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Attualità Scuola

Bullismo ministeriale.

Gli studenti dell’Onda sono dei «guerriglieri e verranno trattati come guerriglieri». Brunetta dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche Scuola

Tornano di moda le cariche della polizia contro gli studenti.

di Iaia Vantaggiato da Il Manifesto

Roma, Parigi, Barcellona. E’ un’Onda lunga ma per niente anomala quella che oggi torna a protestare in gran parte d’Europa. “Sciopero in Onda, libertà in movimento» recitano gli striscioni mentre gli studenti contestano ovunque i tagli all’Università, la fine dell’istruzione pubblica e la presenza incontrastata “dei fascisti all’università”. Fascisti che, quanto meno a Roma, arredano le loro sedi con spranghe e catene. Un trend scellerato che attraversa l’Unione – Spagna di Zapatero compresa – con gli studenti da una parte che manifestano
pacificamente e le forze dell’ordine dall’altra che, orfane dei fasti di Genova e del G8, decidono di caricare.

Accade a Roma dove gli universitari hanno dato vita ad un corteo interno snodatosi tra i viali della Sapienza. Qualche lezione interrotta (e che sarà), i megafoni come unica arma e il tentativo di uscire dalla città universitaria per riversarsi nelle strade vicine: “Vogliamo andare nelle nostre strade: libertà di
movimento”. Ad attenderli, un cordone di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa che caricano gli studenti respingendoli all’interno dell’ateneo
(“caricano”, “tenuta antisommossa”, ma in che anno siamo?) “secondo quanto previsto dal Protocollo di restrizione dei percorsi dei cortei a Roma”. E alla
carica, gli studenti rispondono con il lancio di oggetti e di scarpe: “Ce le eravamo portate per lanciarle davanti al ministero dell’Economia come hanno fatto in Francia”. E’ al secondo tentativo di forzare i blocchi – dopo un’assemblea autoconvocata – che gli agenti della Guardia di finanza effettuano una nuova “carica di alleggerimento”. I contusi fra gli studenti sarebbero decine. Difficile fare un bilancio, come spiegano i ragazzi, “perché se ne trovano ad ogni angolo della città universitaria”.
Accade a Parigi, la notte scorsa a Montmartre, in occasione della «notte delle università» organizzata nell’ambito della mobilitazione degli insegnanti-ricercatori contro le leggi di riforma del governo sulle università. Le agenzie parlano di atti di vandalismo, di vetrine di negozi, supermercati e banche
(banche? Che adesso le banche c’hanno pure le vetrine?) sfondate e di bottiglie lanciate contro la polizia. Non più di 150 persone, dicono i testimoni, peccato che di qualche migliaia di studenti parlino altre fonti. Le stesse migliaia di studenti che si erano riunite in serata nell’Università Paris VII nel XIII arrondissement, a est di Parigi, vicino alla Biblioteca Nazionale di
Francia Francois Mitterrand.
Accade a Barcellona dove altri incidenti fra polizia e studenti contrari alla riforma dell’università sono stati registrati in mattinata quando le forze dell’ordine hanno sgomberato con la forza gli edifici del rettorato – occupati da novembre – arrestando tre studenti. Centinaia di studenti hanno bloccato la Gran Via e sono stati caricati dalla polizia.
Tutto questo accade. E accade nella nostra democratica Europa. Quella che ha a cuore la pubblica e libera istruzione. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Informazione, la quarta crisi.

di Marco Ferri- Il Manifesto

Come se non bastassero la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria, che ha subito tracimato sulla crisi economica, ecco la quarta crisi: la crisi dell’informazione sta attraversando tutto il mondo occidentale.
A prima vista sembrerebbe che la crisi dei giornali sia la diretta conseguenza della crisi della pubblicità, che da anni foraggia tutti i mass media. In realtà, come per le altre tre crisi
(ambientale, energetica e finanziario-economica) la crisidell’informazione viene prima della “tempesta perfetta”: tanto che non ha saputo prevederla. Schiacciata dall’insorgenza dei new media
(internet in testa) e dalla invadenza della tv (sia generalista che
tematica, vale a dire sia analogica che digitale) la stampa ha perso colpi, per poi perdere copie, diffusione, lettori e pubblicità.

Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale ha sentenziato che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri .
Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa dove le previsioni dei grandi giornali, dal New York Times (che, per ripianare i bilanci in rosso ha
dovuto vendere il grattacielo, disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York), per non parlare del Wall Street Journal (divenuto di proprietà di Ruppert Murdoch, ha annunciato tagli e
licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti): questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della
stampa americana. Anche il Washington Post ha annunciato di tagliare dal prossimo 30 Marzo l’inserto dedicato al business, compresa le pagine quotidiane dedicate ai listini di Borsa.

L’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media è fosco. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%.
Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, si vedrà anche qui una riduzione al 20-25%. Insomma, giornali e riviste saranno i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E’ un fatto che l’intrattenimento condizioni l’informazione, che la stessa sia “condizionata” dagli introiti pubblicitari, senza i quali le testate giornalistiche rischiano la chiusura. E’ un fatto che la
crisi dei consumi riguardi anche il “consumo” di informazioni. E’un fatto che la comunicazione abbia assunto un ruolo determinante nella politica dei governi, spesso come grande diversivo, per orientare le
opinioni pubbliche a favore di scelte e a detrimento di altre, non solo durante le campagne elettorali, ma anche durante l’azione di governo.

La crisi che sta attraversando il mondo dei media rischia di mettere in secondo piano la difesa del diritto a una informazione corretta, il diritto a una comunicazione libera. La crisi degli investimenti pubblicitari spinge sempre più a “catturare “ l’attenzione verso le marche globali, invece che a “liberare” l’attenzione di molti verso la democrazia della comunicazione, verso la democrazia nella comunicazione. Per dirla come la dice Zygmunt Bauman “in veste di compratori siamo stati adeguatamente preparati dagli uomini di
marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo disoggetto: finzione vissuta come verità di vita, parte recitata come vita reale’ che col passare del tempo spinge da parte la vera vita
reale, privandola di ogni possibilità di ritorno” (“Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Roma-Bari 2009).

Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente di Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, a conclusione del Summit della pubblicità che si è svolto a Roma giorni fa, ha detto “La comunicazione è e resta
driver competitivo, posto di lavoro per talenti, stimolo all’innovazione e libertà di scelta per il consumatore”. Eccola, allora tutta intera l’esplicitazione della “quarta crisi”, quella che
lega pubblicità e informazione: la spasmodica ricerca di un nuovo paradigma tra informazione e pubblicità che perpetui la società dei consumi. Se questo è il pensiero di chi spende i soldi per la
pubblicità nell’informazione, emblematica è la sinergia del ragionamento con chi sta sperimentando, per altro con successo, forme alternative di informazione sul web. Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, attualmente il sito più famoso d’America, lei, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti, partecipando al Summit della pubblicità, organizzato appunto da Upa ha tracciato tre tendenze in atto: a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto
del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti.
In particolare, secondo Arianna Huffington, intervistata da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda. L’ Huffington Post ha circa 20milioni
di visitatori mensili che sempre più desiderano interagire con informazione. Il mese scorso sono stati un milione i commenti al celebre sito. Tutto ciò senza un dollaro di marketing, ma solo attraverso il passaparola.
Nonostante le dimensioni del fenomeno internet – soprattutto negli USA – e la misurabilità dei risultati grazie ai click, vi sono ancora inspiegabili resistenze da parte delle aziende a investire in questo mezzo. Negli Usa, figuriamoci in Italia.

“Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria”, ha detto al Sole 24 Ore Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, una vita spesa a creare prodotti editoriali di successo, che ha appena fondato blitzquotidiano.it, sito emulo di Haffington Post.

Forse la quarta crisi è solo un momento di transizione verso la convergenza di stampa, tv e internet. Oppure, come per la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziario-economica, anche la crisi del rapporto tra pubblicità e informazione è una crisi strutturale, che rimanda alle contraddizioni della società dei consumi: “consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. E’ una guerra silenziosa e la stiamo perdendo” (Z.Bauman). Beh, buona giornata.

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Attualità Scuola

Il duce feta e tiene ‘e corna (Il Duce puzza e ha le corna). La storia si ripete?

A proiettare il volto del premier insieme con quelli di Hitler e Stalin, durante una rappresentazione organizzata da un liceo di Gallarate (Varese), è stato un tecnico delle luci: la compagnia lo ha licenziato

di Stefania Radman da repubblica.it

Un blitz ha provocato scompiglio in una manifestazione teatrale organizzata dal liceo scientifico Leonardo Da Vinci a Gallarate, in provincia di Varese, dove il volto di Silvio Berlusconi è stato mescolato a quello dei più feroci dittatori della storia.

La provocazione è avvenuta durante una rappresentazione teatrale in lingua originale, organizzata annualmente e andata in scena al teatro Delle Arti: quest’anno il soggetto era Animal Farm, la trasposizione della Fattoria degli animali di George Orwell. Una mirabile allegoria di tutte le dittature che, nella messa in scena della compagnia Palkettostage, si conclude con una galleria per immagini di dittatori come Hitler, Stalin, Mussolini e tanti altri. Tra i quali però si è insinuata, alla fine, anche la faccia sempre sorridente dell’attuale presidente del consiglio.

In sala si è levato un boato: in molti, fra i genitori, hanno reagito male alla provocazione. Il cui responsabile era un tecnico delle luci appena assunto dalla Palkettostage, che da 25 anni mette in scena spettacoli teatrali in lingua originale per le scuole di tutta Italia. A spiegarlo, il biglietto di scuse stampato in 500 copie (una per studente), da cui si scopre che il responsabile è un tecnico delle luci che aveva deciso, di propria iniziativa, di inserire l’immagine di Berlusconi tra quelle dei dittatori. E che è stato immediatamente licenziato. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Povero Silvio.

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, una calorosa lettera nella quale si richiamano la portata delle sfide che si possono meglio affrontare insieme e, in pari tempo, le straordinarie opportunità che possono far avanzare le finalità dell’alleanza tra Stati Uniti e Italia: “Nel cominciare a lavorare insieme – scrive il Presidente Obama – sono consapevole della fondamentale importanza del nostro rapporto. Ho fiducia che sapremo lavorare in uno spirito di pace e di amicizia per costruire, nei prossimi quattro anni, un mondo pi ù sicuro. Guardo decisamente – conclude la lettera – alla collaborazione con lei in questo sforzo, e alla promozione di eccellenti relazioni fra i nostri due Paesi”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il governo accontenta Confindustria. Dunque, era vero che i soldi non erano veri.

“Il governo – dice la presidente di Confindustria Marcegaglia – ha dato garanzia alle imprese che nei prossimi giorni sarà innalzata da 560.000 a un milione di euro la soglia di compensazione debiti-crediti con l’erario”. Alla luce delle parole del premier, il presidente di Confindustria ha giudicato l’incontro “positivo e costruttivo”, sufficiente per concludere che sulle piccole imprese è “stato raggiunta un’intesa”. “Su alcuni punti abbiamo visto soldi veri, mentre su altri punti ci saranno”, ha detto Marcegaglia riferendosi alle preoccupazioni che aveva espresso alcuni giorni fa quando, davanti alla platea della piccola industria riunita a Palermo, chiese per la ripresa economica “soldi veri”. Allora era vero che i soldi di prima non erano veri. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Sky contro Auditel. Tom Mockridge ha letto “L’arbitro è il venduto”?

E’ successo giorni fa, durante la seconda giornata del convegno romano sulla pubblicità, intitolato ”Tutto cambia. Cambiamo tutto?”. Se ai più il primo giorno è risultato alquanto noioso, a movimentare le schiene sulle poltrone dell’ Auditorium ci ha pensato l’amministratore delegato di Sky Italia, Tom Mockridge, che ha attaccato frontalmente l’assetto proprietario di Auditel.

«Non è possibile avere una performance dei programmi televisivi – ha detto l’ad di Sky – finché la società di rilevazione è controllata al 60% da Rai e Mediaset, che ne controllano le decisioni attraverso il Cda: è un assetto, quello di Auditel, che riflette il mercato com’era 15 anni fa. Le emittenti tv, tutte, dovrebbero scendere sotto al 50% del capitale, lasciando la maggioranza ad altri soggetti. Nel Cda potrebbero entrare consiglieri indipendenti, come avviene in altri grandi mercati».

La guerriglia tra Sky e Mediaset è stata scatenata dall’introduzione dell’Iva sugli abbonamenti della tv satellitare, decisa settimane fa dal governo Berlusconi. Le ostilità si sono via via intensificate fino alla costruzione di una nuova piattaforma, nata da una società con Mediaset, Rai e Telecom, che permetterà di non trasmettere più sul satellitare Sky i programmi in chiaro del canale commerciale e di quello pubblico. Lo scopo sembrerebbe sgonfiare la quota di mercato che Sky ha conquistato negli ultimi anni, arrivando a lambire il 10%. Sky ha reagito arruolando star della tv generalista, come la Cuccarini e addirittura Fiorello, il quale, invitato a Palazzo Grazioli si è sentito chiedere da Berlusconi: “Perché vai a lavorare col nemico?”

Gli ultimi dati ufficiali danno una calo di raccolta pubblicitaria da parte di tutte le reti televisive. Tranne che di Publitalia, la concessionaria di Mediaset. Di qui, l’attacco all’Auditel da parte di Sky: Auditel fornisce i dati ufficiali di ascolto che servono a fare il prezzo degli spazi pubblicitari sulla tv. E Sky si sente penalizzata e quindi attacca a testa bassa, alzando il livello dello scontro con le tv di Berlusconi.

E’ singolare che Tom Mockridge, l’ad di Sky, nell’attaccare Auditel usi gli stessi argomenti di un libro intitolato
“L’arbitro è il venduto” di Giulio Gargia (Editori Riuniti, 2005). All’epoca il libro scatenò le ire dei manager di Auditel, e il plauso degli addetti alla televisione e alla comunicazione, nonché di associazioni di intellettual e operatori dell’informazione democratica, tra cui Megachip di Giulietto Chiesa e Articolo 21 di Giuseppe Giulietti.

Oggi “L’arbitro è il venduto” di Gargia sembra essere diventato un cavallo di battaglia nella guerra di ascolti tra Sky e Mediaset. Potenza della concorrenza. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Il “piano casa” potrebbe aiutare l’economia o la campagna elettorale del premier?

ROMA, 17 marzo (Reuters) – Il progetto di un piano casa annunciato dal governo potrebbe essere di stimolo all’economia ma la portata è incerta ferma restando l’esigenza che il provvedimento rispetti l’ambiente e i piani urbanistici.

Lo ha detto oggi il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel corso di una audizione parlamentare.

Il governatore ha poi sollecitato la messa a punto di una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali pur prendendo atto dei interventi finora realizzati.

“Il governo ha anche annunciato di avere allo studio provvedimenti per facilitare l’ampliamento degli edifici residenziali e ridurre i contributi di costruzione. Modalità, contenuti e tempi di eventuali interventi non sono ancora noti. Una semplificazione degli adempimenti e una riduzione degli oneri potrebbe avere effetti di stimolo. La complessità della materia, la presenza di competenze concorrenti fra Stato e regioni, la necessità di congegnare l’intervento in modo da preservare ambiente naturale ed equilibrio urbanistico ne rendono però incerta la portata da un punto di vista congiunturale”, si legge nel testo pronunciato dal governatore.

Il governo porterà al prossimo consiglio dei ministri un pacchetto di misure sull’edilizia che dovrebbero prevedere anche un decreto legge. La possibilità di intervenire con decretazione d’urgenza sarà anche discussa oggi dal governo in un prenzo con il presidente della Repubblica.

Silvio Berlusconi ha annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di varare una legge quadro che consentirà di ampliare le abitazioni del 20% di cubatura e di abbattere, per ricostruire con un ampliamento fino al 30%, gli edifici vecchi. Il premier ha detto esplicitamente che preferirebbe agire per decreto. Il piano ingloba anche lo stanziamento di 550 milioni per l’edilizia popolare.

Secondo il presidente del Consiglio i lavori edilizi da slobbcare con il piano ammontano a circa 60 miliardi.

Sugli interventi a favore di chi perde o sospende il lavoro a causa della crisi in corso, Draghi ha detto: “Il governo ha esteso temporaneamente a gran parte delle tipologie di lavoratori atipici la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali; ulteriori miglioramenti sono stati definiti la scorsa settimana. Il finanziamento di questi interventi è stato di recente ampliato grazie all’intesa tra Stato e Regioni. Questi provvedimenti sono opportuni. Resta però l’esigenza di impostare fin da ora una riforma complessiva”.

Il governo grazie all’accordo con le Regioni ha stanziato 9 miliardi per gli ammortizzatori sociali per il biennio 2009-2010. (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Der Spiegel: ”di tanto in tanto l’inguine di Berlusconi sembra prendere il posto del suo cervello”.

da blitzquotidiano.it

Il sito tedesco Spiegel.de, version online del noto settimanale tedesco, pubblica un lungo articolo in cui attacca e prende in giro Silvio Berlusconi, raccontando anche, almeno in un caso, cose non vere, come la favola di aver detto al presidente francese Nicolas Sarkozy ”io ti ho dato tua moglie” riferendosi a Carla Bruni.(Delle successive – e documentate – smentite lo Spiegel non fa parola. Scrive invece: ”la frase fornisce un’indicazione di quello che in quel momento passava per la testa di quest’uomo’)’.

Prosegue Spiegel.de: ”Silvio Berlusconi è ossessionato dal potere e di conseguenza anche dal sesso, e non sembra importargli molto che si sappia in giro”. A questo proposito, il settimanale racconta che lo scorso ottobre il premier sarebbe stato visto uscire da un night club milanese nelle prime ore del mattino, dopo esser rientrato da Parigi per un vertice sulla crisi.

Poi Spiegel cita testualmente Berlusconi. Rilevando che ha 72 anni, dice: ”Anche se dormo tre ore mi resta la forza sufficiente per fare l’amore per altre tre ore”.

Quindi il settimanale ci va giù pesante, scrivendo che ”di tanto in tanto l’inguine di Berlusconi sembra prendere il posto del suo cervello”, come quando, dopo una serie di stupri in Italia, il premier promise di aumentare le misure di sicurezza aggiungendo: ”Per essere completamente sicuri dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle ragazze d’Italia. Ma non credo che potremmo mai riuscirci”.

Spiegel fa anche un paragone tra Berlusconi e Mussolini citando l’esperto di comunicazioni Federico Boni: ”Mussolini interpretava vari ruoli: contadino, cavallerizzo, operaio, padre. Era il Duce che serviva il suo Paese. Berlusconi, d’altro canto, e’ un super-eroe senza caratteristiche che come un personaggio dei fumetti puo’ assumere qualsiasi forma: allenatore di calcio, messia, invasato dal sesso, uomo di famiglia, leader nazionale, pianista di night club, cattolico devoto e libertino, padrone industriale e operaio in fabbrica”.

Conclude Spiegel: ”Berlusconi ha conquistato l’Italia, l’ha persa e l’ha riconquistata. L’ha tradita molte volte, ed altrettante volte l’ha sedotta”. Quanto alle donne, ”il premier ne ha amato veramente solo una: la mamma Rossella, morta l’anno scorso, i cui consigli teneva in considerazione più di quelli di Putin, Bush, Blair e perfino del papa”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
der spiegel

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Il governo non vuole il tetto agli stipendi dei top manager.

di SERGIO RIZZO da corriere.it

Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l’anno.

C’è solo un dettaglio. Il tetto c’era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all’ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L’emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l’intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l’emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell’Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l’ombra. L’offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l’autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell’Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l’Anas è in attesa dell’apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l’Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d’opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l’anno, compresa la parte variabile dello stipendio. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Obama blocca i bonus ai manager delle aziende aiutate dallo Stato. In Italia, invece no.

Non sarà messa in discussione la proposta avanzata da alcuni parlamentari della Lega di mettere un tetto agli stipendi dei manager di banche e imprese che, in difficoltà per la crisi, beneficeranno di aiuti pubblici. Le proposte sono infatti contenute nell’elenco degli emendamenti al decreto «Salva-auto» considerati inammissibili per materia.

In particolare, un emendamento prevedeva che non potesse superare il limite di 350.000 euro annui il trattamento economico dei dirigenti di banche o istituti di credito che beneficiano in materia diretta o indiretta di aiuti anti-crisi. Un altro emendamento, considerato inammissibile, prevedeva che gli emolumenti corrisposti a qualunque soggetto avente rapporti di lavoro con le amministrazioni statali, o con le agenzie oppure con enti pubblici economici e d enti di ricerca, nonchè con i magistrati, non potesse superare il limite del trattamento corrisposto ai membri del Parlamento. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Immigrazione e lavoro nell’Italia ammalata di xenofobia.

di GIOVANNA ZINCONE da lastampa.it

Lavoro prima agli italiani» è una ricetta politicamente appetitosa. La crisi economica in corso sta producendo disoccupazione e la situazione è destinata a peggiorare, anche se non si arrivasse a sfondare il 10%, come prevede la Cgil. Si capisce quindi che i lavoratori italiani chiedano protezioni e tutele. Finora l’immagine dell’immigrato «ruba lavoro» aveva attecchito poco dalle nostre parti. I sondaggi effettuati in anni passati rivelavano la presenza di questo timore soprattutto in Germania a partire dagli Anni 90 e, di recente, in Gran Bretagna.

Da noi l’immigrazione finora aveva generato soprattutto paure legate a flussi fuori controllo: troppo rapidi e consistenti, pieni di irregolari e con una componente criminale vistosa.

Si tratta di preoccupazioni non prive di riscontri nella realtà, anche se amplificate dalla tradizionale diffidenza che gli umani provano nei confronti degli stranieri non danarosi. A questi incubi, già sufficientemente lievitati, se ne sta sommando un altro: quello di un’occupazione scarseggiante sottratta agli italiani da mani straniere. In un punteggio che va da 1 a 10, questa paura ha già superato la media del 5, mentre in passato il timore di essere spiazzati dagli stranieri riguardava solo un terzo circa degli intervistati. La ricetta che il leader leghista propone vuole sfamare una paura in crescita. Ma non è priva di controindicazioni. La nostra appartenenza alla Ue implica l’impossibilità di discriminare comunitari, quindi i romeni che sono la prima comunità immigrata in Italia. In secondo luogo, il meccanismo discriminatorio costituirebbe una lungaggine burocratica in più, dunque un passo indietro rispetto alla maggiore libertà e allo snellimento nelle pratiche di assunzione messi in atto con l’abolizione delle liste di collocamento. E in una congiuntura che richiede di non incentivare chiusure di attività in Italia e delocalizzazioni all’estero, rimettere fardelli burocratici e divieti nella gestione della forza lavoro sul territorio nazionale non giova. Aggiungo che forse neppure funzionerebbe. In Italia c’è già l’obbligo di verificare che non ci siano italiani o comunitari disponibili al momento di rilasciare permessi di lavoro a immigrati non comunitari. Quindi, in teoria, a nuovi immigrati da fuori. In pratica, tutti sappiamo che il grosso dei «nuovi» immigrati è costituito da individui che hanno già un datore di lavoro, di solito poco propenso a cercarsi un altro dipendente. Perciò la verifica di mancanza di alternative nazionali o comunitarie allo straniero riguarda già una parte di lavoratori stranieri, quelli teoricamente inseriti nei decreti flussi. E, in questo caso sperimentato, la precedenza si è risolta quasi sempre in un atto formale: i Centri per l’Impiego appendono in bacheca l’avviso di richiesta, lo mettono sul sito e spesso non si presentano candidati italiani. E poi, come in tutti i Paesi del mondo, anche nel nostro una gran parte delle assunzioni non avviene attraverso i Centri dell’Impiego, ma segue la via del passa parola, via sulla quale il semaforo rosso agli immigrati non si colloca agilmente.

Infine, si tratterebbe d’imporre per legge quello che i datori di lavoro italiani già fanno in pratica. L’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha commissionato ricerche empiriche sulla discriminazione in vari Paesi europei. Il metodo adottato consiste nel far rispondere ad annunci di lavoro squadre di candidati assolutamente identici sotto tutti i punti di vista, a parte l’appartenenza: una squadra è costituita da cittadini di etnia nazionale, l’altra è fatta da membri di minoranze immigrate. E si vede, ad esempio, che già al momento della prima telefonata il posto per il nazionale c’è ancora, mentre all’altro candidato si comunica che è stato assegnato. Oppure, al nazionale si danno opportunità di prova che all’altro non vengono offerte. Il metodo ha ovvi limiti: pochi casi, solo annunci, lavori di un certo tipo. Il risultato è comunque che in tutti i Paesi osservati si discrimina, e in Italia più che altrove. Insomma, a parità di merito, sembra che il datore di lavoro italiano tenda già a privilegiare il connazionale senza che la legge glielo imponga.

Eppure i dati, almeno fino allo scoppio della crisi, rivelavano un incremento relativamente più forte delle assunzioni degli immigrati. I tassi di attività e di occupazione erano più alti tra gli immigrati, ma lo era anche il tasso di disoccupazione. Prima della crisi la manodopera immigrata funzionava, quindi, come un polmone che aspira ed espira lavoro più intensamente e velocemente. È ipotizzabile che la crisi porti a più rapide e forti «espirazioni». Già nel secondo trimestre del 2008 il tasso disoccupazione generale è aumentato dell’1% rispetto al trimestre dell’anno precedete, quello degli immigrati dell’1,2%. Ma un dato più recente seppure parziale, quello dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, segnala una situazione drammatica: a gennaio 2009 il 24% della disoccupazione nel Veneto era costituito da stranieri, con un picco del 32% a Treviso. Le piccole aziende, dove si concentra il lavoro immigrato, sono poco tutelate dagli ammortizzatori sociali, e il rischio di perdere, con il lavoro, il permesso di soggiorno e quindi di diventare irregolare è alto.

Gli imprenditori sono preoccupati. È vero che molti lavoratori stranieri stanno rientrando nel Paese d’origine, ma cosa accadrebbe se a quelli che rimangono, disoccupati e con scarse tutele, fosse davvero sbarrata anche la via verso una nuova occupazione? Le tensioni sociali che può comportare una massa di stranieri emarginati sono notoriamente gravi. Anche in questi giorni le rivoltose banlieues francesi ce lo ricordano. Imporre agli imprenditori (e alle famiglie) l’obbligo di assumere un italiano meno capace e diligente a scapito dell’immigrato meritevole che si sarebbero liberamente scelti non funziona. Certo non è una via burocraticamente facile ed economicamente fruttuosa. È un colpo alla coesione sociale e non so neppure se sia eticamente accettabile. La condizione di cittadino comporta per definizione dei privilegi; però l’essere nato sotto un altro cielo è un caso, non una colpa. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Quando Bush voleva militarizzare tutto il Nord America.

di Stephen Lendman – GlobalResearch.ca

Il titolo si riferisce alla Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità (il cui acronimo in inglese è SPP), conosciuta anche come North American Union. Questa organizzazione ebbe origine il 23 marzo del 2005 a Waco, in Texas, durante una conferenza a cui parteciparono George Bush, il presidente messicano Vincente Fox e il premier canadese Paul Martin. Il suo obiettivo è la promozione di un accordo che stimoli l’integrazione economica e politica delle nazioni coinvolte, nonché la collaborazione dei rispettivi servizi di sicurezza. Le sue attività si svolgono senza clamore mediatico, attraverso gruppi governativi che architettano direttive politiche vincolanti bypassando l’opinione pubblica ed il normale dibattito parlamentare.

In sintesi, è un colpo di stato corporativo spalleggiato dall’esercito, che affossa la sovranità delle tre nazioni partner, la loro popolazione e i loro organismi legislativi. E’ un pugnale infilzato nel loro cuore democratico, anche se il pubblico è in gran parte inconsapevole delle sue attività.

L’ultimo summit dell’SPP si è tenuto a New Orleans lo scorso aprile. Da allora, la sua azione è stata in gran parte intralciata dalla gravità della crisi economica globale, che richiede la completa attenzione dei leader coinvolti. Ciononostante, le decisioni prese finora saranno riportate nelle righe che seguono, insieme a qualche informazione addizionale.

Lo scorso settembre, l’«Army Times» ha riportato che il terzo Team d’Assalto della prima Brigata (al tempo dispiegato in Iraq) sarebbe stato trasferito sul suolo americano entro il primo ottobre, per entrare in una «forza federale pronta all’azione in caso di emergenze o disastri di origine umana o naturale, attentati terroristici inclusi».

«E’ la prima volta che un’unità attiva viene messa sotto il comando della NorthCom, un comando congiunto creato nel 2002 per coordinare e controllare le iniziative di difesa federali e le azioni di supporto alla difesa delle autorità civili».

Poi, il primo dicembre, il «Washington Post» ha dichiarato che il Pentagono avrebbe dispiegato 20mila soldati sul suolo statunitense entro il 2011, con l’obiettivo di «aiutare gli ufficiali statali e locali in caso di attacco nucleare o altre catastrofi». Sono state impostate tre unità di combattimento capaci di una reazione rapida. Altre due potrebbero aggiungersi al progetto. Saranno integrate con 80 unità della National Guard, addestrate per rispondere ad attentati di natura chimica, biologica, radiologica, nucleare, con esplosivi ad alto potenziale o altri attacchi di natura terroristica. In altre parole, si pensa di usare plotoni addestrati ad uccidere per militarizzare ed occupare gli Stati Uniti.

Il pretesto è la sicurezza nazionale. Queste unità saranno operative in caso di attentato terroristico, genuino o no, e anche in caso di tumulti da parte della popolazione, provata dalla crisi economica. Considerando la portata e la gravità della crisi, esiste una discreta probabilità che qualcuno, prima o poi, si decida a reagire. In questo caso, pattuglie armate di soldati si affiancheranno alla polizia locale (già militarizzata) non appena sarà dichiarata la legge marziale o arrivi l’ordine di effettuare azioni di sicurezza repressive.

Secondo il documento “Essere pronti al prossimo disastro catastrofico”, pubblicato nel 2008 dalla DHS/FEMA, dono state sviluppate procedure di “Emergenza Catastrofica” per reagire a situazioni “naturali” o “causate dall’uomo”. Se le condizioni lo richiederanno, si parla di sospensione della Costituzione e legge marziale. Si propone anche di militarizzare gli Stati Uniti per proteggere il mondo degli affari.

Lo scorso primo ottobre, in conseguenza all’annuncio che l’amministrazione Bush intendeva dispiegare pattuglie di soldati sul suolo americano, con un budget di “100 miliardi di dollari (di bailout)”, il Partito d’Azione Canadese ha pubblicato un post intitolato “ALLARME: GOLPE NEGLI USA”.

Probabili esiti

Gli sforzi dell’SPP si sono arrestati durante il periodo di transizione da Bush a Obama, ma il progetto di “integrazione profonda” rimane in piedi.
Il 19 gennaio, il Centro per la Politica Commerciale dell’Università di Ottawa ha tracciato le linee direttrici per un progetto di approfondimento dei rapporti tra Canada e USA. Il loro documento afferma che una «cooperazione repentina e sostenuta nel tempo» in questo periodo di crisi globale, avrebbe dovuto includere le forze di sicurezza e di difesa, il commercio e la competitività.

Il testo, inoltre, sostiene «che l’argomento cruciale è la necessità di ripensare l’architettura di gestione degli spazi economici comuni del Nord America, inclusa la liberalizzazione del commercio». Il linguaggio impiegato è ricco di espressioni come «ripensare (e) modernizzare le frontiere» e il loro significato contestualizzato sembra alludere ad un annullamento delle stesse. Sia quelle canadesi che quelle messicane. Allo stesso modo, il documento raccomanda di «integrare i regimi regolatori in un unico sistema che si possa applicare ad entrambi i lati della frontiera». Sostiene che l’arrivo di una nuova amministrazione a Washington è «un’opportunità d’oro» per forgiare un «programma che porti ad un mutuo beneficio e ridisegni la governance nordamericana e globale negli anni a venire».

Il testo sventola lo spettro del protezionismo e la necessità di evitarlo, dato l’attuale clima economico. Propone una «partnership USA-Canada più ambiziosa», che superi il NAFTA, in accordo con il Messico.

Un altro documento, prodotto dal Centro Nord Americano per gli Studi Transfrontalieri dell’Università Statale dell’Arizona ed intitolato “North America Next”, chiede una «competitività sostenibile nella sicurezza» ed una maggiore integrazione tra USA, Canada e Messico attraverso «una sicurezza sostenibile, un commercio ed un sistema di trasporti efficace» per rendere «le tre nazioni nordamericane più sicure, più economicamente funzionali e più prospere».

Sia il progetto dell’Università dell’Arizona che quello di Carleton mirano a rafforzare le iniziative dell’SPP grazie alla collaborazione della nuova amministrazione di Washington, specialmente in un clima di crisi economica globale che porta il problema in primo piano.

Altre tematiche in discussione

Il giornalista Mike Finch, in un articolo intitolato “North American Union Watch”, pubblicato sul quotidiano «The Canadian», riferisce che esistono organizzazioni statunitensi e canadesi il cui obiettivo è porre fine al libero flusso d’informazione su Internet.
Cita la scoperta di un «progetto per la eliminazione della libertà su Internet entro il 2010 in Canada» ed entro il 2012 in tutto il mondo, effettuata da un «gruppo di attivisti a favore della neutralità della rete».

Secondo la sua ricostruzione dei fatti, i due più grandi ISP canadesi, la Bell Canada e la TELUS, intendono limitare il browsing, bloccare alcuni siti e rendere a pagamento la maggior parte degli altri, in un’iniziativa articolata dal SPP che avrà inizio nel 2012. Reese Leysen, del servizio di web hosting I-Power, lo definisce un progetto «oltre la censura: vogliono uccidere il più grande ecosistema di libera espressione e libertà di parola mai esistito nella storia dell’uomo». Cita fonti interne a grandi aziende, che l’hanno informato su «accordi di esclusività tra gli ISP e i grandi fornitori di contenuti (come le TV e le case editrici di videogiochi) per decidere quali siti saranno inclusi nel Pacchetto Standard offerto agli utenti, mentre il resto della rete sarà irraggiungibile se non dietro una tariffa supplementare.»

Per Leysen, le sue fonti sono «affidabili al 100%». Anzi, indica che un quadro analogo è emerso da un articolo pubblicato su «Time» ad opera di Dylan Pattyn. Anche le fonti di quest’ultimo sarebbero interne alla Bell Canada e la TELUS. Secondo queste, si pensa di far rientrare solo i 100-200 siti più visitati nel pacchetto d’abbonamento base che, con tutta probabilità, includerà le agenzie di notizie più blasonate e terrà fuori tutto il circuito della stampa alternativa. «Internet diventerebbe un parco giochi per creatori di contenuti miliardari» come le TV via cavo, a meno che non si mettano in atto azioni per fermare questo processo.

Leysen pensa che gli Stati Uniti e gli ISP mondiali hanno idee simili sulla limitazione alla libertà di parola e le invasioni della privacy. Se ha ragione, la posta in gioco è altissima. Ma anche il margine di profitto è sostanzioso e, quindi, i governi amichevoli potrebbero essere d’accordo. Si parla anche di usare «marketing ingannevole e tattiche terroristiche» (come, ad esempio, sventolare la minaccia della pornografia infantile) per ottenere il consenso pubblico a queste norme liberticide mascherate da regole per la sicurezza della rete. È necessario fermarli immediatamente.

Progetti per ribattezzare l’SPP/NAU

Lo scorso marzo, il Fraser Insistute canadese lo ha proposto in un articolo intitolato: “Salvare la Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità” a causa dell’ondata di critiche suscitata dall’organizzazione. Suggerisce di scartare la sigla SPP/NAU, optando per NASRA (North American Standards and Regulatory Area) per nascondere il suo vero obiettivo. Secondo l’articolo, il “brand SPP” è ormai infangato, quindi è necessario sostituirlo per proseguire le iniziative che il NAFTA ha lasciato orfane: integrare la sicurezza a tematiche riguardanti la qualità della vita, come la sicurezza alimentare, il riscaldamento globale, il cambiamento climatico e le pandemie. Reclama anche un maggiore sforzo comunicativo per blandire la pubblica opinione. Vogliono ingannare il maggior numero di persone possibile, finché non sarà troppo tardi per intervenire.

Malcontento in America a livello statale

Il 23 febbraio, obiettando al concetto di “integrazione profonda”, il giornalista Jim Kouri di «News with Views» (NWV) ha pubblicato un articolo intitolato: “Che i singoli stati dichiarino la propria sovranità”. Il testo ripropone le parole dello stratega politico Mike Baker, quando disse: «Gli americani sono sempre più disillusi dalla mancanza di prospettiva a lungo termine dimostrata dal governo federale su tematiche come l’immigrazione clandestina, il crimine ed il caos economico. Il governo federale intende addirittura insinuarsi nella vita privata dei cittadini, attraverso leggi sul controllo della circolazione delle armi da fuoco ed altre iniziative», temi che i Padri Fondatori «relegavano alla discrezionalità dei singoli stati».
È anche preoccupante che gli stati non riescano a finanziare i loro progetti a causa di budget troppo ristretti e siano costretti a fare tagli. Oltre a questo, anche l’intrusione di Washington nell’amministrazione della giustizia locale è preoccupante.

Finora, nove stati hanno dichiarato la loro sovranità ed un’altra dozzina sta pensando di farlo. Le leggi già approvate o proposte variano dai diritti generali a quelli selettivi, come il controllo della circolazione delle armi da fuoco e l’aborto.

Il 30 gennaio, lo stato di Washington si è schierato con loro ed ha approvato la legge HJM-4009, che dichiara:
«Il Decimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “i poteri non delegati dagli Stati Uniti ad opera della Costituzione, e non proibiti da essa, sono riservati rispettivamente ai singoli Stati, o alla popolazione”. Lo stesso emendamento definisce la portata totale del potere federale, stabilendo che esso è limitato a ciò che è esplicitamente scritto nella Costituzione.»
All’inizio di gennaio, anche il New Hampshire ha approvato una norma simile, la HCR-6, “che afferma i diritti degli Stati basandosi sui principi jeffersoniani”. Gli altri stati che, parzialmente o totalmente, concordano su questa linea sono la California, l’Arizona, il Montana, il Michigan, il Missouri, l’Oklahoma e la Georgia. Oltre a questi, i seguenti stati stanno attualmente dibattendo misure di questo tipo: il Colorado, la Pennsylvania, l’Illinois, l’Indiana, il Kansas, l’Arkansas, l’Idaho, l’Alabama, il Maine, il Nevada, le Hawaii, l’Alaska, il Wyoming e il Mississippi.

Oltre al dibattito sui diritti dei singoli stati, le tematiche principali di questo movimento sono:
— la crisi economica;
— il controllo nocivo che Wall Street esercita sulla politica;
— il suo effetto sul sistema dei Checks & Balances;
— i bailout eccessivi concessi ad un sistema bancario insolvente e corrotto a scapito dei budget degli stati individuali e dei loro diritti;
— la spesa pubblica spudorata ed insostenibile. Il debito pubblico che sta portando la federazione alla bancarotta, ponendo un peso insostenibile sulle spalle degli stati.

In linea di massima, ci si preoccupa che Washington sia complice nella crisi che attanaglia il paese e che voglia sbarazzarsi delle sue responsabilità oppure che, almeno, tenda ad assumere comportamenti di questo tipo. Se questo movimento si rafforza, servirà a rallentare il processo di “integrazione profonda” o a bloccarlo per un periodo considerevole, ma è improbabile che lo fermi del tutto. L’America delle corporazioni lo vuole, e generalmente ottiene ciò che vuole.

Potrebbe volerci più tempo, molto più tempo, a causa della crisi globale e del periodo necessario a superarla. Alcuni esperti annunciano a breve un’altra Grande Depressione peggiore della precedente ed addirittura peggiore dei “decenni perduti” del Giappone, dal 1990 ad oggi.
La priorità nel mondo dell’alta finanza e nei CdA delle grandi aziende è sfuggire alla crisi, se possibile. Eccetto che per motivazioni di “sicurezza nazionale”, tutto il resto viene in secondo piano. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: SPP: Updating the Militarization and Annexation of North America.
Traduzione per Megachip a cura di Massimo Spiga

Stephen Lendman is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization. He lives in Chicago and can be reached at lendmanstephen@sbcglobal.net

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Attualità

Il 52% degli italiani è scontento del governo.

(Fonte: repubblica.it)
Altri tre punti in meno. Silvio Berlusconi raggiunge il suo minimo storico da quando è ritornato a Palazzo Chigi. Il sondaggio mensile sulla fiducia di Ipr Marketing per Repubblica.it dice che 52 cittadini su 100 hanno molta o abbastanza fiducia nel presidente del Consiglio, mentre 45 ne hanno poca o nessuna e tre sono senza opinione. Solo un mese fa, a febbraio la fiducia toccava il 55%.

Perde altri due punti anche il governo che scende a quota 44% di “fiduciosi” contro il 52% che esprimono un giudizio negativo. Tra i partiti, fermo il Pdl (48% di “sì”) sale di un punto l’Idv (41%) e di 2 la Lega Nord (33%). Ma soprattutto, dopo alcuni mesi di picchiata, la cura Franceschini sembra rivitalizzare il Pd che riprende 4 punti. (Beh, buona giornata)

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Attualità Società e costume

Mentre il Pd risale nei sondaggi d’opinione, ecco il Franceschini-pensiero.

di Mario Ajello da ilmessaggero.it

Semplice boy-scout? Curatore fallimentare? Questo si vedrà. Intanto, nel giro di poche settimane, Franceschini ha rivoluzionato le parole, gli schemi e la vendibilità del prodotto Pd, che tutti davano per scaduto. «Fiducia» è la prima parola rimessa in circolo dal fanceschinismo. E le altre? Eccole, dalla A alla Zeta.

Antagonismo. Al solo pronunciarne il suono, Walter tremava: per la paura di venire considerato un comunista. Dario, da ragazzone democristiano senza sensi di colpa, se ne infischia della mediazione a oltranza per apparire potabile ai ceti moderati e di altri togliattismi scaduti ma vivissimi nel Dna degli attuali ”compagni di scuola” d’origine Pci.
Antagonismo come radicalità post-ideologica.

Besame. Mucho. Canzone prediletta da Dj-Franceschini, come lo chiama Fiorello. I notabili del Pd lo stanno baciando tutti (preoccuparsi?).

Cifre. E proposte concrete. 460 milioni di euro di risparmio con l’election day. 2 per cento di una tantum, per i poveri, da chi guadagna oltre 120mila euro. E via così. Senza un «ma anche».

Dialogo. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica quanto aiutarlo.

Emergenza. Democratica. «Accadranno cose inimmaginabili», nel caso Berlusconi stravincesse le elezioni europee. Intostare il linguaggio, per coprirsi a sinistra.

Frou frou. Zero. Niente più veltronismo da terrazza romana. Ma sodo provincialismo, padre partigiano e nonno fascistone, giuramento sulla Costituzione, la cartolina spedita a Berlusconi (e non una mail), il giubbottino di renna fuori moda (solo lui e Fini lo indossano ancora)… Se non scrivesse romanzi, sarebbe meglio.

Gente. Parola semplice. Che i politologi non amano e la sinistra riformista neppure. Finalmente sdoganata. Senza la doppia ”gg” (la «ggente») che è orrendamente populistica e santoriana.

Hasta. La victoria siempre? La soglia della vittoria, per Franceschini, è non mandare il Pd troppo sotto il 30 per cento, recuperando astensionisti e delusi. Se ce la fa, canteranno tutti per lui una delle sue canzoni predilette (di Lucio Dalla): «E non andar più via».

Intransigenza. Vedi Antagonismo e anche Dialogo.

Lavoro. E crisi. Questo il terreno sul quale mettere in crisi Berlusconi.

Mangiare. «Le promesse e gli annunci di Berlusconi non danno da mangiare».

Nemici. Ora si usa dire avversari. Fra questi, il «catto-comunista» Dario viene considerato come il più insidioso. Erede di quella sinistra Dc che fece oscurare le tivvù del Cavaliere.

Oscuramento. Oscurato Walter. Riapparso Prodi. Il miracolo di San Franceschino.

Pericolo. Perdere contatto con chi vuole più riformismo, più innovazione, meno subalternità nei confronti della Cgil e nuovo welfare.

Quiz. Dopo le elezioni di giugno, Dario – che è passato dal Loft al Left – guarderà di più al centro?

Radicalismo. Ancora?

Serenità. D’Alema ha dato il la («Con Franceschini, il partito è più sereno») e al Nazareno si canta, sulla falsariga della canzone di Arisa a Sanremo: «Serenità».

Tonino. Cioè Di Pietro. Il franceschinismo l’ha come attutito.

Unione. Prodiana. Lì si tornerà.

Vice. Lo chiamavano Vice-Disastro.

Zero. La soglia di tolleranza degli elettori del Pd, se anche San Franceschino viene ridotto a un San Sebastiano, trafitto dalle solite frecce dei soliti notabili del suo partito. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Società e costume

Roma che è diventata una città incattivita.

di Marco De Risi da ilmessaggero.it

Un gruppo di adolescenti ha scatenato il finimondo in un autobus notturno mentre stava transitando nei pressi di piazza Venezia. Sei, sette ragazzotti sono saliti sulla vettura danneggiandola, aggredendo i viaggiatori e anche l’autista. Non contenti se la sono presa con un uomo di 29 anni che aveva detto loro di smetterla. L’hanno preso a calci e pugni e rapinato. La vittima è un dj napoletano che lavora in un locale notturno del centro. Immediato l’intervento dei carabinieri che hanno già arrestato uno dei rapinatori, un ragazzino di 17 anni. I militari questa volta sono stati davvero fortunati. Durante il sopralluogo nell’autobus dopo l’aggressione, fra i sedili, hanno trovato la carta d’identità di un componente della “baby gang”.

In pratica mentre il diciassettenne stava picchiando il “dj” non si è accorto che dalla tasca dei pantaloni si era sfilata la carta d’identità. L’episodio di violenza è accaduto sabato notte (verso la mezzanotte) su un autobus della linea “N3” all’altezza di corso Vittorio. «Alla fermata – ha raccontato il disc jockey aggredito – è salito un gruppo di ragazzi. Si sono subito comportati come se l’autobus fosse il loro. Hanno tirato il freno d’emergenza, dicevano frasi piene di volgarità». Il conducente ha provato a sgridarli, a dire loro di smetterla. «Il gruppetto – prosegue il “dj” – ha risposto male al conducente, l’hanno circondato in modo minaccioso. Poi hanno iniziato a insultare anche gli altri passeggeri prendendosela con una signora. A quel punto mi sono fatto avanti io e gli ho detto che dovevo andare a lavorare e se per favore potevano fare in modo che il conducente potesse ripartire».

Pochi secondi dopo e il gruppo si è accanito contro il ventinovenne. Calci, pugni, insulti e poi la rapina. Con la forza gli hanno sfilato uno zaino che il giovane aveva in spalla. All’interno c’erano gli strumenti del mestiere: “cd”, cuffie, microfoni e altro materiale “hi tech”. Poi la fuga a piedi. Un’ambulanza ha soccorso il ragazzo aggredito portandolo al Santo Spirito dove ha avuto una prognosi di 7 giorni per ecchimosi e contusioni. Sono accorsi anche i carabinieri della compagnia “Roma Centro” che hanno diramato alle altre “gazzelle” le ricerche degli aggressori. Intanto durante il sopralluogo è stata trovata la carta d’identità di uno dei “baby rapinatori”. I militari dopo neanche mezz’ora erano a casa del ricercato: una ragazzo di 17 anni, incensurato che risiede a Vitinia, lungo la via Ostiense. L’hanno trovato a letto che dormiva. Il minore è stato fatto rialzare, vestire e portato in caserma. Dove è stato riconosciuto dal ventinovenne aggredito e da altre persone che erano nell’autobus. Quindi per lui sono scattate le manette per rapina e danneggiamento. I complici hanno le ore contate.(Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Scherzo (macabro) del destino: allarme antincendio al processo per l’incendio della Thyssen Krupp.

L’udienza odierna per il processo alla Thyssen in corso a Torino, iniziata con l’esame del teste Giuseppe Caravelli, e’ proseguita con l’audizione di un altro testimone, Roberto Chiarolla, capoturno dello stabilimento torinese. Il dibattimento e’ stato poi sospeso per una ventina di minuti perche’ e’ scattato l’allarme antincendio, a causa dell’apertura inavvertita di un’uscita di sicurezza presente nel corridoio della maxi-aula 1. Il suono troppo acuto dell’allarme impediva lo svolgimento del processo per cui la presidente della Corte d’Assise Maria Iannibelli ha deciso per una breve sospensione. L’allarme e’ stato spento dopo qualche minuto ma ha poi ripreso a suonare perche’ qualcuno ha nuovamente aperto la porta.(Beh, buona giornata).

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Attualità

In fondo a Destra.

di PAOLO BERIZZI, autore di “Bande Nere” da repubblica.it

C’è il ministro della difesa La Russa che posa con un “camerata” di una famiglia mafiosa siciliana, i Crisafulli, narcotraffico e spaccio di droga a Quarto Oggiaro, periferia nord di Milano. C’è il suo collega di partito e di governo, il ministro per le politiche europee Ronchi, con uno dei fondatori del circolo nazifascista Cuore nero: quelli del brindisi all’Olocausto.

Lui si chiama Roberto Jonghi Lavarini e presiede il comitato Destra per Milano (confluito nel Partito della libertà). Sostiene le “destre germaniche”, il partito boero sudafricano pro-apartheid – il simbolo è una svastica a tre braccia sormontata da un’aquila – e rivendica con orgoglio l’appartenenza alla fondazione Augusto Pinochet. In un’altra foto compare a fianco del sindaco di Milano, Letizia Moratti. Poi ci sono gli stretti rapporti del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, con l’ultra-destra violenta e xenofoba del Veneto Fronte Skinhead. Ruoli istituzionali, incarichi, poltrone distribuiti ai leader delle teste rasate venete, già arrestati per aggressioni e istigazione all’odio razziale.

Fascisti del terzo millennio
Almeno 150 mila giovani italiani sotto i 30 anni vivono nel culto del fascismo o del neofascismo. E non tutti, ma molti, nel mito di Hitler. Un’area geografica che attraversa tutta la penisola: dal Trentino Alto Adige alla Calabria, dalla Lombardia al Lazio, da Milano a Roma passando per Verona e Vicenza, culle della destra estrema o, come amano definirla i militanti, radicale. Cinque partiti ufficiali (Forza Nuova, Fiamma Tricolore, la Destra, Azione Sociale, Fronte Sociale Nazionale) – sei, se si considera anche il robusto retaggio di An ormai sciolta nel Pdl. I primi cinque raccolgono l’1,8 per cento di voti (tra i 450 e i 480 mila consensi). Ma a parte le formazioni politiche, l’onda “nera” – in fermento e in espansione – si allunga attraverso un paio di centinaia di circoli e associazioni, dilaga nelle scuole, trae linfa vitale negli stadi.

Sessantatre sigle di gruppi ultrà (su 85) sono di estrema destra: in pratica il 75 per cento delle tifoserie che, dietro il “culto” della passione calcistica, compiono aggressioni e altre azioni violente premeditate. La firma: croci celtiche, fasci littori, svastiche, bandiere del Terzo Reich, inni al Duce e a Hitler. Sono state 330 le aggressioni da parte di militanti neofascisti tra 2005 e 2008. Concentrate soprattutto in tre aree del paese: il Veneto (Verona, Vicenza, Padova), la Lombardia (Milano, Varese) e il Lazio (Roma, Viterbo). Sono i vecchi-nuovi “laboratori” dell’estremismo nero. Con Roma – anche qui – capitale.

Dalle scuole ai centri sociali
Dai centri sociali di destra alle occupazioni a scopo abitativo (Osa) e non conformi (Onc). Dalle aule dei licei a quelle delle università. Dai “campi d’azione” di Forza Nuova ai raid squadristi delle bande da stadio che si allenano al culto della violenza. La galassia del neofascismo si compone di più strati: e anche di distanze evidenti. L’esperimento più originale è quello di CasaPound a Roma, il primo centro sociale italiano di destra. Da lì nasce Blocco studentesco, il gruppo sceso in piazza contro la riforma della scuola. Una tartaruga come simbolo, i militanti si battono contro l'”affitto usura” e il caro vita. Il leader è Gianlcuca Iannone, anima del gruppo ZetaZeroAlfa: musica alternativa, concerti dove i militanti si divertono a prendersi a cinghiate.

A Milano c’è Cuore Nero. Il circolo neofascista fondato da Roberto Jonghi Lavarini e dal capo ultrà interista Alessandro Todisco, già leader italiano degli Hammerskin, una setta violenta nata dal Ku Klux Klan che si batte in tutto il mondo per la supremazia della razza bianca. Dopo l’attentato incendiario subito l’11 aprile del 2007, i nazifascisti di Cuore nero ringraziano in un comunicato ufficiale tutti coloro che gli hanno espresso solidarietà e sostegno: tra gli altri, “in particolare”, la “coraggiosa” onorevole Mariastella Gelmini, all’epoca coordinatrice lombarda di Forza Italia e attuale ministro dell’Istruzione.

Saluti romani, pistole e ‘ndrine
La famiglia calabrese dei Di Giovine e quella siciliana dei Crisafulli, la destra in doppiopetto di An e quella estremista di Cuore nero. A Quarto Oggiaro, hinterland milanese, la ricerca del consenso politico incrocia sentieri scivolosi. A fare da cerniera tra le onorate famiglie – che gestiscono il mercato della droga -, le teste rasate e il Palazzo è sempre lui, il “Barone nero” Jonghi Lavarini. Quello fotografato con il ministro Ronchi e il sindaco Moratti. Quello che presenta a Ignazio La Russa Ciccio Crisafulli, erede del boss mafioso Biagio “Dentino” Crisafulli, in carcere dal ’98 per traffico internazionale di droga. Camerata dichiarato, il rampollo Crisafulli frequenta Cuore nero così come il cugino James. A lui sarebbe stata dedicata la maglietta “Quarto Oggiaro stile di vita”, prodotta dalla linea di abbigliamento da stadio “Calci&Pugni” di Alessandro Todisco. L’avvocato Adriano Bazzoni è braccio destro di La Russa. C’è anche lui in una foto con Lavarini e con Salvatore Di Giovine, detto “zio Salva”, della cosca calabrese Di Giovine. Siamo sempre a Quarto Oggiaro, prima delle ultime elezioni politiche. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi: Massimo D’Alema, minimo Tremonti.

Operazione di maquillage”, “misure molto limitate”. Cosi’ Massimo d’Alema ha definito gli interventi anticrisi del governo, parlando con i giornalisti a Torino a margine di un incontro con i lavoratori di alcune aziende in crisi. “Il governo ha spostato i soldi da un capitolo all’altro – ha sottolineato – ad esempio ha preso i fondi sociali delle regioni e li ha usati per finanziare gli ammortizzatori sociali”. Poi dando ragione a Emma Marcegaglia ha aggiunto: “si tratta di operazioni dove, come ha giustamente detto la presidente di Confindustria , non ci sono soldi veri.” Beh, buona giornata.

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Attualità Società e costume

Un barbone a Roma: «Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina».

da ilmessaggero.it
«Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina». Per questo un clochard a Roma ha deciso di scrivere su un cartello appeso al collo: “Sono bulgaro”. Per lui è un modo per ingraziarsi gli automobilisti distratti su via Laurentina «che almeno – spiega – così sanno subito che con i romeni non ho nulla a che fare».

I passanti e gli autombilisti di tanto in tanto gli allungano qualche monetina, più attirati dal cartello che porta appeso al collo che dallo stato di indigenza dell’uomo.

Pantaloni larghi, giaccone blu di almeno tre misure più grande, capellino di lana, il “bulgaro” non parla ma si avvicina discretamente ai finestrini delle macchine e aspetta l’elemosina. Il cartello non è scritto a mano e non è nemmeno di cartone marrone. È di buona fattura: bianco e plastificato, ha la scritta in nero realizzata al computer.

E se gli si chiede perché abbia scelto di indicare solo la sua provenienza e non, l’uomo schivo risponde con un forte accento dell’Est e a bassa voce: «Per noi che veniamo da quelle zone adesso in Italia e soprattutto qui a Roma è tutto più difficile. Pensano che siamo tutti della Romania, che siamo tutti delinquenti, e ci trattano di conseguenza. Ci chiamano stupratori, ci dicono di tornare a casa. Ma tanti di noi sono qui per cercare un lavoro onesto e, se non lo trovano subito, chiedono l’elemosina, come faccio io. Non ho nulla contro i romeni ma devo sopravvivere».

Qualcuno chiude il finestrino, altri fanno finta di non vederlo. Un automobilista gli dà un euro: «È triste – dice – che qualcuno debba pensare di dover mettere in chiaro a quale nazionalità appartiene per avere la carità. La povertà non ha colore o paese». (Beh, buona giornata).

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