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I governi europei nascondono dietro la crisi del debito la loro incapacità di favorire il lavoro.

di Massimo Mucchetti- Il Corriere della Sera

L’ Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c’è in tutto l’Occidente. Nei 34 Paesi dell’Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall’attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell’area Ocse diventerebbero così 100 milioni.

Il diavolo che minaccia l’Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l’enfasi dell’antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l’economia, e dunque l’occupazione. Certo, da tempo la Banca d’Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall’insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l’Italia possa basarsi soltanto sull’estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l’Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?

Forse non è un caso se George Magnus, l’economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date a Marx una chance di salvare l’economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un’impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l’accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.

Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all’agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po’ di inflazione.

Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d’inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell’Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l’euro trema.

In queste condizioni, l’Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell’economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un’altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l’Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l’Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po’ di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l’Italia dovrebbe convincere l’Eurozona ad aumentare l’Iva, così da spostare un po’ di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell’Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera. (Beh, buona giornata).

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Quelle menzogne che ci hanno disarmato di fronte alla crisi.

“Siamo diventati strapuntino del’europa e del mondo, abbiamo perso colpi e posizioni in ogni campo misurabile della vita economica e civile, siamo finiti nell’epicentro della crisi. Ecco dunque le accuse che rivolgiamo al governo e alla maggioranza di Berlusconi e della lega. Non certo di aver provocato la crisi mondiale, non li accusiamo di questo, li accusiamo di aver accompagnato lo scivolamento impressionante dell’Italia sotto ogni parametro di confronto con i Paesi europei. Li accusiamo di aver mentito agli italiani occultando e ignorando la crisi e di aver aggravato la crisi con politiche dissennate. Li accusiamo di essersi occupati dei fatti loro e non dei fatti degli italiani. Li accusiamo di aver leso la coesione nazionale e sociale. Li accusiamo di aver svilito agli occhi del mondo la nazione”.Bersani dixit. Beh, buona giornata.

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Quelle macerie del berlusconismo che impediscono di rimuovere Berlusconi.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

FORSE, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell’ inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile».

Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s’ accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile.

Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice chei soldi li elargiscea persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell’ Utri, e parecchi altri. Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie.

Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando.

Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera. Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi.

La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell’ ombra. Si è avuta quest’ impressione, netta, quando Dell’ Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l’ avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe». Uno che accetta d’ esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda».

La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un’ ordinaria abitudine omertosa, e questo nell’ ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d’ Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomochiave della crisi. Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l’ arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s’ annebbia, più cresce il sospetto che anch’ egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».

Ma c’ è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l’ odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l’ immagine s’ è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all’ oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell’ Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri ». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali.

Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti. Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto tornia posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d’ interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d’ interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch’ essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po’ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l’ iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l’ opera di Visco e Prodi contro l’ evasione fiscale.

Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘ 46. Come spiegare in altro modo l’ incuria, l’ impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati? Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia,e nonè poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d’ aver acquistato a caro prezzo azioni dell’ autostrada Serravalle, quand’ era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall’ imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l’ ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano ). Prudenza avrebbe consigliato l’ allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l’ uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s’ espugna coni figli del berlusconismo.

Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s’ imbocca quando – finite le guerre – urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d’ interesse, Chiesa compresa.

Liberare l’ Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi serviràa poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ‘ 93-‘ 94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.(Beh, buona giornata),

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Attualità Popoli e politiche Potere Scuola

Siamo insegnanti o caporali? Come ti reprimo la protesta studentesca.

(Fonte: la Stampa)

Il liceo “Phoenix” di Manchester potrebbe essere la prima scuola pubblica dove tutti gli insegnanti provengono dalle fila dell’esercito. L’obiettivo? Coniugare il raggiungimento di ambiziosi obiettivi accademici con la dimostrazione sul campo (e nelle aule) dei «valori marziali». L’idea – racconta il quotidiano britannico Guardian- è stata lanciata dal ministro dell’Educazione: secondo Michael Gove, infatti, bisogna aumentare il numero di insegnanti uomini perchè gli studenti possano avere davanti un modello di autorità che incarni «sia la forza sia la sensibilità». Anche sulla scia dei disordini che hanno sconvolto la Gran Bretagna, il ministro di Cameron ha proposto un programma per «ristabilire l’autorità degli adulti»: l’idea è proprio quella di incoraggiare ex membri delle forze armate ad abbracciare l’insegnamento nelle scuole pubbliche.

Detto fatto: a Manchester non se lo sono fatti ripetere due volte. Il Centro studi per la politica del partito conservatore ha proposto che nella scuola “Phoenix” tutti gli insegnanti abbiano militato nei ranghi militari, per insegnare agli studenti «anche i valori su cui si regge l’esercito moderno: l’autodisciplina, il rispetto e la capacità di ascoltare». Dunque niente sergenti maggiori collerici che urlano a ragazzi terrorizzati per aver dimenticato di fare i compiti. Anche se Gove ha anche affermato che in alcuni casi può essere necessario ristabilire la forza fisica: «Permettetemi di essere molto sincero- ha detto il ministro-. Se ogni genitore sente una scuola dire “Scusi, non possiamo toccare gli studenti”, ebbene quella scuola sbaglia». Il Governo spera così di scongiurare nuovi disordini ed incendi impiegando l’esercito, più che nei quartieri, nelle scuole. Ma se il modello risultasse vincente sarebbe applicato a centinaia di altri istituti. (Beh, buona giornata).

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La stampa finanziaria stronca il governo Berlusconi: non ha piu’ credibilità davanti ai mercati.

(fonte: ilmessaggero.it)

La negoziazione sulle misure della manovra trasmette un messaggio confuso ai mercati, in un momento in cui l’Italia necessità di una coerente politica economica. È quanto scrive il Financial Times, che oggi dedica a Roma un articolo in prima pagina.

«La decisione di Silvio Berlusconi di rinunciare all’austerity d’emergenza e smantellare il contributo di solidarietà ha suscitato l’indignazione popolare e allo stesso tempo c’è il rischio di confusione sui mercati e di un nuovo confronto con la Banca centrale europea», scrive il quotidiano londinese. E, ricordando che l’Eurotower vorrà che la portata complessiva delle misure di austerità non cambi e che si arrivi al pareggio di bilancio nel 2013, aggiunge: «Non è chiaro come la Bce reagirà alla modifiche apportate alla manovra». Inoltre, il quotidiano economico della City riflette sul ruolo del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti: «Se Silvio Berlusconi è il vincitore dell’ultima rivisitazione dei tagli per l’austerità, presentando se stesso come il protettore degli italiani, con l’accantonamento della proposta del contributo di solidarietà, il perdente – sottolinea in Financial Times – è il suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti». Infatti, il titolare di via Venti Settembre, spiega il quotidiano, è «rimasto isolato sulla manovra “lacrime e sangue”» e «sta affrontando un crollo di consenso all’interno del governo da quanto ha messo la firma sull’originale pacchetto da 45,5 miliardi di euro».

L’Italia alla prova dei mercati «si scopre con i giorni contati»: i miglioramenti che sono arrivati grazie all’intervento della Banca centrale europea che ha acquistato titoli di stato devono essere confermati dai giudizi degli investitori, afferma il Wall Street Journal. «Oggi, grazie sopratutto all’aiuto della Banca centrale europea, i rendimenti sui titoli decennali italiani e spagnoli sono scesi» spiega il Wsj. Ma, aggiunge, «secondo gli analisti il felice stato delle cose potrebbe non durare». Secondo il quotidiano «il continuo coinvolgimento della Bce potrebbe essere ostacolato», vista la sua avversione all’intervento e, poi, sottolinea, c’è «la questione che riguarda il piano di austerità voluto dall’Eurotower in cambio del suo supporto». Il Wsj scrive sull’Italia in un pezzo con un titolo che gioca sul doppio significato della parola «borrowed», ovvero “preso a prestito” ma – nell’accezione “borrowed time” – con l’espressione «vivere con i giorni contati». (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Giorgio Napolitano: aver negato la portata e la gravità della crisi ha indebolito l’Italia in Europa, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire il linguaggio della verità.

Intervento del Presidente Napolitano al Meeting per l’amicizia fra i popoli
Rimini, 21/08/2011 (da quirinale.it)

Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l’ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l’occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l’Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo, in un’obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

D’altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell’Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell’Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa – da parte delle istituzioni e dei cittadini – delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo – negli itinerari dell’educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica – di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel “moto di riappropriazione” di cui parlavo : e non solo dall’alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

Ma “l’esame di coscienza collettivo” che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l’unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare – e ha in effetti abbracciato – il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l’on. Lupi ha voluto ricordare.

Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un’esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l’Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l’emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d’aggressione e l’umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all’eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l’Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi – riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 – “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare – e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani – il linguaggio della verità : perché esso “non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.

Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l’Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all’Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull’evoluzione del benessere degli italiani dall’Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo – superiore a ogni immaginabile previsione iniziale – del prodigioso balzo in avanti compiuto dall’economia e dalla società nazionale dopo l’Unità e in special modo grazie all’accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell’unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

Si impone perciò un’autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese – Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica “misura della felicità”, in quelle sedi si è richiamata l’attenzione su altri fattori : “è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana”. E’ a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno – in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato – aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del “desiderio”.

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

Quell’autentica svolta che oggi s’impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell’Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell’abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell’evasione di cui l’Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E’ una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

L’Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico – fosse pure solo panico – di una possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l’Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall’altro troppo esitante sulla via di un’integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia implica riforme : dopo l’avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com’è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E’, in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l’esperienza della straordinaria stagione dell’Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell’Italia dell’impegno civile e della solidarietà, dell’associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di “giuste forme di collaborazione” – secondo le parole di Benedetto XVI – “fra la comunità civile e quella religiosa”.

Ma potrà anche l’apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l’Italia ? Ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all’interno e vengono dall’esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell’alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell’attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l’America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell’amicizia tra i popoli – si pensi alla tragedia del Corno d’Africa – che è iscritta nella stessa ragion d’essere del vostro Meeting.

Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell’attività politica. C’è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell’impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza. E’ per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, “una risorsa umana per il nostro paese”. Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento.(Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

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I ricchi vogliono pagare le tasse e scavalcano a sinistra la sinistra.

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”, (dal blog di GAD LERNER).

E’ impazzito il plurimiliardario Warren Buffett, re degli speculatori, che spiattella sui giornali gli scandalosi benefici fiscali di cui gode negli Usa? Soffrono forse di masochismo, qui in Italia, un finanziere come Pietro Modiano e gli imprenditori Carlo De Benedetti (azionista di questo giornale), Luca Cordero di Montezemolo, Anna Maria Artoni, favorevoli alla promulgazione di un’imposta sui grandi patrimoni di cui sono detentori? Perché mai, di fronte al concreto rischio di collasso del sistema, non viene richiesta dai politici di sinistra una vera tassa sulla ricchezza, nell’interesse delle classi subalterne che dovrebbero rappresentare?

E’ davvero singolare questo mondo alla rovescia in cui sembrerebbe toccare ai “ricconi” occidentali illuminati pure il privilegio di indicare la retta via della perduta giustizia sociale. Non bastasse il loro dominio sull’economia, possibile che abbiano sequestrato pure la leadership dell’analisi sull’iniqua distribuzione delle risorse cui la politica sarebbe chiamata a porre rimedio?
Nessuno come loro è consapevole della sproporzionata ricchezza accumulata da pochi, nei decenni in cui la finanza ha assoggettato l’economia reale. Se dunque auspicano un inasprimento del prelievo fiscale sui detentori di grandi patrimoni, è innanzitutto per un motivo –diciamo così- pratico: l’aumento delle tasse negli Usa, o il pagamento di una cospicua “una tantum” in Italia, non inciderebbero significativamente sul loro tenore di vita, sui loro consumi, e neanche sulle loro attività imprenditoriali.

Suppongo poi che i “ricconi illuminati” favorevoli all’imposta patrimoniale traggano dalla personale autocoscienza di cui ci rendono compartecipi altri motivi di riflessione: uno morale e uno esistenziale.
Sul piano morale, credo siano ben consci di avere goduto di un boom tutt’altro che armonico, caratterizzato dal patologico acuirsi delle disuguaglianze di reddito. Se in passato potevano illudersi che la ricchezza crescesse anche intorno a loro, se non grazie a loro, oggi è evidente il contrario.

Sul piano esistenziale, mi spiego il favore manifestato da finanzieri e capitalisti illuminati per un’imposta patrimoniale come estrema forma di attaccamento al sistema che li ha generati prima di degenerare. Nessuno come loro, che ne sono gli emblemi, desidera il suo salvataggio.
Sconcerta la modesta attenzione prestata in Italia, dove lo scandalo dell’evasione fiscale rende ancora più evidente l’ingiustizia, e il debito pubblico rende più stringente la necessità, ai buoni argomenti della patrimoniale. Quasi nessuno ha riflettuto sui calcoli esposti l’8 luglio scorso, in una lettera al “Corriere della Sera”, dal finanziere Pietro Modiano (che pure si autocandidava a “vittima” della medesima imposta).

Un prelievo del 10% sui patrimoni (escluse le case e i titoli di Stato) degli italiani più ricchi, il 20% della popolazione, fornirebbe un gettito di circa 200 miliardi. Quasi cinque volte la manovra biennale del governo. Riporterebbe il debito in rapporto al Pil vicino al 100%, conseguendo un obiettivo irraggiungibile da molteplici leggi finanziarie. Gli interessi sul debito godrebbero di una riduzione di 8 miliardi l’anno. E gli italiani ricchi chiamati a sopportare questo sacrificio –non tale da intaccare il loro benessere- potrebbero essere ricompensati con detrazioni fiscali negli anni successivi.
Fantaeconomia? Ma non è forse già un’apocalittica sequenza di fantaeconomia quella che stiamo vivendo dall’estate del 2008?

Resta da capire come mai tale istanza di drastica redistribuzione degli oneri fra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei meno abbienti, non stia in cima ai programmi della sinistra. E’ vero che ora il Partito democratico propone un supplemento di tassazione sui capitali scudati da Tremonti a quote di mero realizzo. Ma, a parte la dubbia costituzionalità di un tale provvedimento, esso continua a rivolgersi solo agli esportatori della ricchezza, non al suo complesso.

Parrebbe che un leader progressista, sia pure il presidente degli Stati Uniti, figuriamoci il segretario di un partito della sinistra italiana, si senta condannato a escludere come temerario ciò che invece ha osato sbattergli in faccia Warren Buffett. Hanno paura di passare per socialisti (o comunisti). Si illudono che la loro autorevolezza derivi ancora dalla sottomissione alle regole di un sistema giunto allo sfascio, solo perché i rapporti di forza sono tuttora dominati dagli hedge funds e dalle banche d’affari che hanno contribuito a salvare. Restano al di fuori della loro immaginazione soluzioni radicali prospettate invece da chi in passato ha saputo approfittare della fragilità della politica.

Lo scetticismo con cui i mercati hanno accolto la manovra economica italiana, ma soprattutto i conflitti sociali che scaturiranno dalla crisi dell’economia reale, ben presto si incaricheranno, ahimè, di spazzare queste cautele. (Beh, buona giornata).

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Agnes Heller accusa: «L’Europa tiene più al debito pubblico che ai diritti umani e civili».

di MARIAROSA SCIGLITANO-il Manifesto (via dirittiglobali.it)-

Nata nel 1929, la filosofa ungherese Ágnes Heller è una delle principali protagoniste del dibattito sulla complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita negli anni dell’adolescenza all’Olocausto, diventa allieva del filosofo György Lukács, del quale condivide il difficile rapporto con il partito comunista. Diviene docente alla New School di New York negli anni ’70 e tra le opere che contribuiscono alla diffusione del suo pensiero in Occidente vi è La teoria dei bisogni in Marx. Interprete autorevole del dibattito etico-politico contemporaneo, la Heller osserva criticamente le dinamiche politico-sociali che caratterizzano l’Ungheria di oggi e l’operato dell’attuale governo conservatore ungherese guidato da Viktor Orbán. Le abbiamo rivolto alcune domande, incontrandola nella sua casa di Budapest.

Abbiamo la sensazione che questo, per l’Ungheria, sia tra i periodi più difficili se non il più difficile dalla caduta del regime. Concorda?
Dipende da cosa significa difficile. Perché per la popolazione ungherese il cambiamento di sistema è stato un periodo difficile ma non in tutto, visto che all’epoca la gente ha cominciato a conoscere la libertà. D’altra parte, come dicevo, è stato difficile in quanto caratterizzato dalla chiusura di tantissime fabbriche con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro. Se non consideriamo quel periodo, dobbiamo dire che senza dubbio quello attuale è il più difficile, perché si sono verificate contemporaneamente due cose: una è la limitazione del diritto alla libertà, soprattutto quella di stampa, l’altra è la soppressione di contrappesi, cioè di istituzioni opposte al governo oppure l’inserimento di persone fedeli al Fidesz in quelle istituzioni. Insomma, tutte cose che, secondo me, rientrano in un sistema di potere bonapartista che elimina il pluralismo. Il governo Orbán tende a sopprimere i diritti, per esempio quello alla pensione anticipata di poliziotti, pompieri o conducenti di autobus e tenta di abolire o diminuire le pensioni di invalidità in modo che nessuno possa andare in pensione prima del limite d’età, provvedimento che colpisce un gran numero di persone, questo sistema di cose causerà guai gravissimi.

Anche la scuola risente di questa situazione.
Certamente. La decisione di assegnare allo Stato il controllo delle scuole gestite finora dai governi locali corrisponde a un nuovo processo di statalizzazione che prevede di decidere cosa insegnare e cosa non, soprattutto per quel che riguarda la storia. Alcuni temono che le scuole passeranno sotto il controllo di istituzioni religiose, cosa che potrebbe in qualche modo eliminare la divisione tra stato e chiesa che è uno dei principi sui quali si basa la democrazia. A parte questo non so fino a che punto sia realistica la scuola dell’obbligo fino a 15 anni. Chi lascia la scuola a quell’età dove va? Potrebbe mai inserirsi nel mondo del lavoro in un paese con un alto tasso di disoccupazione? Lo stesso si può dire di coloro che hanno diritto alla pensione di invalidità: dove potranno andare queste persone? Tali misure colpiscono i più poveri. Consideri che a complicare le cose contribuisce il fatto che è stata introdotta in maniera dogmatica l’aliquota del 16% che facilita la vita ai più ricchi e aggrava la situazione degli indigenti. Questa non è politica sociale. Non dico che quella del governo precedente fosse particolarmente valida, se non altro, però, cercava di garantire ai più poveri una forma di sicurezza sociale. Le conseguenze della politica attuale ridurranno la popolarità del governo che, peraltro, è già diminuita in modo significativo e diminuirà ancora. Il problema, però, è che manca un’alternativa mentre aumentano l’astensionismo alle urne e l’apatia. Ci vorrebbe un’opposizione rappresentata non dai vecchi politici che hanno perso consenso, ma da volti nuovi.

Una situazione molto grave, insomma, e la cosa salta agli occhi a maggior ragione se si pensa alle buone valutazioni date gli anni scorsi all’Ungheria dalla Commissione europea.
Ma sa, nemmeno ora l’opinione è negativa, l’Ue è felice solo di apprendere che in Ungheria, a differenza di Grecia, Spagna e Portogallo, non aumenta il debito pubblico. Sembra che le cose stiano proprio così, ma sono state organizzate con una soppressione della certezza del diritto. Ostacolare la crescita del debito pubblico non garantisce prospettive per il futuro. Se non c’è certezza del diritto non ci sono investimenti e senza di essi il futuro non è roseo. Per l’Ue è più importante che si crei l’immagine di uno stato partner affidabile e che i conti siano a posto, la situazione della libertà e dei diritti passa in secondo piano.

Vorrei tornare alla definizione di bonapartismo che lei ha dato del governo Orbán.
Mi riferisco all’opera di Karl Marx Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte). L’elezione di Luigi Bonaparte a presidente avvenne con i due terzi dei voti popolari – una situazione analoga alla nostra -, poi Bonaparte centralizzò i poteri e sciolse il Parlamento. Questo, Orbán, non può farlo, ma adotta la stessa tecnica: concentra tutto il potere, lo centralizza. Dicono che il nostro premier sia populista: no, la sua retorica è populista ma non lui. Il suo governo non avvia trattative con i sindacati, non tratta con i lavoratori, non fa da tramite tra datori di lavoro e sindacati. Quello che è fondamentale per un potere populista è assente nel governo Orbán. Quindi non confondiamo la retorica con la politica de facto.

In che modo la nuova Costituzione cambierà la vita della popolazione?
Alla maggior parte degli ungheresi non interessa la Costituzione. In quanti la conoscono? Secondo me nemmeno quelli che l’hanno votata. Io l’ho letta, l’ho criticata, ma è molto difficile leggerla. La definizione migliore l’ha data l’ex presidente della Repubblica, László Solyom, che l’ha descritta come il nuovo Teatro Nazionale fatto costruire dal vecchio Fidesz: brutto, kitsch e antiquato, ma ci si può recitare. Da gennaio scopriremo a quali scenari darà luogo, per il momento è ancora valida la vecchia Costituzione che continua ad essere modificata fino a divenire quasi irriconoscibile, sarà così fino alla fine dell’anno. Poi c’è la legge sui media che limita fortemente la libertà di stampa, perché in sostanza crea un centro di censura che valuterà il contenuto delle informazioni diffuse da radio, tv, carta stampata e giornali online per verificare se sia conforme o meno alle nuove leggi. In più quest’organo sarà composto esclusivamente da membri eletti dall’attuale governo. Ecco, anche qui viene escluso il pluralismo.

A cosa attribuisce il successo ottenuto l’anno scorso dai partiti di destra?
Esso è dovuto in primo luogo alla perdita di fiducia della gente nei riguardi dei partiti tradizionali: questa è la cosa fondamentale. Nell’Ungheria orientale una parte degli elettori socialisti ha votato Fidesz. Quelli che si ribellano alla politica attuale sono finiti nell’estrema destra che convoglia l’insoddisfazione popolare. La questione fondamentale è il razzismo: questo distingue Jobbik dal Fidesz. Il Fidesz non è un partito razzista, è pieno di razzisti, ma la politica del partito non è razzista. Quella di Jobbik, invece, lo è, in primo luogo nei riguardi dei Rom. I membri di questo partito diffondono slogan anti-Rom e lo fanno soprattutto nei piccoli centri in cui vivono cospicue comunità Rom e si verificano spesso conflitti tra le persone un pochino più agiate e quelle povere. Chi vive in miseria e non ha da mangiare ruba. Gli altri cercano di difendere la loro piccola proprietà privata e odiano gli indigenti. Questo conflitto c’è e viene cavalcato dagli estremisti non solo a parole: vengono, infatti, create delle formazioni paramilitari che evocano brutti ricordi, sono state proprio organizzazioni del genere a occuparsi delle deportazioni in Ungheria. Ora il Fidesz sta cercando di scoraggiare il fenomeno con una legge contraria alle attività di questi gruppi.

Si parla di una ripresa dell’antisemitismo in Ungheria. Ritiene che sia un problema reale?
Non dico che Orbán sia razzista, ma forse tollera cose che non dovrebbero essere tollerate, le tollera fino a quando non disturbano la sua politica. In Ungheria il problema del razzismo non riguarda solo i partiti, ma anche la popolazione. Qui la gente non respinge il razzismo, non lo fa neanche se non lo condivide, non ha un minimo di coraggio civile. Qui non è d’abitudine obiettare, piuttosto si resta in silenzio. Non solo i partiti ma anche la popolazione dovrebbe essere educata a un diverso comportamento. Certo, i partiti non hanno dato il buon esempio, non perché fossero propensi a emarginare etnie e strati sociali, ma forse perché non hanno coinvolto i cittadini in un processo che li portasse ad apprendere il rispetto dei valori della convivenza e dell’indignazione civile contro l’intolleranza.

Allo stato dei fatti che futuro immagina per l’Ungheria?
Il filosofo non è un indovino, inoltre in politica il caso gioca un ruolo di estrema importanza. Guardi i successi e il declino di certe personalità della politica. Senza Berlusconi l’Italia sarebbe diversa, senza Viktor Orbán l’Ungheria sarebbe diversa. (Beh, buona giornata).

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L’Europa, la gallina dalle uova marce: l’Ungheria scivola in pieno fascismo tra l’indifferenza della Ue.

di ANDREA TARQUINI-la Repubblica (via dirittiglobali.it)
Budapest, estate 2011: ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in uno Stato membro dell´Ue. La grande purga non risparmia nessuno. Ai posti di comando solo uomini fedeli al premier Orban. E un´unica newsroom centrale distribuisce notizie ai media pubblici. La paura di perdere il lavoro perché sospettati di idee critiche la cogli in ogni ambiente. Nuove proposte di legge prospettano campi d´ospitalità per disoccupati o elementi asociali

 
Budapest. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato.

Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici.

Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite.

Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro.

Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.

“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po´ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell´Unione europea.

«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l´odio, l´invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l´istituzione della Nmhh, l´autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un´unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.

«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell´Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un´intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell´agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l´Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.

L´epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L´Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all´intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d´alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo.

Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all´opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l´Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell´Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.

Appena celata dalla gentilezza d´animo e dalla vivacità di questo adorabile popolo nel cuore dell´Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l´Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell´Impero del Male” si allontana.

Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell´emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà. Nuove proposte di legge prospettano “campi d´ospitalità” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.

«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà», dicono i colleghi del Népszabadsàg: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell´Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l´anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all´antennista di sintonizzare la tv su canali critici.

O vedi un razzismo da banalità del male. Come l´altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L´Arcipelago Gulash è così, l´Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l´Ungheria te lo allevia l´Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d´una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca. (Beh, buona giornata).
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La crisi secondo Scalfari: “C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street.”

di EUGENIO SCALFARI- la Repubblica

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un’altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d’ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell’ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull’Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l’America ha il raffreddore – si diceva un tempo – in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l’ha l’America, che cosa può accadere qui?
* * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l’uno all’altro dietro quel tavolo, con l’aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l’Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell’attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d’un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. “Tremonti vi spiegherà i dettagli” così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l’ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell’improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: “Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto”.

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

* * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo “spread” a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall’Europa d’intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall’altra. Soprattutto quest’ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l’Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l’atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell’economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d’un centimetro dal rovinoso immobilismo d’una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell’Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il “boss”; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. “È passato un mese e il mondo è completamente cambiato” ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n’erano ancora accorti. Meno male che – non potendo dimissionarli – li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

* * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell’articolo 41 e quella dell’articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d’un potente incoraggiamento all’illegalità è dir poco.

Quanto all’articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile “salvo specifiche condizioni di emergenza” (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c’è un’altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell’opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l’iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l’effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

* * *

Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l’obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l’orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d’un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest’esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un’unica visione. L’esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l’immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall’equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell’assistenza, l’equità scompare. Dunque colpire solo l’assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all’abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda “tranche” della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

* * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri “lord protettori” hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi. L’articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un “una tantum” ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l’intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l’altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all’incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l’Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d’Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?
Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Bauman: “La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?»

“Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo”. Intervista a Zygmunt Bauman di ANDREA MALAGUTI- la Stampa.

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?».
Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.
«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva – fa? – la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni». (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Crisi: downgrading politico per il governo Berlusconi.

di MARIO MONTI- corriere.it

I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l’allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti. Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l’uno e molto puntiglioso l’altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall’Europa.

Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.

Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.

Scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).

Downgrading politico . Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia. L’Unione europea e l’Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie. Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell’interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un’Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all’Europa.

Tempo perduto . Nella diagnosi sull’economia italiana e nelle terapie, ciò che l’Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d’Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.

Crescita penalizzata . Nelle decisioni imposte dai mercati e dall’Europa, tendono a prevalere le ragioni della stabilità rispetto a quelle della crescita. Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana (anche se, per la prima volta, perfino le agenzie di rating hanno individuato proprio nella mancanza di crescita un fattore di non sostenibilità della finanza pubblica italiana, malgrado i miglioramenti di questi anni). L’incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall’interno dell’Italia, sulla crescita. (Beh, buona giornata).

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Crisi irreversibile della Seconda Repubblica: mentre implode il berlusconismo e va in crisi la rappresentanza politica, l’alternativa è nelle mani dell’autonomia dei cittadini.

di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

LA SECONDA Repubblica è ormai alla fine. Vent’anni dopo l’avvio, arranca faticosamente. Insieme agli attori che hanno contribuito a fondarla e a plasmarla. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, per primi. In particolare, appare logoro il modello berlusconiano, imperniato sulla personalizzazione iperbolica del partito e del governo. Enfatizzata dall’uso dei media.

La Seconda Repubblica: ruota intorno al partito di Berlusconi. “Personale” e non personalizzato. Perché, a differenza di quel che avviene nelle altre democrazie occidentali, il partito non agisce come una macchina per selezionare e sostenere il leader. Viceversa, è il leader a creare il partito. A fornirgli regole e valori. Identità e organizzazione. Un “partito personale”, riassunto nel corpo del Capo (come ha precisato Mauro Calise nella nuova edizione del suo saggio, edito da Laterza nel 2010).

Ne asseconda le scelte e gli interessi. Ne riflette il destino. Un modello vincente, riprodotto da tutti. In base alla diversa disponibilità di risorse – simboliche, mediali e, naturalmente, economiche e finanziarie. Per prima la Lega, l’altra “madre” della Seconda Repubblica. Partito dei ceti medi privati, della provincia produttiva del Nord. Anticentralista e antiromano. Ha ereditato il retroterra elettorale della Dc, assumendo una forma organizzativa simile al vecchio Pci.

Un partito carismatico e personale a basi di massa. Che ha bisogno di Bossi per “stare insieme”. Perché Bossi ne incarna l’identità e la storia, l’immagine e il linguaggio. Anche dopo la malattia. Tanto più dopo la malattia. Bossi ha portato con sé la sofferenza fisica e l’ha esibita come un simbolo. L’icona della Padania promessa (per citare Biorcio).

La Seconda Repubblica fondata da – e su – Berlusconi, nel vuoto politico prodotto da Tangentopoli, è cresciuta a immagine e somiglianza del Cavaliere. Oggi, se ci guardiamo intorno, vediamo solamente imitazioni. Partiti personali, più o meno riusciti. Più o meno realizzati. Non solo la Lega di Bossi. Ma anche l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, cofondatore della Seconda Repubblica, in quanto figura simbolo di Mani Pulite. E Sel. Cosa era e cosa sarebbe senza l’affermazione di Nichi Vendola? D’altronde, la Federazione della Sinistra, la stessa Rc, dopo il “ritiro” di Bertinotti, sono divenute invisibili. Scivolando verso il Terzo Polo: come scindere l’Udc da Casini? Tanto meno l’Api da Rutelli, anche perché è rimasto ormai quasi solo (Tabacci fa storia a sé. Figura di valore, all’inseguimento ostinato della Prima Repubblica proporzionale). Anche Fli: è la Lista Fini. I Radicali, d’altra parte, per primi, hanno importato il modello americano, presentandosi negli anni Ottanta come lista personale, incarnata da Pannella e, poi, dalla Bonino.

Resta il Partito democratico, ultima stazione del viaggio del centrosinistra all’inseguimento di Berlusconi. Condotto, prima, attraverso l’Ulivo di Prodi e Parisi, sostenitori dell’Unione tra diverse culture politiche. Una sorta di Nuova Dc spostata a sinistra. Fino al Pd di Veltroni. Partito “esclusivo” e maggioritario. Fondato sulle primarie, usate non solo per selezionare i candidati alle cariche istituzionali – nazionali e locali. Ma per eleggere le cariche del partito. Una sorta di riproduzione dei vecchi congressi. Necessaria a regalare un’investitura popolare e di massa a “un” leader.

Ebbene, tutti questi esperimenti, realizzati con maggiore o minore successo, oggi appaiono gusci svuotati di senso e consistenza. Per la de-composizione del modello, che segue la crisi del fondatore. D’altronde, se l’identità e la coerenza del partito dipendono dalla figura e dal “corpo” del Capo, come pensare che il partito possa sopravvivere al suo declino? Ciò appare evidente nel caso del Pdl, un non-partito-personale. La scomparsa di Berlusconi – praticamente introvabile da settimane, mentre infuria la crisi interna e globale – ha s-travolto il Pdl. Non basterà l’investitura di Angelino Alfano a salvarlo. Perché è impensabile un partito personale senza l’unica persona che gli dia senso e risorse.

Diverso il discorso della Lega, che dispone di un’organizzazione diffusa sul territorio e di una classe politica sperimentata, a livello centrale e locale. Tuttavia, è attraversata da differenze interne profonde. A livello territoriale, ma anche di identità e cultura. E ancora: personali. È, probabilmente, questo il principale motivo per cui la leadership di Bossi – per quanto vissuta con crescente insofferenza all’interno – non viene ancora contestata apertamente e in modo diretto. Per timore del big bang. Tuttavia, se Berlusconi uscisse di scena, anche Bossi ne seguirebbe la sorte. Non solo, ma in questo caso, l’intero sistema dei partiti personali verrebbe centrifugato. Perderebbe il baricentro.

In fondo, è per questa ragione che il Pd ha dimostrato capacità di ripresa e di reazione, negli ultimi mesi. Perché resta un partito incompiuto e im-personale. Privo di un’organizzazione solida – leggera o pesante, non importa – e di una leadership condivisa. Semmai, divisa. Un partito in-definito, anche dal punto di vista della prospettiva. I recenti scandali, peraltro, ne hanno logorato la legittimazione morale. La pretesa “diversità”, rivendicata, trent’anni fa da Berlinguer, come ha rammentato nei giorni scorsi Eugenio Scalfari.

Da ciò la crisi profonda che scuote e disorienta il sistema politico e le istituzioni di questa Repubblica, modellata da Silvio Berlusconi a propria immagine e somiglianza. Ora che il motore è inceppato, l’intero universo appare disassato. Perché il declino dei leader avviene dopo che la personalizzazione ha logorato i partiti. Così ci avviamo a un futuro-prossimo-già-iniziato: senza leader e senza partiti. Ciò spiega il ruolo assunto dal presidente Napolitano. L’unico leader che goda di fiducia – in questo sistema privo di leader e di partiti. Per propri meriti “personali”, ma anche perché non ha partito.

Da ciò il paradosso della nostra Repubblica – fondata dai partiti e ridisegnata dai partiti “personali”. Oggi è divenuta una Repubblica presidenziale. Di fatto.

Non dobbiamo pensare, tuttavia, a una deriva inevitabile. La crisi dei partiti personali ha, infatti, sollecitato la reazione di molte “persone”, che agiscono nella società civile e sul territorio, ma anche alla periferia dei partiti. Ne abbiamo avuto esempio in occasione delle amministrative e dei referendum. Da ciò la speranza – e qualcosa di più. Che le persone di buona volontà e i mille segmenti del movimento invisibile cresciuto in questi mesi non si rassegnino.(Beh, buona giornata).  

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Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media Teatro

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche Salute e benessere Scuola

Appello di Giorgio Cremaschi e altri: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Dobbiamo fermarli
5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile.

La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale.

L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati.

L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.

La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.

Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.

Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (segr. Gen. Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastione (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (segr. naz. Fiom)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Unilever, direttivo naz. Filctem Cgil)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università “Sapienza” – Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (Direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (pres. Comitato centrale Fiom)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (segr. Gen. Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Eleonora Forenza (ricercatrice universitaria)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (segr. Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo nazionale Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (segr. Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Antonio Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (segreteria Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (segr. Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom-Cgil, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Ciro Pisacane (ambientalista)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N – Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (segr. Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (segreteria Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, segreteria FLC Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Massimo Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (segreteria Filctem-Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano – RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp-Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo nazionale Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)

Per adesioni mail a:
– g.cremaschi@fiom.cgil.it
– burattini@lazio.cgil.it
– marco.santopadre1@tim.it

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Teatro

Cresce il dibattito al Teatro Valle occupato. Ecco l’intervento di BIFO.

Far saltare il dispositivo Maastricht e poi? di Franco Berardi (BIFO)-teatrovalleoccupato.it

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.

Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono gli ipocriti occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa e della privatizzazione economica e della corruzione. L’inizio di una rivolta destinata a convergere con quella europea.

Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.

La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.

Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.

Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?

Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.

L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.

L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.

In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.

Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:

Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.

Naturalmente quegli stessi obiettivi si potrebbero perseguire adottando strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.

L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.

Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima, maggioritaria della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.

Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, mentre pure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.

Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.

Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè un prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana come un automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetersi. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.

Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.

A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.

La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.

Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.

L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, armarla. Essa si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
(Beh, buona giornata).

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