra i tanti che vengono licenziati, qualcuno riesce a riciclarsi con un lavoro precario. Tra padri e figli, i più colpiti sono quelli meno istruiti, che al massimo hanno un diploma di scuola media superiore.

Le famiglie che non arrivano a fine mese. La diminuzione o il venir meno dei redditi da lavoro produce povertà. L’Istat individua circa un milione e 500.000 famiglie (il 6,3 per cento del totale) che arrivano alla fine del mese “con grande difficoltà” e che, nell’81,1 per cento dei casi, dichiarano di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 700 euro. In questo gruppo ci sono le famiglie indietro con il pagamento delle bollette, che non possono permettersi di riscaldare adeguatamente l’abitazione (45,8 per cento). Hanno difficoltà ad acquistare vestiti (62,9 per cento) o ad affrontare le spese per malattie (46,6 per cento). In genere le famiglie di questo gruppo contano su un unico percettore di reddito con un livello di istruzione non superiore alla licenza media, di età inferiore ai 45 anni. Ci sono poi 1,3 milioni di famiglie che hanno difficoltà leggermente inferiori, ma che spesso, a causa dei redditi bassi (nella maggior parte dei casi possono contare su un unico percettore di reddito che ha la licenza media inferiore), hanno difficoltà nei pagamenti, nell’acquisto di alimenti e vestiti, e anche nel riscaldamento della casa.

Le famiglie ‘agiate’ sono 10 milioni. All’altro estremo si collocano le famiglie agiate: 1,5 milioni che arrivano alla fine del mese “con facilità o con molta facilità”, 8,6 milioni che lamentano solo qualche difficoltà sporadica, “imputabile più allo stile di consumo che a vincoli di bilancio stringenti”. Abitano soprattutto al Nord, con una prevalenza di residenti in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta.

Le famiglie con difficoltà relative. Al centro si collocano le famiglie che non hanno difficoltà economiche eccessive, ma che non risparmiano (spesso si tratta di anziani); le famiglie giovani gravate da un mutuo per la casa, che assorbe una parte più che consistente del reddito disponibile; e infine le famiglie cosiddette ‘vulnerabili’. Si tratta di 2,5 milioni di famiglie, il 10,4 per cento del totale: sono a basso reddito, una parte ha una casa di proprietà, una parte vive in affitto. La loro vulnerabilità è data dal fatto che contano su un solo percettore di reddito, che nel 41,4 per cento dei casi ha preso soltanto la licenza elementare. (Beh, buona giornata).

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