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A Davos, il World Economic Forum sfiducia il governo Berlusconi e commissaria la classe dirigente in Italia.

di FEDERICO RAMPINI-Repubblica

Gli altri leader europei vengono qui per “dare la linea” al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell’Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l’America e i paesi emergenti. All’Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell’imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit – statisti, grandi imprenditori, opinion leader – riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata “Italia, un caso speciale”. La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: “Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un’influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative”.

A istruire il processo, l’establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all’appello: il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario. Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: “Contate molto meno di quel che dovreste nell’economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta”. Segue l’economista Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l’unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: “Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v’impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie”. Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. “Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile – aggiunge – perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto”.

Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l’Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: “La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l’Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell’eurozona”. Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: “Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno”. Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l’autore di un rapporto sui nostri “esami d’ingresso” nella moneta unica: “Da allora – dice – il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell’economia globale rischiano di trasformarvi nell’anello debole dell’Unione europea. Se l’Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell’eurozona”. Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: “I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E’ questo il governo che volete?”

La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: “Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici”. Anche lei però descrive un’Italia “introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici”. E conferma che “il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l’India e l’Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro”. Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: “Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia”. Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all’estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere. (Beh, buona giornata).

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democrazia

Berlusconi: le ultime parole famose?

http://tv.repubblica.it/copertina/videomessaggio-di-berlusconi-mai-fuggito-dai-giudici/60902?video=&ref=HRER3-1

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Finanza - Economia - Lavoro

Gheddafi continua a fare shopping in Italia.

La Lybian Investment Authority, fondo di investimento pubblico della Libia ha acquistato una partecipazione del 2,01% nel capitale del gruppo Finmeccanica, azienda italiana che opera nella difesa.

I primi contatti tra la società italiana e il governo guidato da Gheddafi risalgono al 2007, quando Agusta Westland ha venduto al Paese nordafricano elicotteri Aw 109 e Aw 119 Koala che verranno assemblati in uno stabilimento appena finito di costruire in Libia.

Poi, nel luglio 2009, Finmeccanica ha firmato un memorandum d’intesa per varare una joint da 400 milioni proprio con la Lybian Investment Authority.

I frutti della collaborazione non si sono fatti attendere. Finmeccanica ha vinto una commessa da 541 milioni per l’ammodernamento (tramite la controllata Ansaldo Sts) della segnalazione ferroviaria nel Paese. Selex si è aggiudicata un ricco appalto per costruire i sensori di controllo del traffico alla frontiera mentre Roma fornisce già ai militari libici gli aerei spia Falco, in teoria per controllare gli spostamenti delle carovane di migranti nel deserto.

La Libia è in Italia attualmente il primo azionista di Unicredit, la maggiore delle banche italiane, ha una quota in Eni, il 7% della Juventus e ha allo studio altri dossier nel nostro Paese. Per salire oltre il 3% di Finmeccanica, la Libia deve ottenere l’ok del governo italiano. Ma sono più che noti i buoni rapporti tra Berlusconi e Gheddafi. Beh, buona giornata

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Confindustria scarica Berlusconi?

“Nei primi mesi della crisi il governo ha tenuto i conti pubblici a posto e abbiamo visto invece cosa succede in Portogallo e Spagna, ma ora serve di più: da sei mesi a questa parte l’azione del governo non è sufficiente”.

Lo afferma la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, intervistata da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che tempo che fa”. Marcegaglia ha denunciato l’immobilismo del governo, a fronte della necessità di varare le riforme, favorire la crescita e superare la crisi. Se il governo non è in grado di farlo, ha concluso la presidente di Confindustria, “bisogna fare altre scelte”. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche

Ci ha insegnato il significato di non dimenticare. Sarà impossibile dimenticare Tullia Zevi.

Tullia Zevi nasce a Milano il 2 febbraio del 1919, figlia di un avvocato antifascista.
Da liceale, durante una vacanza in Svizzera, viene a sapere dal padre che non farà ritorno a Milano. E’ il 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali. “Quel giorno abbiamo scoperto la diversità – dirà in un’intervista del 2008 a Il Manifesto – che cosa volesse dire essere considerati e apparire come ‘diversi’. E direi che abbiamo misurato sulle nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci è entrata nella pelle”. Inizia così il periodo dell’esilio, che la vedrà prima in Francia, a Parigi – dove prosegue gli studi alla Sorbona – e poi negli Stati Uniti. Lì frequenta la Juillard School of Music di New York e il Radcliff College di Cambridge, in Massachussetts, suona l’arpa in diverse formazioni, anche nella New York City Simphony Orchestra, con Leonard Bernstein. Frequenta i circoli antifascisti di New York e si avvicina alla professione giornalistica. Conosce e frequenta gli esuli italiani come Gaetano Salvemini e Amalia Rosselli. Partecipa alla pubblicazione dei Quaderni di giustizia e libertà e del bollettino Italy against Fascism. Per la Nbc cura una rubrica che parla ai partigiani per un programma a onde corte destinato all’Italia. E incontra Bruno Zevi, architetto e critico d’arte, che sposa nella sinagoga spagnola di New York il 26 dicembre del 1940.

Il ritorno in Italia è dopo la fine della guerra, nel 1946. Suo marito era già rientrato per partecipare alla Resistenza. Tullia Zevi si dedica completamente al mestiere che lei stessa definirà “cotto e mangiato”, il giornalismo. Ma si impegna, al tempo stesso, all’interno della comunità ebraica dalla quale proveniva, devastata dalla guerra e dagli orrori del nazifascismo. Documenterà la tragedia della Shoah al processo di Norimberga e sarà anche in aula a Gerusalemme, nel tribunale allestito nel Beit Haam, con Adolf Heichmann alla sbarra. Per oltre trent’anni, dal 1960 al 1993, lavora come corrispondente del quotidiano israeliano Ma’ariv e per il londinese The Jewish Chronicle, dal ’48 al ’63 è corrispondente della Jewish Tepegraphic Agency e, dal ’46 al ’76, del Religious News Service di New York.

Dal ’78, per cinque anni, è vicepresidente della Comunità ebraica italiana, della quale diventa presidente nell’83, unica donna ad aver mai ricevuto l’incarico. Sarà anche eletta presidente dello European Jewish Congress e membro dell’esecutivo dello European Congress of Jewish Communities; nell’88 è incaricata della presidenza della Commission for Intercultural and Interfaith Relations dello European Jewish Congress. E nel ’92 è la candidata italiana al premio “Donna europea dell’anno”. Alla fine dello stesso anno riceverà, dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il titolo di Cavaliere di Gran Croce, massima onorificenza italiana. Ma numerosi sono i riconoscimenti che le sono stati tributati. Dal “Premio 8 marzo. La donna nella scuola, nella cultura e nella società” al premio “Donna coraggio” alla medaglia d’oro assegnatale del ministero dei Beni culturali nel ’94 per “il suo contributo all’educazione, all’arte, alla cultura”.

Tullia Zevi è stata anche membro della Commissione per l’interculturalismo del ministero dell’Istruzione, della Commissione parlamentare d’inchiesta sula missione italiana in Somalia, della commissione italiana dell’Unesco, della commissione nazionale per la bioetica, del comitato promotore del Partito democratico. Una vita in prima linea, raccontata nell’autobiografia Ti racconto la mia storia, dialogo con la nipote Nathania in cui si riassumono le sue lunghe e spesso travagliate esperienze, fra storia personale e storia universale – tante le foto, all’interno del libro, che la ritraggono durante i suoi incontri con i grandi personaggi della storia contemporanea, Golda Meir e re Hussein di Giordania, Papa Paolo VI e Ferruccio Parri, Yitzhak Rabin e Arafat, Hillary Clinton e Rita Levi Montalcini. L’avventura umana e l’impegno politico di una donna che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per l’ebraismo e per la cultura laica.

Tullia Zevi è morta oggi a Roma. Beh buona giornata.

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Attualità democrazia Società e costume

Confused Italian Approaching Obsolescence. CIAO, Italia.

(fonte: repubblica.it).

Un ‘ragazzo carino e di potere’ che, con un duro lavoro, è riuscito ad avere a disposizione la settima economia mondiale e a costruire dal nulla la sua impresa di comunicazioni, ora è in difficoltà e, non riuscendo a venire fuori dai suoi problemi sessuali, si rivolge al principale commentatore americano di vicende legate a sesso per ottenere un consiglio. Ha per titolo “Confessioni di un sessodipendente” ed è firmata Confused Italian Approaching Obsolescence (ovvero “ciao”), la lettera immaginaria scritta da Dan Savage, giornalista e scrittore, e pubblicata dalla solitamente seriosa rivista americana Foreign Policy, fondata da Samuel Huntington e ora edita da Slate. L’autore immagina che a scriverla sia un Silvio Berlusconi confuso e preoccupato, che si rivolge al titolare della rubrica ‘Savage Love’ per uscire dall’impasse.

Tra i tanti dubbi che affliggono CIAO quello che più lo preoccupa è di sapere se è o meno gay. “No, non sei gay. Non ancora”, lo tranquillizza Savage, anche se, dice il giornalista, la condizione di omosessuale in alcune circostanze potrebbe tornargli più che utile, nel caso, per esempio, che le “donne dovessero sparire o se si trovasse in una situazione senza signore disponibili: su una nave pirata, nella Città del Vaticano, in una prigione italiana…”.

CIAO, che ammette di aver avuto avventure con molte donne, la maggior parte giovani (“più sono giovani, meglio è”)
e di essere sempre riuscito al meglio in ogni campo, si dice afflitto del fatto che, da quando la moglie lo ha lasciato “pubblicamente e creando scompiglio”, ha perso la magia: “Le autorità hanno iniziato a indagare su di me. E le donne con cui sono stato hanno iniziato a estorcermi più denaro di quanto ne avessi già dato loro… Come posso venirne fuori?”, chiede a Savage.

La risposta del giornalista non è una vera soluzione. Dopo aver ricordato che né Bill Clinton né François Mitterrand hanno mai dovuto pagare per avere relazioni extraconiugali e dopo essersi detto sorpreso dal fatto che lui – che si dice tanto potente e fortunato – abbia dovuto fare ricorso ai soldi in cambio di sesso, Savage sottolinea che il problema forse sta nel tipo di donne che CIAO sceglie: “Forse non sei così potente come dici di essere. O forse il problema sta nel particolare tipo di donna che trovi attraente: ragazze con corpi tirati e teste vuote. Che però non si rivelerebbero così sprovvedute: sanno con chi hanno a che fare e non trovano attraenti un corpo obeso e una testa calva… Chiedono compensi e – come un certo ex governatore di New York può confermare – questi compensi possono portare a complicazioni”. O forse, dice ancora il giornalista, è la troppa sicurezza a portare guai: “Si diventa imprudenti: si trascurano dettagli, si viene braccati, ci si ritrova sotto accusa e qualche volta si scompare finendo in posti dove non ci sono donne”.

E poi la conclusione: “Il pubblico, diversamente dal tuo entourage, non è composto da ragazze senza cervello facili da impressionare. La gente non si aspetta che tu sia un santo o che tu abbia una vita personale meno complicata della loro ma si aspetta che la mantenga legale e discreta. Se non sei in grado di gestire i tuoi affari senza infrangere leggi e fare notizia, la gente non è disposta a darti fiducia nel gestire i propri”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Mentre Berlusconi dice “mi sto divertendo”, il New York Times scrive: “Spiegare questa storia ai lettori americani è una vera sfida”.

(fonte: repubblica.it)

“In Italia, dove una facciata di moralità cattolica nasconde una alta tolleranza di rapporti illeciti, Berlusconi è stato segnato dagli scandali per anni. Ma questa volta, con il premier che rischia l’incriminazione e con le intercettazioni che presentano un quadro di un sordido mondo di orge e ricatti di prostitute, le cose cominciano ad apparire diversamente”. E’ lucido e impietoso il reportage di Rachel Donadio da Roma sugli ultimi sviluppi delle vicende italiane. “Berlusconi è sopravvissuto a stento a due voti di fiducia a dicembre e ora potrebbe vedersi costretto a nuove elezioni se uno degli alleati della sua incerta coalizione si dovesse ritirare”.

La sintesi della vicenda, compito non certo semplice, porta il Nyt a concludere che “Lo scandalo ha un cast di personaggi che riempirebbe un’intea soap opera”. La sostanza dell’inchiesta – basata su “intercettazioni stupefacenti” – appare incontrovertibile: “Le intercettazioni pubblicate danneggiano l’immagine da superman che Berlusconi ha aiutato a coltivare”. “In un messaggio televisivo, un Berlusconi teso, il volto ricoperto di fondotinta, ha attaccatoi magistrati che stanno indagando su di lui (….) Seduto davanti a uno sfondo di foto di famiglia Berlusconi ha aggiunto che le sue feste si svolgevano “nella più assoluta eleganza, decoro e tranquillità”.

Oltreoceano, si fa fatica evidentemente a concepire l’evidenza di quel che sta accadendo in Italia. “Spiegare questa storia ai lettori americani
è una vera sfida”, ci dice Rachel Donadio . Ad esempio, la ormai nota frase di Ruby riportata dalle trascrizioni delle intercettazioni in cui la ragazza così si riferiva a Noemi Letizia “Per lui lei è la pupilla e io il culo”, ha creato dibattito tra Roma e New York: “Il New York Times ha un codice di stile molto rigoroso che non permette di riportare parolacce o volgarità compreso ass (culo), né consente formule tipo ‘c….’ o eufemismi allusivi (“ha usato un altro termine per fondoschiena”). Ho sostenuto un dibattito piuttosto divertente con i miei editor su quella frase. Alla fine, hanno vinto loro. Hanno detto che “culo” non era così essenziale ai fini della storia perché ci fosse bisogno di stamparlo. Ma – conclude – con tanta abbondanza di altro ottimo materiale, non penso proprio che la storia ne abbia sofferto!”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto

“Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l’ultimo atto: si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica, evitando di distruggere il tempio con se stesso.”

Il capolinea Silvio Berlusconi- repubblica.it

SIAMO dunque arrivati alla domanda capitale del tragico quindicennio berlusconiano: può governare un Paese democratico un leader che da giorni è lo zimbello del mondo per i festini con minorenni prostitute, pagate e travestite da infermiere per eccitare il satrapo stanco? Con ogni evidenza no. In qualsiasi Paese normale un premier coinvolto nel ridicolo e nello squallore di questo scandalo si sarebbe già ritirato a vita privata, per difendersi senza coinvolgere lo Stato nella sua vergogna.

La giustizia dirà se ci sono reati con minori e se c’è la concussione, com’è convinta la Procura di Milano. Ma intanto ciò che emerge dalle carte giudiziarie è sufficiente per un giudizio politico di totale inattitudine ad esercitare la leadership governativa e la rappresentanza di una democrazia occidentale. L’incoscienza del limite, la dismisura eretta a regola di vita, la concezione del rapporto tra uomo e donna, uniti insieme danno forma ad un permanente abuso di potere che macchia le istituzioni e offende lo Stato.

Che si tratti di malattia, come denunciava l’ex moglie del premier, o di perdita di controllo, poco importa per il cittadino. Da due anni la politica è prostituita da un primo ministro che teme le rivelazioni sulle sue notti, è vulnerabile dalle sue partner occasionali, è ricattato dalle minorenni, dichiara guerra alle intercettazioni e ai giornali soltanto per difendersi dalla valanga di scandali che lo sovrasta: soprattutto mente e invita le ragazze a mentire.

Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l’ultimo atto: si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica, evitando di distruggere il tempio con se stesso. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il caso Fiat: tutto, ma proprio tutto quello che non va dopo il referendum a Mirafiori.

La classe operaia deve tornare in Paradiso, di EUGENIO SCALFARI-la Repubblica.

ANZITUTTO l’aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I “sì” all’accordo sono stati il 54 per cento e i “no” il 46 per cento.
Al netto del voto impiegatizio i “sì” hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l’aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei “sì” ha votato di assai malavoglia e molti l’hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell’accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti – ribadito nell’accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri – la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l’accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno “nominati”
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata “porcellum”, porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La “porcheria” della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di “anime morte” reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti “gialli”?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L’economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi “continenti”: Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l’intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l’economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l’ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall’economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l’elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall’Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c’è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell’involuzione economica in atto nell’Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l’economia classica definì il “risparmio forzato” e cioè l’accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d’ora verso l’alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un’alternativa c’è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un’ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L’ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

* * *

Sì, l’ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che – a detta dello stesso Marchionne – il costo del lavoro dell’automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell’auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c’è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c’è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall’altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c’è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d’una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l’altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell’innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l’imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell’imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l’attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull’evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una “governance” aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell’azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l’intera società nazionale e l’intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell’era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l’avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell’opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell’articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli. (….). (Beh, buona giornata).

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Perché Alemanno ha fallito?

Gianni Alemanno deve decidere sulle nuove deleghe dopo l’azzeramento della giunta. Berlusconi preme per i finanziamenti alla capitale. Ma il ministro e la Lega resistono. Come dimostra la “parentopoli”, gli ex fascisti si sono adeguati alla peggiore politica di CURZIO MALTESE-Repubblica.

In bancarotta e con l’incubo Tremonti fallisce il sogno dei “bravi camerati”.

In queste ore Gianni Alemanno, dopo decine di estenuanti incontri, è rimasto solo a decidere sulla nuova giunta 1, dopo l’azzeramento delle deleghe 2. Chiuso nell’ufficio del Campidoglio, affacciato sulla più suggestiva vista di Roma, la maestà dei Fori Imperiali illuminati, che ricorda a ogni sindaco come la città eterna sopravvivrà anche a lui. Roma resisterà anche al sindaco marziano e alla banda di alieni andati al potere nella Capitale tre primavere fa, fra la sorpresa generale e soprattutto di loro stessi. Gli ex ragazzi del Fronte della Gioventù degli anni Ottanta, amici di scuola, di lotta, di carcere, quindi amici di sempre. Un manipolo, una banda di quartiere, una curva di ultras della politica, cui il potere ha dato alla testa fin dal primo giorno. Quando, non sapendo come altrimenti festeggiare, nella piazza del Campidoglio hanno fatto scattare in automatico il braccio teso, come piccoli dottori Stranamore, in un saluto romano finito sulle prime pagine di mezzo mondo.

Questa è per metà la loro storia, quella di una generazione di ex ragazzi dell’estrema destra romana che realizza il sogno di una vita, strappare la Capitale ai “rossi”, e ne rimane travolta. Per l’altra metà è
la cronaca della guerra finale nel centrodestra, non più fra Berlusconi e Fini, ma fra il Cavaliere e Tremonti, ormai venuto allo scoperto per la successione. Due vicende parallele, ma separate nei personaggi e nei luoghi. La prima corre frenetica, in una gozzoviglia euforica da potere, nei saloni del Campidoglio e nelle sedi delle società controllate, l’Atac, azienda dei trasporti, l’Ama dei rifiuti, l’Acea di acqua ed elettricità, Risorse per Roma. I forzieri del consenso che gli ex ragazzi del Fronte hanno occupato militarmente, circondati dai propri cari, sul modello, come dicono alcuni ex camerati schifati “di una Comunione e Liberazione de’ noantri”. La partita nazionale si gioca invece nel trilatero dei palazzi della politica, Palazzo Chigi, Montecitorio e il più importante di tutti, visti i tempi, Palazzo Grazioli.

Cominciamo dalla seconda storia, la meno raccontata, la più importante per il resto d’Italia. Berlusconi e Tremonti sono alla resa dei conti e il comune di Roma è diventato in queste ore l’epicentro del conflitto. Perché Gianni Alemanno, prima ancora che di un rimpasto, di una svolta che porti fuori il comune dalla parentopoli 3raccontata da Giovanna Vitale su Repubblica e lui dalla caduta libera di consensi, ha bisogno anzitutto di una cosa: soldi. Tanti, maledetti e subito.

In tre anni di finanza allegra il comune s’è mangiato il regalone ricevuto dal governo nell’aprile del 2008 con i decreti di Roma Capitale ed è di nuovo sull’orlo del baratro. Mancano i fondi per riparare le strade, per le mense scolastiche, l’assistenza agli anziani, la raccolta dei rifiuti che cominciano a crescere agli angoli delle vie. Il Campidoglio continua a emettere obbligazioni, che hanno ormai sfondato il tetto dei tre miliardi. E qualcuno ricorda che al comune di Milano, per aver emesso un miliardo e duecento milioni di obbligazioni, sono arrivati ventiquattro avvisi di garanzia.

L’incubo del crac, del default, insomma del fallimento è alle porte. Se non arriva una pioggia di milioni dal governo nei prossimi giorni, la capitale rischia di finire come Napoli. Ma Tremonti è ben deciso a chiudere i cordoni della borsa. Sostenuto dalla Lega, da Bossi e Maroni che si sentono già in campagna elettorale e inorridiscono al pensiero di presentarsi alle genti padane dopo aver votato un altro provvedimento eccezionale a favore di Roma ladrona. Berlusconi, furibondo, ripete ogni giorno a Tremonti che “non possiamo mollare Alemanno”, gli fa mandare avvertimenti dal Giornale a “non fare il Fini”. Tremonti prende tempo, finge di aspettare le scelte di Alemanno. Ha fatto sapere che se il sindaco decidesse di sostituire i camerati con una squadra di tecnici, ci potrebbe ripensare. In realtà il ministro sa già che la montagna di Alemanno partorirà domani il topolino di un mini rimpasto, un valzerino di poltrone.

L’azzeramento è soltanto una mossa mediatica per giocare il ruolo del sindaco onesto tradito da qualche mariuolo.
Del resto, come potrebbe Gianni Alemanno darla vinta a Tremonti, che ha sempre cordialmente detestato, e mollare i suoi fedelissimi? Camerati che sbagliano, certo. Ma pur sempre camerati. E torniamo a quel giorno di primavera, alle braccia levate nel saluto. In piazza a festeggiare c’era lo stato maggiore di Alemanno, il manipolo schierato come nella formazione classica a testuggine, con in capo gli ardimentosi luogotenenti, il deputato Fabio Rampelli e il senatore Andrea Augello. Rampelli, ex responsabile del servizio d’ordine del Fronte della Gioventù, campione di nuoto e ora di risse parlamentari, capo della setta evoliana dei Gabbiani, pare ancora attiva dalle parti di Colle Oppio, dove si riuniva per inscenare riti esoterici che avrebbe fatto la gioia del Corrado Guzzanti di “Fascisti su Marte”. E’ laureato in architettura ed è un po’ l’Albert Speer di Alemanno, quello che suggerisce le sparate marinettiane tipo abbattere con la dinamite Tor Bella Monaca e il Corviale. Odia i lavori di Meyer e Renzo Piano. Non ha mai digerito la restituzione della stele di Axum agli etiopi e la sconfitta di El Alamein, che commemora ogni anno come vi avesse preso parte.

Andrea Augello, un po’ meno pittoresco, ex sindacalista nero, gran motore di consensi anche per Storace prima e la Polverini poi, esperto di storia del Sacro Graal e più pragmaticamente di bilanci delle controllate. E’ l’uomo che governa l’affarone del secolo, la privatizzazione del colosso Acea, il gioiello e la cassaforte del comune, quotata in Borsa. Veltroni voleva farne una joint venture con la francese Suez. Nei tre anni di Alemanno il primo socio privato è diventato, guarda caso, il gruppo Caltagirone. Alla faccia dello slogan “basta coi poteri forti cittadini”. Nella seconda fila, in rigoroso ordine gerarchico, venivano gli altri. A cominciare dal naziskin Stefano Andrini, già condannato a quattro anni e mezzo per aver ridotto in fin di vita due giovani di sinistra davanti al cinema Capranica, futuro amministratore delegato dell’Ama, la nettezza urbana. Per finire con gli adepti dell’ultima ora, come Adalberto Bertucci, ex amministratore delegato dell’Atac, l’azienda dei trasporti, dove è riuscito nell’impresa di aumentare il debito di 180 milioni in un anno solo, anche grazie al diluvio di assunzioni da scioglilingua. Sentite: il figlio, il genero, il nipote, la cognata del figlio, l’ex segretaria, suo figlio e sua nuora, la figlia della segretaria del figlio, più una ventina di parenti di assessori e consiglieri, e dulcis in fundo, la famosa cubista scovata dalle Iene.

La picaresche avventure di potere della banda prenderebbero molte pagine. Alemanno s’è difeso con il vecchio alibi dei “mariuoli”. Chi lo conosce bene dice: “Di suo, Gianni non ruberebbe mai, però ha lasciato nutrire la bestia”. La corruzione certo non l’hanno inventata loro, ma stupisce che gli ex camerati, fanatici ma fondamentalmente onesti, si siano adattati così presto ai costumi della peggior politica. Che siano passati tanto in fretta dall’ideologia di Rauti ed Evola al magistero di Vittorio Sbardella. Il fascista che incontra Andreotti, rimane fascista dentro, ma si finge convertito alla democrazia per sguazzare da squalo nelle acque del sottogoverno. In questo crollo di valori, per quanto sbagliati, l’appartenenza al clan, al gruppo, alla famiglia, è rimasto l’ultimo collante identitario. Proiettato verso l’ambizione di fare il grande leader nazionale, Alemanno ha compiuto mille giravolte, da neo pagano a papalino, da fascista “sociale” e “di sinistra” a gran protettore dei poteri forti, da paladino di una destra “non berlusconiana” a berlusconiano di ferro. E ha lasciato che i camerati si consolassero con le prebende: “E’ costretto a dire bene di froci, zingari ed ebrei, ma intanto lo vedi quanti posti ha dato ai nostri?”. Pensava in questo modo, il sindaco marziano, di tenerli a bada, come un eccentrico signore che giri con una pantera al guinzaglio. Ora è lui il prigioniero, nell’ufficio del Campidoglio, al cospetto di troppa grandezza e di un sogno fallito. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Il crollo della Giunta Alemanno: “È un grande passo indietro, qualcosa che nella città di Roma non si vedeva dai tempi di Sbardella.”

« La cosa più grave è che tutto questo è stato deciso in un vertice con Cicchitto e Gasparri. Avevamo fatto la legge per eleggere direttamente i sindaci, non per tornare ai tempi in cui due potenti della coalizione che ha vinto le elezioni decidevano chi faceva o non faceva l’assessore. È un grande passo indietro, qualcosa che nella città di Roma non si vedeva dai tempi di Sbardella. Stiamo purtroppo tornando lì ed è un’ involuzione molto grave, molto triste per la città di Roma». Walter Veltroni dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Disastro Alemanno, ovvero il fallimento strutturale della Destra al governo della Capitale.

Cedimento strutturale della Giunta Alemanno. Il Comune di Roma crolla. Ma Luca Gramazio, capogruppo del Pdl in Campidoglio ha detto: “La decisione del sindaco di azzerare e rimodulare la giunta capitolina, è una scelta che condividiamo e che deve essere realmente finalizzata a rilanciare una nuova stagione di governo della Capitale. L’esperienza di governo fino a oggi compiuta ha contribuito a risanare la grave, se non disastrosa, eredità del passato. Ora, però, è necessario quel cambio di passo che permetta di far atterrare sul territorio, in ognuno dei quartieri della città, le conseguenze concrete del cambiamento e dalla svolta impressi. Per raggiungere questo obiettivo sarà prioritario ridefinire le regole che legano la Giunta con l’Assemblea, e in particolare, con la sua maggioranza. Siamo certi che la nuova squadra, il gruppo consiliare e il partito, in sintonia, permetterà a tutto il nostro schieramento politico non solo di proporsi alla città in maniera forte e vincente, ma anche di ottenere il pieno sostegno degli altri livelli di governo di centrodestra per la città. A cominciare dal Parlamento che dovrà sostenere il secondo decreto attuativo di Roma Capitale. Una scelta coraggiosa, questa del sindaco, che condividiamo pienamente”. Se vi siete chiesti perché Roma crolla, avete appena capito la statura politica della caolizione che sosteneva Alemanno. I fascistelli attempati sono proprio un disastro.Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Roma: crisi politica della Giunta Alemanno.

Il sindaco Alemanno ha azzerato la giunta. Il primo cittadino ha ritirato tutte le deleghe agli assessori e ai consiglieri delegati riservandosi un paio di giorni per decidere sulle nuove nomine e sull’ingresso di nuovi assessori. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

“Perché il 2011 sia migliore del 2010, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso e non più un fenomeno per pochi.”

PERCHÉ È COSÌ LENTA LA RIPRESA ITALIANA
di Francesco Daveri-lavoce.info

La ripresa dell’economia italiana nel 2010 è stata lenta. Per due ragioni. Alcune aziende guadagnano quote di mercato, ma ce ne sono molte altre che stanno perdendo competitività, il che fa salire le importazioni. E i consumi privati e pubblici sono frenati dal cattivo andamento del mercato del lavoro e dalle politiche di bilancio restrittive. Per un migliore 2011, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso. Con piccole imprese che crescono e giovani lavoratori che non vengono tenuti ai margini per troppi anni.

Un tipico esercizio di inizio anno è quello di tirare le somme di che cosa è andato e cosa non è andato nell’anno precedente. Nel caso dei dati macroeconomici, per tirare le somme in modo ufficiale sul 2010 bisogna però aspettare addirittura più o meno la metà di marzo 2011. Solo allora infatti l’Istat fornirà i risultati relativi al Pil del quarto trimestre e alle sue varie componenti. Per il momento l’Istat ha pubblicato – a metà dicembre – i dati relativi all’andamento dell’economia italiana nei primi tre trimestri del 2010. Con questi bisogna lavorare, se si vuole fare un pre-consuntivo di fine anno. È comunque del tutto improbabile che i dati del quarto trimestre cambino in modo sostanziale il quadro che emerge fino a questo momento.

2010, UNA RIPRESA LENTA

Il 2010 è stato un anno di ripresa per tutte le economie dopo l’orribile 2009. In Italia è stato un anno di ripresa lenta, tuttavia, se confrontato con l’ultimo anno in cui l’economia italiana si era risollevata da una fase di rallentamento, e cioè il 2006. La crescita 2010 si fermerà con tutta probabilità a un +1 per cento, più o meno la metà della crescita registrata nel 2006 rispetto al 2005.

Italia, due fasi di ripresa a confronto: 2010 e 2006
Crescita 2010 sul 2009 Crescita 2006 sul 2005 quote sul Pil 2009
Pil +1.0 +1.9 100,0
Import +7.8 +5.9 24,3
Consumi +0.7 +1.3 59,6
Spesa pubblica -0.5 +0.5 22,0
Investimenti +2.4 +2.6 18,9
-Macchinari +10.1 +5.0 6,8
-Mezzi di trasporto +4.4 +4.1 1,8
-Costruzioni -3.0 +0.6 10,2
Export +6.9 +6.2 23,9

Nota: i dati si riferiscono ai primi tre trimestri dell’anno di riferimento. Ad esempio: “crescita 2010 sul 2009” vuol dire “crescita nel gennaio-settembre 2010 rispetto al gennaio-settembre 2009”.

EXPORT E IMPORT

Oggi come nel 2006, la ripresa è trainata prima di tutto dall’export ma anche dagli investimenti, soprattutto quelli in macchinari e attrezzature, mentre i consumi delle famiglie crescono meno del Pil. Sono dati del tutto normali: sia esportazioni che investimenti ripartono sempre più rapidamente dei consumi dopo le recessioni anche perché, tra le voci del Pil, proprio export e investimenti risentono maggiormente dell’impatto negativo della congiuntura economica. Quindi il dato favorevole di export e investimenti è anche un effetto di rimbalzo.
Le esportazioni vanno bene perché il Pil del mondo è già ritornato a crescere del 4,6 per cento nel 2010, cioè solo di qualche decimo di punto percentuale inferiore alla crescita 2006 (che fu del 5 per cento). La crescita mondiale è tornata quasi a livelli pre-crisi e così anche le importazioni mondiali, dalla qual cosa tutti gli esportatori traggono vantaggio. Siccome però la composizione del Pil del mondo sta cambiando molto rapidamente e l’asse economico si sta spostando da Occidente a Oriente, non era scontato che le aziende italiane potessero beneficiare della ripresa di oggi nello stesso modo in cui ne avevano beneficiato quattro anni fa. E invece l’export di oggi cresce quasi del 7 per cento contro il +6,2 del 2006. Vuol dire che almeno alcune delle aziende italiane sanno farsi valere in giro per il mondo, non semplicemente beneficiando della ripresa mondiale, ma guadagnando competitività e quote di mercato. Tutto ciò induce a ben sperare per il futuro.
Si può tuttavia presumere che i leoni dell’export siano solo una minoranza delle imprese italiane: la crescita 2010, anche se più modesta di quella 2006, porta infatti con sé un vero e proprio boom delle importazioni che crescono oggi dell’8 per cento, mentre crescevano solo del 6 per cento nel 2006. Per crescere esportando bisogna anche importare di più: nel 2010 ciò avviene molto di più che nel 2006. Forse è un segno del rapido processo di modernizzazione dell’economia italiana che sta diventando sempre più globale e sempre più coinvolta in processi di delocalizzazione. Ma è anche un segno della perdita di competitività dei fornitori di servizi locali e dei terzisti manifatturieri che hanno sempre sostenuto le grandi imprese che competevano sui mercati internazionali. I dati sembrano indicare che oggi le grandi imprese, per riuscire a essere vincenti, si rivolgono più spesso a fornitori esteri.

IL FRENO DEI CONSUMI SULLA CRESCITA

La tabella contiene qualche altro elemento di preoccupazione che contribuisce a spiegare perché la crescita di oggi è la metà di quella del 2006. Le brutte notizie vengono dai consumi, sia privati che pubblici. I consumi privati (delle famiglie) crescono oggi solo dello 0,7 per cento (il dato era +1,3 nel 2006). Qui la colpa è del mercato del lavoro: quando la disoccupazione raggiunge l’8,7 per cento della forza lavoro (dato di ottobre 2010) con un parallelo incremento dei disoccupati scoraggiati, e quando le ore di cassa integrazione non accennano a diminuire, non ci si può stupire che la dinamica dei consumi rimanga fiacca. Alla crescita debole dei consumi privati si deve poi aggiungere la riduzione dei consumi pubblici: nel 2006 la spesa pubblica cresceva di mezzo punto percentuale, mentre nel 2010 la spesa pubblica è diminuita di mezzo punto percentuale. Questo processo riflette il contenimento della dinamica della spesa pubblica indotto dalla necessità di riequilibrare i conti pubblici per non caricare ulteriormente il salasso fiscale che colpirà comunque le giovani generazioni. È l’inizio di un processo che continuerà negli anni a venire e che riguarderà tutte le sfere dell’intervento pubblico. Inutile quindi aspettarsi il ritorno dei tempi delle vacche grasse sul fronte della finanza pubblica.

SI PUÒ FARE DI PIÙ?

L’Italia è cresciuta poco nel 2010, sia rispetto agli altri grandi paesi europei (tranne la Spagna) che rispetto all’Italia di qualche anno fa. Il guaio è che la bassa crescita 2010 non è un fenomeno congiunturale. Il Pil dell’Italia cresce poco perché il boom dell’export non crea abbastanza fatturato per le piccole imprese terziste che oggi sono meno competitive di un tempo. E cresce poco perché, con un mercato del lavoro depresso e dualistico in cui chi ha il lavoro se lo tiene e gli altri non entrano mai, la dinamica dei consumi è fiacca. Non ci sono scorciatoie: perché il 2011 sia migliore del 2010, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso e non più un fenomeno per pochi. Con piccole imprese che crescano e giovani lavoratori che non vengano tenuti sull’uscio del mercato per troppi anni. È solo un velleitario desiderio di inizio anno o potrà diventare un obiettivo da mettere in pratica? (Beh, buona giorn

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Finanza - Economia - Lavoro

Qualcuno dica a quei cretini del centrodestra e ai quei tonti della Lega che la Cina è più vicina di quanto pensino. Magari Tremonti, il furbetto, glielo ha tenuto nascosto.

I prestiti di Pechino ad Atene, Dublino e Lisbona e gli investimenti strategici

portafogliopechino, di Marco Del Corona e Giuseppe Sarcina – «Corriere della sera».

Il sorpasso è vicino. Nel grande portafoglio cinese presto saranno custoditi più bond europei che titoli di Stato americani. Ieri il vicepremier cinese Li Keqiang era ancora sulla via del ritorno a Pechino con le borse gonfie di contratti tedeschi e spagnoli, che ecco arrivare una dichiarazione del vicepresidente della Banca Popolare cinese, Gang Yi. «L’euro e i mercati finanziari europei sono una parte importante del sistema finanziario globale e sono stati, sono e saranno uno dei settori di investimento più importanti per le riserve cinesi in valuta estera» . I bond del Dragone Negli ultimi giorni sulla stampa internazionale e tra gli economisti sono girati parecchi numeri.
C’è chi ha tenuto una sorta di contabilità doppia, incrociando affari e politica. Esemplare, da questo punto di vista, l’accordo su due voci, siglato martedì 4 gennaio a Madrid da Li Keqiang e dal primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero.

Da una parte intese commerciali per un controvalore di 7,3 miliardi di euro; dall’altra l’impegno di Pechino a sottoscrivere titoli di Stato spagnoli per circa 6 miliardi di euro (secondo quanto rivelato dal quotidiano «El País» ). Ma è solo l’ultimo passaggio. Da settimane a Lisbona non si fa che parlare di un soccorso cinese a sostegno della traballante finanza pubblica portoghese. E nei mesi scorsi l’intervento di Pechino ha sicuramente dato una mano a tenere in piedi la Grecia. E subito dopo l’Irlanda. Certo, le mosse degli investitori cinesi diventano visibili solo quando c’è burrasca sui mercati. Ma sarebbe fuorviante pensare che a Pechino interessino solo i titoli europei più scalcagnati (o se si preferisce i «junk bond» della finanza mondiale).

Qualche tempo fa, sulla stampa internazionale («Financial Times» , «La Tribune» ) sono circolate stime che, dopo aver visto all’opera Li Keqiang, assumono un significato più profondo. Lo stock del debito pubblico europeo in mani cinesi oggi sarebbe pari a circa 630 miliardi di euro, vale a dire circa 819 miliardi di dollari. Il dato sull’esposizione americana, invece, è ufficiale: nell’ottobre 2010 Pechino (riserve dirette più il patrimonio dei fondi sovrani controllati dal governo) possedeva titoli statunitensi per un valore di 910 miliardi di dollari. Ora, i segnali che arrivano, ormai da mesi, dal grande Paese orientale sono inequivocabili. Vendere bond americani e comprare altro. Anche (non solo) titoli di Stato europei.

I numeri (oltre che la logica) dicono che nel portafoglio del Dragone cominciano a essere rappresentate tutte le emissioni disponibili, compresi quindi i buoni del Tesoro della Repubblica federale tedesca o della Repubblica francese.

Un euro per la Merkel

Attenzione, però, ai diversi angoli di osservazione. Visto da Pechino questo lavoro di «conversione» riguarda solo una parte della liquidità cinese, che rimane in parte prevalente parcheggiata in dollari. Come spiega al «Corriere» l’economista Wang Yuanlong, già capo dell’Ufficio ricerche dalla Bank of China e oggi esperto del centro studi Tianda: «Non saranno mai cifre enormi. Quello di Pechino è un gesto che darà comunque fiducia all’economia europea. Un’ipotetica scomparsa della moneta comune sarebbe contro gli interessi cinesi. Significherebbe tornare al dollaro come unica moneta di riferimento, mentre il presidente Hu Jintao ripete che Pechino punta a una riforma del sistema monetario globale. Dunque sostenere l’euro e l’Europa è nel triplice interesse della Cina, dell’Unione Europea e della comunità internazionale» . Una rappresentazione plastica di questo «triplice interesse» si è vista venerdì scorso a Berlino, dove Li Keqiang è stato vezzeggiato dai leader delle più importanti multinazionali tedesche (e quindi europee): Volkswagen, Daimler Benz, Siemens, Basf, Bayer, Deutsche Bank (firmati protocolli commerciali per 8,7 miliardi di euro).

La Germania ha più bisogno dei mercati, che dei soldi cinesi. Ma per la cancelliera Angela Merkel la «spugna orientale» può diventare decisiva per prosciugare il debito di vari Paesi dell’Unione Europea che sta mettendo a rischio la stabilità dell’euro.

La mappa degli affari

Il dividendo economico incassato dal governo cinese sarà molto alto e probabilmente porterà ad avvicinare i flussi di capitali industriali in entrata e in uscita. Secondo le cifre fornite dal viceministro Xu Xianping gli investimenti diretti dell’Europa in Cina, alla fine del 2009, erano pari a 6,8 miliardi di euro. Il flusso inverso (dalla Cina verso l’Europa), invece, si fermava a quota 6,8 miliardi di dollari, un decimo, con 1.400 imprese cinesi, precisa Xu Xianping, «che danno lavoro a circa 15 mila dipendenti locali» .

Uno studio dell’istituto britannico Chatham House segnala che il 50%delle risorse cinesi prende la strada di Gran Bretagna e Germania (l’Italia assorbe una quota pari al 4%). Ma da tempo Pechino sta allargando il compasso e ora è molto difficile tenere il conto delle ultime iniziative. La più clamorosa (forse): l’affare Volvo. La casa automobilistica svedese è stata ceduta dalla Ford al prezzo di 1,8 miliardi di dollari alla cinese Geely, guidata dall’imprenditore Li Shufu. In Svizzera c’è stata l’acquisizione della Addax Petroleum Corporation da parte del gruppo petrolifero Sinopec per 7,2 miliardi di dollari (nel 2009). In Grecia la Cosco, il più grande gruppo di trasporto marittimo cinese e fra i più grandi al mondo, sta costruendo un terminal per navi transoceaniche al Pireo, il porto di Atene. In Irlanda dovrebbe essere approvato il piano per insediare un distretto manifatturiero cinese nel centro del Paese (ad Athlone, investimento di 50 milioni di euro).
Simile il progetto di un parco industriale formato da piccole e medie imprese orientali a Chateauroux, cento chilometri a sud di Parigi. Mezza Bulgaria, dalla strade alle telecomunicazioni, dovrebbe essere sistemata dalle multinazionali di Pechino, come la Huawei. In Italia, infine, Cina non significa solo il tessile «low cost» di Prato, i centri massaggi di Milano o le bancarelle dei mercati rionali. Società cinesi sono già leader nel solare, aumentano il loro peso specifico nella farmaceutica, nella cantieristica in altri settori con discreto contenuto tecnologico.

La Quianjiang ha comprato le moto di Benelli; la Haier i frigoriferi di Meneghetti (in provincia di Padova) e poi si è insediata nel distretto di Varese; la Zoomlion ha rilevato la Cifa (macchine utensili per l’edilizia). Si potrebbe continuare per ore, basterebbe riferire del pellegrinaggio all’Expo di Shanghai intrapreso da tutti i governi europei (dal Belgio alla Romania), in cerca di investimenti cinesi da riportare a casa. L’esclusiva di Pechino Ancora una volta, però, è utile guardare lo scenario con gli occhi di Pechino. Con la sua economia avanzata e fortemente integrata sull’intero continente, l’Europa è certo un teatro privilegiato dell’espansione cinese, ma in un contesto allargato a tutto il mondo, Mare Artico compreso. Non è un caso se tra le dieci operazioni cinesi all’estero nel 2010 (acquisizioni o fusioni) solo due siano europee: la Volvo appunto (quarta in classifica per importanza), preceduta dalla conquista dell’australiana Arrow Energy a opera dell’alleanza tra PetroChina e l’olandese Shell, per 3,1 miliardi di dollari. Al primo posto della lista, compilata dall’agenzia ufficiale «Xinhua» , figura l’acquisizione di un’unità brasiliana della madrilena Repsol da parte del colosso petrolifero pubblico Sinopec (7 miliardi di dollari), al secondo posto l’acquisto di quote dell’argentina Bridas (energia).

Come dire: attenzione adesso a non immaginare un asse preferenziale Unione Europea Cina. È un errore che hanno già fatto gli americani nel 2008. Pechino parla e, soprattutto, fa affari con tutti. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Popoli e politiche

“Tutto il Tea Party la odiava” rivela adesso Spencer Giffords, padre della deputata democratica vittima della sparatoria in Arizona. Torna la peggiore America?

(fonte: repubblica.it)
Il direttore del Fbi, Robert Mueller, ha dichiarato che la strage è stata frutto di un attacco isolato ed esclude che l’evento possa generare “ulteriori minacce”. A proposito di “Rinascimento americano, un membro del ministero dell’Interno, ottenuto da Fox News e reso noto da Greta Wire nel suo blog, Jared Lee Loughner sarebbe legato a un gruppo di suprematisti bianchi e antisemiti denominato “Rinascimento americano”. Gli agenti del Fbi hanno ricostruito il legame tra l’attentatore e il gruppo indagando nei profili che il giovane aveva negli account su Youtube e su Myspace. La pista delle indagini si nutre di “forti sospetti nella direzione” del gruppo, che opera sotto la copertura della New Century Foundation, apparentemente impegnata a organizzare conferenze e seminari di contenuto razzista. Sul magazine della fondazione appaiono teorie pseudoscientifiche sulla superiorità della razza bianca. Agli incontri della fondazione partecipano, talvolta, esponenti degli ambienti neonazisti.

A morire sotto i colpi dell’attentatore sono stati un assistente trentenne della Giffords, Gabe Zimmermann, una bambina di 9 anni nata il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, un giudice federale e tre pensionati. Quattordici persone, compresa la deputata, sono rimaste ferite.

Gabrielle Giffords è una democratica moderata che aveva vinto a novembre la rielezione alla Camera battendo un candidato del Tea Party per quattromila voti. E’ favorevole alla libera scelta in tema di aborto, alla ricerca sulle cellule staminali, ed è una sostenitrice delle energie rinnovabili, mentre ha posizioni rigide in materia di immigrazione e favorevole al libero commercio di armi. E’ sposata con l’astronauta Mark Kelly, il comandante dell’ultima missione dello shuttle in programma ad aprile. L’attacco è avvenuto mentre la deputata stava tenendo un comizio, chiamato ‘Congress in Your Corner’, per dare modo agli elettori di esprimere le loro opinioni al loro rappresentante al Congresso. “Tutto il Tea Party la odiava ” rivela adesso Spencer Giffords, padre della deputata.

Gabrielle Giffords è finita anche nella “target list” di Sarah Palin. L’ex governatore dell’Alaska ed ex candidata alla vicepresidenza aveva stilato un elenco di avversari da sconfiggere politicamente “per la loro responsabilità nel disastro” rappresentato dal voto con cui il Congresso aveva approvato la riforma sanitaria. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Vi ricordate quando Berlusconi diceva di Putin “il mio amico Vladimir”?

(fonte: repubblica.it)

“Il monopolio di Gazprom per tenere i prezzi alti in Europa”. In questo dispaccio – inviato dall’ambasciata di Mosca nel settembre 2008 – si delinea la strategia di Gazprom nei confronti delle esportazioni di gas del gigante russo: “Il monopolio di Gazprom nelle esportazioni – spiega Ivan Zolotov, direttore delle relazioni esterne dell’azienda – è necessario per difendere gli alti prezzi che i consumatori europei pagano. L’accesso di terze parti ai gasdotti (possibile sul mercato interno, spiega Zolotov) non si applicherà mai alle esportazioni perché non si può permettere al gas russo di competere con altro gas russo: comporterebbe un calo dei prezzi in Europa” Director of Foreign Relationst
LEGGI “Monopolio Gazprom per tenere i prezzi alti in Europa” | “Da Gazprom 40% del budget del governo”
“Gazprom, inefficiente e corrotta” | “Ma non rinunciano a South Stream”

tag: russia, gazprom, energia, russia, unione europea, ambasciata di mosca

CODICE DATA CLASSIFICAZIONE FONTE
08MOSCOW2816 19/09/2008 CONFIDENTIAL Embassy Moscow
VZCZCXRO6521
PP RUEHFL RUEHKW RUEHLA RUEHROV RUEHSR
DE RUEHMO #2816/01 2630748
ZNY CCCCC ZZH
P 190748Z SEP 08
FM AMEMBASSY MOSCOW
TO RUEHC/SECSTATE WASHDC PRIORITY 0052
INFO RUCNCIS/CIS COLLECTIVE PRIORITY
RUEHZL/EUROPEAN POLITICAL COLLECTIVE PRIORITY
RUEHXD/MOSCOW POLITICAL COLLECTIVE PRIORITY
RHEHNSC/NSC WASHDC PRIORITY
RHMFISS/DEPT OF ENERGY WASHINGTON DC PRIORITY
C O N F I D E N T I A L SECTION 01 OF 02 MOSCOW 002816

SIPDIS

DEPT FOR EUR/RUS, FOR EEB/ESC/IEC GALLOGLY AND WRIGHT
EUR/CARC, SCA (GALLAGHER, SUMAR)
DOE FOR FREDRIKSEN, HEGBORG, EKIMOFF

E.O. 12958: DECL: 09/15/2018
TAGS: EPET ENRG ECON PREL PINR RS
SUBJECT: GAZPROM OFFICIAL DESCRIBES THE COMPANY AS A SOCIALIST RENT-SEEKING MONOPOLIST

REF: MOSCOW 2802

Classified By: Econ MC Eric T. Schultz for Reasons 1.4 (b/d)

——-
SUMMARY
——-

1. (C) Gazprom’s Director of Foreign Relations, Ivan Zolotov,
told us September 12 that the company’s top three priorities
are to: fulfill domestic gas demand, fulfill “social
obligations,” and to maximize control over domestic and
international oil and gas resources. Zolotov expressed
confidence that control of resources would eventually restore
the $200 billion in shareholder value losses the company has
recently sustained. He said Gazprom is steadfastly against
other Russian companies competing on gas exports to Europe,
which could lead to lower prices. Zolotov was unapologetic
about the difficulty in meeting with its senior officials,
noting that most of them were ill-suited to interacting with
foreign officials but that the company had no intention of
hiring people for that purpose. Finally, he expressed
optimism that there would be no difficulties this winter with
Ukraine. End summary.

——————-
THE MINISTRY OF GAS
——————-

2. (C) During a lengthy meeting at Gazprom’s elaborate
headquarters, a city within a city as Zolotov described it,
we asked Gazprom’s main interlocutor with Western Embassies
and officials to identify Gazprom’s top two or three
corporate priorities. In an unusually frank response,
Zolotov said Gazprom had two basic functions: to fulfill the
gas needs of domestic industrial and residential consumers,
and to fulfill its “social obligations,” which include a
variety of, in effect, charitable projects throughout the
country.

3. (C) When we suggested that most major global companies in
the West would likely have cited maximizing shareholder value
or market share as corporate goals, Zolotov added a third
priority — to maximize control over global energy resources.
He suggested that this control over resources is on par with
maximizing shareholder value, in that it raises the value of
a company’s asset base, which is the key to its long-term
profitability.

4. (C) Zolotov acknowledged that the steep slide in the
Russian stock markets since May, and especially since August
7, had taken a toll on Gazprom’s shareholder value. The
company was valued at more than $380 billion at its peak a
few months ago and is now worth less than $150 billion — a
stunning loss of over $200 billion of the company’s market
capitalization. Zolotov expressed confidence that the
company’s control of gas and oil reserves would ultimately
restore that lost value.

—————————–
MONOPOLY PROTECTS HIGH PRICES
—————————–

5. (C) In describing its priorities, Zolotov seemed to
appreciate that Gazprom is not a normal company, noting that
it had not yet completed the transition from its predecessor,
the Ministry of Gas. He was equally frank is discussing how
Gazprom’s monopoly powers work in practice. For instance,
when asked about recent efforts (ref A) to force Gazprom to
allow third-party access (TPA) to its pipelines, Zolotov said
that access in itself is not a problem. Indeed, he suggested
that in 15-20 years, some 30% of gas production in Russia
will come from independents.

6. (C) Zolotov added, however, that Gazprom draws a redline
against sharing access, through monetary compensation or
physical connection, to export markets. He explained that
Gazprom’s export monopoly is necessary to protect the high
prices charged to European consumers. He said TPA could
never apply to exports “because we can’t let Russian gas
compete against Russian gas; that would cause prices in
Europe to drop.”

—————————————-

MOSCOW 00002816 002 of 002

ONLY TWO INTERLOCUTORS; AND THEY’RE BUSY
—————————————-

7. (C) Zolotov also touched on the reason it is so difficult
to get meetings with the company for high-level visitors.
According to Zolotov, in a company with over 400,000
employees, only two — CEO Alexey Miller, Deputy CEO
Alexander Medvedev — would be appropriate for such meetings.
He said few others, if any, would have the requisite
knowledge, authority, and diplomatic skills for such
meetings.

8. (C) Moreover, Zolotov said, both men were constantly
traveling, and hard to schedule; even scheduled meetings were
subject to sudden cancellations. By way of example, Zolotov
noted the recent visit to Moscow by Quebec’s Energy Minister.
Despite Gazprom’s desire to do a deal in Quebec, he could
not get a meeting for the Minister with either Miller or
Medvedev. Zolotov, however, brushed off the need for staff
to conduct such outreach saying “we’re not going to hire
someone just to meet with Energy Minister of Quebec.”

——-
UKRAINE
——-

9. (C) On Ukraine, Zolotov expressed optimism that there
would be “no problems” this year in price and contract
negotiations. He said there was even hope for a multi-year
contract to prevent the annual hand-wringing over the
Russia-Ukraine gas trade.

——-
COMMENT
——-

10. (C) Our own observations of Gazprom track with Zolotov’s
candid description — a rent-seeking monopolist, looking to
control resources wherever possible, and with a relatively
simplistic sense of responsibility to shareholders other than
the state. Perhaps the best hope for moving Gazprom toward a
model more compatible with modern definitions of a
competitive global business is continued and expanded
interaction with western partners. End comment.
Beyrle
(Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Le tentazioni autoritarie di un’Europa in crisi.

(pubblicato su 3Dnews, inserto del quotidiano Terra).

I colpi di stato al giorno d’oggi non si fanno più con i carri-armati nelle strade, come nel 1956 è successo in Ungheria, ma con l’occupazione politica dell’informazione libera. Succede così che il governo ungherese, guidato da Victor Orban, capo di una coalizione di centrodestra ha varato una nuova legge sull’informazione. Si tratta di un attacco frontale alla libertà di stampa che in Europa ha precedenti solo negli anni tragici del nazismo, del fascismo, del franchismo. Per capire la portata di questo avvenimento, è bene vedere nel dettaglio cosa comporta la legge- bavaglio ungherese:

– Soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio e nelle televisioni: resterà solo l’Agenzia di stampa governativa (Mti), che centralizzerà tutte le informazioni e le distribuirà direttamente ai media.
– Multe salate per chi scrive articoli “non equilibrati politicamente”. L’equilibrio sarà valutato dal Garante per l’informazione, nominato dal governo.
– Ancora multe per chi pubblica “informazioni contrarie agli interessi nazionali” o “lesive della dignità umana”. E’ il Garante a decidere a sua discrezione.
– I giornalisti avranno l’obbligo di rivelare le loro fonti, pena sanzioni penali, quando ci sono “questioni legate alla sicurezza nazionale”, devono consegnare tutti i loro documenti e supporti elettronici su semplice richiesta del potere esecutivo.
– I telegiornali dovranno rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera, mentre la musica dovrà essere, per il 40%, di provenienze ungherese.

Come si può facilmente capire questa legge approvata dal Parlamento ungherese ha creato scandalo, e forte preoccupazione presso le cancellerie europee, anche in considerazione che proprio a Victor Orban toccherà la presidenza di turno della Ue.

Le analogie con la spasmodica ricerca di mettere il bavaglio alla stampa italiana da parte del governo Berlusconi sono talmente evidenti che sottolinearle ulteriormente sarebbe addirittura banale.

Quello che invece è utile mettere in chiaro è che i governi di centrodestra in tutta Europa sono e saranno sempre di più alle prese con la necessità politica di oscurare la verità sulle cause della crisi economica, la verità sulle tensioni sociali, prodotte da politiche neoliberiste: lo smantellamento del welfare, la mancanza di politiche di rilancio dell’economie, l’aumento della disoccupazione sono il comune denominatore che accomuna tutti i governi europei.

L’attacco sistematico e frontale ai diritti sociali, sindacali e civili sembra essere la panacea per rimandare la resa dei conti tra i poteri forti e le spinte sociali che premono dal basso in tutto il Vecchio Continente.

L’Europa è nel pantano: non ha una costituzione condivisa, non riesce a difendersi dalla speculazione sull’euro, non riesce a rilanciare la sua crescita economica. Se adesso produce attacchi violenti alle libertà, in primo luogo alla libertà di stampa e di informazione, va in pezzi anche l’ultimo tassello della sua credibilità agli occhi del mondo globalizzato

Facciamo un esempio: con quale faccia tosta si possono avanzare critiche al modello cinese, che applica la censura su vasta scala, quando il prossimo presidente della Ue ha varato nel suo paese, l’Ungheria, una legge sull’informazione degna del più ottuso, gretto, arrogante regime autoritario?
Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia

Non lasciare soli i giornalisti ungheresi.

Nel giornale assediato “Noi cronisti resistiamo ma non lasciateci soli”,di Andrea Tarquini- La Repubblica

La e-mail circolare del direttore è ancora calda su ogni schermo, emozioni e timori li leggi sui volti. «Cari colleghi, questa legge crea una situazione nuova, da voi mi aspetto ancora più coraggio e rigore giornalistico, narrate ancora ai lettori la realtà nei suoi molteplici momenti», ha scritto Kàroly Voeroes, direttore del Népszabadsàg. Nello stanzone del desk centrale, i capistruttura più anziani ricordano i tempi bui della dittatura comunista, i giovani appena sposati e con figli piccoli dissimulano dignitosi l´ansia per il futuro.

Evoca quasi il clima di un brutto romanzo sovietico un giorno passato con i colleghi ungheresi sotto il torchio del potere. Bécsi Ut, viale Vienna, numero 122. In un modesto palazzo-uffici anni Settanta è la redazione del Népszabadsàg. Ex organo ufficiale del più gorbacioviano tra i Pc al potere nella guerra fredda, poi dall´89 quotidiano liberal di qualità. Sono stati Voeroes e il suo staff a iniziare la protesta della pagina bianca sull´esempio di Repubblica contro le leggi-bavaglio italiane.

«Stiamo pubblicando un grazie a voi di Repubblica e a tutti i media e politici d´Europa che sono stati solidali con noi», dice commosso il direttore.
«Il governo Merkel, quello lussemburghese, la Francia, hanno protestato. I media filogovernativi ne tacciono. Vi rendete conto? Li censurano! A raccontare al pubblico come il mondo reagisce alla legge, qui restiamo solo noi, l´ex quotidiano sindacale Népszava, la rivista letteraria élet es irodalom, e pochi altri. Continuiamo, rilanciamo con forza», sussurra il direttore ai suoi. «Vogliono instillare l´istinto vile dell´autocensura, un clima di rischio permanente, contrastiamoli. Vogliono creare una situazione in cui i media non possano più controllare il potere, come è normale nel mondo libero, ma finiscano invece controllati dal potere».
Dal tavolo rotondo dell´ufficio centrale, due occhi verdi con un bel sorriso triste fanno capolino da dietro un computer, una voce gentile mi saluta in un tedesco perfetto. Riconosco la giovane Edit, corrispondente dalla Germania fino a pochi anni fa. «Resti a Berlino libera, sono felice per i tuoi figli», mi dice sorridendo con gli occhi lucidi. La sua bimba cresce qui in un´altra realtà.

«Ho scritto alla Consulta», rivela il direttore. «La legge ha troppe irregolarità. Primo, è entrata in vigore il giorno dopo la firma del capo dello Stato, senza i normali 60 giorni perché i cittadini s´informino. Secondo, ha creato l´Autorità centrale per il controllo dei contenuti dei media. Si rende conto? Sembra quasi la realtà che Goebbels raccontò con precisione nei suoi diari. Quando nel 1928 Hitler aveva fretta di prendere il potere, a costo di usare subito la violenza. Goebbels gli disse che non era il caso, che era meglio pazientare e puntare a vincere le libere elezioni usando le leggi della democrazia di Weimar, per poi cambiare tutto. Non paragono il 1933 tedesco al nostro presente, ma con la maggioranza di due terzi Orban e il suo partito, la Fidesz, possono fare quel che vogliono. In pochi mesi, da quando Orban è al potere, sono passate 800 nuove leggi senza obiezioni. Non solo i media, anche la Consulta hanno perduto ruoli costitutivi». Il tempo stringe, il giornale va fatto in corsa, tanto peggio per come l´Autorità per il controllo dei contenuti reagirà domani.

«Guardate la prima pagina di Gazeta Wyborcza scritta da Michnik in ungherese anziché in polacco, le corrispondenze di Repubblica, della Welt e del New York Times, coraggio», mormora il direttore. Finora, mi dice, l´autorità di controllo dei media che nel mondo libero controllano loro il potere, non si è ancora fatta viva. Dal suo ufficio ai piedi della collina del castello di Buda, tace e comincia a scrutare. Sa che può applicare la nuova legge e incute timore in ogni momento, come i potenti nel Castello di Kafka.

Le speranze fanno andare avanti, a denti stretti, i timori pesano. Non solo perché l´autorità di controllo, nel nome, ricorda alla lontana la famigerata Avo, la polizia segreta della repressione-carneficina contro la rivoluzione del 1956. «La crisi pesa nel settore, mille licenziamenti in radio e tv sono alle porte, andiamo per ragioni economiche verso un futuro con tanti giornalisti a spasso. Il governo influenza il mercato della pubblicità, e le prime sanzioni hanno già colpito», mi racconta il vicedirettore Gabor Horvath. «Attila Mong, conduttore del news-talkshow radio del mattino, 180 minuti, e il suo capostruttura Zsolt Bogar, prendono ancora lo stipendio di dipendenti della radio pubblica ma non vanno più in onda da quando Attila ha commentato la legge-bavaglio con la sfida di un minuto di silenzio al microfono. Antonia Mészaros, fino a poco fa conduttrice delle tv news serali più seguite, adesso deve rassegnarsi a guidare soltanto programmi per bambini.

Di noi, della Merkel, di ogni critica parlano descrivendo congiure internazionali». Termine cupo, evoca il linguaggio antisemita del regime che in guerra fu, all´Est, l´alleato più zelante di Hitler. «Legga», dice Horvath. Mi mostra l´editoriale del filogovernativo Magyar Hirlap a firma di Zsolt Bayer, commentatore considerato vicino al presidente che scrive: «È sempre la stessa puzza, peccato non esser riusciti a sistemarli tutti a Orgovany». Allusione a un massacro di comunisti compiuto nel 1919 dalle guardie bianche di Horthy. I giornalisti democratici, per mettere alla prova la nuova legge, hanno denunciato Bayer ieri sera.
(Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia

Il bavaglio al gulash.

(fonte: articolo21.com)

La legge bavaglio ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie
di Franco Siddi*

La nuova legge sui mass media in Ungheria che limita in modo pesante la libertà di stampa e introduce forme di censura è motivo di preoccupazione e protesta di tutti i giornalisti italiani e del loro Sindacato internazionale. Se non cambieranno le cose le nostre organizzazioni non solo intensificheranno la cooperazione con i colleghi europei, e ungheresi in particolare, perché l’Unione Europea dichiari la legge bavaglio entrata in vigore il 1 gennaio contraria al trattato e alla Carta fondamentale dell’Unione stessa, ma parteciperanno a ogni iniziativa pubblica e giurisdizionale che dovesse ritenersi indispensabile per far arretrare un disegno antidemocratico e liberale.

E’ chiaro a tutti che la nuova legge ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie, delle idee e delle diverse opinioni che hanno diritto di cittadinanza e che sono la condizione attraverso la quale si identificano i Paesi democratici.

La richiesta di chiarimenti avanzata dalla vice presidente dell’Esecutivo europeo deve trovare risposta immediata e correzioni di rotta prima che si diffonda nei Paesi di nuova democrazia – e produca spinte regressive nei paesi di antica adesione ai principi della libertà e del pluralismo – una malattia grave e irreparabile.

Avevamo detto in Italia, contrastando vari tentativi di disegni di legge liberticidi (come quello sulle intercettazioni che cancellava il diritto di cronaca giudiziaria) – che la nostra battaglia era una battaglia di civiltà e di libertà senza confini. Oggi, sostenendo le proteste e le battaglie i colleghi ungheresi contro le invasioni di campo dello Stato, fino a nuove forme di censura preventiva, sui media riconfermiamo il senso universale dell’impegno civile della stampa e dei giornalisti, per promuovere una pubblica opinione consapevole affinché possa far arretrare definitivamente disegni di questo tipo. E’ veramente inconcepibile che, nel XXI secolo, ci sia un potere pubblico che, con norme di legge, ritenga normale arrogarsi il potere di sanzionare i media in virtù di una attività di informazione considerata “politicamente non equilibrata”.

La nostra solidarietà ai colleghi ungheresi è totale e si unisce, in questa fase, allo sconcerto per una legge cosi brutalmente contraria alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, promulgata, peraltro, proprio nei giorni in cui l’Ungheria assume la presidenza dell’Unione.
Tutto ciò stride con i valori dell’europeismo storico e indispensabile più che mai per un’Europa che avanzi insieme come entità istituzionale che metta in rapporto popoli e civiltà sulla base dei valori fondamentali di libertà e, quindi, di pace e di convivenza civile.

La Fnsi è pronta a supportare i colleghi ungheresi, se sarà necessario, anche alla Corte di Giustizia europea, mettendo a disposizione il dossier predisposto con altre associazioni italiane di difesa della libertà dell’informazione (come Articolo 21) con illustri giuristi per contrastare leggi liberticide. Nello stesso tempo sostiene tutte le iniziative sovranazionali messe in campo dalla Federazione Europea dei Giornalisti (Efj) e Mondiale (Ifj). Il prossimo congresso della stampa italiana sarà anche in questo un momento significativo di azione civile per la libertà. (Beh, buona giornata).

*segretario generale della Federazione Nazionale Stampa Italiana

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