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Facebook è meno flessibile di un coltello da cucina?

di Pasquale Barbella-3DNews, inserto di Terra, quotidiano ecologista

La disavventura in cui sono incorso come utente di Facebook (la rimozione di un ponderoso archivio di immagini, testi, video e commenti innescata dall’incomprensibile protesta di un’organizzazione di “studi della civiltà cristiana”) ha suscitato un’ampia gamma di reazioni fra coloro che ne sono venuti a conoscenza. Dichiarazioni di solidarietà, interventi critici in vari blog e nelle stesse pagine di Facebook, petizioni al suo fondatore, Mark Zuckerberg, perché si rivedano le procedure in caso di presunte infrazioni. Ma non sono mancati punti di vista più gelidi, pragmatici e neutrali. Alcuni mi hanno fatto notare che, dopotutto, io facevo un “uso improprio” di Facebook. Ero in casa d’altri, insomma, ed ero tenuto ad attenermi alle regole della casa. Un padrone di casa ha il diritto di mettere alla porta l’ospite indesiderato.

Ho riflettuto a lungo su questa osservazione, dopo aver superato le prime emozioni di chi subisce un’ingiustizia: sbigottimento, sdegno, sete di vendetta. Non sono sicuro che sia gentile, da parte del padrone di casa, cacciare dalla mensa i suoi invitati. Ma è vero che di Facebook facevo un “uso improprio”: più umanistico (nel senso meno aulico e più umile della parola) che “chattoso” («ciao cara come stai…»)

Ci sono “usi impropri” pericolosi, come quando si adopera una comune posata da cucina per accoltellare la suocera; neutri, come quando per distrazione si usa il dentifricio per deodorare l’ascella; e simpaticamente innocui, come facevo io quando caricavo su Facebook, a puntate, i miei database d’immagini, suoni e parole, perché anche altri potessero fruirne.

Con l’età che avanza, agli interessi e agli hobby di sempre se n’è aggiunto un altro, insidioso, quasi ossessivo: sono diventato un addict del FileMaker Pro, un meraviglioso software che mi consente di riordinare non solo le collezioni di libri, CD e DVD, ma anche di dare una sistematina alle poche cose che ho imparato dalla vita. Temo lo smarrimento della memoria più della morte stessa. E sopravvivo in un mondo che tende a rimuovere le nozioni e gli insegnamenti del passato, anche recente e recentissimo. Non è banale nostalgia: chi è così pazzo da rimpiangere una giovinezza senza doccia e senza frigorifero? È che diventa difficile interpretare il presente e i segni del futuro, se non li si raffronta con i loro antefatti. Si dice che i vecchi hanno la testa nel passato remoto: balle. I vecchi sono la categoria più interessata al futuro, perché sanno che domani potrebbe essere l’ultimo giorno e si preoccupano di cosa gli succederà.

Ancor prima dei social network, il web nel suo insieme mi conquistò per la sua natura di sconfinato database. Ho usato (impropriamente) Facebook per convogliare, selezionandoli un po’ dai miei modesti giacimenti e moltissimo dal web, contenuti che avessero un qualche senso storico oltre che ludico, “insiemi” culturali che avessero qualche affinità con le mie passioni e i miei sentimenti, allo scopo di condividerli con persone vicine o del tutto sconosciute. Mi sono reso conto che Facebook non è la piattaforma ideale per questo genere di perversione. Ora sono più lucido, anche se deluso. (Beh, buona giornata).

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E se Facebook fosse una patacca anche per le aziende?

Facebook è gratis e conta 500 milioni di utenti, nel maggio di questo anno ha avuto 130 milioni di visitatori unici. E’ una società privata (il fondatore Zuckerberg possiede il 24%) ha 1400 impiegati e fatturerà questo anno circa un miliardo di dollari, quasi tutti provenienti dalla pubblicità, attraverso un contratto esclusivo con Microsoft. Però, il caso Barbella, il famoso pubblicitario italiano censurato da Facebook, dimostra che Facebook è così tenero, che si taglia con un grissino.

Il più importante e profittevole social network del mondo globale inciampa malamente su una segnalazione di un misterioso gruppazzo di invasati catto-fascisti, pre-conciliari. Perché lo hanno fatto non si sa. Forse la spiegazione è nella famosa storiella dello scorpione e della rana. Lo scorpione ucciderà la rana che lo traghettava attraverso il fiume, semplicemente perché è nella sua natura. Entrambi moriranno affogati.

Facebook ha inventato un grande business, basato sul protagonismo virtuale delle persone: la raccolta dei dati personali ha il vantaggio delle loro facce. Facebook, appunto.

Ma il business di Facebook non prevede i pensieri delle persone. Contempla solo e soltanto la quantità, per questo ha acquisito valore, per questo raccoglie pubblicità, cioè una montagna di soldini, senza fare niente che non sia: venite, venite, accalcatevi, scambiatevi le vostre chiacchiere, intanto vi preleviamo i dati, vi somministriamo pressione pubblicitaria. Voi chattate, e noi incassiamo.

Facebook non vuole persone, ha bisogno di corpi, con le loro faccette sorridenti. Per Facebook nessuno creda di possedere un qualche residuo di diritto di cittadinanza. Facebook ha superato l’idea antica di esseri umani, titolari di diritti, Facebook è oltre quella roba vecchia, tipo la democrazia, i diritti umani, le costituzioni, la cittadinanza. Tu non sei un cittadino, sei un “friend”. Facebook è così moderna che è il modernismo fatto tecnologia: voi non siete esseri pensanti, capricciosi, individualisti, emotivi, generosi, coraggiosi, idealisti. No. Voi siete consumatori. E allora, prendetevi tutto quello che la merce vi offre. Questa è la felicità, godetevela e non rompete le palle: sennò, fuori dal mondo dei social network, fuori da Facebook.

Pasquale Barbella, uomo colto, intellettuale prestato alla pubblicità è incappato proprio su Facebook. Ha toccato con mano che cos’è la dittatura commerciale, ai tempi del commercio globale, al tempo dei social network. La sua indignazione è genuina, quanto genuino è l’inganno proposto dall’idea che i social network avrebbero potuto allargare gli orizzonti della libertà di espressione.

Ma il caso Barbella pone un problema alle grandi imprese che investono budget pubblicitari su Facebook: se il sistema è così fragile da essere penetrato da un piccola banda di squinternati, che affidabilità può avere Facebook per il loro business? Meditate, direttori del marketing, meditate.Beh, buona giornata.

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Facebook ridà il passaporto a Barbella. Ma il giallo Advertown non è ancora risolto.

Facebook fa un passo indietro nella vicenda del bavaglio a Pasquale Barbella. Come è noto Facebook, su segnalazione di un certo Cenacolo Tradizione Cattolici Mordini, aveva chiuso il gruppo Advertonw, una pagina diretta da Barbella e altri creativi pubblicitari italiani, una pagina che raccoglieva annunci pubblicitari, una sorta di archivio della buona pubblicità in Italia e nel mondo.

Alle ore 10.04.44 GMT di oggi 14 settembre il Facebook Team italiano ha comunicato a Barbella il ripristino del suo account. Attualmente Barbella può rientrare nelle pagine che ha creato su Facebook. Tutte tranne Advertown, la pagina incriminata. “Ritengo – ma non ne ho le prove – che le proteste inoltrate da più parti al FB Team abbiano sortito questo effetto, e ringrazio tutti gli amici e i colleghi che si sono interessati alla vicenda”, ha detto Pasquale Barbella.

A questo punto la palla passa al Cenacolo. Intervistato ieri da ADVexpress Giuseppe Passalacqua, socio del Cenacolo aveva dichiarato “Non era nostra intenzione oscurare l’intero gruppo, abbiamo semplicemente seguito la procedura indicata dal social network per segnalare il nostro dissenso. Il nostro obiettivo era semplicemente eliminare dalla rete soltanto la pagina in questione”.

Se questo è vero, il signor Passalaqua ha il dovere di indicare la pagina ‘incriminata’, di modo che Barbella e i suoi colleghi possano rimuoverla e Advertown essere subito ripristinato. Solo così sarà chiaro che si trattava di ‘dissenso’ e non di atto proditorio di rappresaglia. E’ l’unico modo per chiudere questa bizzarra quanto opaca vicenda.

“Rimane aperto il “dossier Cenacolo”-ha detto infatti Barbella – una brutta storia che spero trovi prima o poi un perché”. Insomma, finché Advertown rimarrà chiuso, la questione resterà aperta. Beh, buona giornata.

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Un botta e risposta sul caso Facebook vs Barbella.

A proposito di “Perché Facebook ha messo il bavaglio a Pasquale Barbella”, ricevo da Hans-Rudolf Suter, uno dei fondatori della mitica STZ, la seguente lettera:

“Marco ci fa un grande favore perché riassume in poche righe i dispersi e numerosi commenti sull’argomento. Dissento.
Facebook è gratis e conta 500 milioni di utenti, nel maggio di questo anno ha avuto 130 mio di visitatori unici. E’ una società privata (il fondatore Zuckerberg possiede il 24%) ha 1400 impiegati e fatturerà questo anno circa un miliardo di dollari, quasi tutto proveniente da pubblicità attraverso un contratto esclusivo con Microsoft.

Mi sembra ovvio che Facebook non può rispondere del contenuto pubblicato dai suoi membri. Mi sembra anche che non deve esercitare alcun controllo preventivo sul contenuto. Perché se questo dovrebbe essere necessario per legge (tipo responsabilità dell’editore), nessuna piattaforma per socialmedia sarebbe concepibile.
Come la mettiamo invece con insulti, denigrazioni, bugie, truffe una volta che sono pubblicate?
Se la cosa è grave la si denunci alla magistratura. Altrimenti la si segnali a facebook che sospende il membro. La parti in conflitto si diano da fare per risolvere il problema. Ci manca solo un altro circuito giudiziario, quello di Facebook.
E’ comunque prudente usare Facebook come un luogo dove creare lo stimolo per visitare un blog o un sito che non è così fragile.

Infine aggiungo che ho telefonato al Signor Passalaqcua (quello del sito cristiano che ha denunciato Pasquale) che prima ha negato di esistere e poi ha detto che avrebbe risposto, ma non oggi, che doveva sentire altri durante il weekend, che avrebbero risposto lunedì. La voce era quello di un vecchietto spaventato. Spero non in conseguenza dei miei modi non sempre urbani.
Saluti
Hans Suter Interpretive Manager STZ pubblicità.”

Qui di seguito la risposta alle obiezioni di Suter:

Caro Hans,
mi pare ci siano due questioni semplici: la prima è che chiunque riceva una sanzione, ha il diritto di sapere perché. Faccio un esempio: se ricevo una multa per una contravvenzione al codice della strada, ho diritto di sapere quale articolo ho violato. Un divieto di sosta? Un passaggio col rosso? Nessuno accetterebbe un generico “per violazione del codice della strada”.

La seconda questione è che non si capisce perché, dopo aver chiuso Advertown, a Barbella sia stato inibito l’accesso alle altre sue pagine. E’ come se, siccome ho preso una multa, io non possa neppure più salire su un’auto.

Detto questo, ti segnalo che i signori del Cenacolo Tradizione Cattolici Mordini, che hanno promosso l’azione contro Barbella, scrivono sul loro sito: “Quali fedeli testimoni del pensiero mordiniano e dell’autentica Tradizione non possiamo che dissociarci ed condannare fermamente quelle persone che divulgano queste sacre tematiche nei social network.
Abbiamo trovato riferimenti al nostro cenacolo e al nostro sito in FACEBOOK. Diffidiamo chiunque intraprenda queste iniziative, peraltro non autorizzate, che sono opposte alla nostra natura”.

Mi pare evidente chi è che ce l’abbia con i social network. Non certo Barbella, che di Facebook è un utilizzatore. Dico questo perché Facebook scrive a uno degli amministratori di Advertown, Massimo Gaustini: “Se credi che abbiamo commesso un errore nel rimuovere questi contenuti, ti preghiamo di contattare direttamente la controparte per risolvere la questione(…).Firmato: Giulia, User Operations Facebook.

Insomma Barbella per essere “riammesso” in Facebook deve avere il beneplacido di una organizzazione che ritiene Facebook e i social network “iniziative opposte alla nostra natura.” Non ti sembra che tutta la vicenda sia un tantinello strampalata? Beh, buona giornata.

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Perché Facebook ha messo il bavaglio a Pasquale Barbella?

La censura ha sempre qualcosa di comico. Ma stavolta siamo al grottesco: Facebook, il social network per eccellenza, molto usato per fini pubblicitari censura i pubblicitari. Roba da far venire la pelle d’oca anche a un uovo sodo. Ecco i fatti: Pasquale Barbella, notissimo pubblicitario italiano, circa un anno fa apre una pagina su Facebook, intitolata Advertown. Su questa pagina, come una sorta di archivio collettivo, vengono pubblicati annunci e campagne pubblicitarie che hanno fatto la storia dell’advertising mondiale. Ad uso e consumo di studenti di scuole di pubblicità e di giovani creativi che lavorano nelle agenzie di pubblicità italiane, Barbella e altri pubblicitari di lungo corso, stimolavano la pubblicazione di esempi di comunicazione commerciale, un modo di tener viva la “memoria storica” della buona pubblicità.

Una iniziativa innocua, se volete ingenua, niente di più di quello che si è visto negli annual, cioè quei libri compilativi che raccolgono campagne premiate come le migliori. Una iniziativa lodevole, se non altro perché metteva a disposizione buoni esempi di pubblicità, una nicchia di fruitori che contava circa 700 “friends”, come vengono chiamati da Facebook coloro che si iscrivono e partecipano alla pagina in questione. Se non che il 31 agosto scorso, Barbella, fondatore di Advertown e altri “amministratori”, tra cui Massimo Guastini, Andrea Concato e Luigi Montaini, tutti pubblicitari di fama, ricevono un “Facebook Warning”: «Abbiamo disabilitato il tuo profilo poiché ci è stato segnalato da terzi che trasgrediva o violava i suoi diritti.».

Ma di che cosa stiamo parlando, se si tratta di una raccolta “storica” di annunci pubblicitari, pubblicati nel passato? Qualche erede di un pubblicitario americano o inglese si è irritato? Qualche grande azienda non ha gradito si pubblicassero annunci pubblicitari con il loro marchio, senza magari aver chiesto il permesso?
Macché, niente di tutto questo. Contattata Facebook, Barbella viene informato proprio da Facebook che una organizzazione che risponde all’indirizzo cenacolo@tradizionecattolicimordini.it ha chiesto la rimozione di Advertown. A parte che andare sul sito di questi signori sembra di finire nelle pagine di Dan Brown, la domanda è: perché? Facebook non fornisce spiegazioni, ma invita Barbella a trovare una composizione con cenacolo@tradizionecattolicimordini.it: se loro danno il permesso, la pagina Advertown potrà essere ripristinata.

Dalla comicità si è passati al grottesco, ma ecco che si affaccia la farsa: Facebook ritiene violate le sue regole, però non dà spiegazioni, ma anzi indica i responsabili della richiesta di cancellazione. Inutile dire che Barbella scrive ai signori di cenacolo@tradizionecattolicimordini.it, i quali si sono fin qui guardati bene dal rispondere.
Insomma, uno aderisce a un social network, ma è soggetto al veto di una organizzazione politico-religiosa esterna al social network medesimo. Ma né Facebook né cenacolo@tradizionecattolicamordini.it danno alcuna spiegazione.

Se dalla comicità si è passati al grottesco, e dal grottesco alla farsa, arriva infine il sopruso: il 9 settembre scorso Facebook chiude a Barbella ogni accesso alla pagina di base (“Pasquale Barbella”) e a tutti i gruppi tematici da lui fondati (musica, arte, letteratura, cinema, fotografia, attualità politica, satira politica). Insomma, prima a Pasquale Barbella è stato messo il bavaglio, e subito dopo è stato espulso, come indesiderabile dal “mondo” Facebook: attualmente, gli altri possono accedere alle “sue”pagine di Facebook, lui no. Roba da matti.

Perché Facebook ha messo il bavaglio a Pasquale Barbella non si sa, non si può sapere. L’unico fatto certo è che cenacolo@tradizionecattolicamordini.it ordina, Facebook esegue. Con tanti saluti alla libertà di espressione del più famoso social network nell’era dei new media. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia

La politica in Italia è fatta così.

A Mirabello, Fini ha detto: “Adesso basta, così non va. Se Berlusconi non la pianta, io farò così, così, così”.
Berlusconi s’è piccato: “Ah, è così? E allora te lo faccio vedere io, così impari: sono io che faccio così, così e così. Così impari a fare così”.
Bossi ha subito rincalzato: “Ah no, così non si va da nessuna parte”.
Bersani ha commentato: “Ma che si fa così?”. Casini ha aggiunto: “Così va mica bene”. Emma Marcegaglia, di Confindustria ha così commentato: “L’economia va così-così. E voi così non favorite la ripresa”. Di Pietro è così furibondo che ha detto così: “Così a chi? Checciazzecca, così?”.
Luca Cordero di Montezemolo ha chiosato: “Cosicché vorreste fare così?”. Rutelli ha sentenziato:” E no, dai, così no, per favore”. Massimo D’Alema, sotto i baffi ha sibilato: “Lo vedete che le cose stanno proprio così?”. Eugenio Scalfari ha scritto: “Questi qui son fatti così”. Nichi Vendola ha detto: “E allora se è così, vuol dire che così mi candido alle primarie, così ve la faccio vedere io che la Sinistra è capace di fare così”.
Minzolini ha fatto l’editoriale: “Così mi hanno detto di dire, così ho detto. Son fatto così”. Feltri titola: “Se così è, così dev’essere”. Il card. Bertone tuona: “Così sia”. Intanto, Marchionne manda a dire agli operai Fiat: “Vi faccio un c… così”.
Insomma, così fan tutti. L’Italia ha problemi grandi così. Il dibattito politico, invece, è piccolo così. E’ così che vanno le cose in Italia. Nessuno riesce a fare più di così. Si consiglia una urgente rilettura di “Così è se vi pare”. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il tonfo di Endemol: il format e la sostanza.

S’è rotto l’uovo di Colombo. Fare programmi a basso costo, di bassa qualità con un’ alta redditività pubblicitaria non paga più. Il tonfo di Endemol lo ha dimostrato. La televisione ha ingannato per anni gli inserzionisti pubblicitari, vendendogli format in grado di fare ascolti, che si volevano trasformati in altrettanti contatti utili alle campagne pubblicitarie. Ma a un certo punto il giocattolo si è rotto. Perché il successo di alcuni programmi era effimero, gonfiato dalle società di rilevamento dell’audience. Quando la crisi ha cominciato a picchiare duro, sono crollati i consumi, dunque le vendite, dunque gli introiti. E le grandi compagnie hanno cominciato a disinvestire in pubblicità televisiva.

Ecco la verità del tonfo di Endemol. Una verità che in Italia è ancora più rimarchevole. Pensate solo al fatto che Mediaset è la più grande compagnia del settore televisivo privato, ma è anche azionista di Auditel, ma è anche proprietaria di Endemol. Se poi non ci dimenticassimo che il capo di tutto questo è anche il capo del governo italiano, dovremmo tenere a mente che nel 2009 Berlusconi, che è anche il capo di Mediaset, di Auditel e di Endemol diceva che la crisi non c’era, poi che era alle spalle, poi che non bisognava investire pubblicità sulle testate “catastrofiste”. Risultato?

Secondo Nielsen Media Reaserch, compagnia americana operante anche in Italia, specializzata nelle ricerche di mercato, la raccolta pubblicitaria nelle tv italiane nel 2009 è scesa a -10%. Dunque, “Il Grande Fratello”, piuttosto che “Chi vuol essere milionario”, piuttosto che “Che tempo che fa”, tanto per citare solo alcuni format targati Endemol non sono riusciti a fermare la crisi dei consumi e di conseguenza la crisi degli investimenti pubblicitari in televisione. La formula secondo la quale, più abbasso la qualità più rendo fruibile la visione, più è facile inserirvi la pubblicità, più è garantito il successo delle vendite è andato a farsi friggere.

Il tonfo di Endemol non è un fatto semplicemente finanziario. E’ la prova provata della crisi di un modello di business della pubblicità. Se i consumatori se ne sono accorti, tanto da non dare più retta ai “consigli per gli acquisti” in tv; se i telespettatori se ne sono accorti, tanto da non accordare gli stessi livelli di audience; se gli investitori se ne sono accorti, tanto da penalizzare la tv a favore di internet; quello che stupisce è che non se ne siano accorti in tempo Goldman Sachs, Mediaset e Jon De Mol. Ma forse no. Dopo le “bolle speculative” cui siamo stati abituati, cosa volete che siano le “balle speculative” che sono state raccontate in questi anni ai consumatori, ai telespettatori e agli investitori pubblicitari?

Insomma, il vero reality show non è andato in onda nelle case dei telespettatori, è andato in sala riunione delle case produttrici di prodotti e servizi, ingannati dalla facilità con la quale gli si potevano vendere mediocri programmazioni televisive, da farcire con mirabolanti pianificazioni pubblicitarie. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Fini, Berlusconi e il “muck-raking” del Giornale di Feltri.

Feltri&Fini:giornalismo d’inchiesta e i “rimestatori del fango” in Italia, di Mimmo Càndito-lastampa.it

Nella tradizione del giornalismo americano (che non è affatto perfetto ma in larga parte segue standard elevati di professionalità e di indipendenza), una categoria di riferimento è quella del “muck-raking”, che letteralmente si può tradurre come “il rimestamento del fango”. Non è difficile capire che cosa s’intenda: un giornalismo che rimesta nei rifiuti – nella merda, verrebbe da dire – per scoprire che cosa ci sia dentro. Ora, la parte più nobile di questo raking è certamente il giornalismo d’inchiesta; la parte invece più volgare è il giornalismo scandalistico. La linea di demarcazione tra i due giornalismi non è sempre netta, e però alla fine non appare difficile trovare il campo di appartenenza, pur nelle inevitabili contaminazioni.

Facciamo un esempio concreto: alcuni mesi fa “la Repubblica” condusse una dura campagna di stampa contro certe abitudini del presidente B per l’ inveterato costume di mescolare con il suo privato la sua funzione pubblica e di farsi “utilizzatore finale” di prostitute, e di signore compiacenti, in una forma spregiudicata, che inquinava pesantemente l’esercizio del suo ruolo di capo di un governo.

La campagna era partita – o aveva comunque trovato una spinta decisa – dalla denuncia che la stessa moglie (oggi separata) di B aveva fatto pubblicamente, che il marito era “fortemente malato” e si accompagnava con ragazzine. Appare evidente come in quel caso si intervenisse sulla sfera privata del presidente B, ma – appunto – poichè non del “signor Berlusconi” si trattava ma del “presidente B” , le implicazioni politiche oltre che quelle etiche generali erano fortemente significative. Ricorderete: si discusse a lungo se ci fosse violazione della privatezza, e se fosse comunque un affare soltanto personale del signor Berlusconi, o se invece il pesidente B travolto dallo scandalo (si sussurrò a lungo di scelte politiche – perfino di nomine di ministre, non solo di selezione per le candidature al Parlamento, al Parlamento europeo, o a livello locale – dettate dalle compiacenze di letto o di sotto il tavolo, stile Clinton, che il signor B aveva ricevuto nel suo ruolo, non di Dongiovanni, ma di capo di governo oltre che di potentissimo uomo di potere: la televisione etc.), si discusse se B travolto dalla scandalo non dovesse avere la decenza minima di dimettersi per salvare l’immagine fortemente compromessa di istituzioni centrali dello Stato.

Finì che B non si dimise, anzi non fu nemmeno sfiorato dall’ipotesi che l’opinione pubblica intesamente dibatteva, ma certo l’ulteriore danno all’immagine della politica fu rilevante e significativo. Il giornalismo muck-raking de “la Repubblica” aveva svolto con efficacia il proprio lavoro, ma non aveva ottenuto il risultato, altrove inevitabile, del rimestamento del fango (l’analisi delle ragioni fu ampia e partecipata, resta la realtà di quella inefficacia).

Un altro caso concreto di muck-raking è quello che sta affollando molte pagine dei quotidiani ( e molti minuti televisivi) in questi giorni: la casa di Montecarlo affittata al “cognato” di Fini e con procedure che ancora non appaiano affatto chiare. Questa volta il raking è condotto dal quotidiano “il Giornale”, ma anche dal suo parente “Libero” (oltre che dal consanguineo “il Tempo”) ,tutte testate di proprietà o di forte contiguità con B, in una intensità d’intervento che non ha nulla da invidiare alla intensità messa in campo da “la Repubblica” nel caso delle “escort” (le puttane) con cui si accompagnava il capo del nostro governo. La similitudine appare evidente: uomo pubblico nell un caso e nell’altro, faccende poco edificanti nell’un caso e nell’altro, richiesta di dimissioni nell’un caso come nell’altro, giornali con linee editoriali schierate nell’un caso e nell’altro.

Tuttavia, essendo questo blog dedicato alla riflessione sui processi della comunicazione e non all’analisi dei fatti politici, mi pare utile, oltre che necessario, tralasciare l’analisi specificamente politica e tentare soltanto la decodifica dei due “messaggi”, che si mostrano simili nella loro “apparenza” e però mostrano disssimilituini rilevanti nella loro realtà. E’ soltanto la definizione delle diversità – ammmesso che ce ne sia una, e a me pare di sì – che può smontare il meccanismo perverso delle similitudini, e consentire dunque di colloccare con maggior esattezza questa operazione di muck-raking nel campo del giornalismo d’inchiesta o, invece, in quello del giornalismo scandalistico, pur con la inevitabilità delle contaminazioni.

Qual è la dissimilitudine più rilevante? Che nel caso 1 si trattava di realtà denunciate e sostenute da prove inattaccabili,oggettive, documentali, mentre nel caso 2 ci troviamo di fronte a ipotesi ancora non confermate e anzi, in alcuni episodi, addirittura inquietanti per l’a’mbiguità o, peggio, la scorrettezza nell’uso delel “fonti” (penso al dipendente del mobilificio romano che se ne va via dal lavoro e – subito dopo! – spiffera a “il Giornale” che Fini ha comprato i mobili “per Montecarlo” mentre altri quotidiani intervistano il titolare del mobilificio che assicura che mai si è detto di spedire quei mobili a Montecarlo:uso scorretto, o poco professionale, delle fonti; e penso a questa dichiarazione di ieri, di un testimone che “Fini andò a visitare la casa di Montecarlo”, dichiarazione che poi il testimone smentisce con controreplica parziale de “il Giornale” e con accertamenti presso la nostra ambasciata che, anche loro, smentiscono la denuncia de “il Giornale”: e anche qui, lavoro assai poco professionale dell’inchiestista, che non incrocia mai le “fonti”, unico metodo invece per garantirsi l’attendibilità delle testimonianze, come ben sanno tutti gli studenti di giornalismo prima ancora di diventare giornalisti ).

Nel caso 1 come nel caso 2 ci troviamo di fronte a un’aspra lotta politica, ma l’evidenza delle prove del caso 1 non si manifesta nel caso 2 e, anzi, solleva molte perplessità per le forme e i tempi dell’attacco de “il Giornale”, forme e tempi assai simili a quelli del “caso Boffo” (il direttore de “l’Avvenire” costretto alle dimissioni) quando alla fine venne dimostrato che la campagna de “il Giornale” era stata basata su documenti palesemente falsi e usati strumentalmente come mezzi di denigrazione di un direttore, Boffo, che stava manifestando critiche severe ai comportamenti pubblici/privati di B. Anche qui – cioè nel caso 2 – ci troviamo di fronte a forme e tempi che si mostrano rigidamente legati al ruolo critico che Fini si è scelto nei confronti di B, e “il Giornale” appare dunque come uno strumento servile, più che della denuncia e della ricerca della verità, di un attacco spregiudicato contro chi “ha osato” attaccare il presidente B.

Qual è il punto di rottura della spregiudicatezza? Quando il muck-raking abbandona il campo del giornalismo d’inchiesta e si sposta nel terreno del giornalismo scandalistico o, peggio ancora, del giornalismo servile? E’ possibile immaginare una indagine dell’Ordine dei giornalisti che definisca con autorevolezza se vengano rispettati i principi ai quali l’Ordine lega la’ttività giornalistica?
Sono domande complessse, e anzi, meglio ancora, sono domande cui appare molto difficile dare risposte chiare e univoche, proprio per quella ambiguità delle “contaminazioni” tra le due identità del muck-raking. Lascio a voi l’invito a discuterne, con una notazione che è utile fare, perchè attiene direttamente all’anslisi dei processi della comunicazione: la teoria dell'”effetto consumato”, che sostiene che, un a volta emesso il messaggio, questo consuma il suo risultato, e questo risultato non sarà più cancellato (o comunque sarà cancellato solo in minima parte) anche qaundo il messaggio venga successivamente smentito. In aggiunta: chi ricorda più le ragioni – la difesa della legalità nell’azione politica – che hanno mosso Fini alla sua denuncia critica? chi le ricorda più, dopo la campagna de “il Giornale”?

Una sola osservazione finale: se il potere politico può usare con tanta spregiudicatezza al proprio servizio il giornalismo, allora davvero questi si vanno facendo tempi bui assai, non solo per il giornalismo ma anche per il ruolo di una opinione pubblica che è tale – come insegnava Pulitzer – soltanto quando è informata correttamente. (Beh, buona giornata).

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La lettera di Michele Santoro a Mauro Masi.

(fonte: repubblica.it).
“La mancata messa in onda” di Annozero sarebbe “un grave danno per il servizio pubblico e mi costringerebbe a impiegare tutte le energie per difendere diritti miei, dei miei collaboratori e degli spettatori”. Lo scrive oggi Michele Santoro in una lettera al direttore generale della Rai Mauro Masi, commentando “l’ennesimo rinvio di una settimana” da parte del Cda Rai sulle decisioni relative alla messa in onda della trasmissione. Ecco la lettera:

“Gentile Direttore,
al termine di una stagione faticosa, durante la quale sono stato costretto a lavorare più per contrastare manovre politiche e impedimenti burocratici che per realizzare un prodotto televisivo, solo al fine di trovar modo di continuare a svolgere la mia professione con un minimo di serenità, avevo accolto il tuo invito a valutare una ipotesi transattiva che ponesse fine all’interminabile vicenda giudiziaria che mi riguarda.
Ma siccome nessuna azienda seria rinuncerebbe a cuor leggero a una trasmissione come Annozero e nessuna azienda libera discuterebbe di materie contrattuali riguardanti i suoi dipendenti come ha fatto la Rai, addirittura dedicando intere trasmissioni alla nostra cosiddetta trattativa, si è scatenata una incredibile concatenazione di errori di comunicazione e polemiche.

Oggi sono costretto a constatare che non si è ottenuto il risultato sperato: individuare soluzioni che appaiano e siano dalla parte del pubblico. E’, invece, risultato evidente che Annozero, perfino da chi esprime nei suoi confronti critiche violente, è considerato un elemento assai importante del panorama informativo italiano. Il clamore suscitato dalla eventualità di una sua soppressione, al di là delle critiche ingiustificate e immotivate sulla portata e il valore del possibile accordo, ha dimostrato inequivocabilmente che un pubblico enorme non vuole rinunciare ad uno dei suoi appuntamenti preferiti.

Perciò lasciami dire che, indipendentemente dalle tue intenzioni, la tattica di rinviare continuamente la conferma in palinsesto del programma, anche dopo quanto emerso dall’inchiesta di Trani, conferma nell’opinione pubblica la convinzione di un carattere strumentale dell’interesse manifestato per le nuove trasmissioni alle quali avrei potuto dar vita. Non c’è più spazio, quindi, per rinvii e ambiguità. E non c’è più tempo per trovare alcun accordo tra noi che non preveda la messa in onda di Annozero.

Ti prego di provvedere di conseguenza a sbloccare le pratiche che con i miei collaboratori sono state già tutte opportunamente istruite e consegnate alla Rete dopo aver definito con il Direttore Liofredi e gli uffici competenti della Rai date e modalità produttive. La mancata messa in onda del programma sarebbe un grave danno per il servizio pubblico e mi costringerebbe ad impiegare tutte le energie per difendere diritti miei, dei miei collaboratori e degli spettatori. Ti ringrazio per la cortese attenzione e ti invio i miei più cordiali saluti.
Michele Santoro
(Beh, buona giornata).

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Il 90% dei giornalisti italiani contro la legge-bavaglio. Berlusconi: “la libertà di stampa non è un diritto assoluto.”

La Federazione nazionale della stampa italiana rende noti i dati relativi all’adesione della giornata del silenzio dell’informazione contro la legge-bavaglio del 9 luglio scorso . Secondo la Fsni c’è stata una straordinaria adesione, ben oltre il 90 per cento, allo sciopero. La Fnsi ha sottolineato che “pochissimi giornali erano in edicola ieri ma tutti hanno ammesso che il testo di legge Alfano è sbagliato. Le ragioni del no al ddl risultano, dunque, unificanti per la professione giornalistica e assai allarmanti per i cittadini”.

“Una giornata straordinaria di protesta – si legge nel comunicato della Fnsi -. Basti pensare ai tanti giornali che, in occasione di altri scioperi, ad esempio il gruppo Riffeser o quotidiani come il Roma, non hanno mai perso l’occasione di porsi contro il sindacato e di andare in edicola. Pure l’adesione di tutta l’emittenza radiotelevisiva, anche di quella dove era più complicato organizzare la pratica dello sciopero, è stata eccezionale. L’adesione inoltre dei new media, il mancato aggiornamento dei siti, e la partecipazione corale dei colleghi dei periodici (che non potevano impedire l’uscita delle riviste in un solo giorno) sono stati la testimonianza di una rigorosa protesta civile e morale”.

Lo sciopero ha fatto notizia nel mondo, dalla Francia , alla Germania, dal Canada, all’Argentina, agli Usa, alla Colombia, alla Corea del Sud, all’Australia, al Venezuela, alla Gran Bretagna, al Belgio.

“Totale la solidarietà della Federazione mondiale (Ifj) e di quella europea dei giornalisti (Efj)”, ha reso noto la Fnsi.

Il Presidente della Federazione mondiale dei giornalisti, Jim Boumela, considerando l’inziativa di “valore straordinario”, ha inviato una calorosa lettera di solidarietà al segretario della Fnsi, Franco Siddi. La Federazione Internazionale dei giornalisti e i suoi 140 sindacati dei giornalisti presenti in 115 Paesi esprime “la solidarietà, all’azione intrapresa dai tuoi associati alla Fnsi durante la Giornata di Silenzio in opposizione alla legge sulle intercettazioni”, ha scritto il presidente Ifj Boumela.

“Crediamo tutti che questa legge-bavaglio, impedendo ai giornalisti di riferire delle investigazioni giudiziarie, sia un tentativo oltraggioso e inaccettabile di ferire gravemente l’informazione e un altro ‘chiodo nella bara’ – ha aggiunto -, la goccia che fa traboccare il vaso, del diritto di sapere e di essere informati dei cittadini italiani. In tutto il mondo, tutti i sindacati hanno seguito l’enorme lavoro che state facendo per difendere il diritto di informazione nell’interesse pubblico. Noi crediamo veramente che la vostra tenacia e determinazione nel combattere questa campagna facciano della Fnsi un modello per molti dei nostri sindacati”. Questo quanto ha riferito la Fnsi.

Da parte sua, il capo del governo italiano, forse non ancora informato della vasta eco della protesta della stampa italiana contro la legge bavaglio, ha detto, per tutta risposta allo sciopero dei giornalisti sul ddl intercettazioni e al silenzio dei media, rovescia la prospettiva. Non è la legge che vieta di ascoltare telefonate altrui ad essere un bavaglio per la libertà, dice il premier. È piuttosto «la stampa schierata con la sinistra, pregiudizialmente ostile al governo, che disinforma, distorce la realtà e calpesta in modo sistematico il diritto sacrosanto della privacy dei cittadini», ad aver «imposto il bavaglio alla verità».

Per il premier sono insomma certi giornalisti che «calpestano» il diritto ad un «uso sereno del telefono», «invocando la loro libertà come se fosse un diritto che prescinde dai diritti degli altri». Berlusconi li bacchetta, ricordando che «in democrazia non esistono diritti assoluti, perchè ciascun diritto incontra il proprio limite negli altri diritti egualmente meritevoli di tutela che, in caso della privacy, sono prioritariamente meritevoli di tutela». «Un principio elementare della democrazia – osserva il premier – ma che la stampa italiana, nella sua maggioranza, ha deciso di ignorare». A quanto sembra di capire, per Berlusconi la libertà di stampa non è un diritto assoluto della democrazia italiana. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia

Una nota della Federazione nazionale della stampa italiana. Beh, buona giornata aderisce.

«I giornalisti italiani hanno proclamato per il 9 luglio la giornata del silenzio dell’informazione – si legge in una nota della Federazione nazionale della stampa – per protestare contro il disegno di legge Alfano che limita pesantemente la libertà di stampa e prevede pesanti sanzioni contro editori e giornalisti che danno conto di fatti di cronaca giudiziaria ed indagini investigative».

Nella giornata di venerdì, quindi, i quotidiani non saranno in edicola, telegiornali e radiogiornali non andranno in onda, i siti di informazione on line non effettueranno aggiornamenti delle notizie. L’appuntamento con l’informazione è fissato per sabato.
Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Sport

Sudafrica 2010: gesti atletici e senso della Storia.

I giocatori del Ghana, protagonisti della sfortunata prova nel quarto di finale mondiale perso ai rigori contro l’Uruguay, sono stati ricevuti a Johannesburg dall’ex Presidente del Sudafrica e Premio Nobel per la pace Nelson Mandela. Uno per uno, Asamoah Gyan e compagni, apparsi tutti emozionati, hanno stretto la mano a ‘Madiba’, che li ha elogiati: “Potete tornare in patria a testa alta”. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Roma, 1 luglio: no alla legge bavaglio.

Intercettazioni. La Fnsi raccoglie tutti in piazza Navona, lo slogan: “Non molliamo”-blitzquotidiano.it

La piazza stracolma, ovazioni per Roberto Saviano e tutti, di ogni generazione, d’accordo nel dire ”non molliamo”: questo il bilancio della manifestazione contro il ddl intercettazioni, ”la legge bavaglio” organizzata dalla Federazione nazionale della stampa a piazza Navona. ”Ci viene detto che la legge difenderà la privacy, che è sacra – ha detto Saviano tra gli applausi -. Ma questa legge non difende le telefonate tra fidanzati, ha l’unico scopo di impedire di conoscere quello che sta accadendo, difendere la privacy degli affari, anzi dei malaffari”.

In un lungo e caldo pomeriggio, presentato da Tiziana Ferrario del Tg1 e aperto dall’inno di Mameli, si sono alternati molti interventi (senza politici, rimasti ai piedi del palco ma con tanti colori di partito nella piazza), e musica. Tra i più applauditi c’è stato Stefano Rodotà che ha ringraziato il presidente della Repubblica ”che oggi con una sobria e decisa dichiarazione ha detto che questa legge non può essere approvata”.

Dario Fo, in collegamento telefonico ha usato l’ironia per definire il premier ”un uomo che sta perdendo colpi, tradito anche da chi gli è più vicino. Siamo solidali, aiutiamo un uomo perduto, ignoriamo Berlusconi”. Tra gli artisti anche Fiorella Mannoia, che ha fatto un appello a tutti i parlamentari, al di là del colore politico ”perchè ritrovino un po’ di coscienza civile e non approvino questa legge”.

E Giovanna Marini, che insieme al Coro dei benpensanti ha fatto cantare la piazza, sembrava di essere tornati agli anni ‘70, con una canzone scritta ad hoc, Vivere l’utopia sulle ”veline indottrinate, avvocati fraudolenti e un governo che vuole un popolo ignorante”. A spiegare le ragioni della manifestazione il segretario generale e il presidente della Fnsi Franco Siddi e Roberto Natale, oltre al presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, ma anche rappresentanti dei sindacati della polizia, degli istituti di ricerca e dei poligrafici.

Nel retropalco, molti politici, da Pierluigi Bersani a Fausto Bertinotti, da Antonio Di Pietro a Rosy Bindi, da Walter Veltroni a Piero Fassino, e fra gli altri volti noti, il consigliere Rai Nino Rizzo Nervo, Carla Fracci, Monica Guerritore, Dacia Maraini, Francesco Maselli, Ettore Scola, Mimmo Calopresti, Tullio Solenghi, Leo Gullotta e Carlo Lucarelli. C’era anche Anna Politovskaja nella voce di Ottavia Piccolo che ha letto un testo della giornalista russa uccisa, che ha infiammato la piazza. Ma non sono mancate le polemiche.

Protagonista Patrizia D’Addario, che con in mano il suo libro Gradisca presidente, è stata assalita da fotografi e giornalisti. ”Questa legge mi riguarda. Sono stata invitata dagli organizzatori. Se ci fosse stata questa legge un anno fa, io non avrei potuto raccontare la mia verità e voi sareste andati in carcere”. ”Via le escort di Berlusconi da questa piazza!”, ha detto Benedetta Buccellato, segretario dell’associazione per il teatro italiano. Siddi ha precisato che la D’Addario ”non è una testimonial della manifestazione di oggi, nessuno di noi l’ha invitata, la battaglia per la libertà che stiamo compiendo è troppo seria, no alle strumentalizzazioni”. Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro ha fatto un appello a tutti i cittadini: c’è un pericolo per la democrazia, Berlusconi è al governo perché ce l’hanno mandato. Dobbiamo fermare lui e i suoi sodali prima che sia troppo tardi”.

Per Pierluigi Bersani, i consigli di Napolitano sono stati inascoltati. Loro hanno voluto forzare. A questo punto io sono perche’ il ddl venga ritirato”. In piazza sventolavano molte bandiere di Idv, Pd, Rifondazione comunista, Verdi e Sinistra Ecologia e Libertà. Immancabili gli striscioni anti-Berlusconi, come quello che recitava ”Un presidente del Consiglio (serio) non si avvale della facoltà di non rispondere, specialmente per fatti di mafia”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Mangano eroe? Così Dell’Utri manda messaggi ai boss in carcere”.

Ciancimino Jr: “Mangano eroe? Così Dell’Utri manda messaggi ai boss in carcere”-blitzquotidiano.it
“Mangano eroe? Un messaggio al popolo di Cosa nostra”. Non ha dubbi il pentito Massimo Ciancimino che, in un’intervista al quotidiano La Stampa commenta la sentenza della Corte di Appello di Palermo che ha condannato il senatore Marcello Dell’Utri a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Per il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, quando Dell’Utri ribadisce che Mangano è un eroe si rivolge ai mafiosi in carcere, come ad esortarli a non mollare. Gli dice, insomma, “siete dei martiri”.

Ciancimino Jr a quel processo avrebbe dovuto testimoniare e raccontare proprio dei rapporti tra Dell’Utri e la mafia, ma la richiesta del Procuratore Gatto di interrogarlo è stata respinta dai giudici. Ciancimino spiega: “La mia deposizione sarebbe stata ininfluente ai fini della decisione finale. Mio padre sapeva dei rapporti di Dell’Utri con la mafia da molto prima del 1992 e di questo ho lasciato documentazione alla Procura di Palermo che ne ha accertato l’autenticità”.

Il senatore, intanto, ha fatto sapere di apprezzare i silenzi di Ciancimino senior. Il figlio, senza scomporsi, risponde: “Io ho voluto denunciare i silenzi di mio padre perché volevo essere un altro esempio per mio figlio”. (Beh, buona giornata)

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Leggi e diritto Media e tecnologia

Un’altra brillante performance di Augusto Minzolini, direttore del TgUno.

Dell’Utri, botta e risposta tra Repubblica e Tg1: “Lo avete quasi assolto”, “sparisce solo il vostro teorema”-blitquotidiano.it

Botta e risposta tra il quotidiano La Repubblica e il Tg1 di Augusto Minzolini. Oggetto della polemica il caso Dell’Utri: il senatore, martedì 29 giugno è stato condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa a 7 anni di carcere. La sentenza di secondo grado, però, riduce di due anni la pena e smentisce il ruolo del senatore nella presunta trattativa tra Stato e Mafia degli anni ‘90.

Il Tg1, nell’edizione delle 13:30 ha dato la notizia di Dell’Utri come seconda, subito dopo quella della morte di Pietro Taricone. Il “taglio” del servizio su Dell’Utri, però, non è piaciuto a La Repubblica che, sul suo sito accusa Minzolini di averne combinata un’altra, dando di sfuggita la notizia della condanna e mettendo enfasi sull’assoluzione.

In un pezzo a firma di Carlo Ciavone Repubblica attacca Minzolini e Tg1: “Nel servizio mandato in onda, dopo l’obbligatoria notizia della condanna sulal quale si spende una sola frase, abbondano frasi come “costruzione accusatoria spazzata via”, oppure “accuse di pentiti senza riscontri”, o ancora “doccia fredda per il Procuratore Generale Gatto”… Il quale però, sennatamente, fa in tempo a ricordare al microfono di Minzolini che occorrerà aspettare per conoscere soprattutto “perché” una parte delle accuse a Dell’Utri sono state ritenute infondate”. “Come dire che – affonda ancora Ciavone – tutto sommato, avere rapporti con la mafia non è poi così grave, se poi non si vada a chiedere i voti, in cambio di favori”.

La replica del Tg1 al quotidiano di Enzo Mauro arriva qualche ora dopo sul sito internet ed è affidata a un pezzo non firmato, aggressivo già dal titolo: “Se a sparire sono i teoremi di Repubblica”. Per il Tg1 la notizia è stata raccontata nel “modo più corretto, da cronisti, facendo ascoltare il dispositivo letto dal presidente della Corte d’appello che partiva proprio dall’assoluzione per il senatore per poi passare alla riduzione della condanna. Microfono poi alla pubblica accusa e infine alla difesa”.

A sparire, quindi, almeno secondo il Tg1 non è la condanna di Dell’Utri ma i teoremi di Repubblica. Come? Scrive il Tg1 che “il teorema fu cavalcato con grande enfasi da Repubblica. Il teorema fu subito smentito da un boss che doveva confermare le dichiarazioni del primo. Il teorema attendeva ora che la corte d’appello ne confermasse la validità. Il teorema è stato smentito dai giudici”. Quindi, conclude il pezzo del sito del Tg1: sparisce “il teorema che non ha retto al giudizio di una Corte. E’ questa forse la ragione di una polemica montata sul nulla”.

Ma se la polemica è “montata sul nulla” c’era davvero bisogno di una risposta?
(Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

1° Luglio 2010, per la libertà di stampa e la libertà dell’informazione in Italia.

NO AL DDL INTERCETTAZIONI, NO AL SILENZIO DI STATO
Il 1° luglio 2010 a Roma, dalle ore 17, in piazza Navona

“Una grande mobilitazione per dire no al disegno di legge Alfano, che ostacola il lavoro di magistrati e giornalisti e rende i cittadini meno sicuri e meno informati; per dire no ai tagli alla cultura italiana previsti dalla manovra economica.
Una manifestazione per far sentire che non può essere sottratto al Paese il racconto di vicende giudiziarie di rilievo pubblico, pur nel rispetto del diritto delle persone alla riservatezza; per respingere gli interventi punitivi ai danni della produzione culturale e salvaguardare il diritto dei cittadini alla conoscenza; per contrastare il pericolo di chiusura di testate giornalistiche colpite dall’indiscriminata riduzione dei fondi pubblici; per tenere accese le luci dei media sul mondo del lavoro e sui drammatici effetti della crisi.
Un’iniziativa a difesa della Costituzione, per dare voce ai tanti soggetti e temi che rischiano l’oscuramento”.

Comitato per la libertà e il diritto all’informazione e alla conoscenza

Il primo luglio è prevista anche una ‘notte bianca’ della Fnsi, dell’Associazione di Stampa dell’Emilia-Romagna, dell’Anpi e dell’amministrazione cittadina a Conselice, il comune del Ravennate dove c’è l’unico monumento italiano alla libertà di stampa.

Info e aggiornamenti sul sito della Fnsi
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Natura Popoli e politiche

Il piccoletto Berlusconi cerca di difendere la piccola figura dell’Italia a un vertice piccino.

“I giornali disinformano. I lettori dovrebbero scioperare per insegnare a chi scrive a non prenderli in giro”. Il premier Silvio Berlusconi, a San Paolo del Brasile per una visita istituzionale, ha inaugurato il viaggio attaccando la copertura dedicata dalla stampa italiana al vertice G20 in Canada: “I resoconti sono l’esatto contrario della riunione”, ha detto. “Da molti mesi”, ha aggiunto, “vedo una disinformazione inconcepibile”. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume Sport

L’Italia fa fiasco nel calcio. Nella politica. Nell’economia. Nella democrazia. Nella giustizia. Nei conti pubblici. Nella disoccupazione.L’Italia fa fiasco nel governo.

La stampa straniera ci deride, L’Equipe: “Italia, l’altro fiasco”-tgcom.com
Un misto di ironia e triste realtà nei titoli dei quotidiani online dopo la debacle azzura ai Mondiali sudafricani. I francesi de L’Equipe titolano “Italia, l’altro fiasco” riferendosi proprio alla loro eliminazione. In Spagna Marca titola in italiano: “Arrivederci Italia” e As: “Ridicolo Italia, fuori dal Mondiale”. Il Sun scrive anche: “Arrivederci”. Infine Bild: “Italien raus, quelli che nel 2006 hanno fatto kaputt della nostra estate di sogno”.

In Italia La Gazzetta dello Sport scrive “A casa con vergona”, mentre Tuttosport non ha dubbi. C’è un solo colpevole: Lippi. Il Corriere dello Sport titola: “Italia che vergogna, fuori e ultima nel girone”. Passando ai generalisti. “Mai così brutti: l’Italia torna a casa” scrive La Repubblica e Il Corriere della Sera: “Italia, addio al Mondiale”. Infine La Stampa: “Naufragio Italia, si torna a casa”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Come la crisi economica diventa la crisi della democrazia occidentale.

Con la crisi democrazie a rischio, di Barbara Spinelli, la Stampa, 20 giugno 2010

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato – l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 – ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(…) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.

Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma – quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi – sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

NO alla legge bavaglio, ma neanche alla benda sugli occhi.

La legge bavaglio, nasce con Prodi, arriva al sublime con Berlusconi. Ha radici lontane e i politici la vogliono tutti-blitzquotidiano.it
Leggere le varie versioni della legge bavaglio, nella sua evoluzione fino a oggi, insegna molte cose.

Insegna, innanzi tutto, che il bavaglio c’è sempre stato, solo che era punito in modo così blando che nessuno ne teneva conto. Dice infatti l’articolo 114 del codice di procedura penale, intitolato Divieto di pubblicazione di atti e di immagini, in vigore dall’inizio della Repubblica e negli anni perfezionato:

1. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto.

2. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

3. Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero , se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. E’ sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni.

4. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse nei casi previsti dall’articolo 472 commi 1 e 2. In tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro di grazia e giustizia.

5. Se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato ovvero causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private. Si applica la disposizione dell’ultimo periodo del comma 4.

6. E’ vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni. Il tribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione .

6-bis. E’ vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.

7. E’ sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto.

Vale la pena di soffermarsi sul punto 6 bis, che vieta di pubblicare foto di gente in manette. Ancora di recente si è verificato un episodio che dimostra come, comunque, della legge nessuno tenga conto più di tanto.

Altra cosa che insegna un minimo di ricerca è che la classe politica è tutta o quasi d’accordo e che in queste ultime settimane abbiamo assistito a sceneggiate ipocrite. Ci sono delle voci sincere, come Giuseppe Giulietti e Gerardo D’Ambrosio, ma gli spiriti liberi non abbondano in natura e meno che mai in politica e Giulietti lo sa bene.

Insegna inoltre che l’impianto originale della legge è del governo Prodi; la prima versione porta la firma di Clemente Mastella e di Giuliano Amato, ministri della Giustizia e delle Finanze in quel Governo, con la benedizione formale e richiesta di Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca nei panni oggi indossati da Giulio Tremonti Relatore un ex magistrato, Felice Casson.

Le norme bavaglio c’erano già tutte.

Ecco il testo, come è uscito dalla Camera dei deputati, il 17 aprile del 2007.

È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare»;

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini ovvero il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza in materia di misure cautelari, fatta eccezione per le parti che riproducono gli atti di cui al comma 2-bis»;

Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni o dei quali sia data lettura in pubblica udienza;

Salvo quanto previsto [sopra], è consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal segreto.

Queste norme furono accolte dal plauso di tutte le forze politiche, e le dichiarazioni di voto dei deputati della sinistra, inclusi verdi e rifondazione comunista, erano di grande soddisfazione.

Forse questo non bastava a Berlusconi, che ha avuto la sfortuna di tornare al governo troppo presto. Ancora un anno e propbabilmente si sarebbe trovato la legge bavaglio bella e pronta, senza dover tanto penare.

Invece, tornato al governo e ripresa in mano la materia, Berlusconi doveva proprio caricarla di tutto il suo risentimento, semplicemente perché non avrebbe mai accettato di riconoscere un qualche valore a una legge della odiata sinistra. Con il risultato che si è infilato in un guaio.

Ed ecco il testo della legge approvata dal Senato il 10 giugno 2010, firmata dal ministro della Giustizia Angelinio Alfano e approvata dalla Camera un anno fa.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini o il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza del giudice, fatta eccezione per le parti che riproducono la documentazione e gli atti di cui al comma 2-bis».

Sono vietate la pubblicazione e la diffusione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi penali loro affidati. Il divieto relativo alle immagini non si applica all’ipotesi di cui all’articolo 147 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, nonché quando, ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca, la rappresentazione dell’avvenimento non possa essere separata dall’immagine del magistrato».

È in ogni caso vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271. È altresì vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni telematiche riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta.

Cambiano un po’ le parole, ma la sostanza è quella: è vietata la pubblicazione di tutto…

Quel che incattivisce la legge, nella versione uscita dal Senato il 10 giugno, è l’utilizzo dell’Ordine dei giornalisti e del Consiglio superiore della magistratura come strumenti repressivi. A tanto Prodi e i suoi non erano arrivati.

La norma ha origini lontane, perché già fu presentata, come emendamento alla legge Mastella, da Roberto Castelli, leghista ed ex ministro della Giustizia. Essa prevede che «di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone indicate al comma 1, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l’organo titolare del potere disciplinare, che nei successivi trenta giorni, ove siano state verificate la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità, e sentito il presunto autore del fatto, dispone la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi».

Il comma 1, dell’art.115 del codice di procedura penale, è lì da anni e dice che, in caso di Violazione del divieto di pubblicazione,

Salve le sanzioni previste dalla legge penale (684 c.p.), la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lett. b) costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, leggesi magistrati e giornalisti.

Solo che non era previsto alcun provvedimento punitivo, ma semplicemente che di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l`organo titolare del potere disciplinare.

Dato che cane non morde cane, nessuno aveva mai segnalato nulla e nessun provvedimento disciplinare risulta essere stato preso. Ora, invece, con questa norma, il provvedimento è obbligatorio, a discrezione c’è solo la durata della sospensione e per i giornalisti si profilano momenti cupi, visto che a giudicarli saranno loro colleghi, senza una preparazione giuridica adeguata, in una categoria sempre più lacerata dalle passioni della lotta politica.(…). (Beh, buona giornata).

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