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E il neoliberismo economico portò l’attacco finale al cuore dello Stato.

di NADIA URBINATI – la Repubblica

La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie “lacrime e sangue”.

Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.

La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell´economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.

Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo.
È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.

E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il “fatto semplice” dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.

La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.

Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.

Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.

Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario. (Beh, buona giornata).

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La manovra ammazza-turismo: la ministra del turismo fa la turista al Consiglio dei Ministri?

Il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, parla del capitolo “ponti” della manovra come di “un colpo basso per il turismo”. Una cospicua fetta di fatturato per le strutture turistiche, come spiega Bocca: “Le vacanze brevi durante l’anno sono una grossa fonte economica per il settore. Storicamente, i vacanzieri che si muovono per il ponte del 25 aprile così come per quello del 2 giugno restano in Italia”.

E le cifre in ballo sono importanti. “Cancellare questa possibilità”, aggiunge Bocca “significa tagliare di netto un fatturato significativo”.Cifre nel dettaglio.

Sulla base dell’andamento degli ultimi tre anni, Federalberghi rileva come per il ponte del 25 aprile si muovano in media 6 milioni di italiani con un fatturato di due miliardi, per quello del primo maggio altri 6 milioni e mezzo di turisti per un fatturato di un miliardi e mezzo, mentre per quello del due giugno i vacanzieri sono 8 milioni e mezzo per 2 miliardi e 200 di fatturato.

“Pur coscienti che è giusto tirare la cinghia”, aggiunge Bocca, “prevedere per legge una perdita sicura per l’economia del Paese ci sembra quasi come ‘pagare più la salsa che il pesce”.

“L’Italia – conclude Bocca – è un Paese che dovrebbe vivere di turismo, molto spesso ciò non viene tenuto in debita considerazione”. (Beh, buona giornata).

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Lavoro

Per lui il ministero del Lavoro è una copertura.

Il ministro del Lavoro durante la conferenza stampa di presentazione della manovra ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché posticipato l’età dei pensionati.

In verità, Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Il ministro non è nuovo nel dimostrere livore verso il mondo del lavoro, e questo è solo un indizio di che cosa non si farebbe e direbbe per mettersi in mostra in questo governo privo di qualsivolgia auterevolezza sia nel Paese che all’estero.

“Solo chiacchiere e distintivo” di un ministro del Capitale, che, come copertura, usa il ministero del Lavoro? Beh, buona giornata.

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L’affondamento del Titanic, la metafora della manovra secondo Paolo Ferrero.

Tremonti e’ stato di parola: cerca di affondare l’Italia come il Titanic- da paoloferrero.it

Questa volta il governo è stato di parola e ha dato luce ad una manovra che di cerca di affondare l’Italia come il Titanic: un disastro. Del Titanic la manovra rispetta anche i privilegi di classe: Forse non tutti sanno che su 708 passeggeri che si salvarono dalla tragedia, si salvò il 60% dei passeggeri di prima classe (200), il 42% di quelli di seconda classe (120), il 25% di quelli di terza classe (174) e il 24% dei membri dell’equipaggio. La manovra del governo porterà all’affondamento dell’Italia, ma come sul Titanic, quelli di prima classe si salveranno molto di più e i lavoratori avranno la peggio. Per questo contro questa manovra faremo le barricate.
(Beh, buona giornata).

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La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Lo dice il Pd che presenta 7 poposte di una contro-manovra.

(Fonte: Il Sole 24 Ore).
La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Per questo il Partito Democratico propone un «contro piano, un progetto responsabile e alternativo per il bene del Paese». Un piano articolato in sette punti: da un prelievo sui capitali scudati, alla tracciabilità per importi superiori ai mille euro fino al dimezzamento dei parlamentari, alle liberalizzazioni e alla dismissione di immobili pubblici.

«Per affrontare l’emergenza si prevede un prelievo straordinario una tantum sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e scudati – si legge nel testo presentato dal Pd -, in modo da perequare il prelievo su questi cespiti alla armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% e di adeguare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati.

Gran parte di questi 15 miliardi – si legge nel programma – dovrà essere utilizzata per i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno così da consentire immediati investimenti da parte dei comuni».

Il partito di Bersani ritiene poi necessario «un pacchetto di misure efficaci e non solo di facciata contro l’evasione fiscale, tali da produrre effetti immediati, consistenti e concreti. Si propongono dunque alcuni interventi, tra i quali figurano le misure anti-evasione che in parte riprendono quelle dolosamente abolite dal governo Berlusconi: tracciabilità dei pagamenti superiori a 1.000 euro (pensare a somme più elevate significa lasciare di fatto tutto come è oggi) ai fini del riciclaggio e soglie più basse, a partire dai 300 euro, per l’obbligo del pagamento elettronico per prestazioni e servizi; obbligo di tenere l’elenco clienti-fornitori, il vero strumento di trasparenza efficiente; descrizione del patrimonio nella dichiarazione del reddito annuo con previsione di severe sanzioni in caso di inadempimento».

Al terzo punto il Pd suggerisce l’introduzione «di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni e che inglobi l’attuale imposta comunale unica sugli immobili, in modo di ricollocare l’Italia nella media e nella tradizione di tutti i maggiori paesi avanzati del mondo». Si deve poi attuare un «piano quinquennale di dismissioni di immobili pubblici in partenariato con gli enti locali (obiettivo minimo 25 miliardi di euro)».

Capitolo liberalizzazioni: il Pd propone «di realizzare immediatamente almeno una parte delle proposte di liberalizzazione che il partito ha già preparato e presentato: ordini professionali, farmaci, filiera petrolifera, RC auto, portabilità dei conti correnti, dei mutui e dei servizi bancari, separazione Snam rete gas, servizi pubblici locali. Il Pd è contro la privatizzazione forzata, ma non contro le gare e la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Tutto questo si può fare immediatamente senza bisogno di riforme costituzionali.

Il sesto punto del progetto è dedicato alle politiche industriali per la crescita. Il Pd propone «di adottare subito misure concrete per alleggerire gli oneri sociali e un pacchetto di progetti per l’efficienza energetica, la tecnologia italiana e la ricerca, con particolare riferimento alle risorse potenziali e sollecitabili del Mezzogiorno.
Sarebbe un errore imperdonabile intervenire sul controllo dei conti pubblici senza mettere in campo, sia pure limitatamente alle risorse disponibili, un pacchetto di stimoli alla crescita e per l’occupazione. In questo contesto rientra anche l’implementazione dei più recenti accordi tra le parti sociali senza intromissioni che ledano la loro autonomia».

Infine la parte dedicata a pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. «In Italia – spiega il testo – la riduzione della spesa deve riguardare non tanto sulla spesa sociale, ma l’area della Pubblica Amministrazione, le istituzioni politiche e i settori collegati. A Cominciare dal Parlamento: il primo passo è il dimezzamento del numero dei parlamentari. Il Pd ha presentato da tre anni proposte specifiche su questo punto. Su sollecitazione dei gruppi parlamentari del Pd la discussione su questi progetti è stata calendarizzata in Parlamento per settembre. Si agisca immediatamente. Da lì in giù, bisogna intervenire su Regioni, Province, Comuni con lo snellimento degli organi, l’accorpamento dei piccoli comuni, il dimezzamento o più delle province secondo l’emendamento presentato dal Pd e dall’Udc alla manovra di luglio o, in alternativa, riconducendole ad organi di secondo livello, accorpamento degli uffici periferici dello Stato, dimezzamento delle società pubbliche, centralizzazione e controllo stretto per l’acquisto di beni e servizi nella pubblica amministrazione».

Secondo il Partito Democratico si deve inoltre riprendere «un vero lavoro di spending review, interrotto dal governo Berlusconi, dal punto di vista di una politica industriale per la pubblica amministrazione. Il Pd ha proposte specifiche su ciascuno di questi punti. In particolare sui costi della politica il riferimento è il programma contenuto nell’ordine del giorno presentato due settimane or sono in Parlamento». (Beh, buona giornata)

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Niente rigore, equità e futuro: la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata».

di LUCA RICOLFI- La Stampa

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l’hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che – dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani – ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo – come si poteva facilmente prevedere – se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d’uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che – senza quella paura – sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta – né più né meno – di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti – ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari – per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione – per le seconde – della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se – come purtroppo è avvenuto finora – ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani. (Beh buona giornata).

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E’ inefficace, inutile, dannosa, classista: ecco la “manovra-schifezza” secondo Eugenio Scalfari.

di EUGENIO SCALFARI-laRepubblica
Sintesi della manovra per Berlusconi: “Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per Tremonti: “La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: “È una tardiva e inutile schifezza”.

Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d’un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l’uno e l’altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.

Berlusconi avrebbe voluto aumentare l’Iva di uno o due punti, Tremonti gliel’ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.

Tremonti voleva un’imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l’entrata nell’euro. Berlusconi gliel’ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel’ha impedito.

Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel’ha impedito. Bossi, terzo incomodo,

non voleva che fossero manomesse le pensioni d’anzianità. In parte c’è riuscito ed ora ne mena vanto.

Il decreto esce oggi in “Gazzetta Ufficiale” ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c’è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.

Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.

* * *

C’è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell’Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l’avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l’immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d’Italia. Berlusconi chiamò Letta e l’incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.

Letta non trovò di meglio che chiedere l’aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l’eventuale aiutante o forse l’aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c’è male.

Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d’Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest’anno all’1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.

* * *

Di buono nel decreto-schifezza c’è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l’abolizione d’una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui “indotti”. E l’accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.

Era un progetto da tempo allo studio, dall’epoca del governo Prodi del ’96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell’emergenza. Si tratta d’una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d’aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.

Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l’età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell’attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c’è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi – se può – di fare altrettanto.

* * *

La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.

Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell’operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c’è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.

Tutto spremuto e ridotto all’osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c’è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c’è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: “Io sto alle previsioni dell’Istat: il Pil crescerà quest’anno dell’1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall’America e dall’Europa”.

Questa è l’analisi della manovra.

* * *

La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:

1) prelievo “una tantum” sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell’ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all’erario 15 miliardi.

2) Una lotta all’evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull’elenco dei fornitori.

3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.

4) Un’imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.

5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.

Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.

Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.

* * *

Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all’opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i “patrimoni-scudati” sarebbe una vera bomba.

L’accetterebbe anche Tremonti? E come l’accoglierebbero i mercati?

Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l’udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l’Occidente e non solo.

Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d’aver operato per il bene del paese. (Beh, buona giornata).

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Ancora Mario Monti sul Corsera a palle incatenate contro il governo: «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa».

di MARIO MONTI-Il Corriere della Sera

Venerdì il governo ha preso decisioni che avranno notevole impatto sull’economia e la società italiana e questa volta, come era atteso da tempo, anche sul settore pubblico. Le singole misure sono analizzate e commentate in altre parti del giornale. Qui vorrei mettere in luce una scelta di fondo di cui non si è parlato, ma che non deve essere stata facile per il Presidente del Consiglio. Una scelta che, per le sue implicazioni, potrebbe cambiare l’impostazione di politica economica del governo Berlusconi nella parte restante di questa legislatura.
Di fronte alle perentorie richieste dell’Europa e dei mercati, il governo ha dovuto scegliere tra la via dell’irredentismo e la via della redenzione.

Avrebbe potuto cercare di sottrarsi alle indicazioni del «podestà forestiero» (l’articolo di domenica scorsa, 7 agosto, ha dato luogo a un dibattito sul quale tornerò prossimamente) e rivendicare con spirito irredentista un maggiore spazio, quello che l’Unione Europea normalmente riconosce, per le scelte politiche nazionali. Invece ha deciso, con lucidità e rapidità, di imboccare una strada di redenzione o, in termini più asettici, di modifica di alcuni connotati di fondo che avevano caratterizzato, fin dall’inizio, l’impostazione di politica economica del governo.

E’ comprensibile che l’inversione di rotta venga ora attribuita per intero all’aggravamento, innegabile, della crisi internazionale. Ma quei limiti – di natura politica, non tecnica – erano evidenti da molto tempo ed erano stati segnalati da più commentatori.

Il ministro dell’Economia, di cui molti tendono oggi a dimenticare il merito di aver saputo mantenere un certo rigore di bilancio con un governo e una maggioranza poco inclini a tale virtù, non ha affrontato, né forse valutato, adeguatamente i problemi della competitività, della crescita, delle riforme strutturali indispensabili per rimuovere i vincoli alla crescita (il federalismo fiscale, oggi oggetto di dibattiti accesi, è stato spesso presentato come la riforma strutturale introdotta da questo governo).

Il Presidente del Consiglio, da parte sua, non ha mai mostrato di considerare l’economia – tranne l’agognata riduzione delle tasse – come una vera priorità del suo governo, né ha mai assunto un visibile ruolo di coordinamento attivo e di impulso della politica economica, come fanno da tempo gli altri capi di governo. Essi lo esercitano soprattutto nel promuovere la crescita, assistiti da un ministro dell’economia reale o dello sviluppo di alto profilo, oltre che nel garantire copertura politica al ministro finanziario, nella sua azione rivolta prioritariamente alla disciplina di bilancio. Negli ultimi tempi, invece, Berlusconi pareva spesso infastidito dall’arcigno Tremonti e dai suoi «no» agli altri ministri, più che dedicarsi alla guida strategica dello sviluppo, in raccordo con l’Europa (due responsabilità a lungo lasciate scoperte di titolari).

Negli ultimi giorni, tutto pare cambiato. Il Presidente del Consiglio ha preso visibilmente la guida. Si è schierato, per amore o per forza, dalla parte del rigore. Almeno su questo, non dovrebbero più esserci contrapposizioni con il ministro dell’Economia.
Entrambi, dopo avere prestato scarsa attenzione alle raccomandazioni rivolte loro per anni dalla Banca d’Italia, si premurano di seguire ora le indicazioni – molto simili! – della Banca Centrale Europea.

È una svolta positiva e importante, pur se avvenuta nella precipitazione e perciò con due conseguenze negative. Le misure adottate, che potrebbero ben chiamarsi «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa», non hanno potuto essere studiate con il dovuto riguardo all’equità e gravano particolarmente sui ceti medi. Inoltre, la priorità crescita, pur sottolineata dalla Commissione europea e dalla Bce, rischia di essere vissuta come «meno prioritaria», nella situazione di emergenza in cui l’Italia, soprattutto per sua responsabilità, è venuta a trovarsi.

Crescita ed equità. Come molti osservatori hanno notato, è ora su questi due grandi problemi, trascurati nei primi tre anni della legislatura, che l’azione del governo, delle opposizioni e delle parti sociali dovrà concentrarsi, con un comune impegno come auspica il Presidente Napolitano. E ciò, ben inteso, non a scapito della finanza pubblica, ma anzi per rendere duraturi i progressi realizzati in quel campo.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’Unione Sindacale di Base a testa bassa contro la manovra.

(riceviamo e pubblichiamo)
USB: LEONARDI: RESPINGERE LA PIU’ PESANTE MANOVRA DEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI
SCIOPERO DI DUE ORE DI TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE, POI SCIOPERO GENERALE NAZIONALE.

Leonardi USB: “Una vera e propria manovra contro la gente comune, i lavoratori, il Paese. Dentro c’’ e’di tutto meno quello che davvero servirebbe, cioè sganciare l’Italia dalla morsa della speculazione finanziaria e dai diktat dell’Europa. 79 Miliardi di euro a luglio, 45 ad agosto e non è detto che ci si fermi qui riuscendo a non toccare i veri ricchi, quel 10% delle famiglie che detiene oltre il 50% della ricchezza del Paese e quelli che evadono per oltre 120 miliardi di euro l’’anno.”

“Il Governo se la prende ancora con i lavoratori a reddito fisso- – prosegue Leonardi- come i lavoratori pubblici che saranno chiamati a pagare con le loro scarne tredicesime ( quelle con cui si paga il mutuo!) l’’inettitudine di una dirigenza lottizzata ed incapace, che saranno ridotti (licenziati?) in ragione del 10% del personale delle amministrazioni centrali e che vedranno il proprio TFR, scampato grazie ad una forte resistenza alla trappola dei fondi pensione, erogato dopo due anni.

I nuovi enormi tagli, dopo quelli di luglio, agli enti locali e il via libera alle privatizzazioni di ogni servizio pubblico produrranno un aumento esponenziale della tassazione locale e un attacco mortale a ciò che rimane del welfare.

L’’attacco definitivo e per legge al contratto nazionale di lavoro è un altro regalo ai padroni che potranno così disporre, assieme ai sindacati complici, della vita dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

USb CHIAMA IMMEDIATATAMENTE TUTTI I LAVORATORI ALLA MOBILITAZIONE E INDICE UN PRIMO SCIOPERO DI DUE ORE PER TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE E RINNOVA L’APPELLO ALLE FORZE DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE A COSTRUIRE AL PIU’ PRESTO ASSIEME LO SCIOPERO GENERALE E GENERALIZZATO
Roma, 13 agosto 2011 (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Una manovra senza prospettive di crescita, ecco quello che pensa Confindustria.

Da Rainews 24

Sfruttare il passaggio parlamentare per riformare le pensioni di anzianita’ e fare un “piccolo aumento dell’Iva”. E’ l’invito del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a maggioranza e opposizione
sulla manovra appena varata dal Governo. Lo chiede la leader degli industriali in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore in edicola domani.

“Faccio una proposta a maggioranza e opposizione – spiega Marcegaglia – il decreto verra’ discusso in Parlamento, si sfrutti questo passaggio per modificare il punto essenziale di questa manovra unendo insieme rigore e sviluppo: si riformino le pensioni di anzianita’. In questo modo si recuperano in modo strutturale risorse fino a 7 miliardi di euro in due anni e si puo’ ridurre il prelievo di solidarieta’ sul ceto medio, che rischia di avere una funzione depressiva superiore al previsto e dare una spinta allo sviluppo, a partire dalle infrastrutture”.

“Si puo’ fare anche di piu’ – avverte poi la presidente di Confindustria – con un piccolo aumento dell’Iva, anche un solo punto, che puo’ valere fino a 6,5 miliardi di euro, si recuperano altre risorse strutturali per ridurre le tasse sul lavoro, in primis quelle che riguardano i giovani. Bastano, come vede – dice rivolgendosi a Roberto Napoletano – pochi aggiustamenti per cambiare la faccia di questa manovra”.(Beh,buona giornata).

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E’ morto Alberto Spanò.

(riceviamo e pubblichiamo).
Alberto Spanò aveva 87 anni ed è stato uno dei protagonisti delle lotte sindacali dei ferrovieri e, più in generale delle battaglie politico-sindacali a Roma.

E’ stato tra i fondatori del CUB Ferrovieri. I CUB, Comitati unitari di base sono state una forma di organizzazione sindacale che, tra la fine degli Anni Sessanta e gli inizi dei Sattanta nacquero a sinistra dei sindacati confederali.

Spanò, conosciuto e stimato in tutto il comparto ferroviario, si spese in prima persona per la riuscita degli scioperi e la conduzione delle vertenze.
Dalla comune battaglia all’interno de Il Manifesto, in polemica con la svolta neoelettoralista del gruppo politico ,il CUB Ferrovieri, il Comitato Politico Enel, il Collettivo Policlinico, il Comitato Fiat Grottarossa diedero vita, agli inizi del 1972, all’apertura della sede di “ via dei Volsci 6”, nel quartiere S.Lorenzo, contiguo alla stazione Termini, epicentro delle iniziative del CUB Ferrovieri.

Nella sede di Via dei Volsci 6 nacque nel gennaio del 1974 l’autonomia operaia romana, alla quale Alberto Spanò non aderì, pur rimanendo un punto di riferimento per le iniziative sindacali e sociali a Roma, anche dopo la sua andata in pensione, che corrispose a un rinnovato impegno per la tutela dei diritti dei pensionati e degli anziani.

In un comunicato reso noto da Vincenzo Miliucci e sottoscritto da altri leader ex via dei Volsci si legge che “con Alberto se ne va un pezzo della storia antagonista, conflittuale e sociale a Roma e in campo nazionale; una vita ben spesa al fianco dei diritti dei lavoratori e dei meno abbienti”

I funerali si tengono alle 15 di mercoledì 10 agosto, presso la Chiesa di Santa Agnese, nel quartiere Nomentano a Roma.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Una bella idea dello Herald Tribune: poter inviare da iPad articoli via e- mail. Qualcosa che i nostri giornali dovrebbero subito imitare.

Invece l’idea che con una campagna pubblicitaria si possa combattere l’evasione fiscale in Italia e’ un pessimo esempio di come si possa usare la pubblicita’. Sarebbe molto meglio fare pubblicita’ ai fatti, piuttosto che alle intenzioni. La pubblicita’ alle intenzioni e’ pura propaganda, e come tale rischia di trasformare un gesto inutile in un’azione sbagliata. Secondo i dati ufficiali “ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai al 20% della ricchezza nazionale”. Lo ha scritto Nunzia Penelope, in “Soldi rubati” (Adriano Salemi Editore, Milano 2011). Un libro da leggere, proprio di questi tempi, per sapere che “60 miliardi di corruzione e 120 miliardi di evasione ogni anno, moltiplicati per 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico”. Beh, buona giornata.
E adesso ecco la buona notizia: qui di seguito l’articolo dello Herald Tribune inviato tramite e-mail da iPad. Alla fine trovere i links pet scarcera l’applicazione da Apple Store. Sto facendogli pubblicita’? Si’, ma questo e’ un fatto concreto, proprio quello che serve alla pubblicità” per essere concreta e, se permettete, onesta con i lettori.

From The International Herald Tribune:

Italy hopes ads will cast tax cheats in a harsh light

BY ELISABETTA POVOLEDO
ROME — An advertising campaign for Italy’s revenue agency that starts Tuesday has set itself a lofty goal: to get Italians to pay taxes.

In the television and print campaign, created by Saatchi & Saatchi, tax evaders are described as parasites that live at the expense of others, undermining the foundation of the social state.

Coming as Italy has been called on to make significant sacrifices to weather the debt crisis that has stormed European financial markets, the campaign’s message may actually hit home in a country where little social stigma has ever been attached to evading taxes.

‘‘The point is to increase tax compliance by changing the mentality,’’ said Antonella Gorret, spokeswoman for the revenue agency, the Agenzia Delle Entrate. ‘‘It used to be that tax evaders were seen as crafty, but in a moment of economic crisis, demands have increased for more effective crackdowns to avert the possibility of taxes being raised.’’

‘‘We want to get through the idea that tax evaders are a parasite to society and that to pay taxes is to guarantee services,’’ Ms. Gorret added. ‘‘We hope that we will be able to get through to people and make them more aware of the consequences’’ of tax evasion.

Italians have been accused by some of making tax evasion a national sport. But now that the country must finance the national debt and is likely to cut pensions and services like health care so that the budget can be balanced, calls have grown to ensure that every citizen pay his or her way.

A poll commissioned by the association of Italian Banking Foundations and Savings Banks, released in October, found that 48 percent of Italians said that fighting tax evasion should be the country’s priority for stimulating growth, more important than reducing public spending or lowering taxes.

The ad campaign was conceived this year as part of the revenue agency’s long-running battle against tax cheats, which has netted about €37 billion in the past five years. On Monday, Luigi Magistro, the director of tax assessment for the revenue agency, estimated that increased controls would yield an additional €11 billion in taxes in 2011.

‘‘The numbers so far this year have been encouraging,’’ Mr. Magistro told the news agency ANSA.

Saatchi & Saatchi was chosen, Ms. Gorret said, because it had designed an campaign for the Agenzia del Territorio, the Italian agency that monitors properties and real estate. It sought to convince Italians to register undeclared homes in the land registry so that taxes could be levied on them.

‘‘The Agenzia del Territorio said that every time the ad was aired many people would go to their Web site, so we decided to use the same advertising agency because it was an effective campaign,’’ she said.

Though this is the first time the internal revenue agency had invested in an ad campaign, it had been actively working to teach fiscal responsibility for some time. Each year, Ms. Gorret said, officials from the revenue agency visit some 1,200 schools to teach elementary and middle school children the basics of fiscal responsibility

The campaign, created with the Italian Government’s publications department, will run on national state television and radio until the end of August. Print ads will begin in September, when tax returns for self-employed Italians are due. That month, ads will also be placed in airports and rail stations in Rome and Milan.

‘‘People will be returning from their holidays,’’ and will begin thinking about more serious matters, Ms. Gorret said. ◼

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

I tagli al welfare infiammano gli animi, gli incendi di Londra potrebbero facilmente dilagare in tutta Europa.

“La gente non decide da un giorno all’altro di appiccare le fiamme. È un lungo processo. Sono tutti gli abusi subiti, tutto il malcontento covato per anni a scoppiare. Ecco cosa succede quando una comunità viene abbandonata a se stessa, quando la politica non se ne fa carico. Condanno le violenze, ma solo in parte. Condanno molto di più la violenza economica: la disoccupazione, la mancanza di opportunità che nega ai giovani un futuro. È una violenza che non viene riconosciuta. Ci si sofferma sul sintomo e non sulla patologia: il sintomo sono le violenze di sabato, ma la patologia è l’alienazione di un’intera comunità lasciata a se stessa”. (Lee Jasper, attivista per i diritti delle minoranze in UK-dichiarazione raccolta da Rosalba Castelletti per la Repubblica)- Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

Crisi del debito: la politica non e’ capace.

“Il downgrading non è un giudizio sulla nostra economia ma sul nostro sistema politico, è necessario ritrovare lo spirito di unità nazionale di una volta”, Barak Obama dixit. Il che e’ esattamente il problema dell’Europa, problema che ha in Italia la piu’ penosa rappresentazione, dove, come ha scritto Mario Monti e’ scattato il downgrading politico da parte di Francia e Germania sulle capacita’ del governo italiano di affrontare la crisi. Dunque, parafrasando Obama, i timori della Bce non riguardano l’economia del nostro Paese, riguardano il sistema politico italiano. Se il governo non governa la crisi, e’ la crisi a governare il Paese. Il che e’ esattamente quello che sta succedendo. La politica e’ troppo importante per lasciarla fare a questo sistema politico. O la riprendono in mano i cittadini o restera’ in balia dei poteri finanziari. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Scalfari: “C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street.”

di EUGENIO SCALFARI- la Repubblica

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un’altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d’ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell’ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull’Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l’America ha il raffreddore – si diceva un tempo – in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l’ha l’America, che cosa può accadere qui?
* * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l’uno all’altro dietro quel tavolo, con l’aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l’Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell’attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d’un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. “Tremonti vi spiegherà i dettagli” così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l’ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell’improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: “Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto”.

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

* * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo “spread” a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall’Europa d’intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall’altra. Soprattutto quest’ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l’Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l’atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell’economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d’un centimetro dal rovinoso immobilismo d’una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell’Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il “boss”; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. “È passato un mese e il mondo è completamente cambiato” ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n’erano ancora accorti. Meno male che – non potendo dimissionarli – li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

* * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell’articolo 41 e quella dell’articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d’un potente incoraggiamento all’illegalità è dir poco.

Quanto all’articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile “salvo specifiche condizioni di emergenza” (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c’è un’altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell’opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l’iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l’effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

* * *

Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l’obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l’orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d’un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest’esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un’unica visione. L’esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l’immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall’equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell’assistenza, l’equità scompare. Dunque colpire solo l’assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all’abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda “tranche” della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

* * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri “lord protettori” hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi. L’articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un “una tantum” ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l’intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l’altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all’incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l’Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d’Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?
Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.(Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Bauman: “La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?»

“Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo”. Intervista a Zygmunt Bauman di ANDREA MALAGUTI- la Stampa.

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?».
Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.
«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva – fa? – la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni». (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Crisi: downgrading politico per il governo Berlusconi.

di MARIO MONTI- corriere.it

I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l’allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti. Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l’uno e molto puntiglioso l’altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall’Europa.

Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.

Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.

Scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).

Downgrading politico . Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia. L’Unione europea e l’Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie. Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell’interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un’Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all’Europa.

Tempo perduto . Nella diagnosi sull’economia italiana e nelle terapie, ciò che l’Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d’Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.

Crescita penalizzata . Nelle decisioni imposte dai mercati e dall’Europa, tendono a prevalere le ragioni della stabilità rispetto a quelle della crescita. Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana (anche se, per la prima volta, perfino le agenzie di rating hanno individuato proprio nella mancanza di crescita un fattore di non sostenibilità della finanza pubblica italiana, malgrado i miglioramenti di questi anni). L’incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall’interno dell’Italia, sulla crescita. (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Franco Piperno: “Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(seconda e ultima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

IX)
Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici. Ci proponiamo d’aiutarla a scavare fino in fondo. E questo vuol dire, portare la crisi a livello delle categorie concettuali del senso comune: l’amore, le relazioni di solidarietà e di reciprocità, l’amicizia, la morte, l’economia, il progresso e così via. Quello che puntiamo a conseguire è di porre una serie di domande di senso comune alle quali riuscire a dare risposte comunemente intellegibili e tecnicamente perfette.
Altrimenti detto, la nostra è una politica che privilegia lo sguardo, piuttosto che l’universo linguistico. Contrapponiamo, così, all’individuo medio che sa ma non vede, l’individuo sociale che, come il bambino, vede ma non sa. Spogliata delle forme accademiche o paludate, la domanda del filosofo è sempre infantile, giacché colui che interroga senza alcuna necessità è il bambino. Per dirla con Valery “vision an avant, aveglue quant aux mots”.

X).
Occorre, quindi, ai i redattori stessi di questa cosa, praticare una saggezza rischiosa che nel mettere in questione l’ordine delle cose non evita nel contempo d’interrogare l’ordine del pensare — suscitando così stupore e sconcerto insieme. Giacché tutto parte da un interruzione, affinché il percorso abbia inizio: oggi il ritardo è il segno della perfezione. Potremmo riassumere così le considerazioni oscure che siamo andati via via snocciolando, dicendo che la nostra cosa parte con un intento di diseducazione o meglio malaeducazione linguistica: per ritrovare quel reale che le parole occultano.
Facciamo qualche esempio: il tema delle libertà comunali affiora nei movimenti che si svolgono attorno la questione antica dell’abitare. Movimenti che esistono, anche quando i giornali non ne parlano, magari nella dimensione del fiume carsico che si inabissa alla vista continuando a scorrere. Qui la politica dello sguardo vuol dire vedere il grado zero dell’abitare, il suo estremo; ovvero, rivelare, a coloro che sono senza casa, la condizione di possibilità di un altro modo dell’abitare che sottragga la città al suo destino, iper-moderno, di nodo di flussi di merci e di capitali; e la riconduca alla sua natura di luogo della buona vita. In atri termini la complessità, anche tecnicamente filosofica, del tema dell’abitare trova nell’estremo il punto di possibilità di un riappropriarsi della città, vivere il legame urbano come bene comune — riportare la città alla sua origine. E’ qui evidente la qualità di questa prassi dove il fine e il mezzo coincidono, condizione che è la prova evidente del carattere autentico. Qui si vede come un dato volgare, un bisogno nudo, arcaico, pressoché sub-umano, si riscatti come punto di vista, sguardo dal quale si vede la degradazione della vita politica che attanaglia le nostre città — dove l’architettura, soprattutto quella d’avanguardia, non fa che tradurre visivamente la rottura di relazioni di reciprocità e solidarietà che sono alla base del vivere urbano. E’ un’architettura che non solo non entra in contatto con quello che sopravvive del genius loci, ma semplicemente, non si pone più il problema, lo ignora; e.g. l’Ara Pacis, rivisitata da Veltroni, risulta priva di ogni aura; il che mostra, senza ombra di dubbio, che poteva essere costruita a Tokyo come a Parigi, a Pechino come a Berlino–perchè così stravolta è divenuta un non-luogo.
Analoga considerazione vale per i movimenti che, specie nel Sud, si strutturano attorno alla richiesta del reddito di cittadinanza. Anche qui l’aspetto volgare, la richiesta di soldi che appare come un precipitare estremo nel mondo delle merci si risolve, nella forma del reddito erogato dai comuni, in una formidabile acquisizione cognitiva sulla potenza della cooperazione sociale; e in una conseguente liberazione d’energia e di passioni in grado di far emergere dalla vita quotidiana un altro universo di consuetudini e consumi..

XI)
La nostra cosa tenta, paradossalmente, di usare il mezzo elettronico contro il mondo virtuale e la comunicazione in assenza; noi ci ripromettiamo di adoperare il colore ed il suono nonché la subitanea sensazione della contemporaneità — essere in presenza– che essi, ingannandoci, suscitano; tutto questo, contro le parole esauste e le macchinose teorie; per ritrovare il reale occorre portare a termine una diseducazione linguistica che mira a riscattare il mondo umano dalle parole che lo incorniciano e lo diminuiscono.

Avendo letto più di dieci libri, sappiamo che un’opera, che si presenti come gravida di una teoria completa e coerente, è una falsificazione del mondo.

Proviamo a riassumere: la crisi comporta un’interruzione tanto nella vita quotidiana, quanto nel pensare quotidiano; lo sguardo sceglie di posarsi sul fondo volgare- il reddito monetario, la malattia, la casa-tana, la caduta, la morte- perché solo su questo sfondo fragile e comune possono risaltare le idee autentiche, i pensieri singolari, in grado di creare comunità. Il comune pensare non è il pensiero che abbiamo tutti, ma il pensiero che istituisce relazioni di solidarietà e di reciprocità, cioè propriamente comunitarie.
Non si tratta quindi di uno sguardo contemplativo, né di uno sguardo trasformativo di quello che c’è, piuttosto è un modo di porsi eccedente che rinnova le relazioni tra l’essere umano ed il mondo; senza peraltro aggiungere nulla di nuovo, poiché l’azione autentica non lascia traccia.
E’ quindi uno sguardo che comporta una sorta di cattiveria sognante, in grado di vedere ciò che l’opinione pubblica nasconde. Non bisogna fare null’altro se non rifare le stesse osservazioni possibili a tutti. Riprendere in proprio, come se mai fosse stata pensata, l’osservazione che tutti hanno già fatto. Il futuro rientra nel presente come se resuscitasse; mentre il passato, lungi dal ritornare appare per quello che è : il presente che rientra nel suo medesimo e lo rende così eterno.
Si tratta, in buona sostanza, di coniugare al perfetto, nel senso del compiuto, attraverso quel modo del tempo oggi più pertinente al perfetto, quello del ritardo. E non tanto per contrastare con la lentezza il tempo del “prestissimo” in cui siamo tutti immersi, ma perché guardare è un’attività che comporta il rifarsi, rifare se stessi– affinché la buona vita, che è un processo e non uno stato, si compia e la morte stessa funzioni come un suggello di questa perfezione.
Come canta il poeta, bisogna essere perfetti, non c’è più da esitare.

XII).
La nostra cosa è quindi una sosta nella smaniosa abitudine a comprendersi nel mondo lungo la via razionale-riduttiva del linguistico; e si offre per noi stessi come occasione per conoscersi e conoscere il mondo fuori dai concetti-sentimenti della riproduzione seriale. Solo introducendo nella temporalità stereotipata l’interruzione, ed il ritardo che ne consegue, ogni vita, nel tempo mortale che le è dato, può realizzare il suo autoperfezionamento– non quindi una vita esatta e certa, ma incerta e precaria.
La cosa che proponiamo cerca di utilizzare il virtuale per afferrare il reale, come si fa quando uno osserva la volta celeste dopo aver visitato il planetario del luogo. L’idea-forza è la costruzione della cassetta di attrezzi che servano a far precipitare la coscienza dei luoghi- coscienza che non è mai svanita anche quando è tenuta a vile e rattrappita. Il riferimento premoderno di quello che vogliamo fare è il breviario o il “libro a ore” dove, appunto, è dispiegata la temporalità del luogo, le ore come scansione qualitativa del tempo e non il loro supposto scorrere uniforme, come tutte uguali.
Naturalmente la sequenza sopra delineata nella pratica si rovescia: la nostra avventura riuscirà nel suo scopo se i luoghi ritroveranno le loro temporalità autentiche, le cento città italiane avranno cento tempi diversi. Qui è evidente come il ritardo sia un segno di perfezione si pensi alle città rurali del meridione. Per chiudere senza concludere, la cosa che cerchiamo di costruire è una sorta di ”General Intellect” dei luoghi che ha lo scopo, perfettamente provvisorio, di facilitare l’emersione del “genius loci”, gettando alla critica roditrice dei topi tutti quei concetti della modernità che hanno ridotto i luoghi a non luoghi; e fornendo, per quanto ci è possibile, quelle arti, quei saperi, quelle tecniche accademiche e non, volte a permettere di curare tutta la ricchezza di relazioni che c’è già nel mondo che ci è dato. Va da se che nel nostro caso i luoghi sono rappresentati da comunità locali individuate per una prassi concreta, già esistente, sulle tematiche sopraccennate. In barba a tutti i facitori di costituzioni noi pensiamo all’Italia come una nazione in grado di superare se stessa, divenendo ciò che già è : una confederazione di cento, e non più di cento,libere città.

Le cose ed i cosi della Cosa Multimediale di Cosenza.
-Fine della seconda e ultima parte-
(Beh, buona giornata)

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