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Mettiamo in crisi la crisi.

Globalizzazione in crisi, partita aperta

 

di FRANCESCO PICCIONI*

 

     1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.

Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.

Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.

Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.

 

     2)  Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).

Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.

Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.

E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).

La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.

La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.

 

      3)  La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.

L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.

 

      4)  La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si  riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).

Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.

E’ la situazione che ci troviamo davanti.

 

5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.

La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.

Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati ­ troppo spesso retrivi ­ della riottosità nazionalista.

     

      6)  Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.

Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile ­ nell’intero periodo ­ nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).

La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.

 

7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.

Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.

Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano ­ sotto le vesti di venture capital ­ solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?

Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset).  L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.

La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.

 

     8)  La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.

La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.

C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.

     

      9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema. 

       10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure  questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.

    

      11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)

 

* giornalista economico del Il Manifesto

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Non c’è più religione: anche il Papa prima dice poi smentisce.

 

« Richiamandoci dunque fedelmente alla tradizione, come l’abbiamo assunta dalle prime epoche del Cristianesimo, noi insegniamo, ad onore di Dio, nostro Salvatore, per gloria della Religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio, e dichiariamo quale dogma rivelato da Dio: ogni qualvolta il Romano Pontefice parla ex cathedra, vale a dire quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, allora egli, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro, possiede appunto quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi. Pertanto, tali decreti e insegnamenti del Romano Pontefice non consentono più modifica alcuna, e precisamente per sé medesimi, e non solo in conseguenza all’approvazione ecclesiastica. Tuttavia, chi dovesse arrogarsi, che Dio ne guardi, di contraddire a questa decisione di fede, sarà oggetto di scomunica. »
 
(Pastor Aeternus, 18 luglio 1870)

 

In una nota ufficiale della Santa Sede si afferma che le posizioni negazioniste del vescovo Richard Williamson erano “non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della scomunica”. Benedetto papa Ratzingher, cerchi di stare più attento, no? Beh, buona giornata.

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Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Crisi finanziaria globale: “tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.”

QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

di Daron Acemoglu da lavoce.info

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).

 

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Legge Alfano contro le intercettazioni: “muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.”

 
di GIAN CARLO CASELLI* da lastampa.it
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale. (Beh, buona giornata).

*procuratore capo di Torino

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.”

di Roberto Natale* – da liberainformazione.org

La minaccia del carcere per i giornalisti è venuta meno, ma la sostanza non cambia: anche dopo gli emendamenti presentati dal governo il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.

Non solo perché le sanzioni rimangono comunque pesanti: diecimila euro di ammenda massima per il singolo cronista, che diventano però quasi cinquecentomila per l’editore che ospiti il pezzo; con l’ovvia conseguenza – giustamente denunciata dalla Fieg – che i proprietari dei giornali sarebbero indotti ad intervenire sui contenuti, violando le prerogative dei direttori ed attuando quella “censura preventiva” contro la quale ha messo in guardia il Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

Il disegno di legge si conferma incompatibile con il diritto ad informare e ad essere informati perché il governo ha scelto di non modificare la scelta di fondo: quella di impedire la cronaca giudiziaria, vietando la pubblicazione (“anche parziale, o per riassunto o nel contenuto”, e “anche se non sussiste più il segreto”) degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare. E’ qui l’attacco più grave, dissimulato sotto gli insistenti richiami alla riservatezza. La privacy è diritto caro anche a noi giornalisti, ed abbiamo dato piena disponibilità a rendere più incisive, se necessario, le norme di autoregolamentazione per salvaguardarla.

Ma non ha senso invocare la sfera privata quando parliamo di scalate bancarie, del crack Parmalat, dello scandalo del calcio, della clinica Santa Rita: tutte vicende che, se la proposta Alfano fosse stata già legge, i cittadini italiani avrebbero potuto conoscere soltanto mesi o anni dopo.

E’ questo il gigantesco esproprio che si prepara, ai danni di noi giornalisti e ai danni dell’intera comunità civile: verrà mutilato il suo diritto di conoscere fatti di assoluta rilevanza sociale, che solo un’interessata mistificazione politica può cercare di spacciare per pettegolezzo o gossip.

Ne va proprio della qualità della nostra democrazia. E dunque dobbiamo sapere sviluppare ogni possibile alleanza. Con gli editori c’è un’ampia concordanza, che attende di essere tradotta in visibili, incisive iniziative comuni: consapevoli entrambi, giornalisti e imprenditori, che per la vita dell’informazione il diritto di fare cronaca è essenziale almeno quanto nuovi ammortizzatori sociali per il settore. E insieme ci sono i nostri lettori, spettatori, ascoltatori: pochi altri temi ci consentono di presentarci loro come titolari e difensori di un diritto di tutti.

Il Presidente del Consiglio ama ripetere che, nei suoi comizi, nessuno alza la mano quando lui chiede chi sia sicuro di non essere intercettato. Gli proponiamo di aggiungere un’altra domanda: chiedere alla piazza chi avrebbe rinunciato a sapere di Moggi, di Antonio Fazio, di una truffa ai danni dei piccoli risparmiatori, dei trapianti disposti da medici senza scrupoli. Abbiamo la forza di essere dalla parte dell’interesse generale. Perciò nessuno strumento sindacale andrà risparmiato, nelle prossime settimane, se servirà per evitare una legge-bavaglio. (Beh, buona giornata).

* Presidente Fnsi

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Attualità Leggi e diritto

A me non mi ferma Nettuno.

“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Maroni dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Il Google Drive (“GDrive”) potrebbe uccidere il computer da scrivania.”

di David Smith – «The Guardian» – tradotto da ComeDonChisciotte.org

Secondo un rapporto dell’azienda, Google sta per lanciare un servizio che permetterebbe agli utenti di accedere al loro personal computer da qualunque connessione Internet. Ma i critici avvertono che ciò darebbe al behemoth della rete un controllo senza precedenti sui dati personali degli individui.

Il Google Drive, o “GDrive”, potrebbe uccidere il computer da scrivania basato su un potente hard disk. Invece i file personali dell’utente e il sistema operativo potrebbero essere custoditi sui server di Google avendovi accesso tramite Internet.

Secondo il sito Web di notizie tecnologiche TG Daily, che lo descrive come “il prodotto più atteso della storia di Google”, il GDrive di cui si è tanto parlato dovrebbe essere lanciato quest’anno. Esso viene visto come un cambio di paradigma, con l’allontanamento dal sistema operativo Windows di Microsoft, che gira all’interno di gran parte dei computer del mondo, in favore del “cloud computing” [“elaborazione a nuvola” N.d.t.], in cui l’elaborazione e la memorizzazione vengono effettuati a migliaia di chilometri in remoti centri dati.

Gli utenti da casa o da lavoro si stanno sempre più rivolgendo a servizi basati sul Web, solitamente gratuiti, che vanno dalle e-mail (come Hotmail e Gmail) alla memorizzazione di foto digitali (come Flickr e Picasa) e a sempre più applicazioni per documenti e fogli dati (come Google Apps). La perdita di un computer portatile o la rottura di un hard disk non mettono a repentaglio i dati perché essi sono regolarmente salvati nella “nuvola” e possono essere consultati tramite Web da qualunque macchina.

Il GDrive seguirà questa logica sino alla sua estrema conclusione spostando i contenuti dell’hard disk dell’utente nei server di Google. Il PC sarà un dispositivo più semplice ed economico che funzionerà come portale verso l’Web, forse tramite un adattamento di Android, il sistema operativo di Google per telefoni cellulari. Gli utenti penseranno al loro computer come a un software piuttosto che a un hardware.

È questa prospettiva che mette in allarme i critici delle ambizioni di Google. Peter Brown, direttore esecutivo della Free Software Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che difende le libertà di chi utilizza il computer, non ha messo in discussione la convenienza che viene offerta, ma ha detto: “Sarebbe un po’ come dire ‘siamo in una dittatura, i treni viaggiano in orario’. Ma vi importa che qualcuno possa vedere tutto ciò che avete sul vostro computer? Vi importa che Google può essere in qualunque momento vincolato legalmente a consegnare tutti i vostri dati al governo americano?”

Google si è rifiutata di dare conferme sul GDrive, ma ha riconosciuto l’esistenza di una crescente domanda per il cloud computing. Dave Armstrong, direttore del dipartimento prodotti e marketing della Google Enterprise ha detto: “Vi è una chiara direzione… che allontana dall’idea ‘ Questo è il mio PC, questo è il mio hard disk’ e porta verso ‘ Questo è il modo in cui interagisco con le informazioni, questo è il modo in cui interagisco con il Web'”. (Beh, buona giornata).

Titolo originale: “Google plans to make PCs history”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
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25.01.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALCENERO

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“Rispetto alla fisica l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente.”

di Jean-Philippe Bouchaud – Science & Finance, Capital Fund Management

Sostengo che l’attuale crisi finanziaria evidenzia la necessità cruciale di un cambiamento di mentalità nell’economia e nell’ingegneria finanziaria, che dovrebbero allontanarsi dagli assiomi dogmatici per concentrarsi maggiormente sui dati, gli ordini di grandezza, e su plausibili, ancorché non rigorosi, argomenti. Una versione ridotta di questo saggio è apparsa su «Nature».

Rispetto alla fisica, sembra giusto dire che l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente. I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? Perché le cose vanno così?

Naturalmente, modellare la follia delle persone è più difficile del moto dei pianeti, come disse una volta Newton. Ma l’obiettivo qui è quello di descrivere il comportamento di grandi popolazioni, per le quali dovrebbero emergere regolarità statistiche, così come la legge dei gas ideali emerge dal movimento incredibilmente caotico delle singole molecole. Per me, la differenza fondamentale tra le scienze fisiche e l’economia o la matematica finanziaria è piuttosto nel relativo ruolo dei concetti, delle equazioni e dei dati empirici. L’economia classica si basa su ipotesi molto forti che diventano rapidamente assiomi: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l’efficienza del mercato, ecc.

Un economista una volta mi ha detto, sconcertandomi: questi concetti sono così forti che si sostituiscono a qualunque osservazione empirica. Come Robert Nelson ha affermato nel suo libro, Economics as Religion (L’economia come una religione, ndt), il mercato è stato divinizzato. I fisici, d’altro canto, hanno imparato a essere diffidenti nei confronti di assiomi e modelli. Se l’osservazione empirica è incompatibile con il modello, il modello deve essere cestinato o emendato, anche se è concettualmente bello o matematicamente conveniente. Così tante idee ben accette si sono rivelate sbagliate nella storia della fisica al punto che i fisici hanno maturato fino a essere critici e guardinghi rispetto ai loro modelli. Purtroppo, analoghe salutari rivoluzioni scientifiche non hanno ancora preso piede in economia, laddove le idee si sono cristallizzate in dogmi, che ossessionano gli accademici, nonché i responsabili delle decisioni nelle posizioni apicali delle agenzie governative e delle istituzioni finanziarie.

Questi dogmi sono perpetuati attraverso il sistema dell’istruzione: la didattica della realtà, con tutte le sue sfumature ed eccezioni, è molto più difficile da insegnare rispetto a una bella formula coerente.

Gli studenti non discutono i teoremi che possono usare senza pensare.

Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticato la metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta.

La presunta onniscienza e perfetta efficacia di un libero mercato deriva dal lavoro economico degli anni ‘50 e ‘60, che – con il senno di poi – sembra più propaganda contro il comunismo che una descrizione scientifica plausibile.

In realtà, i mercati non sono efficienti, gli uomini tendono ad essere eccessivamente mirati al breve periodo e ciechi sul lungo periodo, e gli errori si amplificano per via della pressione sociale e l’intruppamento acritico, e in ultima analisi portano a irrazionalità collettiva, panico e dissesti.

I mercati liberi sono mercati selvaggi.

È assurdo credere che il mercato possa imporre la propria auto-disciplina, come è stato sostenuto dalla US Securities and Exchange Commission nel 2004, quando ha consentito alle banche di accumulare ancora nuovi debiti.

Il ricorso a modelli basati su assiomi errati ha evidenti e grandi effetti. Il modello Black-Scholes è stato inventato nel 1973 per dare un prezzo alle ‘options’ supponendo che le variazioni di prezzo abbiano una distribuzione gaussiana, come a dire che la probabilità di eventi estremi è considerata trascurabile. Venti anni fa, l’uso indebito del modello di copertura del rischio sul crollo dei mercati azionari entrò nella spirale del crack borsistico dell’ottobre 1987: un crollo del 23% in un solo giorno, tanto da far apparire piccoli i recenti singhiozzi dei mercati. Ironia della sorte, è proprio l’uso del modello anti crack Black-Scholes che destabilizzò il mercato!

Questa volta, il problema risiede in parte nello sviluppo di prodotti finanziari strutturati che hanno impacchettato il rischio subprime all’interno di investimenti ad alto rendimento apparentemente rispettabili. I modelli utilizzati per stabilirne i prezzi erano fondamentalmente errati: hanno sottovalutato la probabilità che più mutuatari sarebbero stati insolventi sui loro prestiti contemporaneamente. In altre parole, questi modelli hanno di nuovo trascurato proprio la possibilità di una crisi globale, anche se hanno contribuito ad innescarne una. Gli ingegneri finanziari che hanno sviluppato questi modelli non si sono nemmeno resi conto che hanno aiutato i trafficanti di credito del settore finanziario a contrabbandare i loro prodotti in tutto il mondo: non erano stati addestrati a decifrare che cosa implicassero davvero le loro ipotesi.

Sorprendentemente, non vi è alcun quadro di riferimento nell’economia classica per comprendere i mercati selvaggi, anche se la loro esistenza è così evidente per i profani. La fisica, d’altro canto, ha sviluppato diversi modelli che permettono di capire in che modo le piccole perturbazioni possano portare a effetti incontrollabili. La teoria della complessità, sviluppata nella letteratura della fisica durante gli ultimi trenta anni, mostra che, quantunque un sistema possa avere uno stato ottimale (come uno stato di energia più basso, per esempio), sia talvolta difficile da identificare giacché il sistema non si situa mai in quella condizione. Questa soluzione ottimale non solo è inafferrabile, è anche fragilissima rispetto a piccole modifiche dell’ambiente, e quindi spesso irrilevante per capire cosa stia succedendo. Vi sono buone ragioni per credere che questo paradigma della complessità dovrebbe essere applicato ai sistemi economici in generale e ai mercati finanziari in particolare.
Semplici idee di equilibrio e di linearità (l’ipotesi che piccole azioni producano piccoli effetti) non funzionano. Abbiamo bisogno di rompere con l’economia classica e sviluppare strumenti del tutto nuovi, come si è cercato in modo ancora frammentario e disorganizzato da parte degli ‘economisti comportamentali’ e degli ‘econofisici’. Ma la loro sforzo di nicchia non è preso sul serio dall’economia mainstream.

Intanto che si sta lavorando per migliorare i modelli, anche la normativa ha bisogno di migliorare. Dovrebbero essere esaminate le innovazioni nei prodotti finanziari, sottoposte a dei “crash test” rispetto a scenari estremi e approvate da agenzie indipendenti, proprio come abbiamo fatto con le altre industrie potenzialmente letali (chimiche, farmaceutiche, aerospaziali, nucleari, ecc.).
In considerazione della presente caotica fuoriuscita dal settore finanziario alla vita di ogni giorno, un parallelo con queste altre attività umane pericolose sembra pertinente.

Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa di essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema. I curriculum economici richiedono che siano incluse più scienze naturali. I presupposti per una maggiore stabilità a lungo termine risiedono nello sviluppo di una più pragmatica e realistica rappresentazione di ciò che sta succedendo nei mercati finanziari, e di concentrarsi sui dati, che dovrebbero sempre soppiantare perfette equazioni ed estetici postulati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Pino CabrasMegachip
Fonte originale: Economics needs a scientific revolution

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La stampa spagnola è in guai seri.

di Ettore Siniscalchi – da www.articolo21.info

I venti della crisi si abbattono sulla stampa spagnola. Licenziamenti, ristrutturazioni, testate che chiudono e gli editori che chiedono a Zapatero aiuti al settore. Solo tra i giornalisti ci sono stati oltre cinquecento licenziamenti in tre mesi. Ondata di proteste e scioperi in arrivo.
 
In Spagna c’è un sistema editoriale vitale, con una molteplicità di operatori, di dimensioni anche internazionali, che competono sulla base dei prodotti in un mercato aperto, nel quale non manca anche un’importante presenza italiana. È interessante per molti motivi, quindi, guardare a cosa accade in Spagna, davanti alla grande crisi che colpisce il settore dell’informazione.

Alla base di tutto c’è il crollo della domanda di spazi pubblicitari, scesa del 35% nell’intero settore della comunicazione, alla quale si aggiunge una flessione dell’audience dei media tradizionali. A fare il quadro, sembra un bollettino di guerra, a cominciare dai giganti.
Il gruppo Prisa – un colosso editoriale che opera in mezzo mondo, il principale in Spagna – è in un momento difficile. Lo sbarco televisivo, col lancio di Cuatro, la nuova emittente nazionale in chiaro, è costato molto in quanto a valori di borsa. Partita alla grande coi diritti del campionato di calcio, li ha poi persi, ma comunque è in crescita. Il disastro c’è stato però col consorzio di televisioni locali, Localia Tv, nato anni fa, che non ottenne le frequenze per il passaggio al digitale terrestre e che il 31 dicembre ha chiuso, lasciando in strada 250 lavoratori. Ciò pesa su tutto il gruppo, non solo sul settore televisivo.
Nel quotidiano El País, in flessione di vendite anche se minore rispetto alla concorrenza, c’è stato un pesante intervento, con l’unificazione delle redazioni tradizionale e internet, che ha fatto sfiorare lo sciopero. I lavoratori di Prisa ora temono lo spettro della vendita, di testate, come la radio Cadena Ser, o di intere divisioni editoriali, dato che i vertici hanno fatto capire che intendono “disinvestire”.

Gli avversari de El Mundo – del gruppo Unidad Editorial, nel quale è presente anche Rizzoli – non se la passano meglio. Proprio da Milano pare sia venuta la pressante richiesta di riduzione dei costi del personale, per trenta milioni di euro l’anno. Il direttore del giornale, Pedro J. Ramirez, ha convocato i sindacati per informarli e chiedere proposte. Intanto, loro hanno tradotto quei trenta milioni in una riduzione del 17% dell’organico: 400 lavoratori, più o meno.

Il catalano Grupo Z, è quello che per ora paga di più la crisi. Per tutto febbraio i lavoratori terranno scioperi e mobilitazioni. Il governo autonomico ha aperto un tavolo di mediazione per un piano che prevede 531 licenziamenti su 2300 lavoratori.

Anche il gruppo basco Vocento, editore tra l’altro dello storico quotidiano conservatore Abc, si presta a licenziare 125 persone del giornale. Mentre sono già  in strada gli 83 lavoratori, la maggioranza giornalisti, di Metro, lo storico gratuito internazionale che, travolto dal crollo della pubblicità, ha chiuso le sue edizioni spagnole malgrado 1milione e 800mila lettori quotidiani lo attestassero come quinto quotidiano più letto del paese.
La crisi di un altro gratuito, Adn – che supera il milione di esemplari diffusi ma soffre il crollo delle inserzioni – porta alla chiusura Adn.es, in cui lavoravano 40 persone. Non si trattava della semplice versione on-line del giornale ma di una redazione autonoma che agiva in sinergia col giornale.

Un primo tentativo di un quotidiano esclusivamente on-line, che si è rivelato un grande successo, con milioni di contatti unici quotidiani. In questo caso l’amarezza dei lavoratori è ancora più grande perché il progetto è stato affondato mentre andava come un treno, bruciando le tappe dei piani di rientro, per colpa della crisi della versione cartacea. Il gruppo Planeta, partecipato da De Agostini, ha puntato sul giornale più tradizionale decidendo di sacrificare tutto il comparto Medios Digitales. Resta in piedi, invece, AdnTv, recente iniziativa nata nell’esperienza di Adn.es.

La caduta pubblicitaria colpisce senza pietà anche i canali televisivi. Per il mese di gennaio le previsioni sono di una caduta che arriva fino al 37% rispetto allo stesso periodo del 2008, come nel caso di Telecinco. La rete Mediaset diretta da Paolo Vasile incasserà circa 30 milioni di euro in meno, a fronte di una perdita di share del 3.4%.
Antena 3, del gruppo Planeta – De Agostini, è la seconda rete più colpita dalla contrazione delle entrate pubblicitarie, un 23% meno rispetto allo scorso gennaio, con una perdita di share dell’1,3%.
Terza, con il 23% di ingressi pubblicitari in meno, La Primera, di Television Española, a fronte però di una crescita dell’1% di share.

Nessuno degli operatori che operano nel sistema dei media spagnolo è escluso dalle conseguenze della crisi finanziaria globale, che si aggiunge alla rivoluzione tecnologica in atto, con internet che diventa la prima fonte di informazioni per sempre più persone. Anche la rete, però, a fronte di una sempre maggiore penetrazione, non vede aumentare il valore degli spazi pubblicitari.

Se il mercato editoriale soffre la brusca caduta degli investimenti pubblicitari, non vuol dire che non si scontino anche scelte sbagliate – i sindacati dei giornalisti puntano il dito verso un esagerato espansionismo imprenditoriale – a fronte delle consistenti entrate di cui gli editori hanno goduto negli ultimi 20 anni.

L’Associazione degli editori spagnoli (Aede), dal canto suo, ha lanciato un grido d’allarme per il futuro del settore, facendo una serie di richieste al governo spagnolo. Come l’applicazione dell’Iva allo 0%, attualmente è al 4. Gli editori si rifanno agli aiuti per difendere e sviluppare il pluralismo nella stampa, nati proprio che in occasione della crisi economica degli anni ’70, in vigore in molti paesi, sotto forma di rimborsi per le spese di distribuzione, di finanziamenti per lo sviluppo tecnologico, per la diffusione della lettura tra i giovani e per lo sviluppo dell’editoria web. E sottolineano l’esempio di paesi come l’Italia, la cui stampa ha ricevuto 150 milioni di euro, e la Francia, con 101 milioni.

Intanto, la situazione dell’occupazione giornalistica non è rosea. Allo scorso settembre, dei circa 50mila giornalisti spagnoli, 3.247 erano in disoccupazione, altri 4.374 in condizioni di lavoro precarie e instabili e nei tre mesi precedenti, in 450 avevano perso il posto, secondo i dati dell’Instituto Nacional de Empleo (Inem), presentati lo scorso dicembre nell’ambito del Rapporto annuale sulla professione giornalistica della Asociación de la Prensa de Madrid (Apm).

In quell’occasione, il presidente dell’Apm, Fernando González Urbaneja, ha fatto previsioni fosche per il 2009, citando un’inchiesta del Rapporto per la quale 6 direttori di testata spagnoli su 10 prevedono licenziamenti nella loro redazione. Una perdita più vicina «ai duemila che ai mille posti», secondo Urbaneja, che ha invitato gli editori a preservare la forza lavoro, gli inserzionisti a premiare la qualità e il governo a non aiutare solo gli amici e a perseguire con durezza la precarietà lavorativa.
Se nel 2009 ci saranno «perdite superiori ai 3000 posti di lavoro – ha aggiunto Urbaneja – sarà una catastrofe». (Beh, buona giornata.)

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Attualità

30 mila soldati nelle città italiane sono tre volte di quelli impegnati nelle missioni all’estero.

“Vorrei ricordare al presidente del Consiglio che i nostri militari svolgono una preziosissima ed insostituibile funzione nelle missioni all’estero nelle quali sono impegnati, altro che fare la guardia nel deserto dei Tartari! E 30 mila militari, tre volte tanto quelli che sono adesso impegnati in missioni internazionali, per il controllo delle citta’ sarebbe una misura senza precedenti, costosissima e da Stato d’assedio”. Marco Minniti dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità

Ministro della Difesa o caporale di giornata?

“Plauso e pieno sostegno al presidente Berlusconi per aver lanciato e illustrato la proposta di voler aumentare progressivamente fino a dieci volte il numero delle pattuglie miste nei quartieri a rischio di un maggior numero possibile di citta'”. Ignazio La Russa dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità

Sulla sicurezza il governo gioca alla guerra.

 « C’è una proposta di Maroni condivisa dal ministro La Russa di aumentare di dieci volte il numero dei militari che invece di essere un esercito che sta a fare la guardia nei confronti del deserto dei Tartari sarà utilizzato per combattere l’esercito del male. Credo che faremo bene a portare avanti questa proposta che è del premier». Berlusconi dixit.  Prima si tagliano i fondi alle forze dell’ordine, poi si vogliono riempire le strade di militari. Sulla sicurezza, il governo gioca  alla guerra. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La tolleranza zero, il boomerang lanciato in campagna elettorale torna indietro e colpisce in pieno il governo di destra.

Lo sceriffo senza stelladi MARCELLO SORGI da lastampa.it
Chissà se il ministro Maroni e il sindaco Alemanno un filo di pentimento non ce l’avranno per il modo in cui finora si sono occupati di sicurezza. Due stupri in due giorni – tre dalla fine dell’anno – nella Capitale non sono solo «fatti gravissimi», come li ha definiti il governo. Con tutto quel che sta capitando in Italia, tra criminalità, ordine pubblico e immigrazione clandestina, sono un chiaro segno che la strada per rendere il Paese sicuro è ancora lunga.E ai successi, innegabili, di questi primi mesi di vita dell’esecutivo, si accompagnano duri richiami e durissime smentite della realtà. Maroni, ieri, annunciando un più forte utilizzo dei militari a difesa delle città, ha detto che con questo il Viminale intende aprire la «fase due» del piano per la sicurezza. Ora, senza nulla togliere all’impegno del ministro dell’Interno, non è che gli effetti della «fase uno» siano stati così positivi.

La sicurezza, la paura di vivere in città dove è pericoloso aggirarsi la sera, restano in cima alle preoccupazioni dei cittadini. La prontezza con cui è stato catturato Giuseppe Setola, il boss dei casalesi sfuggito una prima volta attraverso le fogne, non vuol dire che la camorra sia stata sconfitta. La linea dura annunciata e praticata contro l’immigrazione clandestina non ha evitato l’ingorgo del cosiddetto centro di accoglienza di Lampedusa, dove attualmente ben 1800 disperati venuti dal mare sono ristretti in celle che potrebbero contenerne meno della metà.

Né sta dando migliori risultati il negoziato e l’irrigidimento dei rapporti con la Romania, per arginare il fiume di criminalità che quotidianamente – e purtroppo regolarmente, dato che si tratta di un giovane partner della Comunità europea – riversa sulle nostre strade. La sensazione degli addetti ai lavori è che un flusso di ritorno si sia stabilito, ma che a tornare siano i romeni che trovano lavoro nel loro Paese d’origine, mentre restano qui quelli che non hanno voglia di lavorare.

Non è migliore il bilancio del primo cittadino di Roma: Gianni Alemanno, che con un’abile campagna sulla sicurezza e con uno spregiudicato uso politico di uno stupro avvenuto proprio nei giorni che precedevano il voto, s’è ritrovato a sorpresa sindaco di Roma battendo Rutelli, fa adesso i conti con lo stesso odioso tipo di reato che non sono riuscite a sradicare né la strategia anticrimine né la «tolleranza zero» annunciate in campagna elettorale.

Benché gravissimi, i due stupri avvenuti ieri e mercoledì alle porte di Roma non sono tali da mettere in discussione l’impegno di Alemanno per la sicurezza. Finora, anzi, il primo cittadino della Capitale ha cercato in tutti i modi di avvicinarsi al modello del «sindaco sceriffo» che era piaciuto ai suoi elettori. Appena eletto, aveva fatto saltare la testa del prefetto Carlo Mosca, che si era schierato contro le schedature degli extracomunitari. Durissimo con gli immigrati clandestini, s’era poi recato di persona nelle baraccopoli, all’ombra delle quali spesso nascono gli episodi di violenza più sordida. Poi ha proibito la vendita di alcolici da portare per strada, ripulendo così, da giovani avariati, alcune delle più belle piazze del centro, e riducendo anche il numero delle risse tra ubriachi. Ancora, ha ottenuto dal governo 700 soldati per pattugliare le vie più malfamate della città. Inoltre, incurante delle polemiche, ha voluto affiancare ai vigili urbani un limitato, ma molto specializzato, dipartimento, guidato da un generale ex agente segreto rotto a tutte le esperienze, come l’ex direttore del Sisde Mario Mori.

Con tutto ciò, sarà la sfortuna, sarà che una megalopoli come Roma non è controllabile fino in fondo, il sindaco e il suo apparato di sicurezza si son beccati due stupri in due giorni e tre in tre settimane. Naturalmente questo incide sulle reazioni dei cittadini e sul nervosismo dei loro amministratori: i romani, anche ad onta del loro tradizionale scetticismo, erano stati convinti con una campagna martellante che la nuova amministrazione avrebbe messo a posto la situazione. Ma a malincuore, dopo pochi mesi, hanno dovuto rendersi conto che non è così.

Anche se ieri il primo dei tre stupratori (una bestia, che aveva abusato di una ragazza ventenne in un cesso chimico di una festa-rave) è stato arrestato e fatto confessare, la sequela di stupri ha lasciato molta impressione. È terribile che in una città che vive in movimento, ventiquattr’ore su ventiquattro, una donna non possa sentirsi sicura quando torna a casa. A volte, basterebbe solo migliorare l’illuminazione delle strade, che al buio diventano luoghi ideali per gli agguati. Ma soprattutto, è penoso – sia detto per inciso – che un problema serio come quello della sicurezza, invece di essere affrontato con la serietà e i tempi che richiede, a meno di un anno dalla fine della campagna elettorale, diventi ancora motivo di scontro, tra il sindaco sceriffo che ha perduto la stella e i suoi oppositori caduti poco prima sullo stesso fronte. (Beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

C’è del marcio in Italia se un quotidiano della Danimarca aveva pubblicato lo scorso dicembre un reportage da Lampedusa, completamente ignorato da quasi tutta la stampa nostrana.

di Mads Frese –  «Information», Copenhagen

Sull’isola italiana di Lampedusa c’è un cimitero delle barche. Centinaia di barche da pesca e altre piccole imbarcazioni sono state negli anni trascinate a terra e accatastate le une sulle altre. Le barche sono ancora piene di scarpe, vestiti e bottiglie vuote. Nella parte interna degli scafi sono rimasti gli escrementi secchi dei migranti.
Nei primi otto mesi del 2008, il numero di immigrati che passano da Lampedusa è aumentato del 60 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Eppure sulla strada principale di Lampedusa, l’unico centro abitato dell’isola, non vi è alcuna traccia degli oltre 23.000 emigranti che nel corso del 2008 sono arrivati nel centro di accoglienza per i rifugiati dell’isola. Non vi è praticamente alcun contatto tra locali e immigrati, che al loro arrivo vengono trasportati direttamente al centro di prima accoglienza e dopo un paio di giorni vengono imbarcati su aerei o navi e trasferiti in altri centri di accoglienza in varie zone dell’Italia continentale. Si ha l’impressione che questo sia, paradossalmente, il luogo meno multietnico di tutta Europa.

Sebbene i vari locali pubblici e gli alberghi dell’isola incrementano le proprie entrate grazie alla presenza di oltre 600 poliziotti e soldati che svolgono durante l’anno l’attività di pattugliamento via terra, mare e aria, il sindaco Bernardino de Rubeis sostiene che i 6.000 residenti nel suo comune sono le vere vittime.
“L’igiene è minacciata”, ha detto in occasione di un incontro presso la sede del piccolo municipio.
Il sindaco, che appartiene al Movimento per l’Autonomia – l’equivalente nell’Italia meridionale del partito di estrema destra federalista Lega Nord –
aveva dichiarato al quotidiano italiano la Repubblica che ” la carne dei negri puzza anche quando è lavata “. Egli spiega ora che il giornale lo ha rappresentato a torto come un razzista, riportando le sue dichiarazioni al di fuori del contesto originale.
“Queste sono persone che non sono abituate ad usare la carta igienica”, chiarisce il De Rubeis e continua:
“Sono costretti a vivere e a puzzare come animali”.
Affissi sulla parete, alle spalle del sindaco, un crocifisso e le immagini del papa e della Vergine Maria, e sulla sua scrivania un offerta per l’acquisto del filo spinato per recintare il centro di prima accoglienza.
” Scappano – ha detto – tre li ho bloccati per strada”.

La reception
Ai piedi del paese c’è un porticciolo, affollato di pescherecci, delimitato da un molo chiuso dalla guardia costiera italiana. Il molo pullula di persone che svolgono le attività di soccorso e di giornalisti. Non appena la barca attracca al molo si vedono tanti volti africani, tutti diversi gli uni dagli altri: somali, sudanesi, maghrebini, egiziani. La maggior parte sono giovani tra i 15 ei 25 anni, ma ci sono anche donne e bambini piccoli.
Una donna nordafricana in stato di gravidanza che non si regge in piedi deve essere aiutata a scendere a terra.
La maggior parte sono a piedi nudi e non trasportano bagagli. Nonostante la evidente stanchezza, molti i sorrisi di sollievo. Alcuni baciano la terra nella quale sono sbarcati. Si stima che almeno 20.000 rifugiati hanno perso la vita nel canale di Sicilia negli ultimi 15 anni, ma non esistono dati certi.
La maggior parte si radunano sulla costa libica e la traversata dura minimo due giorni. Grazie all’agenzia di frontiera dell’Unione europea FRONTEX, la guardia costiera viene avvisata non appena un’imbarcazione non identificata viene individuata in acque territoriali italiane. I pescherecci più grandi vengono scortati fino all’arrivo in porto, mentre gli immigrati che intraprendono il viaggio su piccole imbarcazioni vengono trasferiti sulle motovedette della Guardia Costiera in alto mare.
Dopo lo sbarco Medici Senza Frontiere effettua un rapido controllo sullo stato di salute già al molo di approdo, e quindi i rifugiati vengono fatti salire su degli autobus e trasferiti nel centro di accoglienza.

L’ignoranza e il razzismo
La nuova struttura che ospita il centro di accoglienza, che è il più grande del suo genere in tutta Europa, è ben nascosta in una valle al centro dell’isola. Un’unica strada che dal centro conduce ad un alto cancello.
Il centro di accoglienza ha la capacità di 840 posti, ma a causa dei numerosi sbarchi degli ultimi giorni gli ospiti sono più del doppio. Materassi lungo il recinto e sotto gli alberi dimostrano che in molti hanno dormito all’aperto.
Mentre Federico Miragliotta, che è il direttore di Lampedusa Accoglienza, la società privata che opera su mandato del Ministero degli Interni italiano, ci porta in giro e ci illustra con grande rigore e professionalità il decoro dei luoghi e del cibo, non soffermandosi troppo sugli immigrati, come se questi fossero ad un campo estivo . La maggior parte sono vestiti in tuta da jogging, che è stata loro consegnata all’arrivo. Bambini che giocano felici con i giocattoli distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, mentre le donne fanno la coda di fronte a due cabine telefoniche in attesa di chiamare i loro familiari.
“Alcuni hanno impiegato diversi anni per arrivare a Lampedusa, e per la prima volta da lungo tempo – o forse da sempre – non sono costretti a preoccuparsi della loro sicurezza o a procurarsi del cibo “, afferma Laura Rizzello, operatrice della delegazione della Croce Rossa nel centro. Un numero crescente di profughi arrivano affetti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche a causa della guerra e della tortura, situazioni che, a suo dire, i politici europei ignorano:
“Non si dovrebbe definire l’immigrazione come un problema, ma piuttosto come un fenomeno. Parlare di immigrazione per ragioni economiche dimostra una mancanza di conoscenza e una visione razzista del fenomeno. Equivale a nascondersi dietro un filo d’erba”, afferma Laura Rizzello.
E continua:
“E viene davvero da piangere se si considera che quanti attraversano il Mediterraneo a rischio della vita, sono fermamente convinti che i paesi europei difendano i diritti umani universali. Chi parla di recintare il centro di accoglienza col filo spinato, dimentica che le ragioni dell’immigrazione di massa sono cambiate. La maggior parte non migrano per cercare un lavoro, ma fuggono da guerre e persecuzioni “.

Bambini scomparsi
E le statistiche confermano la tesi di Laura Rizzello. La maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa provengono dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dal Sudan. Secondo le cifre del ministero degli interni italiano, sette immigrati su dieci avrebbero titolo per richiedere asilo politico in Italia, ma molti scelgono di evitare la battaglia con la burocrazia italiana e non sono alla ricerca di un permesso di soggiorno, dice Laura Rizzello.
In realtà essi mirano solo a rimanere al centro di accoglienza per due giorni prima di essere trasportati nei centri di detenzione sul territorio italiano. Ma poiché tutti i centri di detenzione in Italia sono attualmente sovraffollati, restano qui, in media, una settimana, come spiega Laura Rizzello.
La maggior parte di coloro che non vengono rispediti direttamente nel loro paese di origine in forza di accordi bilaterali di rimpatrio, finiscono per lavorare in nero per 20 euro al giorno nelle imprese agricole ed industriali d’Italia. Alcune donne finiscono sulla strada costrette a prostituirsi, mentre una parte degli uomini vengono reclutati da organizzazioni criminali. Qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica ha rivelato che si sono completamente perse le tracce di almeno un terzo dei 1.400 minori “non accompagnati”, giunti quest’anno a Lampedusa ed affidati a delle case-famiglia.

Missili e doni
Fino al 1986, pochissimi avevano sentito parlare di Lampedusa. Ma poi la Libia sparò due missili contro la base radar degli Stati Uniti sull’isola. I missili andarono a finire in mare, ad oltre due chilometri dalla costa di Lampedusa, ma l’aggressione di Muammar Gheddafi ebbe l’effetto di portare alla ribalta questa piccola isola, fino ad allora poco più che un puntino su qualsiasi mappa. Da allora i turisti hanno cominciato ad arrivare in massa ed a portare prosperità sull’isola. Con conseguente raddoppio della popolazione di questa piccola comunità di pescatori.
Laura Rizzello crede che la storia si stia ripetendo con i grandi flussi migratori che negli ultimi anni hanno portato l’isola nuovamente alla ribalta .
“I numerosi turisti scelgono l’isola non solo per il mare, ma anche con la speranza di scattare qualche foto agli immigrati”, ha detto.
Il Sindaco Bernardino de Rubeis, tuttavia, ritiene che il fenomeno dell’immigrazione abbia danneggiato l’immagine dell’isola e costituisca una minaccia per la fiorente industria del turismo.
“L’accordo con Gheddafi non funziona”, ha detto, riferendosi ad un accordo che il precedente governo italiano ha concluso con la Libia nel dicembre 2007 ed avente ad oggetto il pattugliamento congiunto delle coste libiche.
Gheddafi, in effetti, ha sfruttato il cambio di governo della scorsa primavera in Italia per tentare di ottenere qualcosa di più sostanzioso. Alla fine di agosto Silvio Berlusconi ha visitato la Libia ed ha elargito 500 milioni di dollari per finanziare la sorveglianza elettronica delle coste e dei confini meridionali della Libia con il Niger, il Ciad e il Sudan.
Secondo alcuni osservatori la frontiera sarebbe solo un pretesto: il finanziamento, che Berlusconi ha concesso a Gheddafi in nome dei contribuenti italiani, deve essere piuttosto visto come una sorta di pagamento per la protezione delle grandi aziende italiane che operano in Libia. L’Italia non è autosufficiente nel campo della produzione di energia elettrica ed è quindi fortemente dipendente dal petrolio libico. Di contro, appare legittimo mettere in dubbio la reale volontà di arginare la marea di profughi, che è funzionale al rafforzamento della competitività in Italia, per esempio nell’industria agricola.
Ma dopo la visita di Berlusconi in Libia, i media italiani hanno scelto di minimizzare il problema, che ora è in gran parte scomparso dai telegiornali, nonostante l’aumento del flusso.

Affollamento
Il sindaco è preoccupato per l’aumento del numero dei rifugiati.
“L’isola rischia una vera e propria crisi”, ha detto Bernardino de Rubeis.
“Non si deve dimenticare che l’isola vive principalmente di turismo, e, pertanto, dobbiamo essere in grado di garantire ai turisti sicurezza. Non può continuare così”, dice il sindaco, che sogna dei grandi alberghi sulla piccola isola dove la popolazione già adesso aumenta di dieci volte nei mesi estivi, e i turisti sono ammassati in quattro spiagge come aringhe in un barile.
Ogni anno, grazie ai finanziamenti statali e regionali, oltre 50 milioni di euro affluiscono nelle casse del comune di Lampedusa. Il Consiglio comunale è attualmente impegnato nei colloqui per la redazione del bilancio per il 2009, e sebbene il centro di accoglienza non comporti alcun costo per il comune, ma offra solo garanzie di posti di lavoro e di reddito per molti abitanti dell’isola, il sindaco punta ad ottenere il massimo dell’attenzione sui presunti disagi creati dal flusso di immigrati. Ha scelto di giocare al rialzo e ora chiede al governo, come compensazione per l’onere del fenomeno, che l’isola venga dichiarata porto franco.
Il comune ha già rifiutato un’offerta dell’Alto Commissario per i rifugiati, relativo al finanziamento di un ampliamento del piccolo aeroporto e ad una campagna pubblicitaria per l’isola. Invece, si è preferito richiedere un risarcimento di 200 milioni di euro da parte del governo di Roma per gli abitanti di Lampedusa. Così da far passare l’immagine di un’isola costretta ad affrontare un problema tanto al di sopra delle sue possibilità da spingere le persone a scegliere di concentrarsi esclusivamente sui possibili benefici economici e ad ignorare tutto il resto. (Beh, buona giornata).

[Articolo originale di Mads Frese]

Traduzione da information.dk: admin@ItaliadallEstero.info

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Attualità Popoli e politiche

La protesta dei migranti si salda alla protesta dei cittadini di Lampedusa. Clamoroso fallimento delle politiche sull’immigrazione del governo.

da repubblica.it

Fuga di massa dal centro di prima accoglienza tra gli applausi dei residenti a Lampedusa. Tutti i migranti ospiti del Cpa (Centro di prima accoglienza) poco dopo le 10 hanno forzato i cancelli d’ingresso, sono riusciti ad aggirare i controlli delle forze dell’ordine e sono fuggiti. Oltre mille si sono diretti in corteo verso la piazza del municipio di Lampedusa gridando slogan: “Libertà, aiutateci”. Gli extracomunitari hanno sfilato lungo la strada senza essere bloccati dalla polizia che li ha, invece, affiancati lungo il percorso senza intervenire.

Gli oltre mille immigrati sono arrivati davanti al municipio accolti dagli applausi dei lampedusani. Gli extracomunitari gridano “Libertà” e “Grazie Lampedusa” e chiedono di poter lasciare il centro, di essere trasferiti nei centri di permanenza temporanea (Cpt) di Brindisi e di poter raggiungere le loro famiglie, molte delle quali sono in Francia, in Germania e nel Nord Italia.

Sul palco allestito nella piazza, a dare il benvenuto ai migranti c’è l’ex sindaco Totò Martello, leader del comitato che si oppone alla realizzazione di un nuovo centro nell’isola. Nello stesso momento i residenti avevano infatti cominciato una nuova giornata di protesta con presidio davanti al municipio per consegnare le schede elettorali contro la realizzazione di un nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie) degli immigrati progettato dal ministero dell’Interno.

“Non vogliamo tornare nel cpa. Noi restiamo qui”. Centinaia di migranti fuggiti dal centro, riuniti in piazza insieme ai cittadini, si rifiutano di tornare nella struttura di accoglienza. L’ex sindaco Martello li invita a rientrare. “Siamo insieme a voi – dice – vogliamo che vi trasferiscano negli altri centri italiani, ci batteremo perchè possiate lasciare Lampedusa, ma ora dovete rientrare nel centro”. I migranti, però, continuano a ribadire che non lasceranno la piazza e che la loro protesta sarà pacifica.

La fuga dal Cpa è l’epilogo di giornate di tensione che hanno interessato la struttura dove sono stipate 1.300 persone a fronte di una capienza di 800 posti. Già all’alba si era registrata la fuga di circa 300 immigrati. Polizia e carabinieri avevano immediatamente avviato posti di blocco per rintracciare tutti i fuggitivi. Anche ieri alcuni migranti si erano allontanati dal centro, ma erano stati poi rintracciati dalle forze dell’ordine e fatti rientrare.

Gli immigrati lamentano di essere trattati “in modo poco dignitoso”. “Abbiamo freddo – dice un africano giunto a Lampedusa dalla Tunisia – io ho bisogno dell’insulina, ma non ce n’è. Siamo qui da oltre 30 giorni”.

I residenti protestano invece contro le scelte del Viminale. Dopo il corteo e il sit-in davanti al centro di prima accoglienza organizzati ieri, giornata di sciopero generale, questa mattina i cittadini si sono dati appuntamento davanti al municipio. Ieri sera, durante una seduta straordinaria del consiglio comunale, si era dato vita a un coordinamento per pianificare le ulteriori iniziative di protesta.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Obama non ha usato il web. Non è entrato in rete, ha fatto rete. Obama ha vinto perché ha cambiato il web.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha dietto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca lascia intendere la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni che potrebbe trasformanre la nostra vita quotidiana e, contemporaneamente, la società globale.

 A cominciare dalla comunicazione. La logica della partecipazione e della condivisione dei contenuti dovrebbe essere resa possibile su vasta scala, come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama. E’ un fatto nuovo. Nessuna organizzazione o azienda può pensare di restare fuori da queste sfide. Ma stare al passo con i tempi non è così semplice come può sembrare. Secondo  Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione Università Iulm e prorettore dell’ateneo, Obama si è distinto non per l’uso esclusivo dei social media, bensì per aver messo in atto una comunicazione politica basata su un adeguato mix di media innovativi e classici. A differenza dei suoi principali competitor, la Clinton prima e McCain poi, che hanno condotto la loro campagna seguendo schemi molto più tradizionalistici.

In realtà, Barak Obama è stato lungimirante e si è  appropriato con successo del territorio simbolico e valoriale della parola chiave ‘change’, ha fatto leva sulle emozioni profonde degli elettori, spingendoli a diventare soggetti attivi e interattivi di un progetto. Ed ha anche ottenuto la partecipazione spontanea di artisti e designer che hanno realizzato per lui magliette, poster e video di alta qualità.

In altre parole, Obama si è trasformato in un simbolo, ma anche in un  logo, un brand, che trasmette un messaggio fortissimo: la speranza nel cambiamento.

In Italia, ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale il Pd ha tentato di fare propria questa strategia, ma invece di comprendere la forza del concetto “change”, ha fatto proprio “yes, we can”,  tradotto in “si può fare”. Un equivoco, più che un errore: è suonato nelle orecchie degli elettori come una affermazione autoreferenziale, ego riferita alla nascita delPd e non un nuovo progetto di paese cui partecipare con entusiasmo. Il risultato di queste equivoco non è solo nelle urne elettorali, ma è diventata un fatto politico. Oggi in Italia nessuno pensa che il Pd sia stata una vera innovazione, né che Veltroni ne sia il simbolo.

 D’altra parte, i discorsi di Obama hanno incarnato il desiderio di cambiamento americano, e i prodotti audiovisivi a lui riconducibili si sono distinti per un’elevata qualità sia della grafica sia del contenuto.

Senza contare  l’uso sapiente e consapevole dei social media: i progetti web di Obama hanno avuto la forza di incoraggiare le persone a diventare, esse stesse, parte del cambiamento, innescando meccanismi di condivisione e partecipazione che hanno portato i sostenitori di Obama a usare i social network in piena autonomia per incontrarsi e organizzare sia eventi sia raccolte fondi.

Un’esperienza vincente come quella di Obama insegna che il web non è un semplice spazio virtuale dove sparare messaggi, per entrare nel mondo dei new media non basta mettere un banner su qualche sito o aprire un blog, perché su Internet non basta esserci, bisogna esserne parte: occorre diventare un nodo, un anello, della Rete stessa. Anzi, bisogna saper essere il bandolo della matassa  della  rete stessa. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Bombe al fosforo, armi a microonde e al plasma? Che armi sono state usate nell’Operazione Piombo Fuso?

di Fernando Termentini – da www.paginedidifesa.it

La battaglia a Gaza è terminata ma ancora molte fonti di informazione, ricorrendo anche ad immagini di repertorio degli scontri, ripropongono il problema di armi al fosforo bianco.
Munizionamento illuminante al fosforo sicuramente è stato utilizzato nel corso degli scontri, anche bombe d’aereo o proietti di artiglieria pesante, ma affermare con decisione che questo particolare materiale sia stato usato su larga scala per scopi offensivi, potrebbe essere forse azzardato e comunque semplicistico.

A Gaza le operazioni militari sono state caratterizzate da episodi tattici di combattimento degli abitati come ormai avevamo dimenticato dalla fine del secondo conflitto mondiale, a stretto contatto con la popolazione civile e in zone densamente abitate. In queste condizioni utilizzando munizionamento a caricamento speciale come gli ordigni illuminanti caricati con il fosforo bianco, diventa difficile gestire la ricaduta al suolo delle gocce incandescenti, concentrandole su obiettivi areali come, ad esempio, un bunker o una postazione avversaria.

In queste condizioni, quindi, si potrebbe verificare che qualcuno o qualcosa possa essere colpito da fosforo che brucia e che non è possibile spegnere con l’acqua. In questo caso però le parti di materiale che brucia lascerebbe tracce profonde su qualsiasi cosa venisse a contatto.

Le immagini che sono arrivate dal teatro di guerra non confermano in maniera incontrovertibile queste ipotesi, né lasciano pensare a un uso estensivo e generalizzato di fosforo bianco né contro i combattenti né contro la popolazione palestinese.

Se, invece, come sembra, molti dei feriti e molti cadaveri presenterebbero (la forma ipotetica è d’obbligo non disponendo di riscontri certi) lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli, allora si potrebbe pensare che forse siano state utilizzate ancora armi a microonde e/o al plasma.

Strumenti che dovrebbero essere stati sperimentati in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City. Armi che invece dei proiettili sparano fasci di energia più o meno potente. Sistemi a suo tempo studiati e realizzati per conto dell’amministrazione americana fin dai tempi della presidenza Clinton per disporre di efficaci dispositivi anti-sommossa non letali (l’arma Sceriffo costruita dall’industria americana Raytheon), successivamente trasformate in vere e proprie armi offensive agendo sulla potenza irradiata.

La materia colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida e si accartoccia diminuendo di volume. Fenomeno che aumenta in maniera esponenziale quando l’obiettivo è un uomo. Cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni. Condizioni che hanno caratterizzato molti cadaveri trovati a Falluja dopo i combattimenti casa per casa e in Libano nel corso della guerra del 2006.

A Gaza, peraltro, sembra che la scorsa estate, organi istituzionali della Sanità palestinese, riferendosi alla tipologia delle lesioni di molti feriti fra i manifestanti, hanno ipotizzato l’uso da parte degli israeliani di armi non convenzionali. In quella occasione si parlò seppure in modo superficiale di persone con gravi effetti ustionanti, con feriti o cadaveri quasi fusi con muscoli e organi interni distrutti. Di fatto, tessuti prosciugati dell’acqua, come avviene sulle sostanze organiche sottoposti all’azione delle microonde.

Sistemi del tipo la pistola Taser capace di uccidere a otto metri di distanza irradiando energia elettrica di oltre 60.000 volt, diffusissima in Usa e anche in Francia. Armi corte che nei combattimenti negli abitati, negli spazi stretti, nei cunicoli, nei locali sotterranei e di notte potrebbero essere molto più efficaci rispetto alle armi convenzionali.

Molto più sicuri anche per chi le ha in dotazione, in quanto si abbatte il rischio dei colpi di rimbalzo ricorrente quando si opera in locali stretti e circondati da mura, pericolosi anche per le truppe amiche. Sistemi sicuramente più selettivi nella scelta del bersaglio rispetto ad armi leggere automatiche o a bombe a mano offensive.

Un’ipotesi di cui si è già scritto in occasione della guerra in Libano e forse più condivisibile sul piano tecnico rispetto a ipotesi che invece fanno riferimento all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

La riforma del modello contrattuale: il sindacato deve rappresentare gli interessi dei lavoratori presso le imprese o gli interessi delle imprese presso i lavoratori?

dichiarazione di Fabrizio Tomaselli

coordinatore nazionale SdL intercategoriale

 

La sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl dell’accordo quadro che riforma il modello contrattuale invigore apre un nuovo ciclo nelle relazioni sindacali in questo Paese.

L’intesa sancisce il passaggio dalla filosofia “concertativa” che ha caratterizzato l’azione sindacale di Cgil-Cisl e Uil negli ultimi due decenni, ad una letteralmente “collaborazionista”.

Finisce in soffitta il contratto nazionale unico di categoria e l’idea stessa di rivendicare condizioni

salariali almeno in linea con l’aumento del costo della vita. Il tutto a favore di un ipotetico secondo livello di contrattazione “differenziato” per posto di lavoro.

 

L’intesa prevede tra l’altro che i contratti abbiano durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa, ritardando di fatto il recupero salariale oggi fissato ogni 2 anni. Gli incrementi salariali saranno basati su un indice di inflazione prevista molto più bassa di quella reale e depurati dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati: la benzina potrà così schizzare alle stelle senza che il salario venga adeguato.

 

La produttività in più si trasformerà tutta in profitto per i padroni.

Siamo ben oltre la tradizionale politica della mediazione al ribasso tanto cara ai sindacati firmatari e anche alla Cgil! Il piano inclinato che tante volte abbiamo denunciato non poteva che portare a questa situazione. Le responsabilità della Cgil rispetto alla situazione con cui oggi ci troviamo a fare i conti sono enormi e sconcerta un po’ il risveglio “sorpreso” della Confederazione di Epifani se pensiamo al comportamento tenuto dalla stessa in Alitalia.

 

Il “modello CAI” – accordi separati firmati senza sentire il parere dei lavoratori e contro la volontà di organizzazioni sindacali fortemente rappresentative tra i lavoratori – viene riproposto oggi al livello di accordo quadro generale da Cisl, Uil e Ugl.

 

SdL intercategoriale non ci sta e continuerà la lotta già intrapresa con gli scioperi nazionali del 17 ottobre e del 12 dicembre 2008 per rivendicare veri aumenti salariali ed il ripristino della scala mobile. Non resta che …. rimboccarci le maniche ed opporci a quest’accordo! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Crisi dei quotidiani: il piano del NYT è vendere il grattacielo di Piano.

(Fonte: repubblica.it)

Il New York Times è con l’acqua alla gola e invece di ipotecare il nuovo grattacelo realizzato da Renzo Piano a fine 2007 (come annunciato ai primi di dicembre) il gruppo ha deciso di fare cassa vendendo la sede.

Affossata dal crollo della raccolta pubblicitaria (-21,2% nel solo mese di novembre 2008) il quotidiano più prestigioso d’America, ma solo il terzo per diffusione (1 milione di copie in media), ha annunciato di essere in fase di “avanzate trattative” per cedere al gruppo immobiliare W.P. Carey e Co. i 19 piani sui 52 dell’intero edificio dove lavorano i giornalisti e l’amministrazione del giornale.

Il Nyt resterà in affitto nello stesso edificio sull’Ottava Avenue con il diritto di riacquistare gli spazi entro 10 anni. Il gruppo ‘The Times. Co.’, che edita anche ‘Boston Globe’ e l’ ‘International Herald Tribune’, possiede il 58% del grattacielo. L’8 dicembre aveva annunciato di voler accendere un’ipoteca per 225 milioni di dollari con cui avrebbe fatto fronte a un debito di 400 in scadenza a maggio di quest’anno. Oggi la svolta senza fornire particolare sull’entita’ dell’operazione.

Lunedi’ il magnate delle tlc messicano Carlos Slim, che gia’ possiede il 6,9% del gruppo, aveva fornito al Nyt una linea di credito di 250 milioni di dollari che non sono bastati a tamponare la falla. All’inizio dell’anno pur di aumentare la raccolta pubblicitaria il Nyt aveva fatto cadere l’ultimo tabu’ accettando inserzioni pubblicitarie in prima pagina: una pratica comune in Italia e in altre testate Usa ma il Times era rimasto finora immune da tutto cio’ che non fosse “una notizia degna di essere pubblicata”. (Beh, buona giornata).

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