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Attualità Società e costume

3DNews/I guardoni dell’orrore.

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di Stefano Corradino – da www.ilfattoquotidiano.it

Da alcuni giorni all’Isola del Giglio sono arrivate centinaia di persone. Chi sono? Giornalisti a caccia di notizie ed interviste? Psicologi ed assistenti sociali che vogliono dare sostegno ai familiari delle vittime? No, sono semplici cittadini che, per il weekend, sono arrivati in traghetto da Porto Santo Stefano per farsi immortalare dietro il relitto della Costa Concordia. Una bella foto-ricordo da incorniciare o da postare su facebook.

Si sono dovuti accontentare. Forse volevano avvicinarsi alla nave fino a toccarla o per scovare il brandello di un vestito o un portaocchiali riemerso dalle acque profonde e sfuggito alle ricerche. Cimeli da sventolare e poi mostrare con orgoglio in una personale bacheca degli orrori allestita sulla parete del salotto di casa.

Chissà se questi “turisti del macabro” sono gli stessi che, poco più di un anno fa, ad Avetrana sfilavano nei pressi dell’abitazione della famiglia Scazzi, e si mettevano in posa davanti al garage dove e’ stata uccisa la quindicenne Sara. O quelli che nel 2006 raggiungevano la villetta di Cogne, la riprendevano con il cellulare per poi spedire la foto con gli auguri di Pasqua. O i “pellegrini” che hanno circondato per mesi la villetta di Perugia, teatro del delitto di Meredith, magari alla ricerca di un oggetto, trascurato dagli inquirenti ma utilissimo per essere invitati in tv ad arricchire qualche plastico…Ancora una volta, in questo Paese ad affondare è anche il buon gusto.

Forse andrebbe introdotto uno specifico reato nel codice penale. O quantomeno una multa pesante per chi si fa ritrarre sorridente nel luogo di una tragedia. E nel frattempo cominciare a disertare (come ospiti e come telespettatori) la morbosità e la perversione di qualche delirante trasmissione tv dell’orrore. Parafrasando Battiato, nel Giglio affonda lo stivale dei maiali…(Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Dibattiti Società e costume

3DNews/Il naufragio della Costa Concordia è già un film.

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Di Pino Farinotti – da mymovies.it
…I nomi e i codici ci sono quasi tutti: per cominciare l’eroe (De Falco) e l’antieroe (Schettino). C’è il viaggio come metafora della vita, il coraggio e la paura, la responsabilità, il destino, la tragedia e il disastro, il popolo. Infine, il divo assoluto, lo spettacolo. Ci sono Conrad e Shakespeare, Spielberg e Cameron. L’Exodus e la Nave dei folli. Il Poseidon e il Titanic naturalmente. Cinema, letteratura, media e realtà. Più che mai un unicum.

IL CONCORDIA: TUTTI I SIMBOLI E TUTTE LE STORIE
La vicenda del Concordia è un assoluto, un precedente che sorpassa tutte le notizie e tutti i codici che i media riportano quotidianamente. Per cominciare, quella nave adagiata sul fianco davanti alla costa del Giglio è un’immagine, un’estetica che di fatto è già nella storia del secolo. Per analogia non è improprio richiamare le due torri, anche se la portata, naturalmente, non è la stessa. Il dato è che tutte le testate del mondo da giorni aprono col Concordia, poi la notizia scenderà negli spazi, ma se ne parlerà tanto e a lungo. Il grande naufragio ha sparigliato tutto, dando uno spazio, immane, possibilità infinite, ai programmi di approfondimento (voyeurismo) e affrancandoli dagli stucchevoli casi, aggrediti, dilaniati, degli ultimi anni. Melania, Sara, Yara, troveranno un po’ di pace.

Tutti
Dicevo dei codici, tutti. Per cominciare la grande metafora del naufragio del nostro Paese. Poi c’è il colossal che supera la fiction. Poi l’umanità tutta: quattromila storie, di cui molte finite, offriranno temi e servizi di tutti i generi. Visti e scritti.
E poi quell’incredibile comandante, leader istituzionale, “presidente del consiglio” della Nave, anche lui una sorta di metafora “politica” che viene scalzato dal capitano De Falco (governo tecnico) che prende in mano la situazione. Molti leggono nell’affair Concordia un avviso trascendente. Qualcun intravede un segnale verso l’Occidente decadente, e senza neppure il dirottamento di aerei. E poi, giorno dopo giorno arrivano altri particolari. Ma l’eroe, assoluto, è questo Schettino. In attesa che si faccia chiarezza, si possono comunque fare dei richiami, guardare alla Storia. Non esiste nella storia delle marine un pensiero e un’azione che possano essere avvicinate a questo comandante.

Tutte
Il mare offre tutte le possibilità di storie e di racconto. Può essere la materia nera semovente che accoglie e provoca tutte le tragedie. Battaglie, drammi, naufragi, come tante parziali fine del mondo. Ci sono stati comandanti eroi, altri vigliacchi, altri sfortunati, molti coraggiosi. Ogni comportamento era figlio delle leggi, estreme e mortali, del mare. Hans Langsdorff era il comandante della Admiral Graf Spee, la corazzata tascabile tedesca che affondò decine di navi alleate. Nel dicembre del ’39 fu costretta a ritirarsi nella baia di Rio della Plata, ormai braccata dalla marina inglese. Langsdorff ordinò l’autoaffondamento, abbandonò per ultimo la nave, si ritirò in una camera d’albergo, si avvolse nella bandiera della marina imperiale tedesca e si sparò. Le versioni sulla fine di Edward Smith, comandante del Titanic sono diverse. Fa testo quella del libro di Robert Ballard, ripresa dal colosso diretto da James Cameron: Smith salì sul ponte e attese che il mare si richiudesse sopra di lui.
La nostra Andrea Doria affondò sulla rotta verso New York nel luglio del ’56. Il comandante Piero Calamai, che aveva navigato in due guerre, davvero salvò il salvabile. Diede ordine ai suoi ufficiali, ultimi rimasti a bordo, di mettersi in salvo. Rimase solo sul ponte, deciso, come si dice, a dividere il destino con la sua nave. Alcuni ufficiali tornarono sulla nave ormai quasi sommersa e costrinsero, a forza, il comandante a mettersi in salvo. Sono tre episodi di mitologia vera che la memoria evoca di getto.

Cinema
La fiction, della carta e del cinema, oltre ad aver rappresentato comandanti esistiti, ha inventato personaggi ai quali il contesto del mare conferiva una grande potenza nel bene e nel male. In mare può arrivare un’onda anomala, il nemico, un errore, un ammutinamento, tutto può essere capovolto da un momento all’altro. Il mare può alimentare l’ossessione di una vita, come quella di Achab e della sua balena bianca. O quella di William Bligh, comandante del Bounty, nel film conTravor Howard, ottuso senza nobiltà, che “costringe” ufficiali e marinai ad ammutinarsi. O quella di Philip Francis Queeg (Bogart) malato e maniaco, e vigliacco, che a sua volta costringe gli ufficiali a destituirlo. E poi quel lord Jim (Peter O’Toole nel film tratto dal romanzo di Conrad) che abbandona, per paura, il suo Patna di cui è secondo ufficiale, ma per redimersi, passerà tutta la vita da un eroismo all’altro fino al sacrificio finale.

Questo Schettino, di fatto, è già entrato in quell’antologia del mare. A poco a poco i connotati saranno definiti. È stato fatto un esame tossicologico, è emersa questa hostess moldava, misteriosa di cui non si conosce il ruolo, o forse lo si conosce. C’è questo amico anziano marinaio che il comandante avrebbe omaggiato con un saluto passandogli davanti col Concordia. Siamo nel grottesco, soprattutto con una versione che vorrebbe Schettino assistere all’affondamento seduto su uno scoglio. Ecco, quest’ultima immagine è superiore persino a Cameron e Spielberg. Ci vuole l’animazione, ci vuole Walt Disney.

Media
E poi i media. Tutto il movimento è stato colto di sorpresa da questa realtà servita su un piatto d’oro. L’infotainment, l’informazione spettacolare, dunque per definizione diversa dalla realtà e dalla verità, è stato declassato. Non c’è bisogno. E gli opinionisti, i conduttori, gli esperti ospiti, sono a disagio, perché vengono tagliati fuori dai fatti, dall’overdose di documenti. Fatti e documenti che poi non lascerebbero spazio e scampo, scendono ora dopo ora, a cascata.
E poi, naturalmente, il processo. Il comandante troverà chi lo difende, nel tribunale mediatico. Perché a un’azione occorre sempre opporre una reazione, a una verità un’altra verità. Già qualcuno dice che Schettino, accortosi della deriva anomala, di cui non era responsabile, con una manovra abbia salvato quattromila vite. Il sociologo A, vorrà opporsi al collega B, dunque dovrà portare una tesi, essere creativo, e credibile. Poi ci sono i disobbedienti, gli amici di Caino, i guastatori.
Concludo con un incoraggiamento per la Costa Crociere: pensi ai diritti d’autore. Tutte le testate attingeranno a quel colosso reclinato, a quel marchio, per chissà quanto tempo. Mettiamola in chiave editoriale: milioni di copie vendute.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume Televisione

3DNews/L’informazione ai tempi della “Concordia”.

di Antonio Mango

Tra falsi, rubamazzetto televisivo e super-show da salotto. La Costa Concordia ha svelato il lato B dell’informazione nazionale. Ricapitoliamo: la nave affonda, il capitano se ne va, i passeggeri si arrangiano con le scialuppe, tra cuochi filippini, eroi di giornata e navigatori già sugli scogli. La tragedia si consuma in due ore, tra le 21.42 dell’inchino omicida e le 23.00 più o meno del si salvi chi può. Segue la notte fonda dei salvataggi à la carte. Il tutto tra furiose litigate telefoniche (capitaneria vs comandante), rivelate per fornire il solito quadro melodrammatico degli italiani felloni o eroi.

Il buono (captain De Falco), il brutto (captain Schettino), il cattivo (lo scoglio assassino). Di questo si è nutrita l’informazione nazionale nelle fatidiche giornate del naufragio, arrivando tardi e male sulla colossale notizia, recuperando la défaillance con scampati e parenti incazzati, il solito psichiatra, qualcuno in divisa. Pronta la classifica della bontà o della sciaguratezza, processo già fatto, ma senza uno straccio di verifica: lo scoglio c’era o non c’era sulle carte? Boh. I circa mille addetti di bordo hanno fatto il proprio dovere o no? Boh. Il cuoco filippino era vicino alla scialuppa per caso o era lì perché queste erano le regole di addestramento? E chi lo sa. Gli ufficiali di coperta quanti erano e dov’erano, visto che sono stati trattati da desaparecidos? C’è qualcuno che lo sa? E soprattutto che cosa si sono detti il comandante e Costa crociere? E’ buio, si potrebbe dire parafrasando Schettino.

Domande senza risposta in quei momenti. Invece, ecco il piatto forte dell’informazione naufragata. Una possente bufala che circola in rete a poche ore dal disastro: un video girato nel ristorante della Concordia al momento dell’impatto, con relativo ambaradan di piatti, bicchieri e tavoli che volano. Peccato si trattasse di un video ripreso su un’altra nave, la Pacific Sea Sun in crociera tempo fa in Nuova Zelanda. Tanto bastò. Abboccano all’amo i principali Tg dell’ora di pranzo di sabato 14 e alcuni quotidiani nazionali on line. Secondo loro e per alcune ore quella era la sala ristorante della Concordia. Su Twitter, invece, il falso viene smascherato (da chi professionista dell’informazione non è) e l’errore rapidamente rimosso dalle testate imbufalate.

Com’era immaginabile si gioca un’altra importante partita tra social network e media mainstream. Mentre le tv nazionali fanno spettacolo (preceduti nella notte dalle notizie in diretta di Bbc e Cnn) e i grandi giornali si incagliano sull’ora tarda di venerdì 13 (Repubblica e Corriere sabato mattina tengono la notizia bassa) la vera informazione circola su Twetter, dove grazie agli hashtag (esempio #giglio oppure #schettino oppure #concordia) si aggregano notizie, si sbugiardano falsi, si dà subito conto della dimensione emotiva del fatto. La “cura” dell’informazione dovrebbe essere appannaggio dei professionisti dell’informazione e, invece, succede (sempre più spesso) che questi rincorrono il tempo dei social, bevendosi qualsiasi cosa che sappia di notizia.

C’è poi il rubamazzetto. Youreporter.it riceve e mette in rete le immagini girate col telefonino da naufraghi incipienti a bordo della nave. Il video va a finire su un Tg nazionale, ma il logo di chi per primo l’ha pubblicato scompare. Stavolta su internet si va, non per verificare, ma per rubacchiare.

Guelfi e ghibellini non potevano mancare e il set, ai tempi della Concordia, diventa la rete. Su FB, ore 21.08, la sorella del maître annuncia: “Tra poco passerà vicina vicina la Concordia, un salutone al mio fratello”. Quaranta minuti dopo si scatena l’inferno. Con i morti, i dispersi e la verità ancora da accertare va in scena la diatriba colpevolisti (quasi tutti) – innocentisti (amici di Meta di Sorrento, riuniti su Twetter #a sostegno di francesco schettino).

Il blob dell’informazione nazionale non poteva che trovare il suo acme nella tre-giorni vespiana con naufraghi rivestiti e truccati a dovere per il salotto, un ufficiale (medico) che non riesce a dire la sua, l’onnipresente psichiatra col maglioncino colorato e un compiaciuto e malinconico sorriso del conduttore per l’immagine clou della serata: la gemella Costa Serena, che passa accanto al Giglio e al relitto della Concordia. La vita continua. E pure le notizie-salotto di Vespa. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Marketing Media e tecnologia Società e costume

3DNews/Il naufragio dei simboli.

di MARCO FERRI

Quella nave abbandonata come la testa della Statua della Libertà in “Il pianeta delle scimmie”, simbolo della disfatta del genere umano: la Costa Concordia passerà alla storia perché, invece che di passeggeri” è sembrata piena di simboli.
A cominciare dal nome (Concordia), per proseguire dal motivo (l’inchino, cioè il saluto ravvicinato alla costa), dalla causa (lo scoglio di cemento), eccola la dozzinale rappresentazione dell’eterna lotta del bene contro il male: De Falco versus Schettino, cioè il senso del dovere contro la condotta irresponsabile.

Eppoi la riscoperta del radiodramma: la telefonata tra i due, un pezzo di altissima recitazione, come non se ne sente più da un pezzo via radio. Infine, non poteva mancare il paese natale di Schettino che si stringe attorno al suo concittadino, sbattuto in prima pagina come il mostro, già condannato dal tribunale speciale dei media, come sempre affamati di tragedie, di colpevoli, di vittime e di eroi.

Ci mancherebbe solo Vespa, che magari, invece di un plastico, sguazza dentro un acquario. E non è detto che non succeda pure questo.

Una nave da crociera piena di simboli, evocati da ogni parte: il mito del coraggio contro la codardia, come panacea per uscire dalla crisi politico-economica che attanaglia sempre più profondamente l’Italia. E quei disgraziati morti affogati, come fossero semplicemente i cadaveri di un episodio trasmesso da Fox Crime. No, non erano persone, ma consumatori di un centro commerciale galleggiante: le loro storie non interessano ai media. Potrebbero rovinare il marketing delle vacanze in crociera? Molto meglio, allora, continuare a ricamare sul codardo sbugiardato dagli eroi. Nuovi ammutinati del Bounty, novelli Capitani coraggiosi, in odor di Master&Commander.

Eppure, il fascino perverso dell’immagine della nave piegata su un fianco, alla deriva sugli scogli dell’isola del Giglio è contagioso proprio per via dei simboli che con lei sono naufragati e che sono poi stati soccorsi dai commentatori: dalle acque basse vengono, così, ripescati stereotipi dell’italico spirito nazionale. Reduci dalle celebrazioni del 150 esimo dell’Unità d’Italia, i soccorritori vengono descritti come personaggi di un nuova stesura del Libro Cuore.
Non ci sarebbe niente di male. Magari se la meritano un poco di attenzione, quegli uomini e donne che di mestiere salvano la vita agli altri. Soprattutto se lo meritano gli uomini di mare, a cui si voleva, non più tari di qualche mese fa, addirittura vietare di soccorrere le barche fradice di migranti alla deriva.

Se non fosse, invece, che la realtà di quanto è successo è molto più banale, dunque più tragica: un uomo commette un terribile errore, che costa vite umane, e per questo perde la testa, e continua a fare errori, primo fra tutti l’abbandono delle sue responsabilità. Banale e tragico, ma umanissimo.

Sarebbe meglio pensare a questo, prima di emettere giudizi capitali che spetterebbero all’inchiesta e a chi delle indagini prima e della sentenza poi è incaricato. E invece che facili riletture di Cuore, potrebbe essere utile interrogarsi sull’essere umano e disumano degli uomini. E spegnendo la tv, chiudendo il giornale e arrestando il sistema del pc, aprire e rileggere, per esempio, “Uomini e no” di Vittorini. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Potere Società e costume

3DNews/Il naufragio italiano, l’illuminante metafora del Concordia.

di Beppe Grillo

Costa Concordia è la metafora dell’Italia. Una balena arenata sugli scogli. Il capitano prima ha causato il problema, poi lo ha negato e poi è scappato. Come Piè Veloce Berlusconi. Il capitano pretendeva di dare istruzioni dalla spiaggia, con i piedi all’asciutto, mentre i suoi secondi erano rimasti a bordo .

Esattamente come i partiti con il governo Monti. La nave ha un nome italiano, ma il proprietario è americano… come il nostro Paese. Il padrone americano si chiama Carnival, come la gestione della nostra finanza pubblica. L’equipaggio era formato da extracomunitari sottopagati, belìn, proprio come quelli che lavorano in Italia. Il titolo di Carnival è sprofondato in Borsa, come i nostri titoli pubblici. Per salvare il salvabile il personale di bordo si è ammutinato mentre la nave si inclinava sul fianco.

Ecco, questo non è ancora successo sulla terraferma. Sulla Concordia l’equipaggio ha potuto ribellarsi soltanto perché non era presente la forza pubblica a manganellare agli ordini del comandante, come in Val di Susa. Il nome Concordia si riferisce all’unità fra le nazioni europee. I suoi tredici ponti hanno infatti nomi di Stati europei, tra cui Grecia, Italia, Gran Bretagna, Portogallo, Francia, Germania, un viatico mentre l’euro sta deflagrando e i tedeschi si farebbero tagliare un braccio piuttosto che finanziare Italia e Grecia. L’allarme è stato dato in ritardo, a imbarcazione rovesciata. Uguale-uguale alla catastrofe economica italiana, a Tremorti e alla “crisi dietro alle nostre spalle”.

I soccorsi sono arrivati da imbarcazioni private. Le scialuppe erano insufficienti, i giubbotti di salvataggio erano contesi tra i passeggeri e i pontili in preda al caos. Sembra un’ordinaria giornata italiana. Il disastro non è avvenuto per cause naturali, ma per disattenzione. Una regola per l’Italia. La Concordia è affondata per essersi avvicinata all’isola per “fare un omaggio” con la sirena spiegata a amici e autorità del Giglio a loro insaputa. Come per Scajola e Malinconico!

All’inaugurazione la bottiglia di champagne lanciata contro la fiancata rimbalzò, il disastro è avvenuto di venerdì 13. Se fossimo superstiziosi ci daremmo alla fuga. (Beh, buona giornata)

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libertà, informazione, pluralismo, Media e tecnologia Politica Pubblicità e mass media Società e costume

3DNews/Il direttore del TGUno? Facciamo un concorso pubblico.

di Giulio Gargia *

Chi sarà il prossimo direttore del TG1? Move On lancia un’idea : candidare un giornalista straniero che conosca bene l’Italia. Unica garanzia di un prodotto giornalistico quanto più lontano possibile dalle logiche attuali di fattura dei TG. Il nome ? Wolfgang Achtner, da molti anni in Italia come corrispondente di numerose testate fra cui ABC News, Cnn e Press tv, autore di testi sul giornalismo televisivo, titolare di corsi universitari e di corsi di formazione per videogiornalisti e sulla comunicazione televisiva per il Gruppo Espresso.

Achtner ha scritto una lettera a Garimberti in cui chiede di decidere il direttore del TG1 con un bando pubblico per titoli. E presenta i suoi, candidandosi. La missiva è stata resa pubblica l’11 gennaio, con una conferenza nella sede della Stampa Estera a Roma . Dice il giornalista a Garimberti : “ Ho le carte in regola perchè sono indipendente politicamente, ho una carriera prestigiosa con esperienze nei più grandi network mondiali, come ABC, CNN e Press Tv e una notevole esperienza nel campo della formazione.

Nel momento in cui un nuovo governo è al lavoro per salvare il Paese – afferma Achtner – sono convinto che un buon esito dipenda da una consapevole partecipazione dei cittadini italiani e questo richiede una buona informazione, in particolar modo televisiva, che attualmente non c`è.

In base alla mia consolidata esperienza internazionale in campo televisivo, posso assicurare che, salvo rarissime eccezioni, quello che passa per informazione televisiva in Italia è pura propaganda politica. La funzione dei TG è soprattutto quella di portare nelle case le facce dei politici a ora di cena. Per non parlare del fatto che i servizi dei TG sono ancora una specie di “radio illustrata” , poco attenti allo specifico del linguaggio televisivo che si è così evoluto. Ecco, queste cose mi piacerebbe poterle applicare- continua Achtner – le prime cose che farei? Abolizione del pastone politico, niente editoriali, reintegrare gli emarginati da Minzolini, più servizi sugli esteri e meno sfilate di cani”

Poi Marco Quaranta, di Move On, ricorda il motivo dell’iniziativa : che il servizio pubblico deve operare in condizioni di indipendenza editoriale mentre ci siamo abituati all’idea che la RAI sia lottizzata. Mentre questo è il momento di tornare ai principi che muovono qualsiasi etica dell’informazione, soprattutto perchè bisogna ricordare che c’è un legame indissolubile tra democrazia e buona informazione. E tuttora oltre il 60% degli italiani hanno i TG come unica fonte d’informazione, su cui fondano le loro scelte di tutti i giorni . Compresa quella del voto. Perciò, spiega anche Gianfranco Mascia, questa è solo la prima candidatura, si tratta di riaffermare un principio, il direttore lo fa chi ha più titoli per farlo. Quindi, lanceremo altre candidature, già il 23 gennaio prossimo. E c’impegniamo a rilanciare anche il problema complessivo della governance della RAI, di come viene eletto il CdA. Su quello ripartiremo dalla proposta di Tana de Zulueta elaborata insieme a tante associazioni, che è pronta ed è stata depositata in Parlamento di nuovo già in questa legislatura da Beppe Giulietti.

Alla fine spunta anche un’ ultima idea: fare quanto prima un confronto tra un TG Uno e un nostro TG . Con Achtner mettere sul sito una “ versione alternativa” delle notizie di quel giorno. Per far vedere la differenza che un TG1 Rai rinato potrebbe marcare. Per diventare un punto di attrazione per i migliori, quelli che oggi vengono esclusi per fare posto a persone scelte sulle base della loro affiliazione politica invece che delle loro capacità. (Beh, buona giornata).

* direttore di 3D, inserto settimanale del quotidiano TERRA

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apps e social network Attualità Media e tecnologia Movimenti politici e sociali Società e costume web

3DNews/Il Copyleft ? In Svezia è una religione, il Copimismo.

Che la pratica di scaricare film e musica illegalmente abbia molti adepti non è una novità, ma in Svezia è diventata una vera e propria religione riconosciuta: il Copimismo è stato infatti ufficialmente registrato dopo una battaglia durata due anni.

Per la Chiesa del Copimismo, si legge nel sito ufficiale, «l’informazione è santa, e copiarla è un sacramento centrale per l’organizzazione e i suoi membri». «Essere riconosciuti dallo stato svedese – si legge ancora – è un passo verso il giorno in cui potremo vivere la nostra fede senza la paura di persecuzioni». L’idea di formalizzare in un vero e proprio culto una pratica piuttosto diffusa è venuta a Isak Gerson, uno studente di filosofia.

Tra i simboli sacri della neonata chiesa ci sono i tasti Ctrl C e Ctrl V, e il ‘culto’ non richiede un ‘battesimo’ formale: «Basta sentire l’atto del copiare e condividere le informazioni come una chiamata sacra – si legge ancora sul sito – per farlo noi organizziamo dei ‘copyacting’, dei servizi religiosi in cui i copimisti condividono le informazioni con gli altri». Il sito si chiude con quello che è il primo comandamento della ‘Chiesa copimista’: «Copia e semina». (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Buon Anno che verrà.

Un cordiale augurio di Buon Anno alle lettrici e ai lettori. Beh, buona giornata.

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Attualità Cultura Fumetti. Media e tecnologia Società e costume

3DNews/ Occupy Wall Street diventa un fumetto.

Usa, autori e disegnatori partecipano a un svolta radicale nel mondo del fumetto
E Batman disse : ora voglio pagare più tasse
“ Occupy Comics ” prova a cambiare in senso sociale le storie dei supereroi
di Giulio Gargia

Occupy Wall Street diventa un fumetto. Ma non solo perchè, come scriviamo negli altri pezzi, autori e disegnatori ne racconteranno gli sviluppi in strisce e baloons.
Ma soprattutto perchè, in maniera ancor più radicale, porta la sua carica di cambiamento all’interno stesso del mondo produttivo del fumetto e diventa Occupy Comics.
Ovverossia un movimento che chiede che cambino gli atteggiamenti e le azioni delle sue creature, quegli eroi del fumetto popolare che influenzano anche tanto il cinema.

Si comincia con Anjin Anhut, il cui “ Occupare Gotham “ ( nella foto in copertina ) mostra
un Batman in costume ma a volto scoperto, quindi riconosciamo il viso del miliardario Bruce Wayne che chiede di essere tassato di più . La Anhut si è ispirata alle dichiarazioni di Warren Buffet, uno dei uomini più ricchi del mondo, che ricordava che il sistema fiscale degli USA permette che la sua segretaria paghi in proporzione più tasse di lui. “ Allora – scrive a Wired – ho pensato di usare Wayne perchè è un uomo ricco che si pone problemi di etica collettiva . Qualcuno in cui quell’1% che contestiamo si possa identificare per chiedersi cosa farebbe Batman in questi casi ? I personaggi dei comics hanno solitamente affrontato i problemi del loro tempo e dato l’esempio,

Le loro storie più forti sono quelli in cui si riflettono i problemi sociali ”.
Ma non è solo una provocazione artistica, quella della Ahut . Uno dei nuovi disegnatori del Batman ufficiale, Scott Snyder già sembra essere su questa strada, tanto che in alcune scene dei nuovi albi fa promettere a Wayne di combattere il capitalismo rapace, ormai totalmente scollegato dalla realtà di Main Street, che negli Usa è l’equivalente del nostro “ la gente “.
“Occupare i Comics è un operazione radicale” dice Matt Pizzolo, fondatore della
casa di distribuzione multimediali indipendente Halo-8 . “ E’ un protesta artistica che riguarda innanzitutto i territori della mente, dove ci sono grandi temi da sviluppare . Non dobbiamo usare vecchi schemi, questa è un’operazione che rompe i paradigmi di destra e sinistra.
Il progetto Occupare Comics prende il via con l’immagine creata da Anna Muckcracker, ed era
originariamente pensato per illustrare all’opinione pubblica al movimento Occupare Wall Street.

Ma poi con l’esclation delle proteste, la brutale repressione della polizia e le adesioni di autori sempre più prestigiosi si è ampliato anche dentro il mondo dei comics.
“Penso che sia un movimento di spazi fisici e spazi astratti, come i fumetti. Quindi la sua cultura può iniziare a occupare spazi mentali condivisi così come le città” immagina Pizzolo. L’occupazione deve essere la più pervasiva e coinvolgente possibile. E’ un modello adatto ai fumetti, in cui i supereroi diventano spesso simboli per il cambiamento sociale.
Così nella nuova serie di Superman di Grant Morrison tanto il giornalista Clark Kent quanto il suo alter ego supereroe trascorrono la maggior parte del loro tempo a combattere l’ingiustizia dopo ingiustizia.

“Quello che sto cercando di fare con Action Comics è forse provocatorio,” ha detto Morrison, quando è uscita Supergods, la sua storia autobiografica culturale del fumetto. “Perché io sto reinterpretando la figura originale di Superman come un campione degli oppressi, e non necessariamente come un tizio che si occupa solo di ordine pubblico o di difendere la patria.” (Beh, buona giornata).

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Cultura Fumetti. Movimenti politici e sociali Società e costume

3DNews/Da Zuccotti Park a Metropolis, la rivolta degli autori contagia l’industria dei baloons.

Dev’essere stata la reazione alla presa di posizione di Frank Miller, l’autore di “ Sin City” e di “300 ” che si è scagliato contro i manifestanti di Occupy Wall Street che, a suo dire, stanno snaturando la parola stessa “occupazione” brandendo i simboli della globalizzazione (iPad e iPhone) in un contesto dove, secondo l’autore, sono assolutamente fuori luogo. Miller ingiunge loro di “svegliarsi”, perché l’America è ancora in pericolo (scagliandosi anche contro l’islamismo ed Al-Qaida) .

La violenza con la quale si rivolge agli occupanti è inconsueta: li definisce spazzatura. Pagliacci. Deficienti. E poi invoca: «Nel nome della decenza, tornate a casa dai vostri genitori, perdenti. Tornate nel seminterrato di mamma e giocate con il vostro Lords of Warcraft ». Chi sa se nella reazione del’autore c’è anche un pizzico di turbamento nel vedere che l’immagine più diffusa nelle piazze che protestano è quella di V, il personaggio creato da Alan Moore e disegnato da David Lloyd, oggi trasformato in simbolo dai movimenti Occupy. Una icona che ha cominciato anch’essa a trasformarsi, pur partendo sempre dall’originale. I manifestanti hanno iniziato a sbizzarrirsi, esponendo segni di riconoscimento di ogni forma.

L’ultima trovata è una bandana, disegnata da Matthew Borgatti, che può essere indossata sia per coprire il volto a metà, sia integralmente, riuscendo comunque a mettere in evidenza il disegno della maschera di Guy Fawkes. ( il personaggio storico a cui si è ispirato il fumetto di Moore e Lloyd ). “Voglio che la gente sia in grado di protestare con Occupy Wall Street senza il rischio di essere colpita per aver mostrato solidarietà.” dice Borgatti.

Comunque sia, gli autori di V sono ora entrati nel gruppo di Occupy Comics, movimento nato dagli eventi di Zuccotti Park. Occupy Comics prova a portare lo spirito di quella ribellione nell’industria del fumetto ufficiale. E’ un gruppo composto da oltre cinquanta artisti/fumettisti che hanno due compiti specifici: impegnarsi a raccogliere fondi per sostenere il movimento Occupy e realizzare un’antologia a fumetti (anche in formato digitale) con storie ispirate dal movimento. Ma la vera novità sta nell’ulteriore missione che gli aderenti si sono dati : influire e cambiare le azioni delle star del fumetto. Perciò , ecco Batman che chiede di pagare le tasse e Superman che combatte l’ingiustizia sociale. Un vento che soffia anche nei cartoons, tant’è che perfino Bart Simpson, nella versione originale della tredicesima puntata dell’ottava serie dei Simpson, esplode e dice : «Every day is Guy Fawkes Day!». (Beh, buona giornata).

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Dibattiti Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume Televisione

3DNews/Auditel, un metro inattendibile che affossa la qualità.

La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti

“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “

di Roberta Gisotti

Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.

Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.

Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.

Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.

Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),

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Società e costume Televisione

3DNews/Telesaudade * – Il catalogo degli orrori

un sms di Ugo G. Caruso

Un’antisegnalazione ? “ L’Atlante illustrato della televisione 1988-1994 ” di M. Coppola e A. Piccinini, edito da Isbn. Un vero catalogo degli orrori che documenta i programmi e i divi eponimi dei “favolosi”, eccessivi, disimpegnati, cafoni anni ’80. Ultima tranche della cosiddetta Prima Repubblica in cui la tv pubblica inseguì quella privata in un’ignobile gara all’insegna della volgarità, stupidaggine, melensaggine, conformismo. Una lunga stagione tutt’altro che conclusa che fu specchio ma pure causa del tracollo antropologico-culturale del paese. Commentata da due curatori ( autori in passato di cose invero più pregevoli ) con la finta neutralità dello studioso, l’operazione tradisce invece una qualche benevola empatia a suo tempo in voga tra certa gauche, colpevole di civetteria intellettuale, un pò per snobismo, un pò per convenienza modaiola, sempre ipocritamente mimetizzata, s’intende, dietro la foglia di fico dell’estetica del trash. Dunque solo affettuosi buffetti e innocua ironia laddove ci stava bene una bella scudisciata. Stampato su carta scadente in tono con l’argomento.

* Telesaudade : movimento intellettuale per la conservazione e il recupero della vecchia TV in bianco e nero – ndr

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Animali business Cultura Musica Società e costume

3DNews/L’Europa è alle corde. Di budello.

di Riccardo Palmieri

Ma cosa c’entra la “sindrome della mucca pazza” con la produzione di chitarre ? E soprattutto perchè una disposizione europea fa chiudere un settore artigianale pregiatissimo come quello di chi fabbrica corde armoniche in budello naturale ? Sono queste le prime domande che vengono in mente quando si legge, in un comunicato stampa, che poco più di 15 giorni fa uno dei cinque ultimi cordai al mondo in grado di fabbricare, applicando una tecnica millenaria, le tradizionali corde in budello naturale, Mimmo Peluffo, ha ufficialmente annunciato la chiusura della sua produzione, dichiarando : “ In tutta onestà, non sono più in grado di offrire ai musicisti un prodotto adatto alla musica ”.

Il motivo sta nel provvedimento di legge che vieta l’utilizzo del budello bovino nei laboratori artigianali. Questa misura dovrebbe proteggere gli umani dal contagio del morbo detto “della mucca pazza”.
Ora, ci saranno sicuramente degli ottimi motivi sanitari per tutto ciò.

Il principale è tutelare i cittadini dal rischio di contrarre la sindrome da BSE (encefalopatia spongiforme), morbo che ebbe una fiammata mediatica negli anni ’90, con gran fracasso televisivo, ma per fortuna non più di una ventina di vittime. Da molti anni, non se ne sente più parlare, anche perchè i media si sono dedicati a malattie più recenti, come l’aviaria ( anche qui, per fortuna, molto rumore per nulla ).

Solo che l’effetto collaterale è l’estinzione quasi totale di un settore artigianale che pure era rinato dopo la crisi dovuta all’introduzione delle corde in metallo. “ Già negli anni 50, con la cosiddetta rinascita della Musica Antica, eseguita su strumenti originali con montature storiche in budello, la produzione di corde è cresciuta fortemente, tanto da aver creato in tutta Europa le premesse per la rinascita di un fiorente mercato. Dal dopoguerra ad oggi i maestri cordai italiani hanno fatto più degli altri ricerca e sperimentazione, tanto che oggi siamo nuovamente di fronte ad un prodotto d´eccellenza, sempre più apprezzato in Europa e con un elevato grado di esportazione anche nei paesi extraeuropei “.

Ora invece dopo l´annuncio della cessata produzione in budello della ditta Aquila Corde Armoniche Srl, ci troviamo di fronte alla desolante situazione per cui è rimasto un unico maestro cordaio attivo (maestro Pietro Toro, Eurostylgut snc di Salle – PE) in tutto il Paese.
Da qui l’urgenza dell’appello a Monti e la petizione per aiutare la rinascita di questo spicchio di artigianato ad altissimo valore aggiunto.

Con una considerazione che viene naturale: ma se invece di dedicarsi cosi’ tanto ai dettagli della “serosa bovina”, i gran commis dell’Europa si fossero occupati un pò più dell’euro, non staremmo meglio tutti ? Noi, loro, i cordai e le mucche.

Ma come uscirne adesso ? Nella petizione si chiede :
1) Una deroga urgente alla legge attualmente in vigore (Decreto 16 Ottobre 2003: ‘Ministero della salute: Misure sanitarie di protezione contro le encefalopatie spongiformi trasmissibili’, GU n° 289 del 13 Dicembre 2003) che consenta di tamponare l´emergenza, legalizzando l´importazione della serosa vaccina da stati EU o Extraeuropei, in particolare Brasile, Gran Bretagna, Irlanda (come già indicato nel Regolamento CE 1069/2009 21 Ottobre, alla sez. 3, DEROGHE, art. 17: “ (…) in deroga agli articoli 12, 13 e 14 l´autorità competente può consentire l´uso di sottoprodotti di origine animale e di prodotti derivati in esposizioni, attività artistiche (…) nel rispetto di condizioni idonee a garantire il controllo dei rischi (…)”;

2) Un provvedimento che consenta ai produttori italiani di utilizzare serosa bovina di provenienza italiana (su modello di quello emesso dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali in data 8 Maggio 2009);

3) L´appoggio, sia a livello nazionale che in sede europea e internazionale (UNESCO), del riconoscimento dell´ARTE CORDAIA come patrimonio dell´umanità, in quanto garante della sopravvivenza dell´arte della Musica nella sua consequenzialità storica.

L’arte cordaia potrà vivere e continuare a servire la grande musica, solo se sarà dichiarata patrimonio dell’umanità.

Non lasciamo morire l'arte dei cordai.
E questo chiediamo, con le seguenti petizione online che si possono firmare a questi link :
Petizione Governo Italiano / Italian Government petition http://www.petizionionline.it/petizione/ita-richiesta-provvedimenti-urgenti-a-tutela-dell-arte-cordaia-a-indirizzo-musicale/5598
Petizione Unione Europea / European Union petition http://www.petizionionline.it/petizione/eur-richiesta-provvedimenti-urgenti-a-tutela-dell-arte-cordaia-a-indirizzo-musicale-request-for-urgent-measures-to-protect-the-art-of-stringmaking-for-musical-use/5599V

foto di Alfonso Toscano – da www.alfonsotoscano.it

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Censis: Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità.

l 45° Rapporto disegna un’Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità. Gli obiettivi: tornare “al nostro scheletro contadino”, riscoprendo l’economia reale al posto dei giochi finanziari, e l’onestà: l’81% condanna l’evasione fiscale, il 59% chiede a chi governa comportamenti specchiati in pubblico e nel privato
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

E’ stato più di un anno orribile: la cifra di quanto l’Italia sia ormai un Paese fragile, isolato, privo della solida reputazione che ha avuto per secoli, prima ancora di giocare un ruolo politico nello scacchiere internazionale, l’ha data forse quello sguardo di scherno passato dal presidente francese Sarkozy alla cancelliera tedesca Merkel, in conferenza stampa a Bruxelles. Senza la sua “good reputation”, all’Italia, osserva il 45esimo rapporto Censis, presentato stamane a Roma, non rimane che essere “eterodiretta”, in balia della grande finanza e soprattutto delle istituzioni europee che ci dettano l’agenda, “quasi a imporci il compitino”. Una situazione “che ci fa sentire confinati per l’eternità a mediocri destini”.

E’ colpa soprattutto nostra, certo: abbiamo accumulato per decenni “un abnorme debito pubblico”, ci siamo fatti trovare “politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo”, abbiamo dimostrato “per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia”.

Tornare all’economia reale. Possiamo venirne fuori? Il Censis indica una strada che va ben oltre il risanamento, la messa a posto dei conti imposta “dalla regolazione finanziaria di vertice”, che “può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita”. E’ illusorio, sottolinea il Censis, “pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà”. Premesso che “sarà faticoso, anche per chi si avvia a governare nel prossimo futuro, diffondere impegni di responsabile autodirezione e di rinnovata autostima”, bisognerà tornare all’economia reale, e a una cultura che metta al centro la correttezza, e l’onestà.

Riscoprire l’onestà. Sembra lontana la logica della furbizia, del vince chi frega gli altri. E’ evidente che ci ha portati sull’orlo del baratro. Alla classe dirigente la maggioranza degli italiani (59%) chiede adesso “specchiata onestà sia in pubblico che in privato”, preparazione (43%), “saggezza e consapevolezza (42,5%). Ma gli italiani sono pronti anche a prendere sulle proprie spalle la responsabilità di cambiare il Paese: il 57,3% si dichiara disponibile a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale (però poi il 46% restringe la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile, il 38% pensa che chi non paga le tasse arreca un danno ai cittadini onesti. Onestà, dunque.

E il nostro “scheletro contadino”. In fondo, osserva il Censis, si tratta di tornare al solido “scheletro contadino”, inteso come “metafora della nostra cultura di continuo adattamento”, ma anche dell’economia reale, che dà ricchezza vera, mentre il dominio dell’economia finanziaria ci ha portati alla crisi. “Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia”.

La nostra reputazione è migliore di quello che pensiamo. Per ripartire però bisogna anche liberarsi da quell’eccesso di “declinismo” che si è ormai abbattuto sugli italiani. All’estero non ci vedono poi così male: in una recente classifica internazionale risultiamo al quattordicesimo posto, due posizioni più in basso rispetto al 2009 (ma Spagna, Irlanda e Grecia hanno perso molto più terreno). Dell’Italia gli stranieri apprezzano lo stile di vita, l’ambiente, la capacità di intessere relazioni, il cibo. Caratteristiche che hanno anche una solida base economica: l’Italia è l’ottavo Paese esportatore del mondo, con circa il 3% dell’export mondiale e una crescita del 10,1% tra il 2009 e il 2010. Vanta un primato sui prodotti Dop e Igp, che hanno tenuto a livello di fatturato anche tra il 2008 e il 2009, quanto tutto arretrava. E del resto l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità in Europa: ne abbiamo 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ma gli italiani non riescono più a vedersi obiettivamente, si giudicano male, decisamente molto peggio di quanto li giudichino gli stranieri: una classifica analoga, nella quale si chiede invece agli italiani quello che pensano dei vari Paesi, ci vede invece al 34esimo posto su 37 Paesi.

L’identità perduta. Gli italiani fanno persino fatica a sentirsi tali. Solo il 46% dei cittadini si dichiara “italiano” (con differenze territoriali: il 44,7% al Nord-Ovest, il 37,9% al Nord-Est, il 54,4% al Centro, il 46,8% al Sud e nelle Isole), mentre il 31,3% si riconosce piuttosto cittadino del proprio Comune, o della propria Regione; il 15,4% si sente “cittadino del mondo”, il 7,3% si riconosce solo in se stesso. Anche se prevalgono ormai modelli familiari molto diversi da quello tradizionale, il senso della famiglia rimane il valore aggregante per il 65,4% degli italiani (con un picco del 75,2% al Sud e nelle isole), seguito a molta distanza dal gusto per la qualità della vita (25%) e dalla tradizione religiosa (21,5%).

Valorizzare i punti di forza. L’Italia ha ancora dei notevoli punti di forza. Le esportazioni, innanzitutto, che il Censis indica come possibile volano di crescita, soprattutto se le imprese italiane continuano con determinazione a raggiungere nuovi mercati, cogliendo le nuove opportunità offerte da Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia. Ma può giocare un ruolo importante per la ripresa anche la valorizzazione della ricchezza delle famiglie, che è ancora cospicua nonostante l’erosione dovuta alla crisi: è cresciuta del 22% infatti in termini reali nel decennio 1999-2009, raggiungendo il picco nel 2007. E’ cresciuta molto più del reddito: il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte dieci anni dopo. Da valorizzare, ancora, le nostre eccellenze nell’industria manifatturiera e agroalimentare, e l’apporto sempre più indispensabile degli immigrati.

Rilanciare la produttività. Il punto debole del nostro sistema al momento è soprattutto la produttività bassa. Il Pil non cresce anche perché la produttività non cresce. E infatti mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil italiano è cresciuto solo del 4%, contro il 9,7% della Germania e l’11,9% della Francia, che hanno registrato incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e del 5,1%. La produttività oraria ha avuto un vero e proprio crollo in Italia dal 2000 a oggi: siamo partiti in fatti da un valore pari a 117 (fatto 100 il valore medio europeo), arrivando nel 2010 ad appena 101, contro 133 della Francia, 124 della Germania, 108 della Spagna e 107 del Regno Unito. Inoltre il mercato non assorbe praticamente più lavoratori qualificati: gli imprenditori e i dirigenti sono diminuiti dell’11,5%, dei 309.000 nuovi posti dell’ultimo quinquennio 297.000 erano per addetti alla vendita. Non solo è calata la produzione industriale, ma anche il valore aggiunto dei servizi è cresciuto pochissimo (+1,3%), che sono invece cresciuti ovunque in Europa.

Promuovere la formazione. Alle carenze del nostro sistema produttivo corrispondono carenze forse anche più gravi di quello scolastico-formativo. Moltissimi si iscrivono alla scuola superiore, ma si diploma solo il 75% dei diciannovenni. Il 65% dei diplomati tenta la carriera universitaria, ma poi il 20% abbandona. E del resto il tasso di occupazione dei laureati è fermo al 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei e ben al di sotto della media (82,3%). I laureati che lavorano sono per metà sottoinquadrati al primo impiego (49,2%), ma lo sono anche il 46,5% dei diplomati.

Basta con i tagli lineari. Il fatto è che la scuola e l’università, come il welfare, come i trasporti, sono stremati da tre anni di “tagli lineari”, che hanno prodotto gravi segnali di deterioramento dei servizi. Nel triennio 2008-2011 l’organico scolastico è diminuito di 57.000 posti, a fronte di un incremento di 76.000 unità degli alunni. Il comparto sicurezza ha subito tagli per 1,65 miliardi di euro. I trasporti locali sono al collasso, e ancor più lo sono le politiche sociali: il relativo Fondo Nazionale tra il 2009 e il 2011 è stato ridotto del 65,6%, mentre il Fondo nazionale per le non autosufficienze è stato azzerato.

Bisogno di piazza. Ma non basta riavviare l’economia, e neanche credere nuovamente in noi, e in valori come l’onestà e la correttezza. Bisogna potenziare le relazioni sociali, delle quali gli italiani sentono forte bisogno. E infatti hanno riscoperto le reti di prossimità, quello che una volta banalmente si definiva il vicinato, le attività di volontariato (svolte dal 26% della popolazione), gli incontri conviviali, dalle sagre alle feste (se ne tengono 11.700 ogni anno in Italia), i social network (che coinvolgono il 31% degli italiani). Il “bisogno di piazza” si esprime in termini molto più semplici: è proprio la piazza il luogo dove ancora oggi si incontra il 27,5% degli anziani, seguito dal bar (27,1%).

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Attualità Società e costume Sport

3DNews/AZZURRO NAPOLI, LO SCIPPO DELLE MERAVIGLIE.

di Antonio Mango

“Una pura coincidenza”, ha dichiarato il questore di Napoli Merolla. Il fatto che siano stati colpiti in sequenza i tre delle meraviglie –Cavani, Hamsik, Lavezzi- fa parte del caso. Per la verità ai “tenori” va aggiunto anche il “posteggiatore” Aronica, di professione difensore di fascia sinistra, che pure aveva subìto il furto della Fiat 500 della sua compagna. Tutto, grado della violenza e valori scippati, in proporzione alla destrezza dei piedi.

Il day after è quello del dibattito superfluo: la violenza urbana è la stessa dappertutto, anche a New York, anche a Roma, anche a Milano ecc. e via globalizzando scippi, rapine e furti.

De Laurentiis addirittura consiglia: “Cara Yanina (fidanzata del Pocho, ndr), non sei abbastanza napoletana, ma come ti viene di questi tempi di uscire all’una di notte col Rolex al polso?”.

Avanzano, però, anche le congetture giornalistiche (e non solo). La Procura di Napoli ha riunito in un unico fascicolo i quattro colpi messi a segno ai danni del trio delle meraviglie e del difensore in cinquecento, pur affermando che non esiste alcun elemento che faccia pensare ad una strategia criminosa.

Nel blob televisivo locale di commenti sportivi l’argomento fa il suo ingresso tra veline da avanspettacolo, giornalisti tifosi e procuratori opinionisti (sic). Tutti i parlanti (perché le ragazze pon pon non parlano) sono per lo scippo uguale dappertutto. Intervistati sugli schermi di una nota emittente napoletana, a supporto della teoria egualitaria, uno scippatore e il questore.

Però. Non si può dire, ma si pensa. Vuoi vedere che le tre coincidenze, anzi i tre indizi, fanno una prova? Prova a dirla tutta un conduttore tv fuori dal coro, secondo cui c’è una chiave di lettura malavitosa-politica (il sindaco come obiettivo, per la sua vicinanza ad Aurelio de Laurentiis e per il rifacimento dello stadio) oppure un’altra più terra terra (il calcio scommesse contro giocatori “insensibili” alla chiamata). Insomma, non si tratterebbe di coincidenze.

Aggiungiamo noi: e se l’obiettivo fosse proprio la società? Il suo patrimonio di top-player da mandar via per destabilizzare l’ambiente? Tutto è già successo nella storia inquieta e bombarola del Napoli. Nel lontano 1982 un piper sorvolò il San Paolo con la scritta “Ferlaino via”, con relativo esplosivo fatto brillare all’ingresso del suo palazzo in via Crispi. Si voleva spingere il presidente a cedere la società. La Procura attribuì il “fattaccio” al clan Misso.

In occasione del fallimento, della C1 e dell’imprevista “discesa in campo” del duo De Laurentiis – Marino (anno di grazia 2004 e seguenti) gli sfumati ricordi ci riconducono a “Orgoglio partenopeo”, movimento che sosteneva l’acquisizione della società da parte di Luciano Gaucci, ai programmi tv autogestiti da capi ultrà borderline, ai petardi – avvertimenti del San Paolo, alle pressioni estorsive per il “lucroso commercio” (come lo definì un magistrato) dei biglietti omaggio, al punto che, dopo l’omicidio Raciti e la linea dura che ne seguì, un indagato ammise che “senza i biglietti, bisogna andare tutti a lavorare”.

La società per ora si difende con i risultati. La passione popolare fa da scudo alle losche manovre. Il redditometro dei calciatori, in tempo di crisi, fa da esca per lo scippo eguale per tutti. A Napoli come altrove. Solo coincidenze o solite ricorrenze?

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democrazia Dibattiti Media e tecnologia Politica Società e costume

Attenti, il berlusconismo continua.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

NEL PRESENTARE il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell’esecutivo e ha aggiunto un’osservazione significativa, e perturbante. “Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo”.

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che “concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d’imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l’eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché “stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro” (e non senza asprezza aggiunge: “Spero, che stiano uscendo”) snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l’arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l’emergenza democratica in cui viviamo da quando s’è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ’90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell’idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ’94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l’Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell’età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d’interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell’Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l’insania di Berlusconi e affossando l’accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l’italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: “I fatti dimostreranno” che conflitto d’interessi non c’è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il “potere occulto delle banche”, la “confusione tra politica e affari”) e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c’è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l’elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l’inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l’Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l’acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s’alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: “Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell’abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente”. Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l’avvento di Monti mostra che l’anagrafe non c’entra. Sylos Labini che nel ’94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: “Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall’incantesimo funesto del cerchio” che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L’ironia del premier sull’espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che “sì, assolutamente” usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l’avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l’occasione, il kairòs che se non cogliamo c’inabissa. Per i partiti, è l’occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la “lunga corsa” intrapresa dopo il ’45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall’Annuncio o l’Evento: quell’Evento, dice Giuseppe De Rita, “che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”.

Non c’è un solo partito che abbia idee sull’Europa da completare. Non ce n’è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l’Europa politica non c’è. Monti denunciò a giugno l’eccessiva deferenza fra Stati dell’Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest’uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l’Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di “tritacarne mediatico”, è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell’abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l’aiuto di un’informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.
(Beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

3DNews/4 COSE CHE FORSE NON SAPEVI DEL TUO CELLULARE.

di Elio d’Agostino

Ci sono alcune cose che possono essere fatte in caso di gravi emergenze.
Il cellulare può effettivamente essere un salvavita o un utile strumento per la sopravvivenza.
Controlla le cose che puoi fare.

PRIMO – Emergenza

Il numero di emergenza per il cellulare è il 112 in tutto il mondo. Se ti trovi fuori dalla zona di copertura della rete mobile e c’è un’emergenza, componi il 112 e il cellulare cercherà qualsiasi rete esistente per stabilire il numero di emergenza per te; è interessante sapere che questo numero 112 può essere chiamato anche se la tastiera è bloccata. Provalo.

SECONDO – Hai chiuso le chiavi in ​​macchina?

La tua auto ha l’apertura/chiusura con telecomando? Questa funzionalità può risultare utile un giorno. Una buona ragione per avere un telefono cellulare: se chiudi le chiavi in ​​auto e quelle di ricambio sono a casa, chiama qualcuno a casa sul cellulare dal tuo cellulare. Tenendo il tuo cellulare a circa 30 cm. dalla portiera, dì alla persona a casa di premere il pulsante di sblocco, tenendolo vicino al suo cellulare. La tua auto si aprirà. Così si evita che qualcuno debba portarti le chiavi. La distanza è ininfluente. Potresti essere a centinaia di km. e se è possibile raggiungere qualcuno che ha l’altro telecomando per la tua auto, è possibile sbloccare le porte (o il baule).
N.d.r.: funziona benissimo! Lo abbiamo provato e abbiamo aperto l’auto con un cellulare!

TERZO – Riserva nascosta della batteria

Immagina che la batteria del telefono sia molto bassa. Per attivare, premere i tasti *3370#
Il cellulare ripartirà con questa riserva e il display visualizzerà un aumento del 50% in batteria. Questa riserva sarà ripristinata alla prossima ricarica del tuo cellulare.

QUARTO – Come disattivare un telefono cellulare RUBATO?

Per controllare il numero di serie (Imei) del tuo cellulare, digita i caratteri *#06#
Un codice di 15 cifre apparirà sullo schermo. Questo numero è solo del tuo portatile. Annotalo e conservarlo in un luogo sicuro. Quando il telefono venisse rubato, è possibile telefonare al provider della rete e dare questo codice. Saranno quindi in grado di bloccare il tuo telefono e quindi, anche se il ladro cambia la scheda SIM, il telefono sarà totalmente inutile. Probabilmente non recupererai il tuo telefono, ma almeno si sa che chi ha rubato non può né usarlo né venderlo. Se tutti lo faranno, non ci sarà motivo di rubare telefoni cellulari.

ATM – inversione numero PIN (buono a sapersi!)

Se dovessi mai essere costretto da un rapinatore a ritirare soldi da un bancomat, è possibile avvisare la polizia inserendo il PIN# in senso inverso. Per esempio, se il tuo numero di pin è 1234, dovresti digitare 4321. Il sistema ATM riconosce che il codice PIN è stato invertito rispetto alla carta bancomat inserita nella postazione ATM. La macchina ti darà il denaro richiesto, ma la polizia – all’insaputa del ladro – sarà mandata immediatamente alla postazione ATM.
Questa informazione è stata recentemente trasmessa su CTV da Crime Stoppers, tuttavia è raramente usata perché la gente semplicemente non la conosce.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Marketing Politica Popoli e politiche Potere Società e costume

3DNews/APICELLA, L’USIGNOLO DELL’ IMPERATORE.

http://m.youtube.com/#/watch?desktop_uri=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DMXRv_gDrG5A&v=MXRv_gDrG5A&gl=IT

di Giulio Gargia

Un’antica favola cinese racconta di un imperatore che amava talmente il canto del suo usignolo da cadere in depressione quando questi morì. E, nonostante gliene portassero decine e decine, lui non ritrovava mai la purezza di quel canto che lo metteva di buon umore.
Silvio Berlusconi, che certo si sente un gradino più su di un imperatore Ming, al posto dell’usignolo, per rallegrarsi dopo i tristi consigli dei ministri, usa la canzone napoletana. Lo fa, in particolare, da quando ha assunto alle sue dipendenze il chitarrista Mariano Apicella, che ormai lo segue quasi sempre nei suoi spostamenti, anche in veste di titolare degli Esteri. Certo è che lo ha seguito nelle vacanze dell’ultimo Capodanno, e in queste estive.

Apicella conobbe il presidente del Consiglio l’anno scorso all’Hotel Royal di Napoli, dove lavorava facendo quella che si chiama “la posteggia”, ovvero cantando tra i tavoli del ristorante dell’albergo. Le sue qualità canore hanno evidentemente colpito il premier, che da allora lo ha cooptato nella sua corte. Con il compito di accreditare agli italiani, dopo il presidente operaio, il presidente poeta.
Per di più, in napoletano. E non è finita qua, perché si sa com’è il Berluska: punta in alto. Perciò, se l’operazione dovesse andare bene, la prossima telefonata se la aspettino gli eredi di Salvatore Di Giacomo. ‘Nu pianoforte ”e notte è una bella canzone, ma non c’è nulla che non si possa migliorare.
Se ci mette le mani Silvio…

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Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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3DNews/QUANDO SILVIO RUBO’ QUELLA CANZONE.

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di Giulio Gargia

Davanti a Putin, pare abbia eseguito “ E’ meglio ‘na canzone ”.
A Bush, invece, ha cantato ‘Na pizza americana, con l’orgoglio dello chansonnier diventato autore. Perché, da quando il premier è anche ministro degli Esteri, l’arma della serenata in napoletano, tirata fuori a sorpresa, sembra essere un supporto cruciale dei nostri rapporti diplomatici. E per non lasciare nulla al caso, il nostro presidente del Consiglio si è messo a scrivere canzoni proprio in napoletano. Anzi, a riscriverle.

Sarà la smania per la riscrittura che ha preso i nostri governanti (codice penale, libri di storia e adesso anche le canzoni), fatto sta che Berlusconi, “bauscia” puro, si è buttato nell’impresa di arrangiare i testi di canzoni partenopee.
Uno sforzo che sarà testimoniato da un cd, in uscita a dicembre, firmato dal nostro premier insieme a Mariano Apicella, l’ex-posteggiatore divenuto ora il suo Virgilio a gettoni. Ma nella sua rincorsa a Di Giacomo e Bovio, il fondatore di Forza Italia si è dimenticato un particolare: quello di citare il vero autore delle canzoni che lui “arrangia”, ovvero Rino Giglio. Il quale, dopo una vita passata a comporre versi per la musica, non ci sta a farsi mettere in disparte senza protestare. Specie dopo quello che è successo in tivù, prima delle ferie d’agosto.
Come tutti gli annunci importanti, la consacrazione di Berlusconi poeta ed epigono di Bovio avviene a “Porta a porta”. Qui il premier fa esibire Apicella nell’immortale
“E’ meglio ‘na canzone ”, presentandola come un brano scritto da lui.
Bruno Vespa vuol sapere allora come ha fatto lui, da lumbard, a scrivere in napoletano. E Berlusconi: “Ho usato un vocabolario”.
“Ecco, il vocabolario sono io – commenta Rino Giglio – la canzone è mia, iscritta alla Siae come tutti gli altri brani che ho scritto da trent’anni a questa parte… E vorrei che fosse ricordato, quando si va su un palcoscenico di quel livello”.

Com’é andata la vicenda, nel dettaglio? “Insomma, non capisco, Berlusconi – ricostruisce Giglio – mi fa telefonare da Apicella il primo dell’anno, mi chiede tramite lui se può fare dei cambiamenti ai miei versi, e io naturalmente gli dico di sì, ci mancherebbe… anche perché, ho pensato, se lui ha convinto tanti italiani con le parole, e vuole intervenire sulle mie, beh, vuol dire che forse c’erano delle cose da aggiustare, che potevano essere migliorate”. E se poi la prospettiva, come dettogli da Apicella, è l’uscita di un CD, da firmare insieme al Presidente del Consiglio, beh, allora cambiasse tutte le parole che vuole, fa intendere Giglio.
“… Ma questo è un conto… – protesta l’artista partenopeo –
Se poi va in televisione e dice che la canzone è sua, allora è diverso, c’è qualcosa che non torna…”.
Giglio, in realtà, è sospeso tra due posizioni: una, più preoccupata di perdere l’occasione, e perciò attenta a misurare le parole. E l’altra, più orgogliosa e rivendicativa. “Io sono certamente riconoscente al Cavaliere per aver portato un mio brano all’attenzione di tante persone, e anche a Mariano Apicella, per aver fatto da tramite musicale tra me e il Cavaliere. I miei brani sono passati in televisione e adesso saranno inseriti in un cd. Di questo gli sono certamente grato…”.
E in effetti, difficilmente Retequattro avrebbe dedicato uno speciale a Mariano Apicella che canta le canzoni di Giglio,
se Berlusconi non vi avesse messo mano. Nè Vespa avrebbe citato titoli come “E’ meglio na’ canzone”, “A’ gelosia”, “’Na pizza americana”, se non avessero riguardato le smanie poetiche del presidente del Consiglio.

Così adesso Giglio, dopo una lunga carriera in cui ha collezionato anche belle soddisfazioni, (alcuni suoi brani sono nel repertorio di Peppino di Capri, Mina vuole incidere un suo testo) , si è trovato ad essere co-autore di canzoni con il premier. Quasi un miracolo, se non fosse per questo sgradevole particolare: che non viene mai citato.
“Non lo faccio per una questione di soldi: i brani sono regolarmente iscritti alla Siae, a firma Giglio /Berlusconi/Apicella, quindi i diritti mi arriveranno…
ma vorrei solo che il mio nome stesse al posto giusto, e venisse dato a Cesare quel che è di Cesare… invece per il momento io sono solo un vocabolario…”.
Rimane, però, la curiosità per gli ‘aggiustamenti’. Sapere quali parole a Berlusconi non piacevano è un particolare che va consegnato alle cronache. “Beh, per esempio, ha cambiato ‘a ‘ sconvoglia a’ gelusia, diceva che era troppo partenopeo, e l’ha trasformato in mi tormenta a’ gelosia… – rivela Giglio – così come i suoi cambiamenti in genere si sono indirizzati a italianizzare le espressioni più dialettali… E poi mi hanno modificato il titolo di “Mon amour” perché, dopo un consiglio dei ministri, Berlusconi ha fatto sentire la canzone e Ignazio La Russa ha suggerito di cambiare il titolo, prendendolo da un verso del brano…”.
E così è nata “E’ meglio ‘na canzone”, che si annuncia come la hit del prossimo cd. Giglio non dice se i cambiamenti gli sono piaciuti. Né commenta il fatto che la canzone era già iscritta alla Siae e, dopo il suo intervento, Berlusconi l’ha fatta reiscrivere, aggiungendo il suo nome.

Certo é che un ministro degli Esteri-premier, meneghino purosangue, che canta in napoletano per strappare simpatie diplomatiche, è strategia ancora inedita. Secondo alcuni “politologi” ricorderebbe la politica del ping-pong, con cui Nixon si riavvicinò a Mao. Ad altri, invece, riporta alla mente l’episodio di un film di Massimo Troisi, quando il comico napoletano- finito dai giorni nostri nel Medioevo – cerca di sedurre Amanda Sandrelli spacciandosi per musicista.
E improvvisa dall’inglese, facendo finta di comporre al momento per lei una canzone, che si chiama Yesterday e il cui primo verso dice : “All my troubles seem so far away”, con la musica che conosciamo. Il film si chiamava “Non ci resta che piangere”.

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In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Cultura Fumetti. Società e costume

3DNews/La lezione di Milo Manara : “ Sexy i miei disegni ? No, erano porno. All’inizio bisogna sbagliare e copiare “

Camelia, di Milo Manara.
di Lorenza Fruci

Mentre molti giovani fumettisti italiani lasciano il nostro Belpaese per andare a trovare fortuna in Francia, dove c’è un corso di storia ed Estetica del Fumetto nella prestigiosa università la Sorbonne di Parigi, in Italia si cerca di recuperare il gap con un corso sui fumetti all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

“Lezioni di Fumetto: 8 lezioni-dialogo tra un autore, un giornalista, un editore” si chiama ed è un ciclo di otto incontri con i più grandi disegnatori di fumetti italiani intervistati da Luca Raffaelli, il critico di fumetti di Repubblica, e Francesco Coniglio, noto editore talent scout. Domenica 20 Novembre si è tenuta la lezione di Milo Manara che ha raccontato e svelato molti dei segreti della sua arte divenuta professione.

La sala era piena di appassionati, giovani aspiranti disegnatori, feticisti del fumetto e addetti ai lavori come Stefano Disegni. Attraverso proiezioni di immagini delle sue tavole si è ripercorsa la sua vita che lo vede nascere come Maurilio a Luson, Bolzano, nel 1945 e lo rende conosciuto soprattutto come il disegnatore delle “donnine”, cioè di “quel fumetto” Manara ha voluto specificare “chiamato sexy, ma che in realtà era porno”.

E’ stato uno studente d’arte a Venezia, ma soprattutto un contestatore e “sessantottino tipico” come ha amato definirsi. Della sua storia ha ricordato i momenti chiave, come per esempio il primo importante incontro per la sua carriera, avuto con Walter Molino sulla porta della Casa Editrice Universo a Milano quando era un giovanotto di tante speranze che stava facendo il giro degli editori per proporre le sue prime tavole. Molino gli disse di insistere e lo spronò ad andare avanti; “se non avessi avuto questo primo incoraggiamento, forse avrei mollato” ha confessato Manara.

Poi un’altra svolta grazie alla complicità di Mario Gomboli che lo sponsorizzò per Genius alla fine degli anni ’60 facendolo passare per disegnatore professionista anche se ancora non lo era. Altro momento importante della sua vita professionale fu la collaborazione con il Corriere dei Ragazzi insieme a Mino Milani: avevano una rubrica dove riproponevano i grandi personaggi della storia che proiettò Manara verso l’estero e gli aprì le porte dell’editoria straniera. Iniziò con Larousse e proseguì con altre case editrici, tanto che, ad un certo punto, realizzò di aver bisogno di un agente e contattò Luca Staletti, il promotore dei più grandi autori del fumetto europeo, altra persona fondamentale nella sua carriera.

E poi gli omaggi al suo maestro H.
Manara si è raccontato attraverso dei momenti chiave della sua vita, fatti soprattutto di incontri, di persone che hanno creduto in lui, di amici che lo hanno spronato ad andare avanti. “Provateci” è il messaggio che Manara ha lasciato ai ragazzi che in sala gli chiedevano come fare a tentare la sua strada, “anche se oggi è più difficile perché gli editori non investono in giovani autori e soprattutto non ci sono più le riviste che davano visibilità ai nuovi disegnatori.

Oggi c’è internet, che è una vetrina, anche se non dà retribuzione”. Ma più che queste parole conclusive dell’incontro, il messaggio più importante che Manara ha voluto comunicare l’ha espresso alzandosi in piedi durante l’intervista e mostrando al pubblico cosa tiene in tasca: una gomma da cancellare. “La porto sempre con me, come un amuleto, per ricordarmi che si può sempre sbagliare.

Questa è la legge numero uno da tenere sempre in mente”. La seconda è quella che autorizza a “copiare”, almeno all’inizio così come ha fatto lui ispirandosi ai tratti di Crepax per le donnine e ai neri di Hugo Pratt per esempio; “poi si trova il proprio stile” ha aggiunto. Dunque i segreti del suo successo svelati per la platea dell’Auditorium sono stati “sbagliare e copiare” che, a pensarci bene, non sono leggi per perdenti? Non a caso uno dei suoi personaggi più famosi è Giuseppe Bergman…

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