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La stampa finanziaria stronca il governo Berlusconi: non ha piu’ credibilità davanti ai mercati.

(fonte: ilmessaggero.it)

La negoziazione sulle misure della manovra trasmette un messaggio confuso ai mercati, in un momento in cui l’Italia necessità di una coerente politica economica. È quanto scrive il Financial Times, che oggi dedica a Roma un articolo in prima pagina.

«La decisione di Silvio Berlusconi di rinunciare all’austerity d’emergenza e smantellare il contributo di solidarietà ha suscitato l’indignazione popolare e allo stesso tempo c’è il rischio di confusione sui mercati e di un nuovo confronto con la Banca centrale europea», scrive il quotidiano londinese. E, ricordando che l’Eurotower vorrà che la portata complessiva delle misure di austerità non cambi e che si arrivi al pareggio di bilancio nel 2013, aggiunge: «Non è chiaro come la Bce reagirà alla modifiche apportate alla manovra». Inoltre, il quotidiano economico della City riflette sul ruolo del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti: «Se Silvio Berlusconi è il vincitore dell’ultima rivisitazione dei tagli per l’austerità, presentando se stesso come il protettore degli italiani, con l’accantonamento della proposta del contributo di solidarietà, il perdente – sottolinea in Financial Times – è il suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti». Infatti, il titolare di via Venti Settembre, spiega il quotidiano, è «rimasto isolato sulla manovra “lacrime e sangue”» e «sta affrontando un crollo di consenso all’interno del governo da quanto ha messo la firma sull’originale pacchetto da 45,5 miliardi di euro».

L’Italia alla prova dei mercati «si scopre con i giorni contati»: i miglioramenti che sono arrivati grazie all’intervento della Banca centrale europea che ha acquistato titoli di stato devono essere confermati dai giudizi degli investitori, afferma il Wall Street Journal. «Oggi, grazie sopratutto all’aiuto della Banca centrale europea, i rendimenti sui titoli decennali italiani e spagnoli sono scesi» spiega il Wsj. Ma, aggiunge, «secondo gli analisti il felice stato delle cose potrebbe non durare». Secondo il quotidiano «il continuo coinvolgimento della Bce potrebbe essere ostacolato», vista la sua avversione all’intervento e, poi, sottolinea, c’è «la questione che riguarda il piano di austerità voluto dall’Eurotower in cambio del suo supporto». Il Wsj scrive sull’Italia in un pezzo con un titolo che gioca sul doppio significato della parola «borrowed», ovvero “preso a prestito” ma – nell’accezione “borrowed time” – con l’espressione «vivere con i giorni contati». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Manovra finanziaria o manovra contro i lavoratori?

CONFERMATO LO SCIOPERO GENERALE DEL SINDACALISMO
CONFLITTUALE IL PROSSIMO 6 SETTEMBRE- Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa diffuso da USB, Unione Sindacale di Base.

“Le ultime modifiche alla seconda manovra estiva colpiscono in modo ancor più pesante i lavoratori dipendenti ed i futuri pensionati, attraverso un ulteriore peggioramento del sistema previdenziale che di fatto ad oggi elimina la metà delle pensioni di anzianità, cioè quelle derivanti da riscatto di militare ed università”, afferma Fabrizio Tomaselli, dell’Esecutivo Confederale USB.

Prosegue Tomaselli: “Prima le misure che avevano allontanato di un anno il diritto ad usufruire alla pensione; poi l’aumento di 5 anni per le donne, prima del pubblico e poi del privato; poi l’aggancio all’aspettativa di vita e l’ulteriore ritardo di tre mesi per andare in pensione. Ora si attacca la pensione di anzianità, che per oltre la metà deriva da riscatti del militare e dell’università. Se poi, come sembra, tali riscatti non saranno conteggiati neanche per raggiungere i 18 anni al 1995, necessari all’applicazione del regime retributivo invece che contributivo, allora all’aumento dai 4 ai 10 anni di lavoro in più si aggiungerebbe anche un forte salasso economico sulle pensioni”.

“In compenso – ironizza il dirigente USB – si ritira il contributo previsto per gli stipendi oltre 90.000 e 150.000 Euro, si lascia inalterata la politica delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, si continua a tagliare la politica sociale degli enti locali, si bloccano i contratti e si congelano le tredicesime dei pubblici dipendenti, si ammorbidiscono i già limitati tagli ai costi della politica, non si costruisce una lotta seria contro l’evasione e non si applica alcuna patrimoniale”.

“Insomma, altro che lo ‘sgarbo’ di cui parla un incredibile Angeletti – conclude Tomaselli – il governo e la confindustria, con l’appoggio dei sindacati complici hanno scelto la strada della lotta di classe: la loro, quella dei ricchi, contro i lavoratori e i pensionati. Sta a noi ricambiare con gli interessi ed iniziare una lunga e determinata mobilitazione a partire dallo sciopero generale del prossimo 6 settembre”. (Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia - Lavoro

Nel 2011 i consumi peggio che nel 2000: un buon momento per aumentare l’IVA.

La debolezza dei consumi a livello pro capite, complice il biennio di crisi 2008-2009, lascia prevedere un rallentamento generalizzato dell’uscita dalla crisi tanto che, a fine 2011, ben 17 regioni su 20 rischiano di registrare un livello di consumi inferiore a quello del 2000». È quanto rileva un’indagine della Confcommercio, che evidenzia i ritardi del Sud. Su 20 Regioni italiane, la dinamica dei consumi pro-capite indica che solo Friuli, Molise e Basilicata segnano livelli di consumi superiori. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Pubblicità e mass media

Crollo della fiducia dei consumatori: non si vede luce in fondo al tunnel della crisi.

La fiducia dei consumatori è crollata ad agosto ai minimi da marzo 2009. L’indice calcolato dall’Istat si è attestato a 100,3 punti, in forte calo dai 103,7 di luglio, e ben sotto i 102 punti previsti mediamente dagli analisti. La flessione, diffusa a tutte le componenti, è particolarmente marcata per il clima economico, il cui indice diminuisce da 74,9 a 70,0. La fiducia sulla situazione personale scende da 118,8 a 116,2, quella sul quadro corrente passa da 116,5 a 112,8. L’indice sul complesso delle attese a breve termine segna un calo più limitato, passando da 87,8 a 87,5.

Peggiorano marcatamente, in particolare, i giudizi sulla situazione economica del Paese e sul mercato dei beni durevoli. Si deteriorano invece con minore intensità le valutazioni presenti e di prospettiva sul risparmio e le attese sull’evoluzione del Paese e del mercato del lavoro. Migliorano lievemente, per contro, quelle sulla situazione personale e sul bilancio familiare. I giudizi sulla dinamica dei prezzi al consumo restano stabili rispetto a luglio, mentre le previsioni sull’evoluzione futura dell’inflazione registrano una flessione rispetto al mese precedente. La fiducia peggiora in tutte le ripartizioni e il deterioramento è particolarmente intenso nel Nord-Est. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Dopo 10 anni, No Logo e’ così attuale che sembra ancora in anticipo sui tempi.

No logo dieci anni dopo, di NAOMI KLEIN – The Guardian, Gran Bretagna.

La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso.

Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.

Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.

Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.

Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata. Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri commerciali.

Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia ai marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei occhi, ed è stato un bene perché, quando No logo è diventato un bestseller, se avessi bevuto una Diet Coke in pubblico sarei finita subito nella rubrica di gossip di qualche quotidiano locale.

L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike e Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare il messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea facendo interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di infrangere queste regole ogni volta che mi si presentava l’occasione. Ho rifiutato le offerte per alcuni progetti basati su No logo (un lungometraggio, una serie tv, una linea di abbigliamento) e gli inviti delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a tenere seminari sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli quanto sono cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta fedele al proposito di non registrare il titolo del libro come un marchio (non ho percepito diritti d’autore dalla linea di prodotti alimentari italiani No logo, ma mi hanno mandato del delizioso olio d’oliva in omaggio).

Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora passato un anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di marchi. Nelle interviste e negli incontri pubblici, invece di discutere delle ultime frontiere del marketing virale e del nuovo superstore di Prada, parlavo del movimento di resistenza al dominio delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto il mondo protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i giornalisti furbi. “È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di essere un pessimo marchio”.

Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al marketing. I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di lavoro per me e per i miei coetanei, la diffusione dei contratti a breve termine e lo sfruttamento della manodopera per produrre la merce che ci viene venduta. Da brava “giovane opinionista”, denunciavo il modo in cui la cultura del marketing si espandeva anche fuori dalle aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple.

Imprese vuote
Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.

Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.

Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.

Il governo all’asta
Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento, cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”.

Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che avevo giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding citati nel mio libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo non nei centri commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la presidenza di George W. Bush sia oggi con Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un supermarchio.

Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il tracollo dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata dall’amministrazione Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence. Questo svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione Bush, ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della sfera governativa. E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in giro per la sua incompetenza, l’impresa di mettere all’asta lo stato, riducendolo a un guscio vuoto – o a un marchio – è stata condotta con un impegno e una dedizione straordinari.

Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la più grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York Times nel 2004, “ma contribuisce a governarne una percentuale enorme. Smista la vostra corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare. Stacca gli assegni di previdenza sociale e organizza il censimento. Gestisce i voli spaziali e controlla il traffico aereo. Per fare tutto questo, scrive più codice informatico della Microsoft”.

Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo degli Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush, Donald Rumsfeld. Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore privato, Rumsfeld era imbevuto di cultura del branding e dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era il marchio che il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld con un tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare fornitori che implementino le attività secondarie”.

Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la dislocazione delle truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca di risparmiare sul personale. I generali volevano 500mila soldati, lui ne offriva 200mila, con i contractor e i riservisti a colmare le lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia industriale del just in time: produrre solo quello che è già stato venduto o che si venderà immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra cresceva sempre di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.

La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel 2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli appaltatori ha commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007 gli uomini della Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a Baghdad uccidendo diciassette civili – l’amministrazione Bush, come tante imprese vuote prima di lei, ha potuto negare ogni responsabilità, scaricando la colpa sui contractor. La Blackwater, la Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea di abiti e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali? Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.

L’America rinata
L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo sempre più ostile.

Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto ho pensato che forse mi ero sbagliata.

Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense era ai minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New Coke era per la Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il Tylenol. Eppure Obama, con una delle campagne di rebranding più efficaci della storia, è riuscito a invertire la tendenza. Kevin Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, ha voluto illustrare graficamente quello che il nuovo presidente rappresentava. In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata Paper Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che partorisce Barack Obama. L’America rinata.

Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi di reputazione con il branding: servivano solo una buona campagna promozionale e un testimonial abbastanza giovane e alla moda per riuscire a competere nel difficile mercato del momento. E il testimonial è stato trovato in Barack Obama, un uomo dotato di un istinto naturale per il marketing, che si è circondato di una squadra di grandi esperti di pubblicità.

Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli eventi sociali della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers, un’affascinante laureata in gestione d’impresa ad Harvard ed ex responsabile del marketing di alcune aziende private. David Axelrod, il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato campagne per aziende come Cablevision e At&t.

Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama: un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al passo con i tempi).

Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello prodotto da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune celebrità parlano e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho pensato: ecco finalmente un politico che trasmette in tv uno spot fico come quello della Nike. Le agenzie pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche settimane prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la Coors e la Zappos aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari. Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a gara per salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna Choose change (scegli il cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan Embrace change (accogli il cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes you can offerti dalle linee aeree Southwest.

In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si trasforma in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del 200 per cento nei primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie alla nota predilezione di Michelle per quel marchio di abbigliamento. La passione di Obama per il Blackberry ha fruttato vantaggi simili al produttore Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere giornali e riviste in questi tempi difficili è mettere Obama in copertina, e per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka e succo di frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.

Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” – il turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva 2,5 miliardi di dollari. Niente male, in piena crisi economica. Desirée Rogers si è messa nei guai con alcuni colleghi quando ha parlato con troppa franchezza al Wall Street Journal: “Abbiamo il marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto. “Le nostre possibilità sono infinite”.

Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per la sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a sfrondare cespugli e a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai piedi. Obama si è spinto molto più in là, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine che ha per protagonista l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con la mania per il branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli esperti di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale e hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi delle griffe dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro marchi preferiti. Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando ha definito la Casa Bianca il “fiore all’occhiello” del marchio Obama, uno spazio fisico in cui il governo può incarnare i valori di trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato alle urne tanti elettori.

La Coca-Cola e la tisana
Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi. Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza, ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo.

Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano.

Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la riluttanza a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta scelte impopolari, sono i punti su cui Obama si allontana decisamente dai movimenti politici rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i poster di pop art che ha preso dal Che, il modo di parlare alla Martin Luther King, lo slogan yes we can che richiama il Sí, se puede degli agricoltori immigrati). Le richieste di quei movimenti erano molto chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei salari, programmi sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e per questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici agguerriti.

Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di presidenti innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del marketing: offrire uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a proiettare i suoi desideri più profondi, e farlo in modo abbastanza vago da non lasciare indietro nessuno, a parte i più radicali (che peraltro sono un segmento non irrilevante di popolazione negli Stati Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva che il marchio Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa, ma anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E poi, la lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.

In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste pacifista e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha fatta sentire protagonista di una rivolta contro il monopolio politico dei due grandi partiti americani condotta grazie a un’organizzazione perfetta e a colpi di donazioni raccolte vendendo limonata e racimolando spiccioli tra i cuscini del divano. Contemporaneamente, ha preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro candidato alla presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha divorato in un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i fanatici repubblicani.

Le regole del gioco
Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda.

Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete. Obama è stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova America – in un momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni, la colpa della crisi finanziaria che scuoteva i mercati mondiali veniva giustamente attribuita non solo alle cattive scommesse di Wall street, ma all’intero modello economico di deregolamentazione e privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del mondo) che era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come il Fondo monetario internazionale e la Wto.

Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale, il loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei confronti del modello economico responsabile della crisi globale si sarebbe probabilmente trasformata nella richiesta pressante di nuove regole per imbrigliare (e tassare sul serio) la finanza speculativa.

Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole, Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt, poteva riuscire in quest’impresa.

Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il successo nel branding può essere effimero, e che nulla è più transitorio della moda. Molti grandi marchi e personaggi griffati che fino a poco tempo fa sembravano intramontabili, oggi appaiono sbiaditi o sono in piena crisi. Il marchio Obama potrebbe fare la stessa fine.

Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici: era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro con una ricapitalizzazione più prudente?

Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata di profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la campagna elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica. Più che cambiare partito, la maggior parte di loro farà quello che hanno sempre fatto i giovani durante le elezioni: restare a casa e infischiarsene. Nella migliore delle ipotesi, l’obamamania finirà per diventare quella che i consulenti del presidente chiamano “un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento, molto intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro leader democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è marcio.

Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste contro la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della cosiddetta guerra al terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento che i mezzi d’informazione insistevano a chiamare “noglobal” si preoccupava poco dei partiti. La nostra attenzione era focalizzata sulle regole del gioco e su come erano state distorte per servire gli interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi internazionali sul libero mercato a quelli locali per la privatizzazione dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la spudorata secchionaggine di tutti noi.

Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone (decine di migliaia, nel caso del World social forum) che avevano l’obiettivo di informare l’opinione pubblica sui meccanismi della finanza e del mercato globale. Era come se all’improvviso le persone avessero capito che raccogliere quelle informazioni era cruciale per la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì, era complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente potevamo studiare dei sistemi, non solo dei simboli.

Richieste concrete
In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto potente.

Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che abbiamo imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi. Molte idee che gli attivisti dei movimenti gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi sono date per scontate nei talk show delle tv e negli editoriali dei grandi quotidiani.

Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli, ma anche di avanzare delle richieste concrete per un modello economico più equo e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa, invece, la rabbia contro gli interessi particolari si esprime attraverso i partiti di estrema destra e perfino con il neofascismo.

Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama. Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che provavo nei confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato a usare l’iconografia della rivoluzione nelle loro campagne pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche di mercato era emerso che le persone desideravano qualcosa di più dello shopping: il cambiamento sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto alla diversità.

Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per vendere caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di sinistra, in un certo senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le nostre idee non erano antiquate come ci avevano detto. E poiché i grandi marchi non avevano saputo esaudire i desideri profondi che risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di riprovarci.

Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche stavolta, c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di Obama e l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte di un progetto politico più grande.

Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra profonda nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia – per rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola – the real thing, un vero movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico dell’oralità: “La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal basso”.(Beh, buona giornata),

Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011

Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970. Questo articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di No logo, pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche Recinti e finestre e Shock economy.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Dopo aver fatto passi da gigante, nell’informatica e nell’advertising, Steve Jobs fa un passo indietro.

di Piergiorgio Odifreddi- repubblica.it

Steve Jobs si è dimesso da amministratore delegato della Apple. Sembra, dunque, che stia perdendo la battaglia contro il male che lo sta divorando da tempo, e che l’ha reso ormai quasi evanescente come un fantasma, soprattutto se paragonato al florido ragazzo che era quando ha dato inizio all’avventura dei computer user friendly.

Interessante paragonare la sua carriera con quella parallela dell’altro enfant prodige dell’informatica, Bill Gates. Naturalmente, nessuno dei due è responsabile nè dell’invenzione del computer, nè dello sviluppo della sua tecnologia di base. Siamo dunque lontani anni luce dai contributi cruciali di Charles Babbage, Alan Turing e John von Neumann, tanto per limitarci alla Santissima Trinità.

Volendo mantenere la metafora profana, Gates e Jobs sono però i Pietro e Paolo della diffusione del vangelo del computer. Cioè, gli uomini del marketing, che hanno provveduto a diffondere il verbo informatico tra le genti, incarnato nel silicio invece che nelle valvole.

Agli inizi, Gates predicava il vangelo canonico dei fondatori, quello della programmazione e dei sistemi operativi. Il suo colpo di genio, come racconta lui stesso nella sua autobiografia La strada che porta a domani, fu di comprare (non di sviluppare!) l’ormai storico Dos, e di regalarlo all’Ibm, senza permetterle però l’esclusiva. L’adozione del Dos da parte dell’Ibm, e la costruzione dei cloni che potevano utilizzarlo grazie all’uso pubblico, ruppe il monopolio del colosso e diede inizio alla rivoluzione dell’informatica prêt-à-porter.

Jobs tradì la vocazione iniziale dell’informatica, di essere una religione per il solo popolo eletto in grado di programmare, e la diffuse tra i gentili: cioè, tra la gente comune, che non voleva saperne della te(cn)ologia. La teoria sparì dietro le icone, e rimase soltanto la pratica: come le vecchiette russe che pregano di fronte alle immagini di Andrei Rublev, completamente ignare dei dogmi che queste occultano, così i giovanotti occidentali si sono convertiti alla nuova religione, completamente ignari di cosa sia l’informatica. Come d’altronde, già era successo per le auto e la meccanica.

Analogamente all’originale evangelico, anche nel remake informatico ad avere la meglio è stato appunto Paolo-Jobs. E Pietro-Gates ha da tempo dovuto riconoscerne la vittoria e adattare la sua visione a quella dell’amico-rivale. Oggi il frontedi conversione della tecnologia digitale passa per l’Iphone, l’Ipod e l’Ipad, in attesa dei prossimi Iped, Ipud e Ipid: cioè, per i prodotti Apple, alla cui filosofia si è da tempo convertita anche la tecnologia Microsoft.

La consolazione per Gates è che tutti questi aggeggi ci portano sempre più avanti lungo La strada che porta a domani tracciata nel suo libro. Verso l’ormai prossima meta, cioè, di un’unica macchina versatile, portatile e in grado non soltanto di calcolare, ma di riunire in sè tutti i possibili flussi di informazione digitalizzabile (telefono, giradischi, radio, televisione, macchina fotografica, videocamera e, naturalmente, computer).

Che Jobs pssa riuscire a vedere realizzato l’obiettivo finale, alla cui realizzazione ha tanto contribuito. (Beh, buona giornata).

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Attualità Guerra&Pace

Per la democrazia e per il petrolio: truppe scelte europee combattono tra le file dei ribelli a Tripoli.

di Enrico Franceschini- blog d’autore.repubblica.it

Nessuno dovrebbe meravigliarsi del fatto che forze speciali occidentali hanno partecipato e partecipano alla guerra in Libia e stanno avendo un ruolo di primo piano nella caccia a Gheddafi. Il compito delle forze speciali è per l’appunto quello di muoversi dietro le linee nemiche, prima di un conflitto o in una fase in cui l’esercito regolare non può apparirvi coinvolto, per esempio per ragioni politiche. La posta in gioco in Libia, per l’Occidente che ha deciso di appoggiare i ribelli, era e rimane altissima. Un prolungamento o inasprimento della guerra, una guerra civile senza fine, una vittoria di Gheddafi, una lotta intestina fra le fazioni che ne prenderanno il posto, sono tutti scenari da incubo per la Nato. L’obiettivo era evitare ad ogni costo una ripetizione di quanto è accaduto in Iraq, da un lato, e dall’altro non interrompere con un risultato negativo la serie di rivolte dal basso che hanno portato alla caduta di regimi autoritari nel mondo arabo, in Tunisia, in Egitto, ora in Libia, forse domani in Siria.

Fonti britanniche indicano che il Regno Unito ha svolto un ruolo di primo piano per aiutare i ribelli libici sul terreno. Le Sas, leggendaria unità di commandos dell’esercito britannico, hanno preso parte alle operazioni di guerra con i loro uomini già da alcune settimane, guidando in particolare l’operazione per conquistare Tripoli. Per l’occasione i commandos britannici vestono abiti civili, cercano di sembrare arabi e usano le stesse armi di cui sono dotati i ribelli: ma sotto quegli abiti ci sono alcuni tra i più formidabili guerrieri della terra, gente che sa usare non soltanto la forza ma anche e soprattutto il cervello, in battaglia. Accanto alle Sas sono entrate in azione le spie dell’MI6, il servizio di spionaggio britannico (quello in cui milita James Bond nella finzione letteraria e cinematografica), con i loro agenti e i loro informatori libici: si sono occupati principalmente di una cosa, scoprire dov’è Gheddafi e come prenderlo. Londra e la Nato non vogliono che il colonnello riesca a ripetere l’impresa di Saddam Hussein, rimasto nascosto per mesi in Iraq dopo la caduta di Bagdad e del suo regime. Con lo stesso scopo, il Gchq, ovvero il servizio di spionaggio elettronico del Regno Unito, ascolta le telefonate fatte con cellulari a Tripoli e le confronta con registrazioni della voce di Gheddafi, per individuare i suoi spostamenti. Tutte informazioni che vengono poi passate sul terreno alle Sas e ai comandanti ribelli. Accanto alle forze speciali britanniche, sempre secondo le indiscrezioni circolate a Londra, partecipano alle operazioni anche forze speciali di Francia, Qatar e di alcuni paesi dell’Europa orientale. L’altro sistema usato dalla Nato per appoggiare sul terreno i ribelli, senza inviare formalmente proprie truppe nel conflitto, è stato quello – ben sperimentato – di creare un fondo (con l’aiuto di altri paesi arabi e dei proventi del petrolio libico in mano ai ribelli) per assumere un certo numero di “contrattisti privati”, ex-commandos britannici e occidentali che ora lavorano per agenzie di guardie del corpo, le quali a volte agiscono come braccio ufficioso dei servizi segreti e delle forze speciali: in genere si limitano a offrire una scorta a uomini d’affari in luoghi pericolosi del mondo, ma quando è necessario mandano i propri uomini in guerra, a dare una mano ai ribelli appoggiati dal loro paese, come una sorta di corpo paramilitare. Se a ciò si aggiunge la taglia di oltre un milione di dollari sulla testa di Gheddafi, vivo o morto, sembra difficile che il colonnello possa fuggire e cavarsela. Tutto ciò può forse indignare qualcuno, ma non dovrebbe meravigliare. La guerra si combatte, e talvolta si vince, anche così.(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’Italia e’ il paese della disoccupazione.

(fonte: ANSA.it)
L’Italia ha il record negativo in Europa per la disoccupazione giovanile: sono 1.138.000 gli under 35 senza lavoro. A stare peggio i ragazzi fino a 24 anni: il tasso di disoccupazione in questa fascia d’eta’ e’ del 29,6%: uno su 3 e’ senza lavoro, rispetto al 21% della media europea. A fotografare la situazione del mercato del lavoro nel nostro Paese e’ l’Ufficio studi della Confartigianato.

Il primato a livello nazionale e’ della Sicilia con una quota di disoccupati under 35 oltre il 28%. E se la media italiana si attesta al 15,9%, va molto peggio nel Mezzogiorno dove il tasso sale a 25,1%, pari a 538.000 giovani senza lavoro. 

Inoltre, tra il 2008 e il 2011, anni della grande crisi – rileva la Confartigianato – gli occupati under 35 sono diminuiti di 926.000 unita’. Nella classifica delle regioni seguono la Campania con il 27,6% di giovani senza lavoro, la Basilicata (26,7%), Sardegna (25,2%). Conviene invece andare in Trentino Alto Adige dove il tasso di disoccupazione tra 15 e 34 anni e’ contenuto al 5,7%, oppure in Valle d’Aosta con il 7,8%, Friuli Venezia Giulia con il 9,2%, la Lombardia con il 9,3%.

Ma non sono solo i giovani le vittime della crisi del mercato del lavoro italiano. Il rapporto di Confartigianato mette in luce un peggioramento della situazione anche per gli adulti. La quota di inattivi tra i 25 e i 54 anni arriva al 23,2%, a fronte del 15,2% della media europea, e tra il 2008 e il 2011 e’ aumentata dell’1,4% mentre in Europa e’ diminuita dello 0,2%.(Beh, buona giornata),

 

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Attualità Guerra&Pace

Quello che sta succedendo davvero a Tripoli.

A Tripoli si combatte. Gheddafi ha ancora armi e uomini: ecco lo scenario sul campo. Quello vero, non le bugie messe in giro ad arte.

di Ennio Remondino, da globalist.ch

Il triangolo di resistenza e di fuga di Gheddafi. Dopo i titoli avventati sulla Tripoli Liberata, la complessità torna nelle sabbia mobili delle trattative incrociate tra kabile fedeli e ribelli. Tra Kabile incerte e kabile in vendita. Tra potenze liberatrici e potenze da liberare da lucrosi contratti petroliferi. Tra diplomatici spia e spie travestite da diplomatico. Ancora settimane di guerra, prevedono gli esperti sul campo, e le possibili vie di fuga nel deserto del Rais. Le semplificazioni propagandistiche, nella guerra combattuta, procurano solo guai. Sul campo il caos di Tripoli appare piuttosto come una fase rumorosa di pausa per trattative inconfessabili.

Tripoli liberata dal giornalismo di emozione. Titoli che si inseguono e si smentiscono. Tripoli liberata. No, a Tripoli si combatte. Conquistato il palazzo di Gheddafi. Ma Gheddafi non c’era. Bufala bis della statua di Saddam abbattuta a Baghdad, immagini televisive in campo stretto, per non far vedere che il popolo plaudente era fatto solo da giornalisti e troupe televisive. Oppure il pittoresco sacrificio volontario della barba di qualche poveraccio nella Kabul liberata, pagato da una troupe televisiva per farsi telebano pentito nell’Afghanistan liberato dagli studenti del corano, dai burka e dalle barbe integrali e integraliste.

I tre capisaldi di Gheddafi. Peccato che in Libia le cose siano molto più serie, e più pericolose. Restano fedeli al Rais i reparti beduini, i più mobili e meglio armati, e le postazioni avanzate nel deserto, basi militari della lontana guerra contro il Ciad. Disegniamolo questo triangolo della morte, questa punta di lancia che dalla costa porterà il beduino Gheddafi verso il deserto profondo e la via di fuga. Tripoli (dove ancora si combatte duramente) e Sirte (la città natale), tracciano la base. Poi una puntata a sud, verso il cuore della regione del Fezzan, città oasi di Sabha, la “fedelissima”. Oltre soltanto il deserto, le tribù tuareg e l’immensità dell’Africa.

Sebha o Sabha e la storia militare. Era la capitale della storica regione del Fezzan. Data la sua posizione al centro del deserto libico, Sebha è stata fino al secolo scorso un importante centro di sosta e smistamento delle carovane che attraversavano il Sahara. Ora è la rotta della disperazione per decine di migliaia di migranti sub-sahariani. L’Oasi di Sebha è stato un sito per testare i razzi Otrag. Nel 1981 dalla base libica di Sebha fu lanciato un razzo Otrag con un’altezza massima raggiungibile di 50 km. Esistono ancora quei razzi? E con quali proiettili? Ufficialmente la società Otrag ha chiuso per pressioni politiche da parte degli Usa.

O la fuga o l’olocausto. C’è un segreto tra i segreti. L’incubo delle armi chimiche che fanno ancora parte dell’arsenale non colpito a disposizione del despota che non molla. Forse è anche per questo che ancora oggi si tratta. I kalasnikov sparano per coreografia televisiva ad anticipare un vittoria che potrebbe costare prezzi ancora elevatissimi, e nel segreto, le trattative sotterranee tra governati ed insorti. Tra insorti e insorti. Tra spie e spie. Geopolitica delle “kabile” che governano territori, popoli ed eserciti del caos Libia. Warfalla contro i Qadadhifa (tribù da cui prende il nome lo stesso Rais) e via spartendo. Nuclei che il dopo Gheddafi lo contrattano in potere e petrolio.

Le quattro componenti. Il fronte anti-gheddafiano è diviso al suo interno. Quattro le componenti principali. Prima è l’attuale dirigenza del Comitato nazionale di Transizione di Jalil e Jibril, che tenta di portare avanti una politica unitaria. La seconda è quella filo-francese, minoritaria all’interno degli insorti, ma che vede al suo interno le kabile che controllano le principali fonti energetiche del paese. Quella che potrebbe favorire Parigi nei nuovi contratti. Terza, quella che esprimeva l’assassinato generale Janous, composta dalla “lobby” militare che ha abbandonato il rais. Quarta, all’italiana, quella dei “pontieri” non ostili a Gheddafi pronti a mediare.

 

Fonte: http://www.globalist.ch/Detail_News_Display?ID=1768&typeb=0&I-piani-di-resistenza-e-fuga-di-Gheddafi.

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Attualità Guerra&Pace

Se il dopo Gheddafi fosse peggio di come Europa se lo aspetta?

di Ennio Remondino – globalist.ch

Guerre orfane e senza figli. Le guerre, per quante ne ho conosciute e frequentate (e sono molte), hanno tutte un vizio: «Nascono orfane e muoiono sempre senza figli». Battuta da tradurre. Non c’è mai un padre riconosciuto all’inizio di un conflitto: è Gheddafi che ha esagerato nelle repressioni interne o è qualche leader occidentale (Nicolas Sarkozy in primis), che ha deciso fosse arrivato il momento utile per ripulire l’immagine degli amici dell’occidente sulla fascia mediterranea dopo Tunisia ed Egitto? Soprattutto, le guerre orfane non generano mai figli. Nel senso che le conseguenze imprevedibili e spesso catastrofiche del dopoguerra non vanno mai in conto a nessuno. O meglio, sono sempre figlie di chi la guerra ha perso. Comodo, scontato e sovente falso. Ma si sa: la storia, e purtroppo anche la cronaca, la scrive il vincitore.

La lezione Iraq e Afghanistan. Per memoria comune basterebbe ricordare le guerre bushiane in Iraq e Afghanistan. Combattimenti lampo con ritmi televisivi, e poi lo stillicidio di anni di “dopoguerra” che produce più vittime della guerra stessa. Saddam ucciso, ma cosa è il “dopo Saddam”. Esiste ancora un Iraq unitario o è una finzione che mette assieme tre Stati ufficiosi e incompatibili tra loro? A nord c’è il Kurdistan di Arbil, al centro la Baghdad senza petrolio dei sunniti, e a Bassora i filo-iraniano sciiti. Per l’Afghanistan è pure peggio. Oltre al rosario di morti anche italiani che segna quell’avventura nata sull’emozione dell’11 settembre, alla caccia a Bin Laden, ora, a tornare con l’aurea dei partigiani liberatori dall’occupazione, sono i talebani che, visti più da vicino di un caccia bombardiere, fanno paura e vincono.

Mediazione tra ideali o tra Kabile? E con la Libia, come la mettiamo? Che governo nazionale nascerà dall’assemblaggio tribale tra le varie Kabile che compongono e governano i diversi territori tra Tripolitania e Cirenaica? Sappiamo che, all’inizio della rivolta armata dei senussiti di Cirenaica, orfani del regno di Idris, c’era anche qualche nucleo islamista e una sparuta pattuglia democratica (intesa nel concetto occidentale della parola). Ora assistiamo alla corsa al dissenso dell’ultimo minuto per riciclare antichi complici del vecchio regime. Che ne potrà uscire da una simile e indefinita accozzaglia di interessi contrapposti? Di certo il mondo dovrà fare i conti con un paese distrutto e con partner inaffidabili. L’occidente scoprirà presto di aver speso tempo e denaro per portare al potere un “Partito” di cui ignora natura e programmi.

L’occidente e i guai di casa sua. Ora l’occidente, bruciata la carta estrema dell’intervento militare, deve tornare alla politica, e qui cominciano i guai. Con quale credibilità, dopo quanto s’è visto nei casi già citati? E quale “occidente”? Quello dell’apparente disinteresse statunitense o quello del neo interventismo post-coloniale di una “Grandeur” francese alla Sarkozy? Tunisia ed Egitto attendono il compimento delle loro rivoluzioni e anche in quelle situazioni più favorevoli, il modello di democrazia in chiave occidentale fa fatica a trovare una traduzione in cultura musulmana. Nel frattempo restano al potere Bashar Al Assad in Siria, Ali Abdulla Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e Mahmud Ahmadinejad in Iran. Con l’occidente costretto a rincorrere e trovare rimedi soprattutto alla crisi economica e finanziaria di casa.

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Attualità Guerra&Pace

In Libia si sparano pallottole vere e notizie false.

di Gianni Cipriani – globalist.ch. (via megachipdue.info)

Che la guerra di Libia fosse, molto più di altre, guerra fatta con disinformazioni, propaganda e bugie, lo si era capito da molto tempo. Del resto bastava guardare diverse cose con gli occhi bene attenti e non poteva sfuggire che le 3-4 principali fonti delle notizie sull’andamento della guerra, sui crimini, le esecuzioni, gli stupri, sulle avanzate e sulle alleanze, erano siti internet di sedicenti sigle liberatrici, in realtà “redazioni” (il termine deve essere doverosamente usato tra virgolette) espressioni diretta di alcuni servizi segreti occidentali, di alcuni ambienti arabi e perfino di Hezbollah.

Premesso che la caduta di Gheddafi sembra inevitabile e dal mio punto di vista è anche un bene, stando a fonti più attendibili che in questo momento operano sui fronti libici e sono anche a Tripoli, le notizie che risultano a Globalist sono un po’ diverse.
Le fotografie che testimoniavano la caduta di Tripoli scattate sulla piazza Verde, in realtà non sono state scattate sulla piazza verde.
Alle 17.50 del 23 agosto le truppe di Gheddafi controllano buona parte della città (c’è chi dice il 30% chi più) mentre i ribelli controllano i sobborghi.
Gheddafi controlla ancora l’aeroporto mentre è battaglia per il controllo del porto.
L’accelarazione dei combattimenti è stata il frutto del passaggio tra gli insorti di alcuni generali chiamati alla difesa di Tripoli che hanno abbandonato il campo dei lealisti.
Si lavora ancora ad una soluzione diplomatica per evitare il bagno di sangue finale, mentre alcuni paesi stanno cercando in extremis di offrire una via d’uscita a Gheddafi e alla sua famiglia proprio per evitare questa drammatica coda.
Insomma, nelle ore appena trascorse è stata raccontata una inesistente caduta di Tripoli che sicuramente ci sarà, ma ancora non è avvenuta. Sono state mostrate immagini false, si è raccontato (attraverso appunto notizie veicolate da siti web controllati dai diversi 007) di episodi e catture non vere. Per carità, non è stata la prima volta, né sarà l’ultima. Ma non è mai un bene abbeverare l’opinione pubblica al pozzo avvelenato della propaganda e della disinformazione.

Sul futuro del paese, infine, l’analisi di Ennio Remondino mi sembra la più corretta. La Libia unita e democratica è una legittima aspirazione. Ma non ci si arriverà facilmente. E speriamo che la vera guerra non scoppi alla fine di quella “ufficiale” contro Gheddafi. Come è accaduto in Afghanistan, come è accaduto in Iraq dopo la fine di Saddam.(Beh, buona giornata).

 

Fonte: http://www.globalist.ch/Detail_News_Display?ID=1756&typeb=0&La-caduta-di-Tripoli-bugia-per-bugia.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

La crisi finanziaria ha acceso la crisi economica che sta accendendo la crisi politica del governo Berlusconi.

“Se si votasse in questo momento, il Pdl non prenderebbe più del 22-25%, mentre la Lega si attesta tra il 7% e il 9%. I partiti di opposizione tengono perché guardano ai propri serbatoi di consensi e anche perché perdura la chiave anti-berlusconiana (punto sul quale Bossi ci sta mettendo del suo). Il Partito democratico si attesta attorno al 25% e molto probabilmente sarebbe la prima forza in caso di elezioni.” Roberto Weber, Swg, dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Giorgio Napolitano: aver negato la portata e la gravità della crisi ha indebolito l’Italia in Europa, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire il linguaggio della verità.

Intervento del Presidente Napolitano al Meeting per l’amicizia fra i popoli
Rimini, 21/08/2011 (da quirinale.it)

Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l’ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l’occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l’Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo, in un’obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

D’altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell’Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell’Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa – da parte delle istituzioni e dei cittadini – delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo – negli itinerari dell’educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica – di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel “moto di riappropriazione” di cui parlavo : e non solo dall’alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

Ma “l’esame di coscienza collettivo” che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l’unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare – e ha in effetti abbracciato – il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l’on. Lupi ha voluto ricordare.

Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un’esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l’Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l’emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d’aggressione e l’umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all’eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l’Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi – riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 – “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare – e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani – il linguaggio della verità : perché esso “non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.

Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l’Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all’Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull’evoluzione del benessere degli italiani dall’Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo – superiore a ogni immaginabile previsione iniziale – del prodigioso balzo in avanti compiuto dall’economia e dalla società nazionale dopo l’Unità e in special modo grazie all’accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell’unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

Si impone perciò un’autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese – Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica “misura della felicità”, in quelle sedi si è richiamata l’attenzione su altri fattori : “è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana”. E’ a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno – in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato – aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del “desiderio”.

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

Quell’autentica svolta che oggi s’impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell’Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell’abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell’evasione di cui l’Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E’ una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

L’Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico – fosse pure solo panico – di una possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l’Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall’altro troppo esitante sulla via di un’integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia implica riforme : dopo l’avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com’è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E’, in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l’esperienza della straordinaria stagione dell’Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell’Italia dell’impegno civile e della solidarietà, dell’associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di “giuste forme di collaborazione” – secondo le parole di Benedetto XVI – “fra la comunità civile e quella religiosa”.

Ma potrà anche l’apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l’Italia ? Ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all’interno e vengono dall’esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell’alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell’attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l’America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell’amicizia tra i popoli – si pensi alla tragedia del Corno d’Africa – che è iscritta nella stessa ragion d’essere del vostro Meeting.

Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell’attività politica. C’è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell’impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza. E’ per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, “una risorsa umana per il nostro paese”. Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento.(Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Marx ed Engels.

Dio è morto, Marx no, da olivero.blogautore.repubblica.it

Il primo segnale che qualcosa di importante stava accadendo da quelle parti è stata una recensione apparsa sul Financial Times, non proprio un Quaderno rosso. Parlando del libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché scoprire l’eredità del marxismo, lo definiva poco meno di un capolavoro di accuratezza, profondità e rigore. Un testo in grado di “diradare le nebbie del Ventesimo secolo”. Nientemeno. Il giornale della City, tempio del capitale, del mercato e del liberismo riconosceva al vecchio nemico comunista qualcosa di più dell’onore delle armi. Forse come accade a certi personaggi dei film che, rimasti senza la loro nemesi, non riescono a rassegnarsi e non possono posare lo sguardo sul campo di battaglia ormai deserto.

Quale che sia la motivazione profonda, il Ft ha ragione: Hobsbawm, uno dei più grandi storici viventi, ha raccolto una serie di saggi sul marxismo che escono dal campo accademico e proiettano quelle dottrine, quelle istanze, quelle parole sull’oggi. Le grandi intuizioni di Engels, per esempio, restano sorprendenti quasi più ora che a metà dell’800 quando le scrisse: l’assorbimento della politica nell’economia; l’amministrazione delle cose che soppianta il governo degli uomini; la capacità di trovare regole quasi scientifiche nell’alienazione degli operai e della società laddove altri vedevano soltanto disordine mentale; l’idea che le crisi a periodicità regolare fossero un aspetto integrante del capitalismo; l’unificazione delle grandi istanze della Rivoluzione francese con quelle del nuovo proletariato britannico che avrebbe generato una dottrina più pura in vista di una contrapposizione sociale più pura, quella tra operai e padroni anziché tra borghesi e aristocratici; le difficoltà pratiche in cui si sarebbe trovato un partito di massa di fronte a decisioni epocali; la fine della famiglia tradizionale a opera del capitalismo (su questo punto il Vaticano potrebbe trovare inaspettati compagni di strada).

Tutto elencato, analizzato e ricostruito da Hobsbawm con chiarezza e metodo, lo stesso metodo mutuato da Marx ed Engels, che rimasero sempre in questo, nonostante le discipline a cui diedero vita, due filosofi. Perché, “solo un individuo libero dalle illusioni della società borghese può essere un valido scienziato sociale”. Infatti mai nelle loro analisi i due autori del Manifesto usarono parole di disprezzo contro i capitalisti o i borghesi, ma sempre contro il grande “ismo”, l’ideologia che trasforma gli sfruttatori in una classe “profondamente immorale, incurabilmente corrotta dall’egoismo, corrosa nel suo essere”. I più scientifici tra i pensatori, ricorda il libro, si sono lasciati andare a profezie da brivido (e con echi che richiamano certe pagine mistiche di Simone Weil) regolarmente avveratesi: “La società borghese ha prodotto mezzi di produzione così potenti che rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate; i rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi prodotta”.

Lo scenario è fin troppo evidente a tutti. Il mercato ha vinto su ogni cosa, la politica si è ridotta a specchio della finanza. Non si produce, si scommette. Non si progetta, ci si indebita. Non si assume, si affitta. Non si costruisce, si rimanda. Non si spera, si consuma. Tutto già detto, tutto già scritto. Tutto finito. Il campo di battaglia è vuoto. Nessun sol dell’avvenir risplende all’orizzonte. Nessuno spettro si aggira per l’Europa. O no? (Beh, buona giornata).

Eric Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (tr.it. L. Clausi, Rizzoli, 22 euro)

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La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

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I ricchi vogliono pagare le tasse e scavalcano a sinistra la sinistra.

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”, (dal blog di GAD LERNER).

E’ impazzito il plurimiliardario Warren Buffett, re degli speculatori, che spiattella sui giornali gli scandalosi benefici fiscali di cui gode negli Usa? Soffrono forse di masochismo, qui in Italia, un finanziere come Pietro Modiano e gli imprenditori Carlo De Benedetti (azionista di questo giornale), Luca Cordero di Montezemolo, Anna Maria Artoni, favorevoli alla promulgazione di un’imposta sui grandi patrimoni di cui sono detentori? Perché mai, di fronte al concreto rischio di collasso del sistema, non viene richiesta dai politici di sinistra una vera tassa sulla ricchezza, nell’interesse delle classi subalterne che dovrebbero rappresentare?

E’ davvero singolare questo mondo alla rovescia in cui sembrerebbe toccare ai “ricconi” occidentali illuminati pure il privilegio di indicare la retta via della perduta giustizia sociale. Non bastasse il loro dominio sull’economia, possibile che abbiano sequestrato pure la leadership dell’analisi sull’iniqua distribuzione delle risorse cui la politica sarebbe chiamata a porre rimedio?
Nessuno come loro è consapevole della sproporzionata ricchezza accumulata da pochi, nei decenni in cui la finanza ha assoggettato l’economia reale. Se dunque auspicano un inasprimento del prelievo fiscale sui detentori di grandi patrimoni, è innanzitutto per un motivo –diciamo così- pratico: l’aumento delle tasse negli Usa, o il pagamento di una cospicua “una tantum” in Italia, non inciderebbero significativamente sul loro tenore di vita, sui loro consumi, e neanche sulle loro attività imprenditoriali.

Suppongo poi che i “ricconi illuminati” favorevoli all’imposta patrimoniale traggano dalla personale autocoscienza di cui ci rendono compartecipi altri motivi di riflessione: uno morale e uno esistenziale.
Sul piano morale, credo siano ben consci di avere goduto di un boom tutt’altro che armonico, caratterizzato dal patologico acuirsi delle disuguaglianze di reddito. Se in passato potevano illudersi che la ricchezza crescesse anche intorno a loro, se non grazie a loro, oggi è evidente il contrario.

Sul piano esistenziale, mi spiego il favore manifestato da finanzieri e capitalisti illuminati per un’imposta patrimoniale come estrema forma di attaccamento al sistema che li ha generati prima di degenerare. Nessuno come loro, che ne sono gli emblemi, desidera il suo salvataggio.
Sconcerta la modesta attenzione prestata in Italia, dove lo scandalo dell’evasione fiscale rende ancora più evidente l’ingiustizia, e il debito pubblico rende più stringente la necessità, ai buoni argomenti della patrimoniale. Quasi nessuno ha riflettuto sui calcoli esposti l’8 luglio scorso, in una lettera al “Corriere della Sera”, dal finanziere Pietro Modiano (che pure si autocandidava a “vittima” della medesima imposta).

Un prelievo del 10% sui patrimoni (escluse le case e i titoli di Stato) degli italiani più ricchi, il 20% della popolazione, fornirebbe un gettito di circa 200 miliardi. Quasi cinque volte la manovra biennale del governo. Riporterebbe il debito in rapporto al Pil vicino al 100%, conseguendo un obiettivo irraggiungibile da molteplici leggi finanziarie. Gli interessi sul debito godrebbero di una riduzione di 8 miliardi l’anno. E gli italiani ricchi chiamati a sopportare questo sacrificio –non tale da intaccare il loro benessere- potrebbero essere ricompensati con detrazioni fiscali negli anni successivi.
Fantaeconomia? Ma non è forse già un’apocalittica sequenza di fantaeconomia quella che stiamo vivendo dall’estate del 2008?

Resta da capire come mai tale istanza di drastica redistribuzione degli oneri fra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei meno abbienti, non stia in cima ai programmi della sinistra. E’ vero che ora il Partito democratico propone un supplemento di tassazione sui capitali scudati da Tremonti a quote di mero realizzo. Ma, a parte la dubbia costituzionalità di un tale provvedimento, esso continua a rivolgersi solo agli esportatori della ricchezza, non al suo complesso.

Parrebbe che un leader progressista, sia pure il presidente degli Stati Uniti, figuriamoci il segretario di un partito della sinistra italiana, si senta condannato a escludere come temerario ciò che invece ha osato sbattergli in faccia Warren Buffett. Hanno paura di passare per socialisti (o comunisti). Si illudono che la loro autorevolezza derivi ancora dalla sottomissione alle regole di un sistema giunto allo sfascio, solo perché i rapporti di forza sono tuttora dominati dagli hedge funds e dalle banche d’affari che hanno contribuito a salvare. Restano al di fuori della loro immaginazione soluzioni radicali prospettate invece da chi in passato ha saputo approfittare della fragilità della politica.

Lo scetticismo con cui i mercati hanno accolto la manovra economica italiana, ma soprattutto i conflitti sociali che scaturiranno dalla crisi dell’economia reale, ben presto si incaricheranno, ahimè, di spazzare queste cautele. (Beh, buona giornata).

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Meno stato più mercato? Basta non sia lo Stato del Vaticano.

Marcia laica degli indignados spagnoli contro la Gmg, Giornata Mondiale della Gioventù che si tiene in questi giorni a Madrid, dove e’ atteso l’arrivo del Papa.
La protesta nasce contro le ingenti somme di denaro che verranno investite nell’evento, nonostante la grave crisi economica. 

Si calcola che il costo complessivo sia di oltre 50 milioni di euro, a cui andranno ad aggiungersi le spese riguardanti polizia e servizi di sicurezza.
“Il tuo zainetto lo pago io, mettici i preservativi” ha gridato una indignada a un Papa boy.
” Zero delle mie tasse al Papa” era scritto su un striscione.

Gli indignados giudicano “scandaloso” che il governo “contribuisca con 25 milioni di euro alla visita del Papa e alla celebrazione di un atto confessionale, concedendo esenzioni fiscali alle grandi imprese che si sono impegnate con altri 25 milioni”.

In Italia come e’ noto abbiamo lo stesso problema, ma non abbiamo ancora indignati che lo gridino nelle piazze.
La Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto costa la politica. Oltre quattro miliardi di euro all’anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale.

Con 4 miliardi di euro all’anno, per i prossimi anni quanti servizi sociali si potrebbero salvare dalle forbici di Tremonti? Quanti precari si potrebbero stabilizzare? Quante pensioni minime si potrebbero innalzare? Quanti stipendi aumentare? Quante ricerca scientifica rifinanziare? Quanta cultura valorizzare?

Sono domande retoriche. Infatti, meno stato più mercato va bene per tutti meno che per lo Stato del Vaticano. Beh, buona giornata.

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Agnes Heller accusa: «L’Europa tiene più al debito pubblico che ai diritti umani e civili».

di MARIAROSA SCIGLITANO-il Manifesto (via dirittiglobali.it)-

Nata nel 1929, la filosofa ungherese Ágnes Heller è una delle principali protagoniste del dibattito sulla complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita negli anni dell’adolescenza all’Olocausto, diventa allieva del filosofo György Lukács, del quale condivide il difficile rapporto con il partito comunista. Diviene docente alla New School di New York negli anni ’70 e tra le opere che contribuiscono alla diffusione del suo pensiero in Occidente vi è La teoria dei bisogni in Marx. Interprete autorevole del dibattito etico-politico contemporaneo, la Heller osserva criticamente le dinamiche politico-sociali che caratterizzano l’Ungheria di oggi e l’operato dell’attuale governo conservatore ungherese guidato da Viktor Orbán. Le abbiamo rivolto alcune domande, incontrandola nella sua casa di Budapest.

Abbiamo la sensazione che questo, per l’Ungheria, sia tra i periodi più difficili se non il più difficile dalla caduta del regime. Concorda?
Dipende da cosa significa difficile. Perché per la popolazione ungherese il cambiamento di sistema è stato un periodo difficile ma non in tutto, visto che all’epoca la gente ha cominciato a conoscere la libertà. D’altra parte, come dicevo, è stato difficile in quanto caratterizzato dalla chiusura di tantissime fabbriche con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro. Se non consideriamo quel periodo, dobbiamo dire che senza dubbio quello attuale è il più difficile, perché si sono verificate contemporaneamente due cose: una è la limitazione del diritto alla libertà, soprattutto quella di stampa, l’altra è la soppressione di contrappesi, cioè di istituzioni opposte al governo oppure l’inserimento di persone fedeli al Fidesz in quelle istituzioni. Insomma, tutte cose che, secondo me, rientrano in un sistema di potere bonapartista che elimina il pluralismo. Il governo Orbán tende a sopprimere i diritti, per esempio quello alla pensione anticipata di poliziotti, pompieri o conducenti di autobus e tenta di abolire o diminuire le pensioni di invalidità in modo che nessuno possa andare in pensione prima del limite d’età, provvedimento che colpisce un gran numero di persone, questo sistema di cose causerà guai gravissimi.

Anche la scuola risente di questa situazione.
Certamente. La decisione di assegnare allo Stato il controllo delle scuole gestite finora dai governi locali corrisponde a un nuovo processo di statalizzazione che prevede di decidere cosa insegnare e cosa non, soprattutto per quel che riguarda la storia. Alcuni temono che le scuole passeranno sotto il controllo di istituzioni religiose, cosa che potrebbe in qualche modo eliminare la divisione tra stato e chiesa che è uno dei principi sui quali si basa la democrazia. A parte questo non so fino a che punto sia realistica la scuola dell’obbligo fino a 15 anni. Chi lascia la scuola a quell’età dove va? Potrebbe mai inserirsi nel mondo del lavoro in un paese con un alto tasso di disoccupazione? Lo stesso si può dire di coloro che hanno diritto alla pensione di invalidità: dove potranno andare queste persone? Tali misure colpiscono i più poveri. Consideri che a complicare le cose contribuisce il fatto che è stata introdotta in maniera dogmatica l’aliquota del 16% che facilita la vita ai più ricchi e aggrava la situazione degli indigenti. Questa non è politica sociale. Non dico che quella del governo precedente fosse particolarmente valida, se non altro, però, cercava di garantire ai più poveri una forma di sicurezza sociale. Le conseguenze della politica attuale ridurranno la popolarità del governo che, peraltro, è già diminuita in modo significativo e diminuirà ancora. Il problema, però, è che manca un’alternativa mentre aumentano l’astensionismo alle urne e l’apatia. Ci vorrebbe un’opposizione rappresentata non dai vecchi politici che hanno perso consenso, ma da volti nuovi.

Una situazione molto grave, insomma, e la cosa salta agli occhi a maggior ragione se si pensa alle buone valutazioni date gli anni scorsi all’Ungheria dalla Commissione europea.
Ma sa, nemmeno ora l’opinione è negativa, l’Ue è felice solo di apprendere che in Ungheria, a differenza di Grecia, Spagna e Portogallo, non aumenta il debito pubblico. Sembra che le cose stiano proprio così, ma sono state organizzate con una soppressione della certezza del diritto. Ostacolare la crescita del debito pubblico non garantisce prospettive per il futuro. Se non c’è certezza del diritto non ci sono investimenti e senza di essi il futuro non è roseo. Per l’Ue è più importante che si crei l’immagine di uno stato partner affidabile e che i conti siano a posto, la situazione della libertà e dei diritti passa in secondo piano.

Vorrei tornare alla definizione di bonapartismo che lei ha dato del governo Orbán.
Mi riferisco all’opera di Karl Marx Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte). L’elezione di Luigi Bonaparte a presidente avvenne con i due terzi dei voti popolari – una situazione analoga alla nostra -, poi Bonaparte centralizzò i poteri e sciolse il Parlamento. Questo, Orbán, non può farlo, ma adotta la stessa tecnica: concentra tutto il potere, lo centralizza. Dicono che il nostro premier sia populista: no, la sua retorica è populista ma non lui. Il suo governo non avvia trattative con i sindacati, non tratta con i lavoratori, non fa da tramite tra datori di lavoro e sindacati. Quello che è fondamentale per un potere populista è assente nel governo Orbán. Quindi non confondiamo la retorica con la politica de facto.

In che modo la nuova Costituzione cambierà la vita della popolazione?
Alla maggior parte degli ungheresi non interessa la Costituzione. In quanti la conoscono? Secondo me nemmeno quelli che l’hanno votata. Io l’ho letta, l’ho criticata, ma è molto difficile leggerla. La definizione migliore l’ha data l’ex presidente della Repubblica, László Solyom, che l’ha descritta come il nuovo Teatro Nazionale fatto costruire dal vecchio Fidesz: brutto, kitsch e antiquato, ma ci si può recitare. Da gennaio scopriremo a quali scenari darà luogo, per il momento è ancora valida la vecchia Costituzione che continua ad essere modificata fino a divenire quasi irriconoscibile, sarà così fino alla fine dell’anno. Poi c’è la legge sui media che limita fortemente la libertà di stampa, perché in sostanza crea un centro di censura che valuterà il contenuto delle informazioni diffuse da radio, tv, carta stampata e giornali online per verificare se sia conforme o meno alle nuove leggi. In più quest’organo sarà composto esclusivamente da membri eletti dall’attuale governo. Ecco, anche qui viene escluso il pluralismo.

A cosa attribuisce il successo ottenuto l’anno scorso dai partiti di destra?
Esso è dovuto in primo luogo alla perdita di fiducia della gente nei riguardi dei partiti tradizionali: questa è la cosa fondamentale. Nell’Ungheria orientale una parte degli elettori socialisti ha votato Fidesz. Quelli che si ribellano alla politica attuale sono finiti nell’estrema destra che convoglia l’insoddisfazione popolare. La questione fondamentale è il razzismo: questo distingue Jobbik dal Fidesz. Il Fidesz non è un partito razzista, è pieno di razzisti, ma la politica del partito non è razzista. Quella di Jobbik, invece, lo è, in primo luogo nei riguardi dei Rom. I membri di questo partito diffondono slogan anti-Rom e lo fanno soprattutto nei piccoli centri in cui vivono cospicue comunità Rom e si verificano spesso conflitti tra le persone un pochino più agiate e quelle povere. Chi vive in miseria e non ha da mangiare ruba. Gli altri cercano di difendere la loro piccola proprietà privata e odiano gli indigenti. Questo conflitto c’è e viene cavalcato dagli estremisti non solo a parole: vengono, infatti, create delle formazioni paramilitari che evocano brutti ricordi, sono state proprio organizzazioni del genere a occuparsi delle deportazioni in Ungheria. Ora il Fidesz sta cercando di scoraggiare il fenomeno con una legge contraria alle attività di questi gruppi.

Si parla di una ripresa dell’antisemitismo in Ungheria. Ritiene che sia un problema reale?
Non dico che Orbán sia razzista, ma forse tollera cose che non dovrebbero essere tollerate, le tollera fino a quando non disturbano la sua politica. In Ungheria il problema del razzismo non riguarda solo i partiti, ma anche la popolazione. Qui la gente non respinge il razzismo, non lo fa neanche se non lo condivide, non ha un minimo di coraggio civile. Qui non è d’abitudine obiettare, piuttosto si resta in silenzio. Non solo i partiti ma anche la popolazione dovrebbe essere educata a un diverso comportamento. Certo, i partiti non hanno dato il buon esempio, non perché fossero propensi a emarginare etnie e strati sociali, ma forse perché non hanno coinvolto i cittadini in un processo che li portasse ad apprendere il rispetto dei valori della convivenza e dell’indignazione civile contro l’intolleranza.

Allo stato dei fatti che futuro immagina per l’Ungheria?
Il filosofo non è un indovino, inoltre in politica il caso gioca un ruolo di estrema importanza. Guardi i successi e il declino di certe personalità della politica. Senza Berlusconi l’Italia sarebbe diversa, senza Viktor Orbán l’Ungheria sarebbe diversa. (Beh, buona giornata).

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L’Europa, la gallina dalle uova marce: l’Ungheria scivola in pieno fascismo tra l’indifferenza della Ue.

di ANDREA TARQUINI-la Repubblica (via dirittiglobali.it)
Budapest, estate 2011: ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in uno Stato membro dell´Ue. La grande purga non risparmia nessuno. Ai posti di comando solo uomini fedeli al premier Orban. E un´unica newsroom centrale distribuisce notizie ai media pubblici. La paura di perdere il lavoro perché sospettati di idee critiche la cogli in ogni ambiente. Nuove proposte di legge prospettano campi d´ospitalità per disoccupati o elementi asociali

 
Budapest. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato.

Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici.

Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite.

Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro.

Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.

“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po´ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell´Unione europea.

«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l´odio, l´invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l´istituzione della Nmhh, l´autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un´unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.

«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell´Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un´intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell´agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l´Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.

L´epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L´Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all´intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d´alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo.

Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all´opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l´Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell´Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.

Appena celata dalla gentilezza d´animo e dalla vivacità di questo adorabile popolo nel cuore dell´Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l´Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell´Impero del Male” si allontana.

Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell´emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà. Nuove proposte di legge prospettano “campi d´ospitalità” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.

«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà», dicono i colleghi del Népszabadsàg: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell´Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l´anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all´antennista di sintonizzare la tv su canali critici.

O vedi un razzismo da banalità del male. Come l´altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L´Arcipelago Gulash è così, l´Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l´Ungheria te lo allevia l´Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d´una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca. (Beh, buona giornata).
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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Far pagare la crisi ai meno abbienti e’ anticostituzionale.

Nella seconda perte, l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana c’e scritto: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In realtà gli ostacoli di ordine economico non solo non sono stati rimossi, ma, almeno dal 1985, addirittura sono stati innalzati, diventando una vera e propria barriera di classe.

Il divario tra ricchi e poveri è sempre più marcato in Italia: stando ai dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è uno dei Paesi industrializzati con la maggiore disparità dei redditi, al quinto posto tra i 17 che hanno segnato un ampliamento del gap tra il 1985 e il 2008, davanti a Messico, Stati Uniti, Israele e Regno Unito.

In questo contesto, arriva un’ulteriore spinta alle disuguaglianze e all’iniquità, attraverso la manovra economina varata dal governo, che sta andando in discussione nei due rami del Parlamento. Beh, buona giornata.

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