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Arianna Haffington: il futuro è la convergenza tra giornali e internet.

Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti partecipando a “Tutto cambia. Cambiamo tutto?”, convegno sui media e la pubblicità, organizzato da Upa (associazione degli investitori pubblicitari italiani) che si è tenuto a Roma la scorsa settimana ha tracciato tre tendenze in atto:a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti.

In particolare, secondo Arianna Huffington,a intervistat da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda. La Huffington si è detta sicura che, se non fosse stato per internet, Obama non sarebbe stato eletto Presidente.

Con orgoglio ha fornito i numeri relativi all’Huffington Post: circa 20milioni di visitatori mensili che sempre più desiderano interagire con l’informazione. Il mese scorso sono stati un milione i commenti al celebre sito. Tutto ciò senza un dollaro di marketing, ma solo attraverso il passaparola.

Nonostante le dimensioni del fenomeno internet – soprattutto negli USA – e la misurabilità dei risultati grazie ai clic, vi sono ancora inspiegabili resistenze da parte delle aziende a investire in questo mezzo.Negli Usa, figuriamoci in Italia. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il Washington Post perde business.

da blitzquotidiano.it

Il quotidiano Washington Post a partire dal 30 marzo eliminerà nei giorni feriali la sua sezione business come edizione a parte e la incorporerà nel suo principale fascicolo denominato ”A”. Lo ha annunciato un portavoce del quotidiano.

Il Post eliminera’ anche i listings quotidiani delle azioni, sostituendoli con mezza pagina di informazioni economiche e performance dei principali titoli. Il Post aveva già eliminato la sezione Book Review dal mese di febbraio.

Con l’editoria dei quotidiani in piena crisi, molti giornali hanno già preceduto il Post nell’eliminare la sezione business separata per tagliare i costi di produzione in un momento in cui la pubblicità ha subito un crollo a causa della crisi: tra gli altri, The Atlanta Journal-Constitution, e il Los Angeles Times.

Sempre a partire dal 30 marzo il Post eliminerà anche dalla sua sezione cartacea il supplemento Style e una serie di comic strips, e le pubblicherà solo nella versione online del giornale. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Huffington Post

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale.”

di MARCO LILLO -L’espresso

Nel pieno della crisi peggiore degli ultimi settant’anni, Silvio Berlusconi predica ottimismo: “Nessun dramma”. Effettivamente il Cavaliere ha le sue ragioni per vedere rosa. Il gruppo del presidente del Consiglio può vantarsi di essere riuscito ad aumentare (di poco) la raccolta pubblicitaria (pari a 3 miliardi e 35 milioni di euro) nel 2008. Lo dicono le stime di Nielsen Media che ‘L’espresso’ pubblica in esclusiva. Secondo questi dati, anche nell’anno in corso la corazzata Mediaset reggerà l’onda della recessione meglio dei competitori. Nonostante l’Auditel in ribasso e la crescita del concorrente Sky, la concessionaria Publitalia, guidata da Giuliano Adreani, riesce ancora a condire di spot i programmi delle reti guidate da Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri.

I grandi clienti, come Wind, Infostrada, Barilla, Telecom Italia e Fiat non resistono all’appeal delle reti Fininvest. Nel primo anno del governo Berlusconi i primi 15 inserzionisti del nostro mercato hanno aumentato i loro investimenti su Mediaset di 30 milioni di euro mentre la Rai è rimasta al palo. Eppure le reti Mediaset hanno perso telespettatori sia nel prime time che nell’intera giornata. Proprio quando Mediaset perde colpi, più della Rai, il gruppo del presidente del Consiglio aumenta le quote di pubblicità rispetto a viale Mazzini e agli altri media. La stessa situazione si pose nel 2002 e allora l’opposizione, sulla base di stime parziali, gridò al ‘conflitto di interessi’. ‘L’espresso’ ha provato a ricostruire l’andamento della raccolta pubblicitaria per capire se davvero le aziende del presidente del Consiglio hanno beneficiato di una particolare attenzione delle imprese.

Nielsen: Publitalia aumenta
Il punto di partenza sono i dati contenuti nel monitoraggio effettuato quotidianamente da Nielsen Media, la principale società di ricerche del settore. Nielsen rileva le inserzioni pubblicate o trasmesse per poi ricostruire (in base al listino) il valore dell’investimento del cliente. Le stime fotografano in tempo reale lo stato di salute del mercato pubblicitario e quindi dell’editoria e della televisione.

Cosa dicono i dati? Per i giornali e, in misura minore, per radio, tv e Internet è in corso una gelata senza precedenti. Solo Mediaset e pochi altri (come le radio del Centro-Sud) sembrano beneficiare dell’ultimo scampolo di primavera. Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale, anche se di poco: 3 milioni. La concessionaria del Cavaliere riesce ad aumentare la sua quota di un punto percentuale fino al 38 per cento. La Rai invece sembra vittima di un paradosso opposto. Sipra, la società del gruppo che raccoglie la pubblicità per viale Mazzini lascia sul campo ben 53 milioni di euro.

Il crollo della Rai
Le ragioni di questa Caporetto vanno ricercate in tre fenomeni: lo spostamento di pubblicità da Rai a Mediaset da parte di alcuni grandi investitori; l’incremento maggiore della quota riservata al network berlusconiano e infine l’aumento della pubblicità ‘amica’, che comprende quella che proviene dall’imprenditore Berlusconi (Medusa, Mondadori e Mediolanum) e quella che viene invece dalle aziende e dalle istituzioni controllate dal governo: ministeri, Poste, Eni ed Enel (vedi scheda a pagina 35).

L’effetto di questi tre fattori è ben descritto dai grafici della Nielsen, che raccontano un’Italia nella quale la pubblicità si concentra sempre di più nelle reti radiotelevisive e si focalizza su un solo gruppo. Quello del presidente del Consiglio. Apparentemente stiamo parlando di merendine e automobili, in realtà è in ballo qualcosa di più importante. La pubblicità è la principale fonte di sostentamento non solo delle radio e tv, ma anche dei giornali. Solo chi raccoglie pubblicità oggi ha i mezzi per produrre buona informazione, che costa.

La concentrazione del 38 per cento delle risorse nelle mani del colosso televisivo del premier, il contestuale indebolimento della tv pubblica e della carta stampata non incidono solo sul mercato, ma anche sulla quantità e sulla qualità delle fonti alle quali può attingere l’opinione pubblica per informarsi. Ovviamente le aziende inserzioniste non pensano a tutto questo quando pagano per pubblicare o trasmettere uno spot. Pianificano le loro campagne cercando solo di massimizzare il ritorno. Non è colpa loro se in Italia esiste una situazione paradossale determinata dall’oligopolio televisivo e dal conflitto di interessi. Non è colpa loro se devono fare i conti con un presidente del Consiglio che nell’ottobre scorso arriva a dire a un gruppo di imprenditori: “Non capisco come fate ad accettare che i vostri prodotti siano pubblicizzati dalla Rai”.(Beh, buona giornata).

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Pubblicità e mass media

Un’idea di marketing per le banche in tempi di crisi.

di Hans Suter
robert waldmann insegna economia a roma, oggi ha sul suo blog un idea che mi piace: dice che le banche taglino i loro budget di marketing, visto che servono solo per rubare clienti l’un l’altro. Aiuterebbe loro ad aumentare la redditività e fa l’esempio delle sigarette che una volta finita di far pubblicità han cominciata a guadaganere veramente bene.

http://rjwaldmann.blogspot.com/2009/03/kevin-drum-writes-banks-marketing.html
Kevin Drum Writes

“the bank’s marketing budget — which no one in their right mind thinks should be shut down during a recession”

Guess I’m not in my right mind. I’d say it would be a good idea to impose a temporary regulation that no entity with a banking license is allowed to spend money on marketing. I will stipulate that banks have chosen profit maximizing marketing budgets. This does not mean that the Citibank marketing budget maximizes Bank of America profits. I’d guess that banks’ marketing mainly serves to win clients from each other not to increase total demand for banking services.

Consider the ban on TV advertizing of cigarettes. This was followed by a huge increase in the profits of cigarette companies. They were no longer spending money to steal customers from each other.

Now, I don’t want to ban marketing and adverstising in general. Hell no, then I’d have to pay to read Kevin Drum’s blog. But banks need cash right now. I think it would be good if other sectors picked up the budget for free to the user content.

So I think a good way to prop up banks is to ban marketing by banks (also lobbying of course).

Just to make my proposal clear. I do not propose banning marketing only by troubled banks which have received public money. I think it would be a bad thing if banks with strong balance sheets were allowed to market and banks with weak balance sheets were not allowed to market. I propose a (temporary) regulation which applies to all banks. Oh except maybe for the temporary part. (Beh, buona giornata).

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La crisi della stampa: “Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria.”

Intervista a Marco Benedetto, vice presidente del Gruppo Espresso di Paolo Madron- Il Sole 24 Ore.

La Cina è vicina. Nel senso che ti si struscia addosso per poi nascondersi tra le pile di libri e giornali accatastate. Cina è la gatta di Marco Benedetto, che si muove da padrona nella sua grande casa romana di Piazza in Piscinula, dove al piano terra l’ex amministratore delegato dell’Espresso (ora ne è vicepresidente) ha impiantato la piccola redazione dell’avventura online che sta per cominciare.
Fa coppia con U-boat, il maschio, che di giorno sovrintende al lavoro dei giornalisti. Insomma, gatto ci cova dietro a Blitz, il sito che non sarà un giornale ma, per dirlo con una brutta parola che tra gli adepti della rete spopola, un aggregatore di notizie. Si prende un po’ di qua un po’ di là, si rimanda ai vari blog, si condisce il tutto con qualche commento originale per affermare un tono editoriale. Nel tempo che gli resta, Benedetto ha anche cominciato un libro di memorie sul mondo che lo ha visto per tanto tempo protagonista, lo scrive «come se lo spiassi dal buco della serratura» dice, e che Mondadori si è già fatta avanti per pubblicare.

Questa è in assoluto la sua prima intervista, dopo che con puntiglio si era sempre sottratto alla curiosità di coloro,i giornalisti, che quotidianamente erano uno dei referenti del suo lavoro.

Si è buttato su internet perché i giornali sono morti o perché costa troppo farli?
Ma no, non siamo all’apocalisse. I giornali non moriranno e il bisogno d’informazione ci sarà sempre. A non esserci più sono i soldi. O meglio, non ci sono più tutti quelli che servono per fare un giornale di carta.

Neanche un giornale di quattro paginette, stile Foglio o vecchio Riformista?Ho studiato tanto l’idea di fare un Foglio di sinistra, ma la simulazione del conto economico era inesorabile: ci si perdevano milioni di euro. Internet è croce e delizia: rappresenta una minaccia per l’editoria tradizionale, ma serve la democrazia dell’accesso perché ha drasticamente abbassato i costi.

E Blitz come le è venuto, si è ricordato della vecchia trasmissione di Gianni Minà?
No. Mi sono seduto sul divano e, pensa e ripensa, mi è venuto di associare la velocità del mezzo al lampo…
Però Blitz sarà un giornale e non, come dicono i ragazzotti che se ne intendono, un blog di social network…
Ma io vengo da Genova, per il mio carattere i torinesi sono già troppo invasivi, cosa vuole che ne capisca di social network… Mi ricordo di quando rompevo le balle a Scalfari con le ricerche di mercato e lui mi mandava a stendere.

Ma Scalfari le pare uno da ricerche di mercato?
Una volta Eugenio che non ne poteva più delle mie indagini mi raccontò di quando lui faceva lo stesso con Arrigo Benedetti, che le prendeva e le buttava per terra strepitando: «Non mi rompa i co…, tanto io faccio il giornale che piace a me e ai miei amici». Poi sa, ognuno fa i conti con la struttura mentale che si ritrova.

La sua com’è?
Io vengo dall’informazione scritta, quello che conta è la notizia. Ero partito dall’idea di un quotidiano online, ma siccome lo finanzio coi miei soldi ho capito che non ce la facevo. Allora ho deciso di fare l’aggregatore di news. Segnalo ai miei amici che mentre loro dormono nel mondo è successo questo e quello. Non vado contro i giornali, ma nel mio piccolo aiuto a diffondere quello che pubblicano

Quanti soldi ci mette?
Per cominciare 100mila euro all’anno bastano e avanzano. Metà vanno ai ragazzi che lavorano con me: prendo studenti, disoccupati, precari. Ma sulla parte tecnica credo di aver scelto tra i più bravi. La grafica me l’ha studiata Remigio Guadagnino, l’impostazione internettiana 77Agency.

A volte, in questa tristezza generale, penso che in fondo siamo l’unica categoria che da viva si è già fatta il funerale.Magari si esagera. Certo che se mettiamo insieme la crisi della pubblicità con quella economica…
Perché il crollo è soprattutto della pubblicità. Prenda in America, dove internet sta mangiando ai giornali tutta la classificata. Lì il nemico non è Google che ha ucciso le pagine gialle…

Chi è il nemico?
Più di Google ai giornali fa male Craigslist, il sito degli annunci. Se cerchi una segretaria attraverso il New York Times ti costa 300 dollari, lì te la cavi con 50.

A proposito del New York Times, che impressione: nel 2007 guadagnava 200 milioni di dollari, l’anno dopo ne ha presi 50.
In America il primo cliente dei giornali è l’auto,il secondo l’immobiliare. Non mi pare che per loro le cose vadano a gonfie vele.

E la diminuzione dei lettori è colpa di internet?
No, diminuiscono per effetto dell’offerta televisiva. E delle fotocopie.

Le fotocopie?
Sì, Repubblica e Corriere ne sono vittime illustri. Non c’è rassegna stampa dove manchino. Ha idea di quante copie si perdono così? Tanto che gli editori volevano mettere una tassa sulle fotocopie, ma non se ne fece mai nulla.

Ci sono però editori che a internet come media di news non credono. Mondadori ha deciso di investire sull’online solo come marketing complementare dei femminili.
Fanno bene, loro non hanno il quotidiano. Fare di Panorama un sito di news comporterebbe investimenti sul cui ritorno non c’è certezza. Guardi lo Spiegel: ha un fior di sito internet, con 80 giornalisti che ci lavorano, ma non è stato un successo travolgente.

Sicuro che la carta non muore?
La carta non muore, se mai potrà cambiare il modo in cui la si mette in mano ai lettori. Oggi vanno all’edicola, domani gliela si porta a casa. Sul mio sito ad esempio con un clic ti stampi la pagina, e gratis.

Non crede che gli editori, cullandosi sulla cuccagna dei collaterali, si siano accorti tardi del cataclisma che stava arrivando?
Un po’ sì, anche perché le ristrutturazioni non sono neutre e uno se può cerca di procrastinarle. Però è curioso che in America i giornali che vanno peggio sono quelli che hanno fatto i tagli più radicali. E poi c’è Murdoch che resta un mito.

Un mito che però ha appena perso in trimestrale 6 miliardi di dollari.
Un mito perché nonostante questo ha detto ai suoi: «Signori, dobbiamo avere i coglioni. Tutti taglieranno i costi per favorire i dividendi, noi dobbiamo privilegiare i contenuti».

Uno squalo intelligente. Lui, per ora, non taglia, altri lo fanno. Mentre qui da noi uno spettro si aggira per le redazioni: il prepensionamento.
All’epoca pre-pensionando i poligrafici abbiamo ristrutturato il settore e tutti erano contenti, perché andavano a casa guadagnando bene. Con i giornalisti è diverso.

A spanne ci perdono un sacco sullo stipendio.
Sì, uno che guadagna 10 rischia di andare in pensione con 5. E il giornalista non ce la fa perché solitamente è un big spender: ha due famiglie, l’amante, i figli, e magari un mutuo contratto a cinquant’anni. Secondo me l’idea di De Benedetti che gli editori dovrebbero versare all’Inpgi un contributo proporzionale al livello di pensione del giornalista è perfetta.

E se prepensionassimo anche gli editori e i manager che invece d’innovare il prodotto vanno a farfalle? L’idea, giusto per non rubare niente, è di Tina Brown.

Beh, non mi risulta che alla Condé Nast si ricordino con entusiasmo dei profitti del New Yorker, per non parlare di Talk che ha addirittura chiuso.

Un editore internettiano quale si accinge ad essere dove si abbevera?
I miei siti di riferimento sono Drudge Report, un misto di cattiveria e veleno. The DailyBeast di Tina Brown, che è una brava giornalista. E HuffingtonPost, esempio da seguire perché è partito con quattro lire per poi diventare il più importante blog americano.

Vedo che si abbevera solo all’estero.
Da noi oltre ai siti dei grandi giornali ce ne sono alcuni di eccellenti. E non penso solo al bravissimo Dagospia. Ci sono Affaritaliani, il Velino, Informazione…

Pensi al giorno in cui, come è successo ad Arianna Huffington, un fondo busserà alla sua porta con 25 milioni di euro.
Qualcuno mi aveva offerto dei soldi, ma io voglio essere prudente. Cominciare a 40 anni è un conto, ma io ne ho 64 e se fallisco sono morto. Ora che ci penso, c’è un altro sito che mi piace, si chiama Gawker, fa gossip sul mondo dei media. Di recente ho letto tutti i pettegolezzi sul tycoon dei media Summer Redstone che ha lasciato la moglie per mettersi con la hostess del suo aereo.

E chi lo fa?
Nick Denton, un ex giornalista omosessuale del Financial Times, e lo fa benissimo. Adesso si è messo a prendere in giro Roubini, sa l’economista che aveva previsto la catastrofe, perché ha tappezzato le pareti di casa sua con quadri di donne nude.

Ma a giudicare la montagna di giornali che invade casa sua la carta le piace ancora. Cosa legge la mattina?
Repubblica.

Troppo facile.
Il Corriere, il Sole, il Messaggero e molto la Stampa. Giulio Anselmi ha un carattere di m…, ma lo ha fatto diventare un gran bel giornale.

E i settimanali?
Guardo l’Espresso, anche perché confesso un’adorazione per Daniela Hamaui, una che nel giornale sa sempre mettere qualcosa che non ti aspetti e ti sorprende. E poi guardo con attenzione Chi.

«Chi» è il vero news magazine dei nostri tempi, un compendio di antropologia del potere cafonalotto e trionfante.
E guarda caso Chi non ha sito internet.

Provocazione. La tivù si ristruttura meglio dei giornali. Vedi Mediaset che diversifica dalla tv generalista.
Non è vero. Parliamo dell’America, dove è già successo tutto. Lì la tivù ha ucciso i giornali. Non i tre network, ma i cento canali via cavo che sono arrivati fin nelle lande più desolate del Paese. Allora i giornali, specie quelli della sera, hanno cominciato a chiudere.

È per questo che qualcuno ha avanzato l’idea di farne una specie protetta da sottrarre ai condizionamenti del conto economico?
Qualcuno lo pensa, ma non ci credo. E poi sarebbe come la Jugoslavia. Guardi in Gran Bretagna The Guardian, l’unico di sinistra in un mercato di giornali tutto di destra. Fa capo a una fondazione, perché il vecchio Scott non aveva eredi. Dopodiché il giornale è gestito da una Spa.

A un grande manager editoriale non si può non chiedere di dire una prece al capezzale dell’Unità. Si ricorda di quando alla domenica col porta a porta vendeva un milione di copie?
Sì, peccato che allora i comunisti avessero il 30% dei voti. È un giornale troppo legato alla sua storia per poterlo tirare su.

Anche se a dirigerlo c’è una sua ex dipendente?
L’Unità è entrata in crisi ancora prima della caduta del Muro. Mario Lenzi, quando ne era presidente, commissionò una ricerca da dove venne fuori che il lettore tipico era sessantenne e stalinista. Mi disse: «Sai, ogni vecchio compagno che muore per noi è un lettore in meno che non viene sostituito ». Si ricorda di quando Togliatti non volle inaugurare la sede di Milano perché diceva che era una megalomania?

No. Declino irreversibile?
Il declino non lo fermi con una ragazza brava, simpatica e carina, ma nemmeno prendendo le migliori firme del mondo. Se non altro perché ti toccherebbe pagarle.

Eppure alla fine si trova sempre qualcuno che sui giornali è disposto a mettere soldi.
Giorgio Fattori, che per me è stato come un vecchio zio, mi diceva: «Gli industriali si sono rovinati di più con i giornali che con le donne e i cavalli». I padroni sono affascinati dal mestiere, dicono al giornalista di dargli del tu, e i giornalisti accettano così si sentono importanti. Ha mai visto un capo azienda dare del tu al suo direttore amministrativo? Romiti dava del lei a tutti, persino a Paolo Mattioli che si è comportato con lui più che da figlio. Ma da una sua intervista apprendo che con Concita De Gregorio si danno del tu.

Sbaglio o adesso Repubblica sembra un po’ in affanno sul Corriere?
Ma quando mai, in edicola vende di più. La differenza è nelle copie regalate.

Venendo da lei non ho potuto fare a meno di alzare lo sguardo all’ultimo piano del palazzo di fronte. Ci si immagina ancora Carlo Caracciolo seduto sul divanetto del soggiorno.
Sua figlia Jacaranda mi ha portato una suo foto con una bella dedica. E Montezemolo continua ancora a chiedermi dei quadri che mi ha lasciato in eredità.

Se è per questo anche Ciarrapico è fiero del suo bastone da passeggio col pomello in argento. L’impressione comunque è che per età o l’uscita di scena di alcuni suoi protagonisti sia venuto meno quel patto che ha permesso a Repubblica di prosperare.
Non sono d’accordo. Se mai Repubblica ha altri problemi, in primis quello di essere troppo romanocentrico. Scrive ogni giorno della Caffarella, ma a Verona o Mantova sanno cos’è la Caffarella? E soprattutto cosa gliene importa?

Francamente mi sembra più problematico essere un giornale di sinistra quando la sinistra non c’è più.
Il giornale ha avuto un momento di difficoltà quando Eugenio si è buttato su Occhetto, meno male che ha vinto D’Alema. La bravura di Ezio Mauro è stata quella di aver dato spazio a tutti. Prima Repubblica si occupava di Bertinotti come dello scemo del villaggio, Ezio invece lo ha assurto al rango di protagonista importante. E così anche per molta della destra. Secondo lei se Fini vuole spazio lo trova su Repubblica o sul Giornale?

Repubblica è un caso interessante. Le incomprensioni in casa De Benedetti rivelano un non banale dilemma tra ragioni del cuore e quelle del conto economico.
Siamo stati tutti figli…

Magari non di padri così ingombranti.
Per fortuna, se no uno non ha alternative: o lo uccide o scoppia. Invece Rodolfo per me è stato un bravissimo azionista, e lo dico da manager che ha lavorato con lui per quindici anni.Quando ho deciso di partire col «D» di Repubblica mi sostenne in tutto e per tutto.

Tra dieci anni, a parte il suo sito che sarà fortissimo, cosa vede?
Vedo che sarà meglio che tra cinque, questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria. Bisognerà ridimensionare tutto senza far morire il mestiere. E poi ci sarà internet, che adesso ancora non spopola perché il mercato non lo riconosce. A proposito, ha visto la campagna online di Danacol?

Le pare che si possa perdere Little Tony in versione anti colesterolo?
Alla Danone c’è una signora brava che si chiama Bergamini…

Ma non stava in Parlamento con Forza Italia…
Questa è Marcella Bergamini, viene dalla Rcs e, pur sapendo che i suoi datori di lavoro hanno la televisione in cima ai pensieri, prova a sperimentare mezzi nuovi e meno costosi. Quando la signora Bergamini paga un decimo di quello che paga l’inserzione sul Corriere e magari funziona anche, è un buon segno.

La nuova avventura non cancella però il passato.
Un lungo passato: quarant’anni di editoria di cui 28 come manager.

Siccome le piace il gossip, mi corre l’obbligo di dirle che girano voci su un suo ritorno alla plancia di comando dell’Espresso.
Quale migliore occasione di avere a disposizione l’interessato per smentirle?

E la sua fama di mastino delle redazioni a cosa si deve?
Forse al fatto che ho pronunciato spesso dei no in un ambiente dove dire sì è molto più facile, e ti risparmia un sacco di grane. E poi perché ho fatto tante ristrutturazioni, ma pensando sempre a salvaguardare il lavoro, non a distruggerlo.

Il mestiere le ha dato molto, compresa questa imponente casa.
Merito della lotteria delle stock option. È una questione di tempistica, se le avessi adesso sarei povero in canna.

Lei ha cominciato come giornalista alla Stampa, che era il suo mito.
In Liguria c’era la Stampa. Luigi Russo scrisse su Belfagor un saggio che comparava il Corriere diretto da Alfio Russo alla Stampa di Giulio De Benedetti. Il primo lo definiva il giornale dei cotonieri lombardi, il secondo il giornale della classe operaia più colta. Insomma, la Stampa era l’innovazione, il Corriere la tradizione.

Ai suoi tempi alla Stampa c’era una bella squadra di giovani.
Sì, e Fattori è stato un perfetto direttore. Ma Montezemolo e io dovemmo sudare per convincere l’Avvocato a prenderlo.

Non gli piaceva?
Diceva che era vecchio, anche se aveva solo 51 anni. Ma poi si parlarono e lì nacque l’amore. Fattori era anche amico di Romiti, poi non so perché litigarono, questioni di donne o di figli. Alla fine, poveretto, si ammalò per le vicende di Gemina.

Lei è sempre stato di sinistra?
Sinistra centro. Anche se, non raccontiamocela, l’Italia è sempre stata democristiana. Berlusconi ha detto ai suoi di stare attenti a Franceschini mica per altro, perché è un ex democristiano. Per questo il Giornale gli sta facendo la campagna contro.
De Benedetti l’ha conosciuto in Fiat?
No, l’ho conosciuto prima, quando era presidente dell’Unione industriali. Carlo in Fiat ha avuto l’enorme merito di aver spalleggiato Giovannini durante i 25 giorni di sciopero dei poligrafici della Stampa nel 1976.

Era molto legato a Giovannini.
Nella storia dell’editoria ha avuto uno straordinario merito: far passare la legge sull’editoria grazie alla quale lo Stato diede agli editori almeno 300 miliardi di lire. Invece che comprarsi ville o barche, ebbero il buon gusto di reinvestirli nelle loro aziende. Senza quella legge non ci sarebbero molti giornali, tra cui parecchi del gruppo Espresso.

Poi l’Ingegnere la chiamò all’Espresso.
No, mi ha chiamato Caracciolo e mi ha portato da lui. Da lì è nato il sodalizio.

Lei era in sella quando Berlusconi voleva prendersi Repubblica.
Non ci ho mai creduto. Ha ragione Ciarrapico: Andreotti non avrebbe mai consentito un’operazione che avvantaggiava in quel modo Craxi.

E se invece fosse successo?
Berlusconi avrebbe fatto fuori Caracciolo, non Scalfari. Una delle prima volte che lo vidi ai tempi della trattativa mi disse: «Io ho bisogno dell’alleanza di Eugenio». Detto questo continuo a pensare che Berlusconi sia uno che arriva prima di tutti, è uno che mentre ti dice ci vediamo al bar è già là che ti aspetta. Però editorialmente ha commesso solo due errori.

Quali?
All’epoca ha sottovalutato Caracciolo, poi non ha capito le potenzialità e la capacità di Murdoch.

Siamo alla fine. Le sue cose più significative oltre, buon per lei, alle sue stock option?
Beh, qualcosa di buono mi sembra di averlo fatto. Penso al «D»di Repubblica, all’introduzione del colore sul quotidiano, alla fiducia data a Linus quando Claudio Cecchetto uscì dalla radio.

E gli errori?
Su quelli stendiamo un velo pietoso. L’inferno è la contemplazione per l’eternità delle cazzate fatte. In fondo ho solo 64 anni, un po’ presto per iniziare a contemplare no? (Beh, buona giornata).

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L’Autodisciplina Pubblicitaria dice no alla censura di Atac di Roma contro la tv di Al Gore.

Siamo a un nuovo capitolo della bizzarra storia della censura “all’amatriciana”. Infatti, a quanto risulta a “Beh, buona giornata” l’Istituto per Autodiscipina della Pubblicità (IAP)avrebbe espresso un giudizio contrario alla censura che Atac di Roma ha applicato contro la campagna Vanguard di Current Tv. (vedi “Ricapitolando una bizzarra storia di censura “all’amatriciana, postato il 22.02 su “Beh, buona giornata)

Secondo IAP non ci sarebbero i requisiti per ritenere la campagna “inopportuna e offensiva della sensibilità dei cittadini romani”.

Allo IAP si era rivolta l’associazione dei Tecnici Pubblicitari (TP) per chiedere secondo quali criteri l’Atac di Roma poteva censurare una campagna pubblicitaria, senza neppure rivolgersi allo IAP. Per ora è una vittoria “morale” di Current Italia (il commitente della campagna censurata) e di Cookies ADV (l’agenzia di pubblicità che ha ideato la campagna).

In attesa si pronunci l’Autorità garante per e Comunicazioni (Agicom) , cui TP si è rivolta, rimane da capire come sia possibile che Atac, una azienda di interesse pubblico si sia potuta arrogare il diritto di operare una censura senza comprovati motivi. E da capire come sia possibile che per le fisime censorie del presidente di Atac, l’azienda dei trasporti pubblici sia stata privata delle somme copiscue del budget pubblicitario previsto da Current nel circuito delle affissioni di proprietà dell’azienda.

Forse anche il Campidoglio, che aveva prontamente spalleggiato la decisione del presidente di Atac dovrebbe spiegare ai cittadini romani come si fa, in tempo di crisi, a rinunciare a entrate di privati, che sarebbero andate a benificio delle casse di Atac, dunque degli utenti del servizio del trasporto pubblico nella Capitale.

Se la censura è stata un atto di superficialità nel valutare una campagna pubblicitaria, il procurato mancato introito pubblicitario appare un danno alla collettività.

Il che dimostrerebbe che le cose un po’ stupide alla fine si rivelano sempre molto dannose, non solo per l’intelligenza dei cittadini, ma anche per le casse pubbliche. Beh, buona giornata.

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La TP contro l’Atac di Roma che ha censurato la tv di Al Gore.

COMUNICATO STAMPA

TP – Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti,

dopo aver preso visione delle motivazioni censorie

adottate dall’ATAC di Roma (immagini pesanti,

inopportune, che avrebbero potuto offendere la

sensibilità dei cittadini) e le successive contrastanti

dichiarazioni del suo presidente Massimo Tabacchiera

sulla campagna VANGUARD della Tv satellitare Current,

campagna normalmente on air su Milano, realizzata

dall’agenzia CookiesADV di cui è direttore creativo il

nostro socio Massimo Guastini Vice Presidente

dell’Associazione,

chiede

un incontro urgente al Garante della concorrenza e del

mercato con audizione delle parti, allo scopo di valutare

se esistono i termini giuridici perché l’ATAC potesse

compiere tale azione.

TP provvederà anche a segnalare allo IAP la campagna in

oggetto per una valutazione su quanto accaduto.

Biagio Vanacore

Presidente TP – Associazione Italiana Pubblicitari

Professionisti

Milano, 23 febbraio 2009

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Attualità Pubblicità e mass media

Ricapitolando una bizzarra storia di censura “all’amatriciana”.

Il presidente dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma ha bloccato l’uscita di una campagna pubblicitaria a favore di Current Tv. Si trattava di scene di sesso? Di droga? Di rock’n roll? Macché: era una semplice campagna, composta da due soggetti, a favore di “Vanguard”, un nuovo programma televisivo del canale satellitare fondato da Al Gore. La campagna  invita semplicemente alla visione del programma. In uno  dei soggetti si vede la foto di una bibbia trapassata da tre proiettili,  con il titolo”Cosa succede quando la camorra entra in chiesa?”; nell’altro soggetto si vede un mitra kalashnikov, col manico a stelle e strisce e reca il titolo:”La guerra segreta all’Iran”.  (http://current.com/items/89835233/leimmaginidicurrentcensuratearoma.htm )

Tutto qui, direte voi? No, c’è di più. Perché il presidente dell’Atac non ha resistito a esprimere giudizi  professionali sulla comunicazione.“I manifesti non vanno bene per dei mezzi in movimento, la gente non ha  il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, dice il presidente.

Vale a dire: cari pubblicitari adesso vi insegno io come si fa. Si fa che mi do una bella zappa sui piedi, parlando male della pubblicità sugli autobus “che la gente non ha il tempo di fermarsi a leggere.” Scusi, signor presidente degli autobus romani: non le viene i sospetto che parlare male della pubblicità sui mezzi pubblici significa danneggiare gli introiti che Atac raccoglie attraverso la pubblicità dinamica?

Non pago, il presidente dell’Atac dispensa lezioni di grafica: “I caratteri sono troppo piccoli per poterli leggere quando l’autobus è in movimento.” Cari ragazzi di Cookies Adv, (l’agenzia che ha ideato la campagna): non vi hanno  solo censurato la campagna, ma pure il carattere tipografico che avete usato nei layout.

Se non che dall’agenzia Cookies Adv fanno sapere che “I manifesti censurati non erano pianificati sui mezzi pubblici. Ma sugli spazi  delle stazioni della metropolitana”. Insomma, la campagna non era una dinamica, ma una affissione. La domanda è: che campagna ha visto il presidente dell’Atac?

Curiosamente, nello stesso errore cade anche il Campidoglio, l’azionista di riferimento dell’Atac , che in una nota dice: “La campagna utilizzava immagini inopportune e non adatte a essere apposte sui mezzi pubblici.”  Come già detto la campagna non era affatto pianificata sugli autobus. Quanto alle “immagini inopportune” la cosa è strana, visto che la campagna sarà on air sui mezzi pubblici di Milano a partire dal prossimo 26 febbraio.

Cosa c’ha di speciale Roma che non può tollerare una campagna pubblicitaria per Current TV che invece può essere vista dai milanesi?

Presto detto: “Immagini pesanti, inopportune, possono offendere la sensibilità dei cittadini, peraltro in un momento di grave tensione sociale, e per di più in una città come Roma che è la sede  della Chiesa Cattolica”. Parola del presidente dell’Atac.

Eccola, allora, tutta intera “la scomoda verità”, tanto per parafrasare  il titolo del famoso documentario di Al Gore, vincitore di un Oscar, il film e di un Nobel, l’autore.

Succede però che il Campidoglio smentisca fattori di ordine pubblico, rendendo pubblico che “nella scelta (di bloccare la campagna, ndr) non ha avuto nessun ruolo il problema della sicurezza”.

A questo punto, delle argomentazioni a supporto della censura contro la campagna di Current Tv rimarrebbe solo il riferimento alla città di Roma ”che è sede della Chiesa cattolica”. Se non fosse che da Current arriva una precisazione illuminante: “Peccato che chi ha preventivamente censurato la nostra campagna non si sia neanche preso la briga di capire a cosa si riferisse: è il lancio del nostro  Vanguard, una puntata dedicata ad un prete ucciso dalla camorra”. Firmato Tommaso Tessarolo, general manager di Current Italia.

Si è trattato molto semplicemente di un eccesso colposo di buona volontà da parte dell’azienda dei trasporti pubblici e del Comune di Roma?  Il solito, inutile, un poco grottesco eccesso di zelo, di cui spesso la creatività è vittima in Italia? 

Una cosa è certa: la decisione di censurare la campagna pubblicitaria è stata presa con troppa superficialità.

Sarebbe meglio ripensarci e permettere la campagna. Ci guadagnerebbero tutti: chi l’ha ideata (Cookies ADV), chi l’ha commissionata (Current Italia), chi l’ha pianificata (la concessionaria di pubblicità); chi incasserebbe il budget (l’Atac).

E poi: come potrebbe la campagna turbare la Chiesa cattolica,  dal momento che il programma tv rende omaggio al sacrificio di un sacerdote, che ha perso la vita per insegnare ai suoi fedeli il rispetto della legalità?

Un ripensamento farebbe bene anche al Campidoglio, sarebbe un gesto riparatore nei confronti di Current TV, una emittente, fondata da Al Gore, premio Nobel per la Pace, che ha scelto l’Italia come uno dei paesi in cui trasmettere i suoi programmi televisivi.

Infine, ci guadagnerebbero i cittadini della Capitale, i quali forse non si meritano di essere trattati come “gente che non ha il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, mentre i cittadini di Milano invece sì. Beh, buona giornata.

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Attualità Pubblicità e mass media

Ecco i manifesti di Current censurati dal presidente dell’Atac.

http://current.com/items/89835233/le_immaginidicurrentcensuratearoma.htm 

(Beh, buona giornata).

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

A proposito dei due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Se quanto affermato da i due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore:  il carattere (tipografico) della censura” è vero, le affermazioni del presidente dell’Atac sono campate in aria: la campagna non era panificata sugli autobus, ma era un’ affissione nella Metro della Capitale. Dunque, le valutazioni circa la difficoltà di capire gli annunci da parte dei cittadini di Roma sono una versione di fantasia da parte del presidente degli autobus di Roma.

E’ di fantasia anche l’idea che la campagna in oggetto potesse turbare l’ordine pubblico, prova ne è la rettifica del Campidoglio: “nella scelta non ha avuto un ruolo il problema della sicurezza.”

Delle argomentazioni a supporto della censura contro Current Tv rimarrebbe solo il riferimento alla città di Roma ” che è sede della Chiesa cattolica”.

Sul punto, vale la pena citare le parole di Tommaso Tessarolo, general manager di Current Italia: “Peccato che chi ha preventivamente censurato la nostra campagna non si sia neanche preso la briga di capire a cosa si riferisse: è il lancio del nostro VANGUARD, una puntata dedicata ad un PRETE UCCISO DALLA CAMORRA”.

Qui il presidente dell’Atac l’ha fatta proprio grossa: vorrebbe lasciar a intendere che alla Chiesa cattolica avrebbe dato fastidio una campagna pubblicitaria per un reportage sull’uccisione di un sarcedote da parte della Camorra?

A questo punto è chiaro che la decisione di censurare la campagna pubblicitaria è stata presa con troppa superficialità.

Sarebbe meglio ripensarci e permettere la campagna. Ci guadagnerebbero tutti: chi l’ha ideata (Cookies ADV), chi l’ha commissionata (Current Italia), chi l’ha pianificata (la concessionaria di pubblicità); chi incassa il budget (l’Atac).

Ci guadagnebbere anche la Chiesa,  perché il programma tv rende omaggio al sacrificio di uno dei suoi figli, che ha perso la vita per insegnare il rispetto della legalità.

Ci guadagnerebbe il Campidoglio, facendo un gesto “politically correct”, riparatore nei confronti di una emittente, fondata da Al Gore, premio Nobel per la Pace, che ha scelto l’Italia come uno dei paesi in cui trasmettere i suoi programmi televisivi.

Infine, ci guadagnerebbro i cittadini della Capitale, i quali proprio non si meritano di essere trattati come “gente che non ha il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, mentre i cittadini di Milano invece sì. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’Atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Il presidente dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma ha bloccato l’uscita di una campagna pubblicitaria favore di Current Tv(*), pianificata sui bus della Capitale. Si tratta di scene di sesso? Di droga? Di rock’n roll? Macché: è una semplice campagna, composta da due soggetti, a favore di “Vanguard”, un nuovo programma televisivo di Current Tv, il canale satellitare fondato da Al Gore. La campagna  invita semplicemente alla visione del programma. In uno  dei soggetti si vede la foto di una bibbia trapassata da tre proiettili, e reca il titolo:” Vanguard: i martiri della camorra”; nell’altro soggetto si vede un mitra kalashnikov, col manico a stelle e strisce e reca il titolo:”la guerra segreta all’Iran”. 

Tutto qui, direte voi? No, c’è di più. Perché il presidente dell’Atac non ha resistito a esprimere giudizi  professionali sulla comunicazione.“I manifesti non vanno bene per dei mezzi in movimento, la gente non ha  il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, dice il presidente degli autobus romani.

Fantastico: cari pubblicitari adesso vi insegno io come si fa. Si fa che mi do una bella zappa sui piedi, parlando male della pubblicità sugli autobus “che la gente non ha il tempo di fermarsi a leggere.” Scusi, signor presidente degli autobus romani: non le viene i sospetto che parlare male della pubblicità sui mezzi pubblici significa danneggiare gli introiti che Atac raccoglie attraverso la pubblicità dinamica?

Insomma, Machiavelli diceva il che il fine giustifica i mezzi, Tafazzi sosterebbe che i mezzi (pubblicitari) non giustificano i fini (economici).

Non pago, il presidente degli autobus romani dispensa lezioni di grafica: “I caratteri sono troppo piccoli per poterli leggere quando l’autobus è in movimento.” Cari ragazzi di Cookies Adv, (l’agenzia che ha ideato la campagna): non vi hanno censurato la campagna, solo il carattere tipografico che avete usato nei layout.

In una nota il Campidoglio, l’azionista di riferimento dell’Atac dice: “La campagna utilizzava immagini inopportune e non adatte a essere apposte sui mezzi pubblici.” La qual cosa non si capisce, visto che la campagna sarà on air sui mezzi pubblici di Milano a partire dal prossimo 26 febbraio.

Cosa c’ha di speciale Roma che non può tollerare una campagna pubblicitaria per Current TV che invece può essere vista dai milanesi?

Presto detto: “Immagini pesanti, inopportune, possono offendere la sensibilità dei cittadini, peraltro in un momento di grave tensione sociale, e per di più in una città come Roma che è la sede  della Chiesa Cattolica”. Parola del presidente degli autobus romani. Eccola, allora, tutta intera “la scomoda verità”, tanto per parafrasare  il titolo del famoso documentario di Al Gore, vincitore di un Oscar, il film e di un Nobel, l’autore.

Si è trattato molto semplicemente di un eccesso colposo di buona volontà da parte dell’azienda dei trasporti pubblici e del Comune di Roma.  Il solito, inutile, grottesco eccesso di zelo, di cui spesso la creatività è vittima in Italia. “Nella scelta non ha avuto nessun ruolo il problema della sicurezza” , ha tenuto a precisare il Campidoglio. Come a dire: niente paura, è solo censura. Beh, buona giornata.

 

(*) Current è attualmente visibile negli Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Italia in oltre 58 milioni di case attraverso i partner di distribuzione Comcast (Canale 107), Time Warner, DirecTV (Canale 366), Dish Network (Canale 196), BSkyB (Canale 193) e Virgin Media Cable (Canale 155) e Sky Italia (canale 130). Le trasmissioni italiane sono partite l’8 maggio 2008. Nella primavera 2009 sarà on air anche il quarto paese del network: il Canada.

Secondo il co-fondatore Hyatt: “Si tratta di portare l’Internet intelligente in TV, non la TV stupida sugli schermi di Internet”.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Nel futuro dei mass media più web e meno tv: chi non innova è perduto.

di Marco Ferri da ilmessaggero.it

Nel futuro dei mass media c’è scritto sempre meno giornali, sempre più internet e la tv perderà terreno. Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale, sostiene che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Le stime dicono di una riduzione dei fatturati della pubblicità fra il 5 e il 10%, nel primo semestre del 2009. Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa. Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte.

Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal , divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009.

Il ragionamento di Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E per quanto riguarda l’Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.

Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza.

A partire dagli anni Ottanta, l’avvento sulla scena di grandi holding che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.

Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.

Secondo l’opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l’offerta di un servizio.

«Tutto questo non basta», dice Hans-Rudolf Suter, il capo di Stz in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: «La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo». E conclude: «Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali».

Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.

Tuttavia i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola. Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani «i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole».

Qui a quanto pare c’è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza.

Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, a parere di Sorrell è forse oggi il miglior “marchio” di servizi online al mondo.

I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza non solo sul territorio ma anche sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di “visitatori unici” quotidiani. Un know- how che permetterebbe loro di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l’autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate.

La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacchiate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani.

Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.

Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto. (Beh, buona giornata).

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Antitrust, tariffe e pubblicità: Telecom dice “di aver agito nel pieno rispetto della normativa vigente”.

(fonte: AGI)

Telecom italia ricorrera’ al Tar del Lazio contro la multa da 500 mila euro comminata dall’Antitrust a Tim. L’annuncio e’ contenuto in una nota del gruppo che sottolinea di ritenere “di aver agito nel pieno rispetto della normativa vigente”. L’azienda , prosegue il comunicato, “ha dato ampia e dettagliata comunicazione alla propria clientela sulla manovra di rimodulazione tariffaria, in particolare riguardo alle modalita’ per l’esercizio del diritto di recesso i cui tempi sono stati addirittura estesi a beneficio dei consumatori. Questo e’ avvenuto attraverso una reiterata campagna informativa che ha utilizzato diversi mezzi di comunicazione quali sms, annunci stampa ed internet al fine di garantirne la massima diffusione, e che proprio per questo”, conclude la nota, “non puo’ essere considerata ambigua ed omissiva”.

Non ci resta che aspettare la sentenza del Tar del Lazio. Beh, buona giornata.

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Antitrust, tariffe e pubblicità: continuiamo a farci del male.

L’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha multato Tim e Vodafone con una sanzione da 500.000 euro ciascuno “per modifica unilaterale e sistematica dei piani tariffari senza fornire adeguate informative al consumatore”. Ne da notizia l’associazione Altroconsumo, che aveva denunciato in agosto all’Authority i due operatori per pratiche commerciali scorrette sui rincari delle tariffe di telefonia mobile.

Secondo i rilievi di Altroconsumo, accolti dall’Antitrust, “la mancanza di informazione e trasparenza ha impedito agli utenti di conoscere le caratteristiche delle nuove tariffe”, e le modalità di attuazione della portabilità e di rimborso del credito residuo.

Finora, tra il crollo generalizzato dei consumi degli italiani, le uniche voci che si salvavano era le spese per informatica e telefonia mobile. Così facendo, le compagnie telefoniche coinvolte dalle sanzioni dell’Antitrust danno un brutto colpo a questo settore dei consumi. Non solo. Tra il crollo generalizzato della pubblicità, con le conseguenti ripercussioni sui bilanci dei giornali italiani, tenevano i budget pubblicitari sulle offerte telefoniche.

Le campagne pubblicitarie di questi mesi sono state, evidentemente, lanciate all’insegna della “ mancanza di informazione e trasparenza”, come recita la decisione dell’Antitrust. Il che è un altro brutto colpo alla credibilità della pubblicità italiana.

Se alla crisi economica si aggiunge la crisi di fiducia nelle compagnie telefoniche e di conseguenza alla pubblicità promossa dai gestori, tutto questo fa malissimo alla ripresa dei consumi. Diventa inutile chiedere ai cittadini e ai consumatori di mantenere i nervi saldi di fronte alle difficoltà economiche del Paese, quando alcuni comportamenti mettono in discussione la trasparenza delle aziende e la veridicità delle informazioni.

Queste mille piccole bolle speculative, che si scoprono di frequente sono  forse un danno calcolato, tanto da far venire il sospetto che le eventuali sanzioni comminate dall’Antitrust vengano messe in conto e portate comunque a profitto nei conti economici calcolati sugli aumenti tariffari poco trasparenti. Il che, sia detto con tutto il rispetto,  rischia anche di vanificare l’operato stesso dell’Authority , minarne l’efficacia, screditarne le funzioni agli occhi dei consumatori, diffondere un pericoloso senso di impotenza da parte di milioni di clienti.

Recentemente negli Usa una commissione parlamentare ha chiesto conto ai top manager delle banche dei loro comportamenti. Una cosa simile è successa in Gran Bretagna. E’ ora che anche in Italia si cominci seriamente a pensare come fermare e sanzionare pratiche commerciali scorrette.

La violazione delle norme antitrust non è solo un dolo, sanabile per via amministrativa. E’ un danno continuo e continuato, oltre che alla correttezza verso i consumatori, anche alla credibilità dei soggetti del mercato: in definitiva, al libero mercato stesso.

La cosa non è risolvibile  solo con l’introduzione della “class action”, cioè la possibilità di intentare cause civili collettive da parte dei cittadini lesi nei loro diritti, che pure il governo italiano ha prorogato di due anni, come stabilito nel decreto “mille proroghe”(!). 

Il punto è che non si tratta più  solo di introdurre deterrenti ai cattivi comportamenti. Si tratta di intervenire con tempestività e decisione, perché in Italia cambi profondamente il rapporto tra grandi compagnie e i loro clienti. Non lo imporrebbero semplicemente astratti principi di etica dell’impresa. E’ la crisi dei consumi che lo chiede: senza correttezza e trasparenza non c’è fiducia, senza fiducia non c’è nessuna luce possibile, in fondo al tunnel della peggiore congiuntura economica mai vissuta dai mercati globali. Beh, buona giornata.

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Quanto sta male la pubblicità italiana.

di Marco Ferri da ilmessaggero.it

ROMA (14 febbraio) – Secondo Nielsen Media Research, gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa, mentre la Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.

I Quotidiani a pagamento registrano il -7,0% con la Commerciale Nazionale a -10,7%, la Locale a -0,8% e la Rubricata/Di Servizio a -4,9%. Sui Quotidiani sono in forte diminuzione gli investimenti di Auto (-21,5%), Finanza/Assicurazioni (-18,4%) e Distribuzione (-11,3%). E’ positivo, ma in rallentamento, l’Abbigliamento (+6,9%).

I Periodici sono in flessione del 7,3%. Tra i settori, è positivo l’Abbigliamento (+1,5%), ma diminuiscono Abitazione (-7,5%), Cura Persona (-12,6%), Alimentari (-11,0%), Oggetti personali (-17,1%) ed Automobili (-15,5%).

C’è da notare che questi dati smentiscono clamorosamente la professione di ottimismo di molti manager della pubblicità italiana, che sul finire del 2008 rilasciavano dichiarazioni tranquillizzanti circa l’andamento del mercato, nonché delle rispettive agenzie. Come si può vedere, la realtà era ed è tutt’ora molto diversa, tanto da far pensare che la situazione miri verso ulteriori peggioramenti.

Non è, infatti pensabile ci possano essere incrementi di spesa pubblicitaria da parte di aziende, globali e nazionali che subiscono la pesante congiuntura della crisi economica. Tutti i settori sono in crisi, molti tagliano e taglieranno ulteriormente, accanto ai budget di comunicazione, anche stabilimenti e posti di lavoro.

Questa situazione non può che riverberarsi anche sulla agenzie di pubblicità, con il conseguente ulteriore taglio dei livelli occupazionali, già in atto a partire dalla seconda metà dello scorso anno. In barba, appunto alle dichiarazioni pubbliche di buona salute finanziaria delle agenzie di pubblicità, rese dalla quasi totalità dei top manager della pubblicità italiana.

Questa “cortina fumogena” di ottimismo gratuito ha, anzi, peggiorato la situazione, dando la viva impressione di essere totalmente impreparati ai nuovi scenari descritti alla crisi, aggravando ancor di più le già scarse risorse di reputazione e autorevolezza di cui godono le aziende di comunicazione italiana presso gli investitori pubblicitari.

Tra circa un mese, a metà di marzo, Upa, l’associazione degli inserzionisti pubblicitari e Assocomunicazione, l’associazione delle imprese di comunicazione commerciale hanno convocato un meeting a Roma sullo stato dell’arte della pubblicità italiana. Visti i dati, poco edificanti e sottolineati i comportamenti, poco trasparenti sarebbe il caso di suggerire agli organizzatori di mettere al primo punto dell’agenda dei lavori dell’assise romana la correttezza nell’informazione sull’andamento del mercato e sui bilanci delle agenzie. Come, per altro si faceva fino ai primi anni del 2000, quando questi dati erano comunicati e pubblicati su Advertising Age, la famosa rivista americana.

E’ vero che la pubblicità ha il dovere di dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità. Ma questo può valere nella comunicazione dei messaggi, dove l’esagerazione e i meccanismi di rovesciamento sono leciti, perché accettati dai lettori come il tipico linguaggio della pubblicità, irridente, provocatorio, sorprendente e per questo accettabile, magari con un sorriso.

Tutto ciò non è invece accettabile quando si ha a che fare i numeri dei fatturati. Lì è in gioco la correttezza dei rapporti tra i protagonisti del mercato della comunicazione commerciale in Italia. Alla quale farebbe bene che a essere molto creativi fossero copywriter e art director, non Ceo e direttori finanziari. (Beh, buona giornata).

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Nielsen Media Research ci dice finalmente quanto sta male la pubblicità italiana. E smentisce tutti coloro che vevano fatto professione di ottimismo.

 

da advexpress.it

 
 
Gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce del +0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo del -1,2% della Televisione e del -7,1% della Stampa. La Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.

 

Gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni con una flessione del -2,8% sull’anno precedente. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%.Nel confronto mensile il calo interessa, con diversa intensità, tutti i mezzi ad eccezione di Internet che cresce del +0,9% sul dicembre 2007. Considerando i primi dieci settori, nel 2008 si registra un trend positivo per Telecomunicazioni (+1,9%), Abbigliamento (+0,8%), Abitazione (+1,2%) e Toiletries (+4,3%); negativo per Alimentari (-2,2%), Automobile (-4,7%), Media/Editoria (-4,4%), Bevande/Alcoolici (-9,8%), Finanza/Assicurazioni (-5,9%) e Cura Persona (-5,5%).

I Top Spender del 2008 sono, nell’ordine: Ferrero, Vodafone, Wind, Unilever, Tim, P&G, Barilla, Volkswagen, L’Oreal e Fiat Div. Fiat Auto .

L’analisi per mezzo evidenzia nell’anno un calo del -1,2% della Televisione e del -7,1% della Stampa. In particolare, i Quotidiani a pagamento registrano il -7,0% con la Commerciale Nazionale a -10,7%, la Locale a -0,8% e la Rubricata/Di Servizio a -4,9%.

Sui Quotidiani sono in forte diminuzione gli investimenti di Auto (-21,5%), Finanza/Assicurazioni (-18,4%) e Distribuzione (-11,3%). E’ positivo, ma in rallentamento, l‘Abbigliamento (+6,9%).

I Periodici sono in flessione del -7,3%. Tra i settori, è positivo l’Abbigliamento (+1,5%), ma diminuiscono Abitazione (-7,5%), Cura Persona (-12,6%), Alimentari (-11,0%), Oggetti personali (-17,1%) ed Automobili (-15,5%).

La Radio mette a segno una crescita del +2,3% superando i 487 milioni di raccolta. Ad eccezione di Internet che cresce del +13,9% superando i 321 milioni, gli altri mezzi nel 2008 sono in sofferenza: l’Outdoor registra il -2,8%, il Cinema il -16,4% e le Cards il -10,6%.

Si aggiungono al mercato fin qui analizzato gli investimenti pubblicitari sui Quotidiani Free/Pay Press e sulle Tv satellitari. Per City, Leggo, Metro, 24 Minuti ed EPolis il fatturato complessivo nell’anno è di 140,2 milioni. Per i canali Sky Sport 1, Sky Cinema 1, Sky Cinema 3, Sky Tg 24, Fox, Fox Life, Fox Crime e National Geographic è di 91,2 milioni.

Beh, buona giornata.

 

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«La crisi riduce i budget della pubblicità su carta E anche il pluralismo»

di FRANCESCO PICCIONI da Il Manifesto
È uno dei più noti copy writer italiani, con una carriera «all’americana», da semplice fattorino a «presidente e direttore creativo esecutivo» della Tbwa/Italia. Poi, per Marco Ferri, una girandola di incarichi e riconoscimenti internazionali, sempre all’interno del delicato snodo tra pubblicità e media.
Inserti e giornali femminili sono «dimagriti»…
La crisi viene da lontano ed è strutturale. L’Italia, in particolare, non consuma molti giornali. Come per il resto dell’editoria, credo ci siano più testate che lettori. Oggi si aggrava perché la crisi economica fa sì che si taglino budget e posti di lavoro, e quindi ai giornali arriva meno pubblicità, con scompensi gravissimi.
Cala la «torta» complessiva della pubblicità?
C’è un restringimento stimato nell’ordine del meno 3 e qualcosa. Sono dati non confermati e non smentiti, perché tutte le grandi holding di pubblicità – non solo le agenzie, ma anche i centri media – non dichiarano più i dati dall’inizio del 2000, con la crisi della net economy. Un accordo per non pubblicare più le loro classifiche sulla rivista Usa Advertising age, come avvenuto fin lì. All’epoca tutte le holding di pubblicità furono sottoposte a controlli della Sec – la Consob americana – per delle «irregolarità». Furono costrette a rimettere a posto i propri bilanci e in alcuni casi anche a restituire delle over commission ai grandi clienti.
A livello globale?
Sì. Molta della pubblicità prodotta in Italia è legata a holding internazionali; i manager italiani non hanno fatto altro che adeguarsi agli ordini. Noi abbiamo però il grave problema che gran parte dei budget pubblicitari viene assorbito dalla tv; da Mediaset e Rai. In una fase di crisi, con quasi il 70% assorbito dal sistema televisivo, si può immaginare come si sia ridotto il flusso verso la carta stampata. I giornali perdono contemporanemaente copie, diffusione, lettori e pubblicità. Questo assottiglia non solo le pagine, ma – temo – anche la forza lavoro.
E’ possibile un uso selettivo e condizionante della pubblicità in queste condizioni?
Temo di sì. La pubblicità ha già la sua forte influenza sui contenuti giornalistici. In tempi di crisi, «urtare la suscettibilità» di un investitore condiziona chi deve affrontare un’inchiesta. Un esempio di oggi: Carlos Ghosn, da Tokyo, ha dichiarato che taglia il 10% dei costi globali di Nissan. Si potrebbe però obiettare: «ma come, una marca globale si prende gli incentivi in tutto il mondo e licenzia gli operai?» Scrivere una cosa del genere urterebbe gli investitori, che invece vorrebbero invece utilizzare le pagine del giornale per promuovere i propri modelli sottoposti a incentivi governativi. Ma la «stortura» vera riguarda il drenaggio eccessivo della quota di mercato assorbita dalla tv, il peso abnorme della tv commerciale. La Ue ha scritto di recente all’Italia per dire che la «legge Gasparri» non va bene. Ma non ne ha scritto nessuno.
L’inrgresso di Murdoch che effetto ha avuto?
Secondo i dati Fox la presenza è cresciuta dal 3,4% al 9,8. E’ ora un competitor robusto, più appetibile come strumento di comunicazione pubblicitaria. Questo crea malumori e scontri molto forti. C’è stato quel conflitto sull’iva al 20% come risposta, ma anche un cambio di strategia. Con il passaggio al digitale terrestre la tv generalista sta cercando di tematizzare i propri programmi , Sky sta facendo l’opposto. Hanno preso Fiorello, si parla di Celentano, già è in scuderia la Cuccarini. Personaggi tipici che hanno fatto grandi ascolti nell’intrattenimento «generalista». Murdoch sta investendo in Italia, nonostante le perdite globali. Ma il satellitare può essere un competitor della tv in chiaro.
Si va a una concentrazione delle testate?
E’ un ridimensionamento duro, rigido, del mercato. Dolori veri. In Italia è anche venuto meno il finanziamento «su carta» ed è in discussione la legge di riforma dell’editoria. Sono tutti molto cauti, sia l’Fnsi che gli editori.
Un grande futuro, per il pluralismo…
Appunto. E’ come se il pluralismo fosse stato ridotto al telecomando. Ho l’impressione che, nell’editoria, sia tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).
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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Botte da orbi tra Mediaset e Sky. La pubblicità sta a “guardare”.

Sky non ha fatto nemmeno in tempo ad annunciare ufficialmente l’arrivo di Fiorello  che Mediaset  per rappresaglia sta facendo di tutto perché vengano tolti dalla piattaforma satellitare di Murdoch i suoi canali (Canale5, Italia1 e Rete 4) per essere trasmessi esclusivamente sulla nuova piattaforma satellitare Tivù Sat, Insomma, tra Sky Mediaset sta per scorrere sangue. 

Pare che in questi giorni, ogni tanto succede che dei tre canali Mediaset visibili su Sky uno venga oscurato e su un altro  compaia in modo continuato una scritta che avvisa lo spettatore dell’opportunità di vedere lo stesso canale anche sul digitale terrestre.

Sicuramente il lancio di Tivù Sat, la piattaforma realizzata in collaborazione da Mediaset, Rai e Telecom Italia Media, cioè La 7, riveste un’importanza strategica in particolare per Mediaset, che sta spingendo sulla pay tv. Infatti sul digitale terrestre sta operando nell’ottica di affiancare canali a pagamento a quelli in chiaro, soprattutto allo scopo di diversificare il fatturato. Il gruppo sta cercando di dare una spinta propulsiva agli abbonamenti a importo fisso mensile, proprio sul modello inventato da Sky appunto, in sostituzione alle carte prepagate.

Però, per sfruttare al meglio le potenzialità del modello pay, è innegabile che la piattaforma migliore resti quella satellitare; da qui la fiducia che Mediaset ripone nella nuova Tivù Sat e la decisione di portare su di essa anche i tre canali free, togliendoli alla tv satellitare di Sky.

Che intanto però, colleziona successi, non solo in termini di ascolti ma anche di raccolta pubblicitaria. Pare infatti che, nonostante l’annus horribilis del mercato, il 2008 per Sky si sia chiuso con lo stesso risultato del 2007, se non addirittura con qualche punto in più.

Finalmente un po’ di concorrenza nel mercato televisivo italiano. Anche se c’è da notare come in questo nuovo scenario la Rai appaia “embedded” alle scelte di Mediaset. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Gli italiani e la crisi dei consumi. Un monito per la pubblicità italiana: meno tv, più comunicazione; meno emozioni, più concrete informazioni. Insomma: meno blàblàblà, più creatività.

di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

STARBUCKS, la leggendaria catena del caffè e degli yuppies, taglia 7 mila posti e 300 negozi. McDonald’s, il re degli hamburger, apre 300 ristoranti e assume 12 mila persone. Non è solo la storia divergente di due aziende, ma di come la crisi che scuote il mondo stia stravolgendo i nostri stili di vita. Alle spalle le luci soffuse, l’atmosfera rilassata, la scelta tra un (costoso) caffè della Colombia e un (costoso) caffè dell’Ecuador, con il Mac sulle ginocchia a chattare con gli amici. E’ il momento delle luci crude, i tavoloni di formica affollati, i panini politicamente scorretti, da consumare in fretta, ma spendendo poco. Dal superfluo al necessario.

Come dicono sconsolati gli analisti di Goldman Sachs, esaminando il bilancio sconfortante di Polo Ralph Lauren, un simbolo del vestire con classe, nei consumatori l’aspirazione (“con questa cosa faccio un figurone”) è stata sostituita dalla disperazione (“ma davvero devo spendere tutti questi soldi?”). Un rapporto sui consumi di una grande banca, Credit Suisse, sottolinea che l’unico comparto che regge è l’alimentare: a mangiare non si rinuncia.

Tutto intorno, la spirale della deflazione è nel suo giro più maligno: i prezzi scendono, ma non abbastanza da stimolare la domanda. In Inghilterra, a dicembre, le vendite di beni non alimentari sono aumentate del 4 per cento. Ma i relativi incassi sono diminuiti dell’1,4 per cento, devastando i bilanci delle aziende e avvitando di più verso il basso la spirale della deflazione.

Non c’è da sorridere, comunque, per nessuno. Negli Stati Uniti, Saks e Neiman Marcus, gli Starbucks dell’abbigliamento, hanno visto a dicembre le vendite scendere fra il 20 e il 30 per cento, nonostante i saldi iniziati, spesso, il pomeriggio della vigilia di Natale. Wal-Mart, il McDonald’s della grande distribuzione, le ha aumentate, ma solo dell’1,7 per cento. Dice Giorgio Santambrogio, direttore generale al marketing di Interdis, una grande catena di supermercati italiana, con quasi 3 mila punti vendita: “Un fatturato che regge è già un successo”.

L’esempio più immediato lo troviamo nei luoghi che del risparmio – la carta vincente, oggi, per i consumatori – fanno la loro ragion d’essere. I mercatini dell’usato, online e sulle bancarelle, vanno alla grande e soddisfazione c’è anche nel più grande dei mercati dell’usato: l’auto. L’anno scorso, gli italiani hanno comprato quasi 3 milioni di macchine usate, contro poco più di 2 milioni di macchine nuove. Ormai, si vendono (comprese quelle cedute ai concessionari quando si acquista un’auto nuova) 138 macchine usate ogni 100 nuove.

Anche l’usato, in realtà, dall’autunno, secondo le stime di CarNext, una società del settore, ha subito una flessione nei numeri venduti, ma meno di un terzo, rispetto a quanto è avvenuto nel nuovo. E, intanto, la quota del fatturato, rispetto al nuovo, si allarga: nel 2008, i rivenditori di auto usate hanno incassato 24 miliardi di euro, il 56 per cento del giro d’affari delle auto nuove. Dove, a salvarsi, sono state solo le superutilitarie e quelle che, almeno, con gpl o metano, risparmiano sul carburante. Piano, però, a generalizzare l’effetto-risparmio.

Se, in effetti, il parametro decisivo è l’incrocio fra prezzo e necessità, sembrerebbe logico dedurre che, anche al di là dell’auto, i meglio attrezzati a galleggiare sulla crisi siano i profeti del discount, gli alfieri del prezzo scontato, spesso giganti globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco, Metro. E le loro repliche locali. Ma la psicologia dei consumatori è più complicata di così e la crisi morde in modo più selettivo. In termini generali, questa è l’era del discount: secondo i dati della Nielsen, nella prima metà del 2008, il 63,5 per cento degli italiani è andato a fare la spesa nei discount. Dallo scorso luglio, questa quota è salita al 72 per cento.

Eppure, un gigante degli ipermercati, paradiso del prezzo basso, come Carrefour, nel 2008 ha visto diminuire di quasi il 2 per cento le sue vendite in Italia e ha dovuto ridimensionare drasticamente il suo grande ipermercato della Romanina, nella capitale.

Metro sta tagliando il personale. Che succede? Ce lo fa capire Alessandro, direttore del discount Tuo a Roma, nel quartiere Gianicolense: “Noi – dice – più o meno vendiamo come prima. Ma sa qual è la differenza, rispetto ad un anno fa?” Con il mento indica i clienti che si muovono fra gli scaffali spartani: “Vediamo ogni giorno le stesse facce. Prima venivano una volta a settimana e riempivano il carrello. Adesso, vengono ogni giorno e se ne vanno con una bustina”. “E’ finita – spiega Santambrogio – l’epopea della shopping expedition, quando si partiva per riempire il bagagliaio della macchina con la spesa per un mese”.

Il consumatore italiano non pensa di potersi permettere progetti di spesa per più di due-tre giorni. “Noi – dice Santambrogio – facciamo più scontrini, ma ognuno per una cifra inferiore a prima”. Nielsen conferma: lo scontrino medio dei discount è passato da 69,7 a 63,6 euro. A soffrirne sono proprio gli ipermercati alla periferia delle città: il viaggio non vale più la pena. Le analisi di mercato di Infoscan dicono che, a novembre (ultimo dato disponibile prima che le vendite venissero drogate dallo shopping natalizio), gli ipermercati hanno venduto l’1,6 per cento in meno, rispetto ad un anno prima, e incassato il 3,1 per cento in meno. I supermercati, secondo Santambrogio che, da Interdis, segue marchi come Dimeglio e Sidis, in particolare quelli di quartiere, sono meglio in grado di adattarsi alle caratteristiche della clientela locale, ad una prevalenza di clienti anziani, piuttosto che di coppie con figli. Infoscan registra che, a novembre, gli incassi dei supermercati sono cresciuti dell’1,7 per cento rispetto al 2007.

Il consumatore italiano, insomma, pensa in piccolo e tira la cinghia. Tuttavia, i contorni della crisi italiana sono ancora fluidi e incerti. Gennaio è il mese dei saldi e delle tredicesime ancora in tasca, la massa dei precari tagliati il 31 dicembre ha ancora un mese di stipendio, le ondate di licenziamenti e di cassa integrazione si stanno materializzando solo adesso. Il picco della crisi deve, forse, ancora arrivare. Oppure la crisi italiana sarà diversa da quella dei paesi dove, oggi, sta colpendo più duro.

Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-Oviesse, ha un osservatorio privilegiato: i negozi Oviesse hanno un’offerta economica, mentre l’offerta di abbigliamento Coin si rivolge ad un segmento di mercato più alto. “Francamente – dice Beraldo – io non vedo differenze. Natale 2008 è andato, più o meno, come il 2007 e, anzi, forse Coin è andata meglio di Oviesse. Anche i saldi sono andati bene in tutt’e due le catene. Certo, non ci sono più i turisti russi e giapponesi a tenere su le vendite, le donne si concedono meno sfizi e tutti sono più attenti al rapporto qualità/prezzo. Fare il nostro mestiere è diventato più difficile. Ma niente di paragonabile al massacro cui assistiamo su mercati come quello americano, inglese o spagnolo. Magari il consumatore italiano è più resistente. Oppure stava peggio già prima”.

In effetti, in Italia non c’è stato ancora nulla di paragonabile allo “sboom” dei paesi in cui lo sgonfiarsi della bolla immobiliare prima, del credito al consumo e delle carte di credito, poi, ha determinato un crollo repentino, verticale, devastante delle vendite. Non c’è stato lo sboom, perché, prima, non c’era stato il boom: da anni, redditi e consumi italiani sono ai limiti dell’asfittico. Questo, tuttavia, vuol dire che la ripresa, quando arriverà, sarà più lenta ed incerta e che la crisi, se arriverà a colpire duro, troverà un organismo già indebolito. Soprattutto, perché il malessere dell’economia italiana, che viene da lontano e che la crisi globale può solo aggravare, ha già intaccato la resistenza di quelle classi medie che sono il nerbo dell’esercito dei consumatori.

Una ricerca condotta da Interactive Market Research ci fornisce un panorama degli umori e delle paure di queste classi medie. Come tutti i sondaggi on line, il campione non è rappresentativo della realtà nazionale. Ma, in questo caso, è un vantaggio. Perché un campione con il 30 per cento di laureati e il 50 per cento con un reddito sopra i 2 mila euro mensili è l’immagine della classe media attiva e, se da questa esce un sentimento univoco di pessimismo e rinuncia, i prossimi mesi saranno duri per tutti. E, qui, quasi metà degli intervistati ha difficoltà ad arrivare a fine mese e tre quarti si dichiarano molto preoccupati, al pensiero di un acquisto imprevisto che costi quanto un mese di stipendio. La lista delle rinunce e delle cose indispensabili ci fornisce una guida per capire chi soffrirà di più e chi meno, per la crisi.

Via libri, dvd, giornali, sigarette, cinema e teatro. Più televisione? Rai e Mediaset, però: metà del campione dichiara di aver rinunciato a Sky. Niente videocamera o videogames. Anche la tv a schermo piatto può attendere. Tagliati la palestra e l’estetista. Niente abiti eleganti, borse, attrezzature sportive. Neanche il cappotto nuovo. Al supermercato, basta con i dolci, l’acqua minerale, pesce, vino e birra. In generale, basta con i prodotti di marca: chi se ne frega dell’abito griffato e, per mangiare, vanno benissimo i prodotti con il marchio del supermercato locale.

Se ogni crisi, come dicono gli economisti, è anche un’opportunità, questa è l’ora dei terzisti, delle etichette anonime e un incubo per che si è preoccupato soprattutto di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio. E, poi, chi si salva? Sulla tavola delle classi medie continueranno ad esserci pane, pasta, olio, latte, uova e carne. I bambini avranno i loro giocattoli. Se proprio bisogna spendere, agli interventi di piccola manutenzione per la casa non si può rinunciare. Ai gadget tecnologici, invece, sì. La decimazione è quasi totale. Quasi. Per Nokia, Dell, Ericsson, Samsung, Asus, c’è un po’ di luce, in fondo al tunnel. Computer e telefonino restano due must. La classe media affonda, ma comunica. (Beh, buona giornata). 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Dopo Wall Street crolla anche il Wall Street Journal: la crisi della pubblicità mette in crisi i giornali.

da repubblica.it

Primo rosso da oltre tre anni per la News Corporation di Rupert Murdoch: il colosso dei media chiude il secondo trimestre dell’esercizio 2008-2009 con perdite per 6,4 miliardi di dollari. E annuncia un “rigoroso taglio dei costi” che si tradurrà in una riduzione della forza lavoro, anche al Wall Street Journal. A pesare sui conti della società sono gli 8,4 miliardi di svalutazioni effettuate e il calo della raccolta pubblicitaria sia dei quotidiani del gruppo sia delle stazioni televisive, che hanno visto scendere l’utile di gestione del 93%.

“I nostri risultati trimestrali riflettono direttamente il difficile clima economico” spiega Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. “Il rallentamento è più severo e probabilmente più lungo di quanto precedentemente previsto” e per questo News Corp “sta mettendo in atto un rigoroso piano di riduzione dei costi in tutte le attività e di riduzione personale dove è opportuno”.

La riduzione dell’organico riguarderà anche il Wall Street Journal, l’illustre quotidiano economico di Dow Jones, gruppo acquistato da Murdoch nel dicembre 2007 per 5,2 miliardi di dollari. L’imprenditore non ha specificato quali settori del gruppo saranno colpiti dal ridimensionamento. Ma secondo quanto riportato dallo stesso Wall Street Journal, i tagli riguarderanno circa 24 posizioni e saranno effettuati attraverso licenziamenti e incentivi all’uscita.

News Corp, così come tutte le società media, accusa un calo della raccolta pubblicitaria, oltre che un rallentamento nelle vendite di dvd. Nel trimestre che si è chiuso il 31 dicembre scorso le vendite di News Corp sono scese del 9,4% a 7,87 miliardi di dollari, al di sotto quindi delle attese degli analisti. Nel quarto trimestre 2008 l’industria dei giornali americana ha accusato – secondo le stime di Wachovia Capital markets – un calo della raccolta pubblicitaria del 20%.

Fra le varie unità del gruppo News Corp, la divisione cable network ha registrato un utile operativo di 428 milioni di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle pubblicità. La divisione film e produzione televisiva, invece, ha visto scendere i propri profitti del 72% a causa della brusca frenata delle vendite di dvd.

Significativa battuta d’arresto anche per la divisione via satellite, i cui profitti operativi sono scesi dell’84% in seguito all’aumento dei costi legato al più alto volume di sottoscrittori, e ai diritti tv per lo sport rincarati, così come i costi di marketing. In rosso anche Fox Interactive e MySpace, che soffrono una perdita di 38 milioni in seguito all’espansione internazionale, alla crescita del numero di utilizzatori unici e al lancio di MySpace Music. (Beh, buona giornata).

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