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È stata fissata la data del processo per la morte di Satnan Singh.

di Piero Santomnastaso | Facebook.com/Mortidiavoro

Si aprirà il 1° aprile davanti alla Corte d’Assise di Latina il processo a carico di Antonello Lovato per la morte di Satnam Singh, il bracciante indiano di 31 anni deceduto il 21 giugno 2024 in ospedale a Roma dopo essere stato abbandonato in strada due giorni prima con un braccio amputato nelle campagne di Borgo Santa Maria.

Lovato, in carcere dal 2 luglio scorso, sarà processato per omicidio volontario e rischia una pena minima di 21 anni di reclusione.

Secondo il medico legale, se il bracciante “fosse stato tempestivamente soccorso, si sarebbe con ogni probabilità salvato”.

Per il giudice delle indagini preliminari Lovato, nella foto a sinistra, ha tenuto una «condotta disumana e lesiva dei più basilari valori di solidarietà». Otto le parti civili: oltre alla moglie Sony e ai parenti di Satnam, anche il Comune di Latina, Maurizio Landini e la Flai Cgil.

#satnamsingh#antonellolovato#mortidilavoro

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Ancora 6 morti di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Marco Giannini, 38 anni, farmacista dell’ospedale di Livorno, residente a Forcoli (Pisa), ha perso la vita poco dopo le 7 di mercoledì 8 gennaio mentre in macchina andava al lavoro.

Sullo svincolo di Livorno centro della FiPiLi, da un camion che procedeva in senso contrario una pesante lastra di metallo è caduta sui jersey dalla mezzeria, spostandoli.

La lastra e le barriere di cemento sono diventati per l’auto di Giannini in una sorta di rampa di lancio. La macchina è stata catapultata oltre il guardrail ed è precipitata per una decina di metri finendo nel canale Scolmatore dell’Arno. Il professionista è morto sul colpo.

Carmelo Longhitano, 51enne di Roccafranca (Brescia), moglie e due figli, è morto mercoledì 8 gennaio a Trescore Cremasco (Cremona).

Titolare di un’azienda edile, Longhitano si trovava sul tetto di un’officina per alcune riparazioni quando all’improvviso una lastra ha ceduto e il lavoratore è caduto da un’altezza di 5 metri, riportando lesioni fatali.

Gino Creuso, 62enne agricoltore di Giugliano in Campania, è morto mercoledì 8 gennaio nella fattoria didattica di famiglia, la Farm 9.1.

Nelle prime ore del mattino, quando era da solo, è stato incornato al torace da un vitello di 6 quintali.

Creuso è stato trovato agonizzante dai familiari, che hanno lanciato l’allarme, ma 40 minuti di manovre di rianimazione dei soccorritori non hanno avuto effetto e l’agricoltore è deceduto per le gravi lesioni.

Un 48enne lavoratore amministrativo del carcere di Paola (Cosenza), mercoledì 8 gennaio è stato trovato impiccato nella palestra della casa circondariale.

Si tratta del secondo suicidio in 24 ore nella struttura: martedì 7 gennaio a togliersi la vita era stato un detenuto in isolamento.

I sindacati sono tornati a chiedere misure di prevenzione rispetto a un fenomeno sempre più preoccupante, che colpisce tanto i detenuti quanto i lavoratori esposti al burnout.

Domenica 5 gennaio si è spento nell’ospedale di Padova il 56enne Luigi Bovolenta, agronomo di Vigonza (Padova).

Valutatore per Control Union, ente certificatore internazionale degli standard ambientali, da vent’anni operativo in Africa come auditor per la gestione forestale, il 19 dicembre era tornato dal Gabon per trascorrere le festività con la moglie e i due figli.

Dopo Natale quelli che sembravano sintomi influenzali sono diventati un malanno preoccupante. Le analisi cliniche il 31 dicembre hanno stabilito che Bovolenta era affetto da una grave forma di malaria, contratta in Africa.

Ricoverato nel reparto di malattie infettive, l’uomo si è aggravato e neanche il trasferimento in rianimazione è riuscito a salvargli la vita.

#marcogiannini#carmelolonghitano#ginocreuso#luigibovolenta#mortidilavoro

Gennaio 2025: 14 morti (sul lavoro 11; in itinere 3; media giorno 1,7)

2 Piemonte, Lombardia, Veneto, Puglia, Calabria (sul lavoro 2; in itinere 0), Toscana (1 – 1)

1 Campania (1 – 0); Marche (0 – 1)

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Attualità

Se si rispettasse il diritto internazionale, non si eseguirebbero mandati di cattura pretestuosi per puro servilismo nei confronti degli Usa. Se si rispettassero i diritti umani non ci sarebbe bisogno di spericolate trattative per lo scambio di ostaggi. Il caso Sala è stato l’insieme della due violazioni. Tutto il resto sono chiacchiere propagandistiche, pericolose quanto lo sono state le violazioni dei diritti fondamentali. 

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Altre 3 morti di lavoro.

Tre vittime del lavoro martedì 7 gennaio portano il totale dell’anno a 9, quasi un dimezzamento rispetto ai 17 morti nello stesso periodo del 2024.

Dal computo è stato espunto il nome di Mamadi Tunkara, vittima il 3 gennaio di un omicidio non legato al lavoro di addetto ai controlli in un Carrefour di Bergamo, come invece era sembrato in un primo momento.

Roberto Zanoletti, 56 anni compiuti il 6 gennaio, titolare della Zanoletti Selciatori di Clusone (Bergamo) è la prima vittima lombarda del 2025.

Martedì 7 gennaio, con l’aiuto di uno dei due figli, stava usando un’idropulitrice sui muri della sede aziendale. Per arrivare a pulire i punti più in alto, a oltre 6 metri dal suolo, avrebbe a quanto sembra ideato una soluzione precaria: è entrato in un cassone di legno che poi è stato innalzato sulle benne di un carrello elevatore manovrato dal figlio.

Per motivi da stabilire, Zanoletti è poi caduto da un’altezza di circa 3 metri, riportando lesioni che ne hanno causato la morte.

Anche Kaja Artan, 52 anni, albanese, era titolare di una ditta, la Tony Service, attiva nella movimentazione merci alla Smurfit Kappa di Lunata, a Capannori (Lucca).

Martedì 7 gennaio sua moglie, che alla Smurfit Kappa si occupava delle pulizie, si è allarmata non vedendolo rientrare ed è andata a cercarlo. Lo ha trovato esanime tra i bancali, con una ferita alla testa, morto.

Il muletto che Artan usava era regolarmente parcheggiato, per cui appare improbabile l’ipotesi di una caduta dal mezzo, mentre viene accreditata quella di un malore.

Valeria Piovano, 55enne autista della Gtt di Torino, martedì 7 gennaio è stata vittima di un malore al termine di una corsa della linea 12, in corso Vittorio.

Arrivata al capolinea la lavoratrice si è accasciata sul volante, un collega e i passanti hanno chiamato i soccorsi ma Piovano è morta poco dopo l’arrivo alle Molinette.

#RobertoZanoletti#artankaja#valeriapiovano#mortidilavoro

Gennaio 2025: 9 morti (sul lavoro 7; in itinere 2; media giorno 1,3)

2 Piemonte, Puglia (sul lavoro 2; in itinere 0)

1 Lombardia, Veneto, Toscana, Calabria (1 – 0); Marche (0 – 1)

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John Elkann farà vedere le Stellantis anche a Zuckerberg?

In piena era dello strapotere delle oligarchie tecno-finanziarie, ecco che Elkann entra in Meta.

“John è l’amministratore delegato di Exor e presidente di due delle aziende di portafoglio auto di Exor, Stellantis e Ferrari” – scrive Zuckerberg.

E continua: “Ha una profonda esperienza nella gestione di grandi aziende globali e porta una prospettiva internazionale al nostro consiglio”.

Che ne sarà delle promesse fatte al nostro governo circa l’automotive italiano? E che succederà al Gruppo Gedi che gestisce tra le altre testate Repubblica?

In attesa di eventi, la citata “profonda esperienza nella gestione di grandi aziende globali” dovrebbe cominciare a far preoccupare seriamente il personale di Fb, Instagram, Messenger e WA.

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Se per non estradare il cittadino iraniano negli Usa in modo da poter fare lo scambio che riporti a casa la cittadina italiana detenuta in Iran bisogna andare a baciare la pantofola al nuovo imperatore, vuol dire che da alleati siamo stati degradati a vassalli.

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Sette morti di lavoro in quattro giorni.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

È un netto calo rispetto alle 11 vittime nello stesso scorcio di tempo del 2024.

Differenza destinata probabilmente ad aumentare qualora venisse confermato che l’assassinio di Mamadi Tunkara, il 3 gennaio a Bergamo, non era legato alla sua attività di responsabile della sicurezza in un supermercato Carrefour.

Lucia Manfredi, 40enne medico dell’ospedale regionale Torrette di Ancona, è morta poco prima delle 8 di sabato 4 gennaio mentre in macchina raggiungeva il posto di lavoro.

La Panda della professionista è stata tamponata da una Bmw fuori controllo, forse per il ghiaccio, e scagliata contro una cabina della rete di distribuzione del gas.

Nell’urto Lucia Manfredi è stata sbalzata fuori dall’abitacolo ed è morta sul colpo. Deceduto anche il marito, il 48enne Diego Duca, soccorritore del 118 di Perugia, che sarebbe entrato in servizio a sera.

La coppia lascia un orfano di 10 anni e risiedeva a Fabriano, ma aveva affittato una stanza in un b&b di Ancona per permettere alla dottoressa Manfredi di essere più vicina al lavoro.

#LuciaManfredi#mamaditunkara#mortidilavoro

Gennaio 2025: 7 morti (sul lavoro 5; in itinere 2; media giorno 1,7)

2 Puglia (sul lavoro 2; in itinere 0)

1 Piemonte, Lombardia, Veneto, Calabria (1 – 0); Marche (0 – 1)

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Attualità

È una donna la prima vittima sul lavoro del 2025.

Sandra Pegoraro,

Non è una gara, ma per i media è come se lo fosse. Così in molti (troppi) titoli troviamo sottolineato lo status di prima vittima del lavoro nel 2025, neanche si trattasse di conferire una medaglia, sulla falsariga della corsa al primo/a nato/a.

Peraltro sbagliando due volte: si parla dei primi due lavoratori morti, invece siamo già a sei; inoltre leggiamo che la prima vittima è stata registrata il 3 gennaio in Calabria, quando così non è.

È una donna la prima vittima del 2025, si chiamava Sandra Pegoraro, aveva 54 anni e faceva l’operatrice sociosanitaria a Padova.

È morta mercoledì 1° gennaio dopo 10 giorni di ricovero in terapia intensiva. Domenica 22 dicembre 2024 era stata investita attraversando la strada alla fine del turno di lavoro, e non si era più ripresa dalle lesioni gravissime nonostante una fortissima fibra.

A maggio del 2022 era sopravvissuta a un tentato femminicidio, accoltellata più volte dall’ex compagno, e da allora si era dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne.

La seconda vittima del 2025 è il 37enne albanese Elton Prekaj, moglie e una figlia di 4 anni.

È morto giovedì 2 gennaio mentre lavorava nel bar di famiglia a Molfetta (Bari). Gravemente malato da tempo e in attesa di trapianto, si è accasciato nel locale ed è spirato.

Quattro le vittime di venerdì 3 gennaio.

Elio Appiano, 66enne ferroviere in pensione di Montafia (Asti), si è spento al Cto di Torino dove era ricoverato dal 31 dicembre. Quel giorno era al lavoro nei terreni di famiglia, come aveva sempre fatto, ed è stato travolto dal crollo di un albero che stava cercando di abbattere.

Francesco Stella, 38enne operaio di Lamezia Terme (Catanzaro), è morto cadendo da un’altezza di 6 metri mentre fissava impalcature alla Europrofil di San Pietro Lametino, frazione di Lamezia. Devastante il trauma cranico riportato.

Alessandro Losacco, 58enne operaio agricolo di Bari, è morto a Mola di Bari travolto da un furgone. Alla fine della giornata nei vigneti dell’azienda Tarulli di Noicattaro, si era fermato con il furgone carico degli attrezzi per chiudere un cancello.

Scendendo ha probabilmente trascurato di inserire il freno e il mezzo, in leggera discesa, si è mosso e lo ha travolto, uccidendolo.

Mamadi Tunkara, 36enne gambiano addetto alla sicurezza nella Carrefour di Bergamo, è stato ucciso con quattro coltellate da un uomo che gli ha teso un agguato in via Tiraboschi.

È accaduto mentre andava al lavoro in bici, mezzo che Tunkara usava ogni giorno per il tragitto da Verdello (Bergamo), dove viveva con il fratello.

Secondo alcune testimonianze l’omicida è un uomo con il quale aveva avuto una discussione, quasi certamente legata al suo lavoro, il 31 dicembre all’esterno del supermercato.

#sandrapegoraro#eltonprekaj#elioappiano#FrancescoStella#alessandrolosacco#mamaditunkara#mortidilavoro

Gennaio 2025: 6 morti (sul lavoro 5; in itinere 1; media giorno 2)

2 Puglia

1 Piemonte, Lombardia, Veneto, Calabria

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Attualità

Il bilancio provvisorio 2024: 1137 morti di lavoro.

Il 2024 si è concluso con un bilancio provvisorio di 1137 morti di lavoro, 67 in meno rispetto ai 1204 del 2023. Sono 867 le vittime durante il lavoro (-56), 270 quelle in itinere (-11)

La media quotidiana rimane superiore ai 3 morti al giorno, un numero immutabile da anni: 3,1 rispetto a 3,3 del 2023.

Il primato delle vittime appartiene saldamente alla Lombardia: 165 (+5). Al secondo posto la Campania con 113 (+4), che scavalca il Veneto (104, -21), mentre balza dal settimo al quarto posto la Sicilia con 90 morti (+12).

Dieci vittime in più in Emilia Romagna, che passa da 79 a 89. Più che dimezzati i morti di lavoro in Abruzzo (da 61 a 27), quasi dimezzati in Calabria (da 51 a 26).

Sfiora il raddoppio il Trentino, che passa da 11 a 21. Numeri relativamente stabili per tutte le altre regioni. Nei prossimi giorni un’analisi più articolata.

Nota finale per i dati diffusi dall’Osservatorio di Bologna del sempre benemerito Carlo Soricelli, che parlano di 1481 morti nel 2024. Una cifra senza alcun senso, comprensiva di incidenti domestici e non pochi doppioni.

Pompeo Mezzacapo, 39enne di Capodrise (Caserta), moglie e 3 figli, è morto martedì 31 dicembre per il ribaltamento del muletto con il quale stava operando alla Frigocaserta di Gricignano di Aversa.

Sayed Atef El Bendary, 24enne egiziano residente nel Cremonese, è morto martedì 31 dicembre precipitando da un’altezza di 10 metri alla ex Polenghi di Montanaso Lombardo (Lodi).

Impegnato nella riqualificazione dell’area, il lavoratore era sul tetto di un capannone che ha ceduto all’improvviso, senza lasciargli scampo.

Monia Massoli, 55enne di Marsciano (Perugia), intorno alle 18 di martedì 31 dicembre stava andando al lavoro in bici al ristorante Le Cerquelle, lungo la provinciale 375.

Era quasi giunta a destinazione quando è stata investita da un’automobile ed è morta sul posto.

Sergio Bonini, 66enne titolare di un’attività di home restaurant, è morto intorno alle 22 di martedì 31 dicembre mentre serviva il cenone per una trentina di persone a Godi di San Giorgio (Piacenza), vittima di un infarto.

Nel 2013 anche il padre era morto per arresto cardiaco il giorno di San Silvestro.

Renzo Villani, allevatore 61enne di Bardi (Parma), è morto domenica 29 dicembre per le gravi ferite riportate dopo essere stato caricato da un toro del suo allevamento.

#pompeomezzacapo#sayedatefelbendary#moniamassoli#sergiobonini#renzovillani#mortidilavoro

Dicembre 2024: 69 morti (sul lavoro 61; in itinere 8; media giorno 2,2)

Anno 2024: 1137 morti (sul lavoro 867; in itinere 270; media giorno 3,1)

165 Lombardia (117 sul lavoro – 48 in itinere)

113 Campania (96 – 17)

104 Veneto (73 – 31)

90 Sicilia (65 – 25)

89 Emilia Romagna (68 – 21)

88 Lazio (58 – 30)

71 Puglia (46 – 25)

68 Toscana (55 – 13)

67 Piemonte (53 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

26 Calabria (21 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Friuli V.G. (18 – 4), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

19 Umbria (14 – 5)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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La polizia italiana la trovi su Globo. Sei negli Usa e vuoi ordinare l’arresto di un cittadino iraniano? Vai su Glovo. Sei a Tel Aviv e desideri scaraventare giù da un volo un cittadino belga? C’è Glovo. I poliziotti italiani fanno sempre e soltanto quello viene loro ordinato, anche dall’Estero, soprattutto dall’Estero. Sono i campioni del Glovo terraqueo.

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Attualità

La storia si ripete, si ripete, si ripete.

Nessuna grande potenza si muove secondo parametri, o presupposti, ideologici ma, unicamente, di ‘realismo politico’: ovviamente ammantato di obiettivi nobili e idealità ‘alte’.

Tutti ingredienti indispensabili, anzi vitali, per la propaganda.

Della quale non è il caso di rimarcare qui l’importanza cruciale.

La pervasiva ‘macchina’ del Dott. Goebbels nella prima metà del Novecento e la retorica bolsa del ‘mondo libero’ nella seconda metà resero appetibile qualunque intruglio, anche il più rancido.

La parola d’ordine con cui Sparta nel 431 optò per la guerra e invase l’Attica era, ben si sa, portare ‘la libertà’ ai Greci. (Luciano Canfora, “La grande guerra del Peloponneso”, Laterza.)

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Attualità

Dedicato al governo italiano, sostenuto da un maggioranza che dice di credere nei valori del cristianesimo, ma poi fa finta di non sapere che dare armi significa fomentare le guerre.

CELESTINO V Il mio primo dovere, come papa, è di salvaguardare un’altra continuità, quella della fede cristiana. Se ora acconsentissi ad alcune esigenze del re, la tradirei.

L’AIUTANTE Vi riferite all’invito di benedire le truppe in partenza per la Sicilia?

CELESTINO V Avete indovinato.

L’AIUTANTE Voi sapete che è una spedizione legittima. Persistete nel vostro rifiuto?

CELESTINO V A qualunque costo. Ve lo ripeto una volta per sempre: non posso benedire alcuna impresa di guerra. Sapete a che cosa si riduce l’insegnamento morale di Cristo? Dovreste saperlo, poiché anche voi vi dichiarate cristiano; ma ve lo ricordo per il caso l’abbiate dimenticato. Si riduce a due parole: vogliatevi bene. Vogliate bene al prossimo, e anche ai nemici. Noi uomini siamo tutti figli dello stesso Padre.

L’AIUTANTE Santità, nessuno intende censurare i vostri pensieri e sentimenti nell’atto della benedizione. Ma per il re, come per l’esercito, è importante ch’essa abbia luogo. Essa sarà significativa anche per gli altri regnanti d’Europa.

CELESTINO V Cercate di capirmi, vi prego. Perfino se in un momento di debolezza io consentissi a impartire la benedizione che mi chiedete, mi sarebbe poi fisicamente impossibile eseguirla. Perché? Figlio mio, non dovrebbe essere difficile immaginarlo. Il segno della benedizione cristiana è quello della Croce.

Voi sapete, vero, che cos’è la Croce? E le parole della benedizione sono: in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Se ho ben inteso, voi mi avete suggerito di dare la benedizione ai soldati in procinto di partire per la guerra, pensando ad altro. Avete voluto scherzare? Sarebbe un orribile sacrilegio.

Col segno della Croce e i nomi della Trinità, si può benedire il pane, la minestra, l’olio, l’acqua, il vino, se volete anche gli strumenti da lavoro, l’aratro, la zappa del contadino, la pialla del falegname, e così di seguito; ma non le armi. Se avete un assoluto bisogno di un rito propiziatorio, cercatevi qualcuno che lo faccia in nome di Satana. È stato lui a inventarle le armi.

L’AIUTANTE Voi sapete che altri papi, prima di voi, hanno benedetto delle guerre.

CELESTINO V Non sta a me di giudicarli. Io posso solo pregare Iddio di avere misericordia di essi.” (da “L’avventura d’un povero cristiano” di “Ignazio Silone”).

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Attualità

Che fine hanno fatto i fatti?

Secondo i dati ufficiali, nel 2024 il Tg1 ha perso 163.414 ascoltatori, pari a meno 3,79%, mentre il Tg2 sprofonda a meno 8,88%, pari a 96.782 telespettatori in meno.

Anche il Tg3, scende dello 0,44% e perde 7.522 spettatori. Sembra poco, tuttavia risulterebbe che Rai 3 perda complessivamente molti telespettatori. Quanti?

Lo chiediamo a ChatGpt che cosi risponde:

“Non dispongo di dati aggiornati in tempo reale, compresi quelli sui telespettatori di Rai 3. Tuttavia, la perdita di telespettatori è un fenomeno che può verificarsi per vari motivi, come la concorrenza di altre reti, il cambiamento delle abitudini di visione, o la popolarità dei contenuti offerti. Ti consiglio di controllare fonti affidabili come articoli di notizie o rapporti di analisi sui media per avere informazioni aggiornate e precise.”

Ecco. Hai bisogno di fatti e ricevi commenti, addirittura consigli. È questa sarebbe intelligenza artificiale? O forse è solo artificiosa, per non dire arrogante. Insomma, sembrerebbe intelligenza col nemico, cioè la disinformazione.

Come quella che ci ha offerto, per esempio, Il Mattino di Napoli, rilanciato da Google, che scrive: “Il Tg1 diretto da Gian Marco Chiocci resta il telegiornale più seguito in Italia nel 2024”. Ci siamo scordati quei 163 mila telespettatori persi? Cose che succedono quando il direttore (Roberto Napolitano) vuole compiacere l’editore (Gaetano Caltagirone) che a sua volta non vuole interferenze con Telemeloni.

Chissà perché poi i quotidiani perdono lettori, proprio come i telegiornali del servizio pubblico. Comunque sia, non provate nemmeno a chiederlo all’AI.

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Attualità

Morire di lavoro durante le feste natalizie.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Filippo Masi, 59 anni, capoturno del comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Milano, è morto nella serata di venerdì 27 novembre mentre tornava a casa dal lavoro.

Un incidente stradale sulla provinciale 11, nel territorio di Settimo Milanese, dai contorni ancora non chiari. Masi, al quale mancavano poche settimane alla pensione, si è schiantato in moto contro il guardrail.

Il primo a soccorrerlo è stato un collega, poi sono arrivati i medici che ne hanno disposto il trasferimento all’ospedale San Carlo, dove il vigile del fuoco è deceduto poco dopo il ricovero.

Giovanni Paolo Giordano, 52 anni, moglie e 4 figli, è morto venerdì 27 dicembre a Isola Capo Rizzuto (Crotone), a causa del ribaltamento di un muletto.

Trasportando materiali da utilizzare nella casa estiva (viveva nelle Marche), l’uomo ha imboccato una strada in discesa e ha perso il controllo del muletto, che si è ribaltato e lo ha schiacciato, uccidendolo sul colpo.

Un 26enne di cui non conosciamo ancora le generalità, è morto venerdì 27 dicembre a Nettuno (Roma), tentando di fermare l’automobile rimessasi in marcia mentre apriva il cancello per andare al lavoro. Il ragazzo è rimasto schiacciato tra la macchina e il cancello.

Maurizio Mazzeo, 52enne dipendente dell’Amsa di Milano, è morto martedì 24 dicembre schiacciato dal mezzo di servizio contro un’automobile, mentre procedeva alle ultime pulizie stradali prima della fine del turno.

Gerardo De Letteriis, 73enne di San Severo (Foggia), è morto alle prime ore di martedì 24 dicembre in un incidente stradale sulla statale 106 a Massafra (Taranto).

Tornava a San Severo dalla Sicilia con un furgone carico di frutta quando si è scontrato frontalmente con l’automobile di un uomo risultato poi positivo ai test per cannabis e cocaina.

Carlo Calvagna, 39enne di Misterbianco (Catania), autista del corriere Ingo Trasporti, è morto lunedì 23 dicembre sulla tangenziale del capoluogo etneo.

Calvagna è finito in testacoda con il furgone aziendale, che è stato poi investito da un’autocisterna.

#filippomasi#gianpaologiordano#mauriziomazzeo#gerardodeletteriis#carlocalvagna#mortidilavoro

Dicembre 2024: 60 morti (sul lavoro 54; in itinere 6; media giorno 2,2)

Anno 2024: 1128 morti (sul lavoro 860; in itinere 268; media giorno 3,1)

162 Lombardia (114 sul lavoro – 48 in itinere)

112 Campania (95 – 17)

104 Veneto (73 – 31)

90 Sicilia (65 – 25)

88 Lazio (58 – 30)

87 Emilia Romagna (66 – 21)

70 Puglia (46 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

26 Calabria (21 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Friuli V.G. (18 – 4), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

Come al solito gli americani ci mettono nei guai.

(Courtesy by Makkox, Il Foglio).

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Attualità

Secondo il New York Times, che ha indagato su come sia stato possibile arrivare a oltre 45 mila morti in 14 mesi di guerra nella Striscia di Gaza, “Israele ha cambiato le regole di ingaggio, ammettendo la possibilità di 20 ‘vittime collaterali’ per ogni raid su Hamas”. Dunque, ecco la ‘variante Netanyahu’, cioè il nuovo paradigma politico-militare che sancisce il capovolgimento delle regole: il vero obiettivo da colpire e annientare sono i civili, i miliziani di Hamas sono solo ‘danni collaterali’.

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Attualità

“La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili”.

Barbarie o ecosocialismo. Perché sinistra ed ecologia hanno bisogno l’una dell’altra.

di Caterina Orsenigo, Treccani

A denunciare la crisi climatica al governo americano ci hanno pensato in molti negli ultimi settant’anni. Fra i tanti esempi che si potrebbero citare, una delle voci più critiche è sicuramente quella di James Hansen, climatologo di fama mondiale ed ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. “Il pianeta Terra, la creazione, il mondo in cui si è sviluppata la civiltà, il mondo con le norme climatiche che conosciamo e con spiagge oceaniche stabili, è in pericolo imminente”, scriveva Hansen in un libro del 2009, tornato in stampa con il titolo Tempeste (Edizioni Ambiente, 2023). E continuava, con senso di urgenza e preoccupazione: “la conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili della Terra minaccia non solo i milioni di specie sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo”.

Sono passati quindici anni da quel grido di allarme e questo oscuro 2024 ha visto alcune delle manifestazioni finora più dure della crisi climatica, fra alluvioni, uragani e ondate di calore. Poche settimane fa il servizio di osservazione climatico europeo Copernicus ha annunciato che sarà non solo l’anno più caldo mai registrato ma anche il primo interamente oltre la soglia dei +1,5°C. Questo stesso oscuro 2024 ha visto anche un susseguirsi di elezioni espressamente “contro il clima”: l’ultima, quella di Donald Trump negli Stati Uniti, si promette già come un grande passo indietro nel contrasto al riscaldamento globale. E intanto sono calate le forze dei movimenti, mentre si sono irrigidite le misure di repressione.

È proprio in questo momento così buio che escono una dopo l’altra edizioni e riedizioni di manuali di ecosocialismo, le quali rivendicano con altrettanta urgenza la necessità di uscire dal sistema economico capitalista, considerato la vera grande causa della minaccia per la civiltà umana annunciata da Hansen. Tra questi testi, spiccano in particolare Ecosocialismo del sociologo francese Michael Lowy (Ombrecorte, 2024), Manifesto ecosocialista del politologo e Presidente del partito socialista belga Paul Magnette (Treccani, 2024), così come L’ecosocialismo di Karl Marx (Castelvecchi, 2023) e Il capitale nell’Antropocene (Einaudi, 2024) del filosofo giapponese Kohei Saito. Ma cos’è dunque l’ecosocialismo? Lowy risponde definendolo come “una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre lo libera dalle sue scorie produttiviste”.

Tutt’altro che di nuovo conio, l’ecosocialismo viene da lontano: sul piano teorico si è sviluppato in particolare a partire dagli anni Settanta, mentre il termine si cominciò a usare soprattutto dagli anni Ottanta, quando una corrente interna al partito dei Verdi tedesco si definì in questo modo, mentre negli Stati Uniti l’economista James O’Connor fondava la rivista Capitalism, Nature, Socialism. È interessante notare come il discorso sull’ecosocialismo abbia iniziato a diffondersi proprio negli anni Ottanta: sono quelli di Regan negli Stati Uniti e della Tatcher in Inghilterra, delle privatizzazioni, del culto dell’individuo che scalzava le lotte e l’impegno politico dei due precedenti decenni. È il momento in cui almeno in questa parte di mondo si tagliarono i lacci con tutto ciò che di socialista ancora permaneva nell’Europa capitalista.

Furono fatte scelte politiche ed economiche e soprattutto furono affermati valori politici ed economici da cui ormai sembra impossibile liberarsi. Valori che a un certo punto la sinistra ha fatto suoi, rinunciando al welfare in nome del profitto, abdicando a se stessa e perdendo così di consenso tra i lavoratori e le classi sociali vulnerabili. Poco dopo, nel 1992, fu firmata la Convenzione quadro della Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: da allora le emissioni sono quasi raddoppiate. Insomma si rivendicava l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo vinceva la propria battaglia. L’urgenza con cui oggi almeno in piccole bolle si torna a leggere Marx e ad affermare la necessità di mettere fine al capitalismo, proprio mentre politica ed economia vanno in tutt’altra direzione, ha forse qualcosa di simile.

Oggi come negli anni Ottanta si torna a rivendicare l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo sembra vincere la propria battaglia.

La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili, che in una società di disuguaglianze non possono essere diritti di tutti. Ha accettato l’eredità degli anni Ottanta e ha creduto di doverla difendere. Non potendo più parlare di welfare e di lavoro, si è concentrata appunto sui diritti civili, spogliandoli però di ogni traccia di conflitto. Ha cancellato la parola “classe” dal proprio vocabolario e ha smesso di contestare il capitalismo, con il produttivismo, l’estrattivismo e il colonialismo che esso si porta appresso, ed è diventato quasi impossibile distinguerla dalla destra. Allo stesso modo, l’ambientalismo più recente ha faticato molto a introiettare questi concetti. L’accusa di Lowy in questo senso è lapidaria:

Gli ecologisti si sbagliano se pensano di poter ignorare la critica marxiana del capitalismo: un’ecologia che non si rende conto del rapporto tra “produttivismo” e logica del profitto è votata al fallimento – o peggio, al recupero da parte del sistema. Non mancano gli esempi. La mancanza di una coerente posizione anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei – della Francia, della Germania, dell’Italia e del Belgio – a diventare dei semplici partner “ecoriformisti” della gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra. Considerando i lavoratori come irrimediabilmente condannati al produttivismo, alcuni ambientalisti tendono a ignorare il movimento operaio e hanno scritto sulla loro bandiera: “Né di sinistra né di destra”. Ex marxisti convertiti all’ecologia dichiarano frettolosamente “addio alla classe operaia” (André Gorz), mentre altri (Alain Lipietz) insistono sul fatto che dobbiamo lasciare il “rosso” – cioè il marxismo o il socialismo – per aderire al “verde”, un nuovo paradigma che fornirebbe una risposta a tutti i problemi economici e sociali.

Per Lowy, in sostanza, se “il socialismo non ecologico è un vicolo cieco”, allora “l’ecologia non socialista è incapace di affrontare le sfide attuali”. Leggere queste righe dopo la disfatta di Kamala Harris e l’ondata di green backlash che ha invaso l’Europa nella prima metà del 2024 (per sfociare anche qui in elezioni vinte da ecoscettici), è particolarmente significativo. Forse per questo proprio ora si avvicendano tutte queste pubblicazioni sull’ecosocialismo e la sua riattualizzazione: la situazione attorno è spaventosa, e allora c’è chi sente la necessità di ripartire dalle radici e tornare a occuparsi di economia. E partire dalle radici, come spesso succede, è ripartire da Marx.

Il lavoro di Saito è soprattutto questo, confrontarsi con il pensiero marxiano per riappropriarsene oggi, mostrando come l’insostenibilità ambientale fosse divenuta, a un certo punto, addirittura centrale nel suo pensiero. Lowy non condivide del tutto questa lettura: in Marx a suo avviso mancava una visione ecologica d’insieme, perché non era possibile averla agli albori della civiltà capitalistico-industriale. E tuttavia c’era in Marx, innegabilmente, una profonda consapevolezza: dal discorso della rottura metabolica all’accento sulla contraddizione fra tempi del capitalismo e dell’agricoltura, fino a una lettura del consumo di suolo in termini molto vicini al concetto di estrattivismo (l’“arte di rapinare la terra” è messa in relazione all’“arte di rapinare l’operaio”). Certe questioni non venivano poste direttamente, ma in nuce c’erano già molti dei fondamenti dell’ecologismo e molto del pensiero di cui abbiamo bisogno oggi per costruirne uno nuovo.

Dal canto suo, Paul Magnette si concentra soprattutto sul presente, mostrando come l’ecologismo sia la nuova lotta di classe. È la nuova lotta di classe perché sono le classi più ricche a emettere di più e le classi più svantaggiate a essere più esposte alla crisi climatica, ma anche perché lottare contro la crisi climatica significa necessariamente intervenire sulle disuguaglianze. Lowy prova invece a disegnare una traccia di quello che può essere un sistema economico ecosocialista in una democrazia oggi: affrontare la crisi climatica non può ridursi a una scelta fra il capitalismo verde, con una crescita garantita dal progresso tecnico, o al contrario una decrescita che metta in discussione l’uso di qualsiasi tecnologia, della medicina, della possibilità di spostarsi, e la democrazia stessa. Si tratta piuttosto di operare una trasformazione non quantitativa ma qualitativa dello sviluppo, in cui si metta fine prima di tutto alla produzione di beni inutili o dannosi come le armi, riconvertendo la produzione verso prodotti utili e sostenibili in quantità che non superino il fabbisogno reale. Non tanto e non solo ridurre il tenore di vita delle popolazioni del nord globale, ma sbarazzarsi di ciò che non serve, dal più piccolo ammennicolo di plastica fino al jet privato e lo yacht. E in mezzo il trasporto su gomma delle merci per tratte molto lunghe, l’agribusiness e la pubblicità (che “non potrebbe sopravvivere un solo istante in una società post-capitalista”).

La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili.

Ma nell’entropia di decisioni a breve termine prese da innumerevoli rappresentanti politici e dirigenti di azienda, fare scelte con una coerenza e una ricaduta positiva sul piano climatico e sociale è difficilissimo. Per questo Richard Smith, economista citato Lowy, osserva che “se è impossibile applicare delle riforme al capitalismo al fine di mettere i benefici al servizio della sopravvivenza umana, quale alternativa c’è se non optare per una sorta di economia pianificata a livello nazionale e internazionale? Problemi come il cambiamento climatico richiedono la ‘mano visibile’ della pianificazione diretta”. Pianificazione è la parola chiave: una pianificazione democratica che implicherebbe innanzitutto di sopprimere tutti i settori produttivi dannosi, a partire da una rivoluzione nel sistema energetico. E quindi, necessariamente se l’obiettivo torna a essere il bene comune, avremmo un controllo pubblico dei mezzi di produzione, in modo che le decisioni di politica pubblica relative a transizione tecnologica e grossi investimenti non siano in mano a banche e imprese.

Lowy immagina un’organizzazione razionale e dal basso, che abbia come timone il bene comune e non il profitto di pochi e risponda non al valore di scambio ma al reale valore d’uso: “in questo senso, l’intera società sarà libera di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare e il livello delle risorse che dovranno essere investite nell’istruzione, nella sanità o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderebbero più alla legge della domanda e dell’offerta, ma sarebbero determinati il più possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici”. Una pianificazione non dispotica ma democratica proprio perché libera “da ‘leggi economiche’ e ‘gabbie d’acciaio’ alienanti che sono le strutture capitalistiche e burocratiche”. Per fare un esempio concreto, sarebbe pubblica una scelta come la conversione della produzione di un’azienda da auto private a mobilità pubblica o cargobike, ma l’organizzazione interna invece spetterebbe agli stessi lavoratori: è quello che sta cercando di fare il collettivo di fabbrica ex-GKN, dove la scelta di transizione è arrivata dagli operai stessi proprio perché nell’attuale sistema economico scelte così coraggiose non riescono a venire dallo stato. Per Lowy, Saito e Magnette i movimenti operai sono fondamentali, anzi primari, per una transizione verso una società giusta e sostenibile.

Certo l’ecosocialismo costa, o almeno costa arrivarci, ma di proposte in merito non ne mancano. I fondi pubblici che ora vanno in armi e sussidi per auto a combustione, per esempio, potrebbero invece essere destinati a investimenti sulle rinnovabili e formazione dei lavoratori. Paul Magnette calca la mano soprattutto sul sistema fiscale. Un sistema fiscale redistributivo ha funzionato persino negli Stati Unti e in Inghilterra fino agli anni Ottanta, per poi essere progressivamente smantellato, facendo aumentare la quota di ricchezza dei super ricchi, mentre i nove decimi della popolazione hanno visto diminuire la propria. Farne a meno è stato un errore, ma se è già esistito si può fare di nuovo. Non solo: tassare i “super ricchi” vuol dire tagliare le emissioni, proprio perché sono coloro che emettono di più. Se poi oltre ai salari minimi si stabilissero dei redditi massimi, in modo che non possano superare più quattro volte quello necessario per avere una vita dignitosa, solo il 2% della popolazione vedrebbe diminuire il suo reddito ma si eviterebbero grosse forbici di disuguaglianza e ingiustificabili concentrazioni di ricchezza.

Utopie? Piuttosto, direzioni. Il capitalismo ha creato la crisi climatica e gli inutili tentativi di finanziarizzazione della natura hanno dimostrato che non sarà il capitalismo a risolvere il problema, anzi. Magnette, in parte Saito, ma soprattutto Lowy provano a immaginare concretamente una società alternativa ed è esattamente quello di cui abbiamo bisogno. Un’immaginazione fervida e concreta per dipingere una società realistica e completamente diversa da quella in cui siamo immersi. Solo se una larga schiera di politici si riconciliasse con concetti come questi – lavoro, pianificazione, proprietà pubblica dei mezzi di produzione, welfare – smettendo di cercare voti imitando la destra e mostrificando un avversario a cui somigliano sempre di più, torneranno forse a vincere le elezioni e a poter fare la differenza, che non fanno quasi mai.

Caterina Orsenigo è editor e giornalista. È laureata in filosofia a Milano e in letterature comparate a Parigi. Scrive di letteratura, crisi climatica e mitologia per diversi giornali e riviste. Organizza passeggiate letterarie con l’associazione piedipagina e con Prospero Editore ha pubblicato il romanzo di viaggio “Con tutti i mezzi necessari”.

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C’è una via d’uscita da questo futuro sempre più nero?

Le sfide e le incognite del 2025

di Unione sindacale di base

A dispetto dei toni trionfalistici del governo Meloni le previsioni per il prossimo anno sono di un serio peggioramento di tutti gli indici economici. C’è una crisi industriale che ha già prodotto più di 50milioni di ore di cassaintegrazione e che è destinata a franare sul sistema produttivo italiano a causa di due fattori difficilmente aggirabili: la politica dei dazi più volte annunciata da Trump (+20% sui prodotti europei) e il peso dei costi aggiuntivi dell’energia, che continuerà a gravare su tutto il sistema economico e sul settore manifatturiero in particolare. Se a questo poi si aggiunge il diktat del nuovo presidente americano di innalzare fino al 5% del PIL le spese per la difesa dei paesi europei, con effetti facilmente immaginabili sui bilanci pubblici degli Stati UE, le prospettive diventano allarmanti.

Il 2025, quindi, sarà molto probabilmente un anno di forte crisi industriale per l’Italia e per tutta l’Europa. Nella concorrenza internazionale sempre più accesa i paesi della UE sono arrivati in forte debito d’ossigeno sia rispetto alla Cina che agli USA e sono in ritardo in tutti i settori di punta del sistema produttivo, a cominciare dall’automotive. Per decenni hanno confidato nella politica dei bassi salari e nell’economia dell’export, ma oggi che esportare è diventato molto più complicato e che i mercati sono in forte contrazione non hanno molte vie d’uscita.

Draghi ha proposto da tempo la sua ricetta: rafforzare la tecnocrazia europea con il voto a maggioranza e investire in sicurezza, a cominciare dagli armamenti, e nei settori strategici.  È l’idea che serva un capitalismo politico e autoritario, che superi lo stato di diritto e promuova un forte intreccio tra grande impresa e organi dello Stato, e prepari la UE ad assolvere al ruolo di grande potenza. Una dottrina che sembra ispirare tutto l’Occidente e che a Washington assume la forma del DOGE, il nuovo Dipartimento per efficienza amministrativa, guidato da Musk e creato da Trump, per mettere tutta la pubblica amministrazione sotto il controllo della grande azienda privata.

La proposta di Draghi risente della scelta di legarsi al carro dell’Occidente, ai voleri degli USA e alle dinamiche delle economie europee più forti, che è esattamente la scelta che ha condannato il nostro paese ad una condizione di subalternità. In questa proposta c’è un sottinteso che non viene esplicitato e cioè che l’unico modo per reggere la fortissima competitività internazionale è ancora una volta la compressione dei salari e la privatizzazione di tutto ciò che può essere sottratto all’economia pubblica.

Questa proposta, per ora l’unica organicamente formulata a scala continentale, che raccoglie l’approvazione non solo della Commissione Europea ma anche del governo Meloni, è destinata a scontrarsi con numerose incognite. Innanzitutto, gli effetti della nuova leadership statunitense, che lascia presagire una relazione meno amichevole che in passato con i paesi europei e il desiderio di stabilire relazioni con i singoli Stati piuttosto che con la UE. Poi l’instabilità politica che sta investendo i maggiori membri della stessa UE, Germania e Francia, che potrebbe portare ad una vera e propria crisi degli equilibri continentali. E infine, ma non certo meno importante, gli effetti della crisi sociale che le ricette di Draghi sono destinate a produrre e che potrebbe aprire a nuovi scenari.

Gli unici dati certi di questa direzione di marcia nella quale siamo incanalati sono il peggioramento delle condizioni di vita, l’aumento delle disuguaglianze sociali e la corsa al riarmo, con il coinvolgimento crescente del nostro Paese dentro gli scenari di guerra. La Meloni è appena tornata da un vertice in Lapponia nel quale ha condiviso il rinnovato interesse italiano per l’Africa e non a caso i vertici militari del nostro esercito prefigurano l’apertura di nuovi scenari di guerra proprio in quel continente. 

Non c’è dubbio che la crisi nella quale stiamo precipitando non è assimilabile a quelle che abbiamo vissuto nel recente passato. È innegabile il suo carattere globale e l’intreccio molto forte con la guerra mondiale a pezzi nella quale siamo immersi già da due anni. La ristrutturazione che sta investendo il sistema produttivo continentale non è dettata quindi solo da esigenze di competizione economica ma risponde anche a calcoli geopolitici e ad una logica di guerra. La saturazione dei mercati mondiali ha acceso una competizione senza limiti su scala globale e questo sta spingendo il pianeta verso la proliferazione dei conflitti. La corsa al riarmo risponde proprio a questa dinamica: investire capitali eccedenti in un settore protetto come quello della difesa, dove le risorse sono assicurate dai bilanci statali, e sostenere il proprio esercito nello scontro globale.

In questa situazione sono in movimento altri due fattori: la repressione del dissenso e il rafforzamento della propaganda patriottica, indispensabili entrambi a garantire una compattezza del fronte interno, mentre ci si prepara a sempre nuove “avventure” per garantire gli interessi delle grandi imprese italiane ed europee. Mentre sul primo fronte operano le nuove leggi repressive come il ddl 1660, la messa sotto controllo della magistratura, i progetti di nuove riforme costituzionali, l’idea ricorrente di rendere ancora più restrittiva la legge sugli scioperi, il secondo fronte, quello della propaganda, spazia a tutto campo e investe il mondo della cultura, della scuola, dello spettacolo e delle libertà private. Un brutto vento di restaurazione culturale soffia forte nel nostro paese e mostra il suo vero volto nel sostegno che il governo Meloni continua a dare a Netanyahu.

C’è una via d’uscita da questo futuro sempre più nero? E che ruolo può giocare la nostra organizzazione sindacale per invertire la rotta?

La via d’uscita è un cambio di prospettiva, puntare sul mercato interno e il rilancio dei consumi, la reindustrializzazione del paese finalizzata però non all’export né tantomeno alla guerra ma alla crescita del benessere della nostra popolazione. Noi non dobbiamo conquistare i mercati ma dare una risposta alle tante difficoltà del nostro paese, dalla prevenzione dei disastri naturali alla sanità pubblica, dalla valorizzazione del nostro paesaggio e delle tante risorse storiche e culturali all’ammodernamento del sistema dei trasporti ferroviari che in alcune regioni quasi non esiste, dal rilancio dell’edilizia popolare alla messa in sicurezza di tanta parte del nostro sistema immobiliare pubblico. E aprirci allo scambio economico con tutti i paesi che sono disposti a farlo su un piano di parità, guardando innanzitutto a sud e alle sponde del Mediterraneo

Ma il primo punto di questo programma, che oggi non ha interlocutori in Parlamento, è la battaglia vitale per far alzare i salari. Senza una forte ripresa delle retribuzioni, delle pensioni e degli stessi ammortizzatori sociali, che sono diventati ormai per tantissimi l’unica fonte di sopravvivenza, non c’è verso di rilanciare consumi e mercato interni e innescare così un cambio di marcia.

Proprio sul salario, quindi, si gioca la partita cruciale del 2025. Vale per i lavoratori pubblici, dove nelle Funzioni centrali si è già consumato uno strappo molto pesante della Cisl e del sindacalismo autonomo che hanno deciso di firmare al ribasso in solitaria. Vale per i lavoratori del trasporto pubblico locale, che hanno recentemente scioperato in massa e si sono visti beffare da una pre-intesa sul contratto che vale 122 euro a scadenza. E vale per il settore delle ferrovie dove si preparano a promuovere altra flessibilità in cambio di paghe in discesa.

La partita del salario investe in realtà tutte le categorie. Dai settori sottoposti ad una pesante ristrutturazione, che sono in particolari quelli operai, a tutte le categorie povere dei servizi, che sono quelle che in questi anni hanno perso di più in termini di potere d’acquisto, non potendo nemmeno usufruire della contrattazione di secondo livello. I padroni trascurano di raccontare i favolosi guadagni di questi anni, la loro unica preoccupazione è che i margini di profitto sembrano destinati a contrarsi nei prossimi anni. E corrono ai ripari adottando la strategia di sempre, far pagare a noi, a chi lavora, il costo di questa ennesima crisi. Questo spiega i contratti al ribasso, l’aumento dei carichi di lavoro e della flessibilità oraria, l’indisponibilità ad affrontare in modo serio la questione della sicurezza sul lavoro, l’inserimento di nuova tecnologia al solo scopo di risparmiare lavoro piuttosto che di favorire una forte e generalizzata riduzione degli orari.

Un filo logico lega la questione del salario alla possibilità di cambiare l’indirizzo che ha preso il Paese. Innanzitutto, è questione generale, riguarda tutti i lavoratori ed ha quindi la potenzialità di essere un fattore che accomuna. Parla di una questione molto concreta, il diritto a non vedersi sottrarre altre risorse da parte di chi in questi anni si è arricchito e lo ha fatto aumentando il tasso di sfruttamento. Propone di investire sul benessere interno e la cura del territorio piuttosto che in armamenti e conquista di mercati esteri. E allude quindi all’unica via d’uscita dalla crisi che stiamo vivendo che non sia l’incubo di uno scenario di guerra.

Questa è la sfida che abbiamo davanti nel prossimo anno e per la quale vale la pena investire tutte le nostre forze.

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C’era una volta la disuguaglianza. La notizia è che c’è ancora.

di Ignazio Silone

La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su questi due piuoli si spartiscono anche gli artigiani: un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno una botteguccia e qualche rudimentale utensile; per strada, gli altri.

Durante varie generazioni i cafoni, i braccianti, i manovali, gli artigiani poveri si piegano a sforzi, a privazioni, a sacrifici inauditi per salire quel gradino infimo della scala sociale; ma raramente vi riescono.

La consacrazione dei fortunati è il matrimonio con una figlia di piccoli proprietari.

Ma se si tiene conto che vi sono terre attorno a Fontamara dove chi semina un quintale di grano, talvolta non ne raccoglie che un quintale, si capisce come non sia raro che dalla condizione di piccolo proprietario, penosamente raggiunta, si ricada in quella del cafone.

(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.)” (da “Fontamara” di “Ignazio Silone”).

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Il 2025 non sarà un buon anno.

di Francesco Piccioni, contropiano.org.

I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.

Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.

Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee. 

Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.

Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.

I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali ad esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).

Il tutto è riassumibile nell’assenza totale di qualsiasi orientamento pubblico (statale o comunitario) che andasse al di là dell’occhiuta sorveglianza di “regole di bilancio” così perfette – sulla carta – da esser sempre state violate da quasi tutti i paesi membri. Ora che tocca anche alla Germania, come si dice, il re è nudo.

Come sintetizza Karnitschnig, tutto questo “ha funzionato… finché non ha funzionato più”. “Il pilota automatico”. alla fine, ci ha portato contro gli scogli…

Molto interessante, ancorché detta di sfuggita, la valutazione di quanto questo modello economico, nel riuscito tentativo di prolungare la propria esistenza senza grandi cambiamenti, abbia contribuito a conquistare l’Est europeo veicolando anche l’allargamento della Nato. Fino ad incontrare la barriera russa…

Nelle analisi sull’espansione della Nato, fatte a sinistra, ci si concentra in effetti fin troppo spesso sul bisogno degli Stati Uniti di rafforzare la propria egemonia portando sempre più ad est le proprie basi militari. Karnitschnig – certo involontariamente – rimette invece al centro quelle ragioni “strutturali” che ogni allievo di Marx dovrebbe ricordare a memoria.

La “conquista dell’Est” è avvenuta secondo il format messo a punto nella riunificazione tedesca (l’Anschluss, secondo la brillante definizione di Vladimiro Giacché), e il suo successo era fondato su pochi ma decisivi pilastri: basso costo dell’energia grazie al gas russo, bassi salari per popolazioni di lavoratori comunque istruite e immediatamente inseribili nel ciclo produttivo, immagine vincente dell’Occidente sul resto del mondo (rafforzato da guerre asimmetriche contro avversari troppo più deboli), superiorità tecnologica (ma solo nei settori maturi, come l’automotive).

Il legame tra successo ed espansione è quindi solare: solo allargando ulteriormente lo spazio da annettere all’Europa capitalistica (e dunque anche alla Nato) quel modello poteva prolungare la propria vita senza troppi scossoni.

Si comprende meglio, a questo punto, cosa volesse dire Mario Draghi a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, quando affermava quasi ogni giorno “La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile, ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica, ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”.

Sfrondata dalla retorica sui presunti “valori” (si è visto quanto fossero concreti quando Israele, con il supporto di tutto l’Occidente, ha cominciato la sua opera di genocidio in Palestina e di aggressione a tutto il Medio Oriente), Draghi faceva coincidere il successo della UE con la possibilità di proseguire l’espansione ad Est, annettendo anche l’Ucraina… e poi si sarebbe visto.

Si comprende dunque meglio, anche, la “strana” condiscendenza europea verso l’aggressività statunitense persino quando questa demoliva asset e relazioni fondamentali per quel “modello europeo” (ad esempio il silenzio e il depistaggio di fronte alla distruzione del gasdotto North Stream, i cui autori sono stati individuati dalla magistratura tedesca nei servizi segreti ucraini, supportati da Usa, Norvegia e Gran Bretagna).

In altri termini la competizione latente tra Usa ed “Europa” poteva svilupparsi solo se la seconda poteva continuare a crescere… ma sempre sotto l’ombrello militare statunitense. Fermata l’espansione, finita anche la competizione, resta solo la subordinazione. 

Ciò contribuisce in parte anche a spiegare perché, all’interno dell’Unione Europea, la sofferenza popolare venga capitalizzata per ora soprattutto dall’estrema destra sotto gli slogan di un nazionalismo d’altri tempi e perché questa crescita venga catalogata come “filo-putiniana” anche quando si divide in modo decisamente netto tra “atlantisti-europeisti” (Meloni, l’olandese Wilders, i polacchi di quasi tutti i partiti, ecc) e ben poco attendibili”pacifisti” (Orbàn, Afd tedesca, il rumeno Georgescu, ecc).

Orbàn, da questa angolazione, ha fatto davvero scuola mentre i “democratici” guerrafondai lo criticavano soltanto per il controllo sulla magistratura o le idiozie contro la “cultura gender”.

Se il sedicente “progressismo liberale” ha condotto sull’orlo del baratro e della guerra, e continua a spingere sul trinomio “austerità, guerra e svuotamento della democrazia”, non c’è da troppo da stupirsi che gli ultradestri peggiori conquistino un ruolo importante.

Anche perché i difetti strutturali del modello export oriented sono usciti alla luce del sole: fine della superiorità tecnologica nel principale dei settori maturi (l’automotive cinese è di anni più avanti, ormai), crescita esponenziale del costo dell’energia, restrizione fatale del mercato interno (i bassi salari vanno bene per esportare, ma quando l’export si ferma nessuno lo può sostituire), inesistenza nei settori-guida del presente e del futuro (informatica, piattaforme, intelligenza artificiale, ecc).

Il tutto sotto la spada di Damocle di una popolazione che invecchia, una conclamata crisi demografica (in Italia nascevano oltre un milione di neonati nel 1964, solo 380mila nel 2023), del declino cognitivo di gran parte della popolazione (il 33% non comprende quello che legge), della “fuga dei cervelli”…

Nonché dell’impossibilità di compensare con un’immigrazione che non mette a disposizione competenze già formate altrove (com’era avvenuto con l’Est post-sovietico), non viene accolta con politiche di formazione-integrazione e dunque si trasforma in un ulteriore “problema di ordine pubblico” che ha favorito il risorse del razzismo fascista (specializzato nel risolvere a chiacchiere i “problemi di cronaca”, ma senza soluzioni per quelli “di sistema”).

Su questo continente alle corde si abbatterà ora anche il “ciclone Trump”, ovvero il bisogno degli Stati Uniti di “confermare il proprio standard di vita” sottraendo risorse ad altri. Lo stop nell’espansione ad Est vale però anche per Washington, che reagisce imponendo dazi o minacciandone di nuovi, pretende un aumento delle spese militari (a tutto vantaggio delle proprie industrie) e acquisti più massicci di petrolio e gas (a prezzi quadrupli rispetto a quelli russi). Insomma, declassando l’Europa da predatore secondario a preda.

Non stupisce perciò l’altra sintesi proposta da Karnitschnig: “bloccati nel XIX secolo”, quindi destinati a soccombere.

Sappiamo bene come l’establishment europeo presuma di uscire da questa tenaglia: trasformando ogni cittadino del continente in un “soldato” della produzione e/o dell’esercito (con parecchi problemi derivanti proprio dalla crisi demografica, che non mette a disposizione “forze fresche” da gettare nelle trincee né nelle fabbriche che chiudono), salutando definitivamente ogni pretesa di “democrazia” e concentrando tutti i poteri verso l’esecutivo.

Che però a livello europeo non c’è, visto che la “Commissione von der Leyen” non può essere considerata tale neanche con uno sforzo di fantasia hollywoodiana…

Crisi nera, dunque. Ma è nell’esplodere delle crisi, nei “collassi di sistema”, che si crea lo spazio sociale e politico per rovesciare i rapporti di forza tra le classi e iniziare perciò a cambiare davvero il mondo.

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