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3DNews/La finanza Auditel, quel PirL che insegue il PIL.

I dati Auditel sulle pagine del Televideo Rai.

di Giulio Gargia
L’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società. Sono termometri di una mentalità da cambiare, indicatori di una marcia da invertire. Esempio: “Gli uragani Katrina e Rita avranno ripercussioni negative sull’economia americana solo nel breve periodo, il successivo processo di ricostruzione stimolera’ infatti la crescita”.
Così diceva il segretario al Tesoro Usa, John Snow, presente al vertice del Fondo Monetario Internazionale di Washington. Insomma, benvenuta Katrina, se l’economia poi cresce che sarà mai qualche morto annegato e qualche saccheggio ?
Questa è la logica demenziale di quello che si chiama pensiero unico. Ed è questa logica che l’Auditel ha portato in televisione.

Perciò oggi l’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società . Provo a spiegarlo, usando un bell’articolo di Giorgio Ruffolo di qualche tempo fa sul PIL, l’indice che misura lo sviluppo economico di un paese. Scrive Ruffolo :
“Il governo italiano, ma tutti i governi del mondo sono incollati allo schermo del Pil. Zero virgola in meno, iattura, zero virgola in più, vittoria. Elettorale, s´intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Pil, è una cosa seria? Domanda per niente affatto nuova, come ben sappiamo, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dagli economisti che l´hanno inventato e dai politici che ne usano e ne abusano”.

La cosa curiosa è che tutte le sue giuste argomentazioni si possono trasporre, senza colpo ferire, alla questione dell’Auditel, su cui da anni – grazie anche agli sforzi di Megachip – ormai si discute. Sostituiamo qualche parola e vediamo se è davvero così.
Per inquadrare la questione, riportiamo un’agenzia sugli ascolti di domenica 2 ottobre.
Prime time festivo alla Rai con il 42,83% rispetto al 36.39% di Mediaset, con Raiuno al 26,31%. Mediaset invece si è aggiudicata la seconda serata con il 39.87% (38,19% Rai). In seconda serata lo speciale Tg1 con una puntata sul fenomeno del bracconaggio ha ottenuto uno share del 16,84% e 2 milioni 190 mila spettatori superando il diretto concorrente ‘Terra su Canale 5 che ha avuto 1 milione 508 su Canale 5, share 10.60% occupandosi di Islam. Su Raitre il programma di Serena Dandini ‘Parla con mé ha registrato l’11,13% con 777 mila spettatori.

E‘ evidente che anche qui “Il governo della TV italiana è incollato ai grafici dell’Auditel. Zero virgola in meno, sconfitta, zero virgola in più, vittoria. Televisiva, s’intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Auditel, è una cosa seria? Domanda per molti versi nuova, come ben sappiamo sollevata da noi e da articolo 21, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dai pubblicitari che l´hanno inventato e dai direttori e responsabili TV che ne usano e ne abusano”.
Continuiamo. Afferma Ruffolo sul PIL : “La risposta è sì, certo, è cosa seria, ma solo se utilizzato correttamente, nell´ambito del suo significato: e cioè, come indice della produzione complessiva dei beni e dei servizi venduti sul mercato. Dei beni e dei mali, purtroppo. Se invece è usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice di efficienza dell´economia nazionale nel suo insieme o, addirittura, del benessere sociale, la risposta è tre volte no”.

Contro canto sull’Auditel : ” La risposta è molto dubbia. Ma i dubbi diventano certezze, in negativo, perché certamente l’Auditel non viene utilizzato correttamente, nell’ambito del suo significato ( cioè quello di misurazione per mettere un prezzo agli spot pubblicitari ) ma è ormai indice di gradimento e di giudizio sulla sopravvivenza di un programma. Viene quindi usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice unico di efficienza di un programma e di una rete e, addirittura, del gradimento sociale verso la TV nel suo insieme. Perciò la risposta alla domanda se Auditel è una cosa seria è: tre volte no”.
Ruffolo continua : “Chi sarebbe disposto a sostenere che un paese in cui sono aumentate le devastazioni ambientali la criminalità e le diseguaglianze, diminuita l´istruzione e peggiorate le condizioni sanitarie, stia alla pari con uno in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché il Pil sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino.

Contro canto Auditel : Chi sarebbe disposto a sostenere che una Tv in cui sono aumentate le sopraffazioni,le manipolazioni, in cui è messa la bando la cultura, ( al massimo relegata in 3° serata) quasi azzerata la qualità complessiva dei programmi e peggiorate le condizioni del pluralismo, stia alla pari con un canale in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché l’Auditel sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino
Riprende Ruffolo : “Diceva l´economista Oskar Morgenstern, autore, insieme a von Neuman, della Teoria dei giochi: «Quando la scienza economica raggiungerà uno stato più maturo, sembrerà incredibile che tali misure siano state prese sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera nazione: misure di questo tipo appartengono ai secoli bui».

E allora, perché sono prese sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo del capitalismo; e il capitalismo è diventato la forma sociale e ideale suprema delle società «avanzate».
Diciamo noi : “Quando l’opinione pubblica sarà davvero messa in grado di giudicare, quando le saranno stati forniti strumenti meno rozzi e più flessibili dell’Auditel, sembrerà incredibile che tali dati siano state presi sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera televisione: misure di questo tipo appartengono a tempi bui. E allora, perché li dati Auditel sono presi sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo della Tv dominata dall’Auditel”
Argomenta ancora Ruffolo : La sinistra porta il lutto della catastrofe comunista. Un lutto che si estende anche a quella non comunista e che comporta la sostanziale rinuncia a ogni forma di guida politica e l´adesione sostanziale a una economia di mercato totalitaria: un´adesione troppo a lungo ritardata, e forse per questo acritica.

Di questa acriticità fa parte l´adozione del Pil come stella polare: al posto della rivoluzione, e va benissimo; ma anche di qualunque progetto di società che tenga conto dei bisogni e dei valori che il mercato ignora o offende: e va malissimo.
In questo contesto di resa culturale incondizionata al pensiero unico si colloca il pirlismo della sinistra: la riduzione della sua strategia alla deriva della crescita continua e indifferenziata (di tutto, di più) orientata da una «misura priva di teoria», come diceva l´economista Koopmans.

Coloro che si permettono di ricordare che l´insignificanza del Pil non è un problema di tecnica statistica, ma è una grande ed essenziale questione culturale e politica, sono considerati frivoli disturbatori di una politica severamente e altrimenti impegnata: per esempio, nel grande dibattito sul Partito Democratico .
Ma che cosa pretendono questi disturbatori?

Diciamo noi : E la Sinistra, che dice su Auditel? Cosa dice Petruccioli, che ha celebrato la vittoria della RAI su Mediaset affidandosi ai dati Auditel ? Ma in questo almeno bisogna capirlo. Quali altri strumenti ha ? Perciò ci tratta da disturbatori.
Chiosa Ruffolo : Risponderei che pretendono di ricordarsi dell´insegnamento teorico e delle proposte pratiche di economisti “eretici”, come l´americano di origine romena Georgescu Roegen, l´americano di origine indiana Amartya Sen; i nostri Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, nel senso:

(a) di una riforma del Pil che lo depuri dalle bestialità più clamorose per farne un indice realmente rappresentativo dell´attività economica;
(b) di costruire indici del benessere in grado di rappresentare sinteticamente la qualità sociale del paese nei suoi aspetti più critici: lavoro, ambiente, sanità, istruzione, sicurezza;
(c) di definire infine, al massimo livello della responsabilità democratica, un traguardo progettuale collocato nel tempo, che integri in un «indice normativo» equilibrato gli obiettivi economici e sociali adottati come scelte da proporre al Paese.
Rispondiamo noi: eppure le cose da fare sono semplici.
a ) Bisogna applicare la legge 249 e far sì che sia l’Autorità delle Telecomunicazioni in prima persona a fare i rilevamenti degli ascolti.
b) L’Auditel deve consegnare i dati grezzi ( cioè non trattati dai suoi software ) ad esperti indipendenti per consentire elaborazioni alternative.
c ) Bisogna che l’Autorithy avvi ricerche qualitative che integrino e correggano il dato Auditel nell’opinione pubblica. E devono essere diffusi in contemporanea.

In sostanza, chi dice quanti spettatori hanno visto Fede, ci deve anche dire a quanti è piaciuto e a quanti no, di modo che il numero non diventi automaticamente indice di qualità.d ) Dev’essere reso pubblico l’IQS RAI, ovvero la ricerca sul gradimento dei programmi del servizio pubblico. Ricerca resa pubblica una sola volta, nell’ottobre dello scorso anno, che ha dato risultati “eversivi” per gli attuali vertici RAI e che da allora è stata nuovamente segretata. Nonostante la sua pubblicazione sia prevista , ogni trimestre, dall’accordo tra Stato e RAI.

E chiudiamo, sottoscrivendo la conclusione di Ruffolo sul Pil che vale anche per l’Auditel: Cari compagni: non è questo un modo intelligente e pratico per uscire da un´afasia culturale e politica mal dissimulata dalle chiacchiere sul riformismo; di mettere i numeri al posto dei simboli; gli impegni al posto dei discorsi; insomma, di riacquistare, credibilmente, una bussola perduta ?
E di seguito diciamo noi : non è il caso di ricostruirsela da soli, una bussola, che segni i nostri punti cardinali, senza inseguire quella degli altri ?

Giulio Gargia è l’autore del libro ” L’arbitro è il venduto” , sulle storture delle rilevazioni degli ascolti.

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3DNews/APICELLA, L’USIGNOLO DELL’ IMPERATORE.

http://m.youtube.com/#/watch?desktop_uri=http%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DMXRv_gDrG5A&v=MXRv_gDrG5A&gl=IT

di Giulio Gargia

Un’antica favola cinese racconta di un imperatore che amava talmente il canto del suo usignolo da cadere in depressione quando questi morì. E, nonostante gliene portassero decine e decine, lui non ritrovava mai la purezza di quel canto che lo metteva di buon umore.
Silvio Berlusconi, che certo si sente un gradino più su di un imperatore Ming, al posto dell’usignolo, per rallegrarsi dopo i tristi consigli dei ministri, usa la canzone napoletana. Lo fa, in particolare, da quando ha assunto alle sue dipendenze il chitarrista Mariano Apicella, che ormai lo segue quasi sempre nei suoi spostamenti, anche in veste di titolare degli Esteri. Certo è che lo ha seguito nelle vacanze dell’ultimo Capodanno, e in queste estive.

Apicella conobbe il presidente del Consiglio l’anno scorso all’Hotel Royal di Napoli, dove lavorava facendo quella che si chiama “la posteggia”, ovvero cantando tra i tavoli del ristorante dell’albergo. Le sue qualità canore hanno evidentemente colpito il premier, che da allora lo ha cooptato nella sua corte. Con il compito di accreditare agli italiani, dopo il presidente operaio, il presidente poeta.
Per di più, in napoletano. E non è finita qua, perché si sa com’è il Berluska: punta in alto. Perciò, se l’operazione dovesse andare bene, la prossima telefonata se la aspettino gli eredi di Salvatore Di Giacomo. ‘Nu pianoforte ”e notte è una bella canzone, ma non c’è nulla che non si possa migliorare.
Se ci mette le mani Silvio…

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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3DNews/QUANDO SILVIO RUBO’ QUELLA CANZONE.

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di Giulio Gargia

Davanti a Putin, pare abbia eseguito “ E’ meglio ‘na canzone ”.
A Bush, invece, ha cantato ‘Na pizza americana, con l’orgoglio dello chansonnier diventato autore. Perché, da quando il premier è anche ministro degli Esteri, l’arma della serenata in napoletano, tirata fuori a sorpresa, sembra essere un supporto cruciale dei nostri rapporti diplomatici. E per non lasciare nulla al caso, il nostro presidente del Consiglio si è messo a scrivere canzoni proprio in napoletano. Anzi, a riscriverle.

Sarà la smania per la riscrittura che ha preso i nostri governanti (codice penale, libri di storia e adesso anche le canzoni), fatto sta che Berlusconi, “bauscia” puro, si è buttato nell’impresa di arrangiare i testi di canzoni partenopee.
Uno sforzo che sarà testimoniato da un cd, in uscita a dicembre, firmato dal nostro premier insieme a Mariano Apicella, l’ex-posteggiatore divenuto ora il suo Virgilio a gettoni. Ma nella sua rincorsa a Di Giacomo e Bovio, il fondatore di Forza Italia si è dimenticato un particolare: quello di citare il vero autore delle canzoni che lui “arrangia”, ovvero Rino Giglio. Il quale, dopo una vita passata a comporre versi per la musica, non ci sta a farsi mettere in disparte senza protestare. Specie dopo quello che è successo in tivù, prima delle ferie d’agosto.
Come tutti gli annunci importanti, la consacrazione di Berlusconi poeta ed epigono di Bovio avviene a “Porta a porta”. Qui il premier fa esibire Apicella nell’immortale
“E’ meglio ‘na canzone ”, presentandola come un brano scritto da lui.
Bruno Vespa vuol sapere allora come ha fatto lui, da lumbard, a scrivere in napoletano. E Berlusconi: “Ho usato un vocabolario”.
“Ecco, il vocabolario sono io – commenta Rino Giglio – la canzone è mia, iscritta alla Siae come tutti gli altri brani che ho scritto da trent’anni a questa parte… E vorrei che fosse ricordato, quando si va su un palcoscenico di quel livello”.

Com’é andata la vicenda, nel dettaglio? “Insomma, non capisco, Berlusconi – ricostruisce Giglio – mi fa telefonare da Apicella il primo dell’anno, mi chiede tramite lui se può fare dei cambiamenti ai miei versi, e io naturalmente gli dico di sì, ci mancherebbe… anche perché, ho pensato, se lui ha convinto tanti italiani con le parole, e vuole intervenire sulle mie, beh, vuol dire che forse c’erano delle cose da aggiustare, che potevano essere migliorate”. E se poi la prospettiva, come dettogli da Apicella, è l’uscita di un CD, da firmare insieme al Presidente del Consiglio, beh, allora cambiasse tutte le parole che vuole, fa intendere Giglio.
“… Ma questo è un conto… – protesta l’artista partenopeo –
Se poi va in televisione e dice che la canzone è sua, allora è diverso, c’è qualcosa che non torna…”.
Giglio, in realtà, è sospeso tra due posizioni: una, più preoccupata di perdere l’occasione, e perciò attenta a misurare le parole. E l’altra, più orgogliosa e rivendicativa. “Io sono certamente riconoscente al Cavaliere per aver portato un mio brano all’attenzione di tante persone, e anche a Mariano Apicella, per aver fatto da tramite musicale tra me e il Cavaliere. I miei brani sono passati in televisione e adesso saranno inseriti in un cd. Di questo gli sono certamente grato…”.
E in effetti, difficilmente Retequattro avrebbe dedicato uno speciale a Mariano Apicella che canta le canzoni di Giglio,
se Berlusconi non vi avesse messo mano. Nè Vespa avrebbe citato titoli come “E’ meglio na’ canzone”, “A’ gelosia”, “’Na pizza americana”, se non avessero riguardato le smanie poetiche del presidente del Consiglio.

Così adesso Giglio, dopo una lunga carriera in cui ha collezionato anche belle soddisfazioni, (alcuni suoi brani sono nel repertorio di Peppino di Capri, Mina vuole incidere un suo testo) , si è trovato ad essere co-autore di canzoni con il premier. Quasi un miracolo, se non fosse per questo sgradevole particolare: che non viene mai citato.
“Non lo faccio per una questione di soldi: i brani sono regolarmente iscritti alla Siae, a firma Giglio /Berlusconi/Apicella, quindi i diritti mi arriveranno…
ma vorrei solo che il mio nome stesse al posto giusto, e venisse dato a Cesare quel che è di Cesare… invece per il momento io sono solo un vocabolario…”.
Rimane, però, la curiosità per gli ‘aggiustamenti’. Sapere quali parole a Berlusconi non piacevano è un particolare che va consegnato alle cronache. “Beh, per esempio, ha cambiato ‘a ‘ sconvoglia a’ gelusia, diceva che era troppo partenopeo, e l’ha trasformato in mi tormenta a’ gelosia… – rivela Giglio – così come i suoi cambiamenti in genere si sono indirizzati a italianizzare le espressioni più dialettali… E poi mi hanno modificato il titolo di “Mon amour” perché, dopo un consiglio dei ministri, Berlusconi ha fatto sentire la canzone e Ignazio La Russa ha suggerito di cambiare il titolo, prendendolo da un verso del brano…”.
E così è nata “E’ meglio ‘na canzone”, che si annuncia come la hit del prossimo cd. Giglio non dice se i cambiamenti gli sono piaciuti. Né commenta il fatto che la canzone era già iscritta alla Siae e, dopo il suo intervento, Berlusconi l’ha fatta reiscrivere, aggiungendo il suo nome.

Certo é che un ministro degli Esteri-premier, meneghino purosangue, che canta in napoletano per strappare simpatie diplomatiche, è strategia ancora inedita. Secondo alcuni “politologi” ricorderebbe la politica del ping-pong, con cui Nixon si riavvicinò a Mao. Ad altri, invece, riporta alla mente l’episodio di un film di Massimo Troisi, quando il comico napoletano- finito dai giorni nostri nel Medioevo – cerca di sedurre Amanda Sandrelli spacciandosi per musicista.
E improvvisa dall’inglese, facendo finta di comporre al momento per lei una canzone, che si chiama Yesterday e il cui primo verso dice : “All my troubles seem so far away”, con la musica che conosciamo. Il film si chiamava “Non ci resta che piangere”.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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E’ vero: Facebook traccia tutti gli utenti.

(fonte: ilsole24ore.com)

Grazie ad altrettante interviste rilasciate da quattro manager di Facebook, gli ingegneri Arturo Bejar e Gregg Stefancik e i portavoce Andrew Noyes e Barry Schnitt, USA Today è stato in grado di ricostruire le modalità con cui in casa Zuckerberg si tracciano i Facebook-addicted negli immensi spazi della Rete. Metodi che differiscono tra loro: ce n’è uno studiato per i membri di Facebook loggati durante la navigazione, uno per quelli non loggati e uno studiato per chi non è annoverato tra gli 800 milioni di iscritti; fatto che rende ancora più inquietante il potere della piattaforma social.

Il funzionamento è tanto semplice quanto efficace: il computer o il device di un internauta, che dovesse navigare su una qualsiasi pagina offerta da Facebook, diventerebbe ospite di un apposito cookie; il quale diventa due se l’internauta è già registrato al social network, da qui parte l’attività di tracking. Ogni altra risorsa visitata che contiene plugin di Facebook (ad esempio il classico bottone “like”) viene registrata insieme alla data, l’ora e un identificativo univoco assegnato al computer. Visitando altre pagine web, quando si è eseguito il login a Facebook, vengono tracciati anche il nome utente, il proprio indirizzo email ed informazioni relative ai propri “amici”.

Ciò dà maggiore senso alla necessità di certificare il proprio pc o device quando ci si collega a Facebook da una fonte mai utilizzata in precedenza o dopo avere pulito la cache del proprio browser. I dati vengono conservati per 90 giorni e questa tecnica non è del tutto estranea a quelle adottate, ad esempio, da Google o Yahoo!, lasciando peraltro defluire tutta una serie di informazioni che possono fare gola alle agenzie di marketing o a quell’industria che basa il proprio core business sui dati personali degli internauti.

Il tema della privacy torna a bussare forte, ed è uno degli argomenti – insieme alla sicurezza – che spaccano in due il popolo del web. Le strade percorribili sono, al momento, due: o continuare ad alzare gli scudi oppure accettare questa fuga di informazioni personali come lo scotto da pagare per poter godere dei vantaggi offerti dalla Rete. Quest’ultima ipotesi è quella a più riprese sponsorizzata dalla stessa Facebook. (Beh, buona giornata).

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Sono ancora utili le associazioni di categoria della pubblicità italiana?

La sensazione che la situazione del mercato della comunicazione commerciale italiana sia nettamente diversa da ciò che si discute nelle associazioni di categoria è netta quando si leggono i programmi elettorali dei candidati alle cariche direttive delle varie associazioni di categoria, che costellano la pubblicità italiana. A volte, verrebbe proprio voglia di chiedersi: le associazioni hanno ancora senso, ruolo, prospettive?

Dall’esterno, si ha quella strana sensazione di uno scollamento dalla realtà, abbastanza tipico della politica così come viene fatta in Italia: ognuno presuppone la tesi con la quali si legge la realtà.

Come dire: siccome io la penso così, allora le cose devono per forza essere spiegate così. In realtà dovrebbe essere esattamente il contrario: le cose sono cambiate, dunque devo adeguare il mio punto di vista alla nuova realtà delle cose. E agire di conseguenza.

È vero che ogni associazione ha la propria sintassi e comunque ha il diritto di esistere, fosse anche per la sola volontà degli associati; anche, cioè, qualora gli scopi associativi fossero assolutamente superati dalla realtà dei fatti. Tanto più che la libertà di associazione è un diritto costituzionalmente garantito. E’ la grammatica di un Paese democratico.

Ciò non di meno, mi si conceda, dall’esterno di ogni associazione, ma dall’interno della nostra comune industry, di formulare alcune riflessioni, di metodo e di merito. Il discorso è generale, dovrebbe riguardare tutte le associazioni di categoria. Anche se qui si parlerà nello specifico delle prossime elezioni degli organi dirigenti di Assocomunicazione.

Per rendere più agevole l’esposizione, esporrò il mio punto di vista sotto forma di brevi domande:

1) Perché i tre saggi (Testa, Montangero e Masi) non hanno proposto una rosa di candidati? Perché un solo candidato, praticamente predestinato ad assumere l’incarico? C’è una crisi di vocazione?

2) Che peso specifico autonomo potrà avere la prossima leadership dell’associazione, dal momento che Assocomunicazione medesima sarà embedded nella neonata Federazione della comunicazione presso Confindustria, presieduta proprio dal presidente uscente?

3) Come si potrà realizzare, qualora fosse nelle intenzioni del neo presidente, una discontinuità con la precedente presidenza? Insomma: che succede se Costa non vuole fare come faceva Masi, però a Masi dovrà rispondere, perché Masi è il capo della federazione di cui l’associazione fa parte?

4) Massimo Costa ricopre il ruolo di country manager del gruppo Wpp in Italia: non c’è il pericolo di conflitto di interessi? Tutte le strutture che a lui fanno capo nella holding come potranno essere autonome nel giudizio come membri, dal momento che alcuni manager di Wpp si candidano addirittura come dirigenti dell’associazione?

4) Nella lettera ai soci, il candidato presidente fa esplicito riferimento alle ripercussioni che il cambio del quadro politico italiano potrebbe avere nel futuro del mercato pubblicitario italiano. Che vuol dire?

5) Scorrendo i programmi dei canditati, si fa riferimento alla questione della remunerazione, dei fee e del dumping. Ma, se strutture economiche del calibro di Wpp, Omnicom, Publicis e IPG, tutte ben rappresentate nel mercato italiano, tanto da risultare come maggioritarie dal punto di vista dei fatturati, tutte insieme non sono finora riuscite a invertire la tendenza, come potrebbe farlo una associazione di categoria?

6) Non è forse proprio per questa scissione tra la realtà del mercato e il dibattito interno all’associazione che finora Assocomunicazione non è riuscita a ottenere nessun fatto concreto, tanto da spingere verso la costituzione di Confindustria Knowledge, nel tentativo di assumere un più rilevante peso specifico?

7) Alcuni candidati si presentano per una riconferma, è un legittima aspirazione, ma la domanda è: come si concilia il desiderio di nuovi scenari se non c’è discontinuità tra il vecchio ed il nuovo consiglio direttivo dell’associazione?

7) Può la complessità della relazione tra committenti pubblici e privati e le agenzie di pubblicità e comunicazione essere semplicisticamente
risolta nella speranza che un uomo al comando possa risolvere tutto e bene?

8) Massimo Costa è sicuramente una persona degna e un manager capace, ma siamo sicuri che non sia necessario un complessivo cambio di passo, prima ancora che un cambio di leadership?

9) Vale a dire, non è meglio prima ridefinire il perimetro entro il quale operare in profondità i necessari cambiamenti e sulla base di una nuova visione condivisa esprimere nuovi dirigenti, cui affidare il compito di realizzare gli obiettivi stabiliti dalla nuova linea politica?

10) Non pensate anche voi che i prossimi anni sono sicuramente cruciali, che molto di quello che abbiamo fatto e pensato verrà messo in discussione dai fatti, a prescindere dai ruoli che abbiamo nel mercato: che cosa dobbiamo essere disposti a fare per migliorare concretamente il modo di fare pubblicità, a partire dalle condizioni di vita e di lavoro degli addetti, per arrivare a essere concretamente all’altezza delle aspettative dei clienti?

Beh, a questo punto, mi sono fatto dieci domande. Non mi dò le risposte, siamo mica da Marzullo. Esse sono riflessioni, che non pretendono necessariamente una risposta. A meno che non siano quei fatti concreti che, sono certo, tutti vorremmo vedere cominciare a realizzarsi. Beh, buona giornata.

Allegati:
http://www.consorziocreativi.com/Il-Negozio-delle-buone-idee.html

http://consorziocreativi.com/blog/2011/11/17/1193/

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3DNews/QUANDO ERAVAMO RE.

di Giulio Gargia
Il trionfo dei dietrologi.

Immaginiamo che tu che leggi sia uno juventino. Immaginiamo che oggi non sia oggi, ma l’ultima giornata del campionato 2004-5. Immaginiamo ora che qualcuno ti venga a dire le seguenti cose : che la Juve non si è guadagnata lo scudetto sul campo, ma grazie a un sistema paramafioso in cui i suoi dirigenti concordavano con i designatori degli arbitri chi doveva arbitrare i loro incontri e perché, che chi doveva controllare era loro complice, che il mercato calcistico era nelle mani di una società fatta dai figli dei presidenti e dei dirigenti delle maggiori squadre, e che grazie a tutto questo i risultati del campionato erano stati alterati.
Immagina anche che qualcuno ti dicesse che alcuni arbitri pianificavano le ammonizioni dei giocatori più bravi delle altre squadre con una partita d’anticipo in modo che quando incontrava la Juve quelle squadre fossero comunque indebolite.
Immagina infine che ti predicesse – allora – che tutto questo prima o poi si sarebbe stato scoperto e che la Juve sarebbe andata in serie B … che cosa avresti detto ?
La tua passione per l’anti Dietrologia come si sarebbe espressa ?
Con quali epiteti alla Mughini avresti bollato queste teorie del complotto ?
Qualche anno fa, quelle su Moggi erano chiacchiere da bar Sport.
Quelli che li ripetevano erano definiti “ dietrologi”. Oggi, sono cronaca. Definita da una sentenza. Tenetelo presente, quando leggete di altre cose che vi sembrano “ dietrologia”. Dall’11 settembre, alla trattativa Stato mafia, ai meccanismi dell’Auditel .
L’unica cosa, per favore, quando la verità verrà alla luce , non pensate “ lo sapevo”. Perchè voi, noi, tutti non lo sapevamo. Non volevamo saperlo.

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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3DNews/E adesso vediamo che sapete fare.

di Marco Ferri

Nonostante i sostanziosi acquisti di azioni Mediaset da parte di Fininvest e di Holding Italiana, sempre di famiglia, avvenuti durante l’estate per rilanciarlo, il titolo va male. Lo si è visto col rovinoso capitombolo dell’altro giorno, quando il titolo Mediaset ha toccato ripetutamente quota -12.

D’altro canto, neppure guardando alla terza trimestrale si trovano segnali positivi: la raccolta pubblicitaria è andata sotto zero. Nel comunicato stampa relativo alla riunione del cda che ha approvato la trimestrale Mediaset, si riafferma la leadership sul mercato, ma è un’affermazione un tantino autolesionistica: lo sanno tutti che ogni volta che Mediaset è in difficoltà, Sipra si sgonfia ad arte, quel tanto che permetta, appunto la riconferma della supremazia di Mediaset. Basta mandare via uno come Santoro, per esempio, per indebolire la raccolta Sipra a tutto vantaggio di Publitalia. E per lo stesso motivo continuare a far dirigere il TG UNO a un direttore che perde pubblico come un tubo rotto.

È in questa difficoltà di mercato, come viene definita nella trimestrale Mediaset, che ci si interroga sulla forte relazione che è intercorsa tra i successi politici del Berlusconi capo del governo e il Berlusconi tycoon dei media italiani. Le domande sono: che fine farà Mediaset, azienda-partito di business e di governo adesso che il Cavaliere è stato costretto alla resa? Come farà a stare sul mercato rispettando le regole del mercato? Come se la caverà senza il sostegno delle leggi ad aziendam? Più che domande irriverenti, sono problemi seri, che tormentano la premiata ditta Berlusconi&figli. D’altro canto non sarà più possibile procrastinare anacronisticamente nuove norme sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni.

Tanto per fare un esempio, Mario Monti, che probabilmente guiderà un esecutivo “tecnico”, nato per seppellire l’era berlusconista in politica, non si è mai dichiarato tenero con la mancanza di una reale concorrenza tra soggetti del mercato.

Sta lì a dimostrarlo la decennale esperienza come Commissario Europeo alla Concorrenza, ma anche la mission che Monti dovrà incarnare: la ripresa, la crescita passano per un corretto funzionamento delle regole dell’economia di mercato.

E allora Mediaset dovrà passare per le stesse strettoie cui passò la Rai, all’epoca della nascita della tv commerciale (quando si dice il contrappasso!); o Telecom quando si liberalizzò la telefonia, o Enel quando toccò all’energia: accettare di dimagrire, di restringere il perimetro aziendale per fare posto ad altri soggetti. E ripartire da lì per far valere la propria capacità imprenditoriale, magari attraverso nuovi investimenti, progetti innovativi, scelte coraggiose.

Saranno capaci Berlusconi & Figli di fare impresa senza il vantaggio di quella dose massiccia di concorrenza sleale derivante dallo stare contemporaneamente sul mercato e al potere?

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

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Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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3DNews/“Zero titoli”, storia del degrado di un grande telegiornale.

Paolo Ojetti racconta il suo libro su Minzolini

Parlare degli anni di Minzolini a Saxa Rubra, è fermare la storia, la storia di un evento traumatico, drammatico per l’informazione italiana. Il Tg1 della Rai, nonostante i disastri editoriali nei quali è stato cacciato, nonostante la colpevole e suicida complicità di gran parte del corpo redazionale, rimane – per antonomasia – il principale organo di informazione e di “formazione” dell’opinione pubblica.
Il Tg1 dovrebbe essere la fonte chiara e limpida delle notizie,l’amico fraterno dei cittadini, il luogo magico nel quale, per postulato, alberga la verità. Ebbene, durante la direzione Minzolini, il Tg1 è stato esattamente l’opposto di tutto questo.Se si trattasse però solo di un problema di cattivo giornalismo, non varrebbe nemmeno la pena di occuparsene.

La Rai è un’azienda enorme ecomplessa. Produce in un regime parzialmente duopolistico, ma subisce nuove forme di concorrenza, soprattutto nel campo dell’informazione.
Basta avere una parabola e un telecomando per abbandonare la Rai e quella che era una volta “l’ammiraglia” della televisione, intesa come un unico universo. Ed è quello che, con progressione esponenziale, è avvenuto nel corso della direzione Minzolini. Dove c’è un delitto di leso giornalismo, c’è un conseguente castigo: la disaffezione dei lettori (in questo caso i telespettatori),
il declino inarrestabile della testata.

Il 14 luglio del 2011, i vertici Rai fecero due conti e si accorsero che il Tg1 della sera perdeva “copie” e, di conseguenza, milioni di pubblicità.
Ce n’era voluta, ma anche i consiglieri più berlusconiani ammisero, alla fine, la disfatta. Si accorsero di qualcosa molto più grave: che il Tg1 di Minzolini era poisoned, avvelenato, e trasmetteva il suo veleno tutt’intorno anche ai programmi che lo precedevano e che lo seguivano. In una parola, il Tg1 di Minzolini “respingeva” il telespettatore il quale, come tutti sanno, una volta accasato altrove, non torna indietro.

Alla lunga, avendo capito che quel telegiornale obbedisce a logiche che nulla hanno a che vedere con il giornalismo, quel telespettatore è perduto per sempre.
I vertici della Rai porteranno con sé per anni il peso di grandissime responsabilità. I costi per riportare il Tg1 a livelli di decenza saranno altissimi:
la credibilità non è merce che si compra al mercato.

Ma c’è qualcosa di più serio e più grave di una cattiva gestione del servizio pubblico di Augusto Minzolini. Nel momento in cui il Tg1 è stato consegnato a
un direttore perché ne facesse l’house organ non di un Governo, ma di una persona, la ferita alla democrazia è stata vile e profonda.

Augusto Minzolini è stato “realista” quando, intervistato nella primavera del 2011, disse: «Resterò direttore del Tg1 finché Berlusconi sarà capo del Governo». Il senso di questa affermazione è tragico, rimarrà per sempre la confessione cinica di aver svenduto se stesso, l’intera redazione, l’autonomia e la libertà di una testata – e che testata – a un padrone che è addirittura un corpo estraneo all’azienda dalla quale egli dipendeva e dalla quale riceveva uno stipendio. Fu non solo il tradimento dei principi deontologici della professione giornalistica, ma anche la confessione del profondo disprezzo della libertà di stampa e, per dirla tutta,della democrazia. E quel giorno, tutti seppero che il Tg1 era stato ridotto in schiavitù.

Il “minzulpop” non può trovare descrizione più asciutta e completa. Il peccato mortale di Minzolini fu quello di aver restituito al “Re” il potere di scegliere le notizie. Ma attraverso quali disegni, attraverso quali cabale, attraverso quali collettori sotterranei, Augusto Minzolini arrivò a comandare l’ammiraglia?

Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

°3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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business Dibattiti Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il prezzo della pubblicità e lo sprezzo del mercato.

Il nuovo logo di ConsorzioCreativi
Think boldly, il logo e il claim di ConsorzioCreativi
(da consorziocreativi.com)

La notizia è che Consorzio Creativi, il network di creativi che hanno dato vita a una agenzia di pubblicità di nuova concezione, ha aperto on line il Negozio della buona pubblicità. E sugli scaffali del Negozio, visitabile su consorziocreativi.com, ci sono i prodotti con tanto di prezzi.

Il fatto è che il prezzo per la pubblicità italiana è un tabù. Ogni cliente pensa di fare ottimi affari, spendendo sempre meno; ogni agenzia, media o creativa, pensa di tenere botta alla concorrenza abbassando i prezzi. Ma le cose stanno proprio così?

Se prendiamo ad esempio le gare convocate dai committenti per scegliere la migliore agenzia, queste ormai non si svolgono più sul terreno della competenza, ma sul piano inclinato della convenienza. Talmente inclinato che i prezzi sono scivolati sempre più in basso, e i margini per le strutture di comunicazione hanno subito una tale contrazione da diventare ingestibili non solo all’interno, ma anche difficili da spiegare ai rispettivi headquarters internazionali.

La situazione è sfuggita di mano a tutti i soggetti. Nella seconda metà degli Ottanta, le agenzie si remuneravano con il 15% che per legge gli editori dovevano riconoscere alle agenzie che vendevano spazi e messaggi ai loro clienti. La produzione dei materiali era remunerata con il 17,65% del budget.

Di pari passo con l’espansione del mercato della comunicazione commerciale che contrassegnava quegli anni, si pensò di favorire la crescita rinunciando via via a porzioni di quel 15%. Su pressante richiesta di grandi compagnia americane, che assegnavano budget multinazionali, i reparti media delle agenzie furono scorporati, per diventare agenzie a loro volta. In Italia, la nascita e lo sviluppo supersonico della tv commerciale e l’aumento dell’offerta di spazi televisivi hanno favorito la rapida agonia del 15%.

Quel 15%, che in origine remunerava per il 7% la creatività; per il 5% il servizio di contatto commerciale; per il 3% il planning e il buying dei mezzi; quel 15%, dunque, cominciava a dissolversi. Le agenzie media, cioè chi compra spazi per conto dei clienti e le concessionarie di pubblicità, cioè chi vende spazi per conto degli editori trovarono la via di disinnescare l’obbligo, tutt’ora vigente, di riconoscere all’agenzia il 15%: alle agenzie media un meccanismo di remunerazione basato su quantità di spazi trattati, per i quali scattano premi da parte delle concessionarie; per le agenzie creative l’istituzione del fee, praticamente sganciato dalla percentuale di spesa pubblicitaria.

Venendo ai giorni nostri, il budget che una azienda investe in pubblicità non dice più nulla a proposito del fatturato della agenzia di pubblicità che ne cura l’immagine. L’agenzia media viene pagata in un modo, l’agenzia creativa in un altro, le ricerche in un altro ancora, la grafica, gli eventi, le promozioni in altri modi ancora.

Il combinato disposto di questa giungla remunerativa è stato solo apparentemente il maggior vantaggio per il committente, che è convinto di tenere sotto controllo la spesa pubblicitaria; e non è ormai più neppure il vantaggio competitivo dei grandi gruppi verso le piccole strutture: l’illusione che la massa critica compensasse i minori introiti derivati dai forti sconti si basava sulla previsione di un costante investimento da parte dei clienti. Le crisi economiche che si sono succedete negli anni, al contrario, hanno segnato una costante diminuzione degli investimenti sui mezzi classici, stampa e televisione, per esempio.

Anche senza contare l’odierna gravissima situazione economica e finanziaria in cui versa il mercato italiano, i grandi gruppi hanno da tempo cominciato a boccheggiare per mancanza di fatturati adeguati alle loro dimensioni. Vistosi e profondi tagli di personale hanno costretto le grandi agenzie a dimagrire. Col risultato di impoverire la capacità propositiva nei confronti dei clienti. I quali, dopo aver favorito in tutti i modi la corsa al controllo della spesa pubblicitaria, si trovano oggi a fare i conti con l’impoverimento dell’offerta creativa all’altezza delle durissime sfide proposte in continuazione dal mercato globale.

Così, come fossimo in una commedia di Goldoni, succede che Pantalone dice “non ti pago perché mi hai fatto un butto servizio”, e Arlecchino dice “ti ho fatto un brutto servizio perché tanto non mi paghi”.

L’aspetto grottesco, però, è che tutti si lamentano, ma nessuno dice la verità. Negli ultimi anni le associazione delle agenzie e quelle dei committenti hanno prodotto migliaia di ore di convegni e tavole rotonde, alcune tonnellate di carta imbrattata di buoni propositi senza che questo ribollire di intelligenze venisse a capo di alcunché: neppure l’obiettivo minimo, quello della remunerazione almeno delle spese per le gare, è stato raggiunto. E sì che si sono fatti proclami e stilato decaloghi, che nessuno ha mai preso in considerazione, a cominciare proprio dagli associati medesimi. Questo, tuttavia, non ha impedito che, per esempio, il sabato al convegno si tuonasse contro il dumping che il lunedì successivo si applicava senza troppi scrupoli.

In questi anni il valore sul mercato di alcuni budget pubblicitari è stato letteralmente portato vicino allo zero. Per esempio, a una grande banca che nel 2000 riconosceva all’agenzia il 7,5%, oggi è stato offerto un fee che si aggira tra il 2 e il 3 per cento, a scalare sugli importi investiti. Oppure, a una importante istituzione pubblica è stato offerto, non più tardi di tre anni fa, un fee equivalente allo 0,9% del budget. E può succedere, come è successo, che una rinomata agenzia abbia proposto al suo cliente un listino nel quale un annuncio pubblicitario senza immagini costava meno della metà di uno con una foto: la creatività non conta, contano le figure. Per non dire di quella agenzia che per acquisire un importante cliente editoriale, è arrivata a offrire uno sconto del 75%.

La spirale del dumping si avvita su se stessa quando viene messa in gara l’agenzia che aveva stracciato il prezzo, la quale perde comunque il cliente. Il quale convoca la gara proprio per non dover rinegoziare il prezzo stracciato che gli era stato precedentemente offerto. Col risultato che implicitamente la base di partenza è proprio il ribasso del ribasso precedente: è su quello si scontreranno le agenzie convocate. Ecco che da Goldoni si passa a Pinter: cioè siamo in pieno teatro dell’assurdo.

Tutto questo succede mentre i committenti si lamentano, quando non cercano agenzie di pubblicità altrove, come è successo recentemente per un grande gruppo bancario e per una grande compagnia telefonica. E mentre nelle agenzie si lavora male, con stipendi bassi o un uso diffusissimo di lavoro precario, e il costante clima da stillicidio di licenziamenti.

In questo quadro, al tempo stesso desolato e desolante, in cui il prezzo della pubblicità è stato usato con sprezzo del mercato e delle sue regole, l’unica via d’uscita è rompere il tabù dei prezzi e dichiararli apertamente. E accettare che la negoziazione tra le parti faccia il resto. Senza trucchi, senza inganni, senza piccole bugie o grossolane mezze verità.

Che è proprio quello che sta facendo Consorzio Creativi con l’apertura del Negozio della buona pubblicità, (visitabile su consorziocreativi.com). Beh, buona giornata.

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business Marketing Pubblicità e mass media

Pubblicità: sulla stampa andiamo male.

L’Osservatorio Stampa FCP ha diffuso i dati relativi al periodo gennaio-settembre 2011 raffrontati al periodo gennaio-settembre 2010.

Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale registra un calo del -4,0%.

In particolare i quotidiani nel loro complesso registrano un -5,3 % a fatturato e un +3,4% a spazio, con la conseguente diminuizione del prezzo medio. Questo andamento è confermato dai dati relativi alle singole tipologie:
La tipologia Commerciale nazionale ha evidenziato un -6,5% a fatturato ed un +2,8% a spazio.
La tipologia Di Servizio ha segnato un -3,1% a fatturato e un +1.3% a spazio.
La tipologia Rubricata ha segnato un calo a fatturato del -8,2% e a spazio -4,4%.
La pubblicità Commerciale locale ha ottenuto un -3,6 % a fatturato ed un +4,1% a spazio.

I quotidiani Free Press nel totale delle tipologie hanno segnato un -20,7% a fatturato e un +1,0% a spazio.
La Commerciale Locale cresce a fatturato del +2,7% con un aumento del +11,0% degli spazi, mentre registra un andamento negativo a fatturato sia per la Commerciale Nazionale (-31,6%) che per la Di servizio (-48,5%).
I periodici segnano un calo a fatturato -1,6% e a spazio -2,7%.
I Settimanali registrano a fatturato un -0,9% e a spazio -2,0%
I Mensili hanno indici negativi sia a fatturato -1,9% che a spazio -3,5%.
Le Altre Periodicità registrano un calo a fatturato -9,2% e un andamento positivo a spazio -3,6%.
(Beh, buona giornata).

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Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Think boldly, il nuovo logo di ConsorzioCreativi.

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Questo è il nuovo logo di ConsorzioCreativi, che è anche il claim e il pulsante del nuovo sito. La mission è sintetizzata dalla seguente definizione: comunicazione, pubblicità e marketing di alto valore, senza spargimento di costi. ConsorzioCreativi ha appena lanciato on line la nuova versione del suo sito, rinnovato nella grafica e nei contenuti. Nell’editoriale di oggi, apparso su consorziocreativi.com/blog vengono illustrate le linee guida del nuovo sito. Beh, buona giornata,

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business Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

ConsorzioCreativi lancia il suo nuovo sito. Con qualche novità.

Tra poco più di mezz’ora, a mezzanotte, cominceranno le procedure di lancio on line del nuovo sito di ConsorzioaCreativi. Anticipiamo qui l’editoriale che apparirà domani sul blog annesso al nuovo sito.

Think boldly

Siamo al terzo restyling di consorziocreativi.com in due anni. La prima versione fu dedicata ai promotori, con la seconda poi al centro ci fu l’assetto organizzativo. Con questa nuova veste grafica, ConsorzioCreativi trasforma il sito in uno strumento di lavoro, in un momento in cui lavorare per la comunicazione, per la pubblicità e il marketing è diventato difficile. La crisi picchia duro su consumi e consumatori, sui prodotti, sulle aziende: i budget si restringono, alcuni soggetti hanno sospeso gli investimenti, altri li hanno già tagliati da tempo.

Per questo, la veste grafica è sobria, essenziale, funzionale. Ma, al tempo stesso è allegra, colorata, vivace. Il meccanismo è incentrato sul pulsante “Think boldly”: attraverso questo pulsante si accede alla home page, attraverso lo stesso pulsante si torna alla hp. Un tramite, come tramite vuole essere ConsorzioCreativi nel mercato della comunicazione: dalle complicazioni dell’oggi, alle soluzioni possibili.

L’impianto grafico ricorda e cita un tablet e le relative applications: anche l’apertura delle pagine è comandata da pulsanti che danno l’idea di agire, del mettersi al lavoro, dell’ottimizzazione del tempo, attraverso scelte precise. A cominciare dal blog, ma anche in altri ambiti, consorziocreativi.com ha scelto la condivisione con i social network: Facebook, twitter, Linked, You tube sono automaticamente connessi col sito. Altri social network sono a disposizione dei lettori del blog.

Anche in questo caso la scelta funzionale rimanda a una decisione simbolica: applications e social network sono il superamento del sito, che smette di essere una semplice vetrina per diventare una sorta di piattaforma verso l’esterno. Che è l’idea di ConsorzioCreativi: non un isola, ma una penisola protesa verso ignote, quanto affascinanti innovazioni nella comunicazione.

E poi l’innovazione pura: il negozio della buona pubblicità. Lo “store” di ConsorzioCreativi, nei quali scaffali sono in vendita le nuove confezioni dei nostri prodotti. Prodotti esposti con il prezzo chiaro e trasparente. Perché?

Sono anni che le associazioni dei clienti e delle agenzie discutono di remunerazioni, di rimborsi, di regole. Oltre che dichiarazioni di principio, oltre che parole incentrate su buone intenzioni, nella realtà dei fatti, comportamenti concreti non se ne sono visti. Il risultato è che il prezzo, non il talento, sembra essere l’unico terreno della concorrenza fra agenzie. Bene, ne abbiamo preso atto.

La logica conseguenza dell’apertura del negozio sono le promozioni. La promozione di questo mese riguarda l’agricoltura e le filiere connesse: dobbiamo essere capaci di portare la pubblicità dove può essere utile allo sviluppo di attività economiche eco sostenibili.

E, per concludere questo capitolo, è bene segnalare che nel negozio è in vendita uno specifico prodotto per gli Start Up. Contribuire al successo di nuove imprese non è solo la vera via d’uscita dalla crisi, ma la mission che dovrebbe darsi tutta l’industry della comunicazione commerciale italiana.

Riassumendo, tre sono le direttrici lungo le quali di muove a partire da oggi il nuovo consorziocreativi.com. La prima è la sobrietà e la funzionalità, che fanno di questo sito un vero e proprio strumento di lavoro.

La seconda direttrice è nell’integrazione tra i social network e il sito stesso: con al centro il blog, come diario di bordo di nuove esperienze, concetti e teorie.

La terza direttrice è la vocazione commerciale di consorziocreativi.com: se ogni sito web è anche una vetrina, la nostra è la vetrina di un negozio, in cui si commercializza il nostro talento alla luce del sole, nel pieno rispetto delle regole del mercato.

Il pulsante Think boldly, che un nostro cliente e amico ha definito pop, è il logo, la sigla, il leitmotiv, la tag non tanto di questo sito, quanto piuttosto il claim con cui affrontare questi tempi: con audacia. (Beh, buona giornata).

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business Marketing pubblicato su advexpress.it Pubblicità e mass media Società e costume

Roma, apre lo store chiude la città.

L’ apertura di uno store Trony ha bloccato Roma per ore. Ottomila persone che hanno fatto la coda anche di notte in cerca di iPod a prezzi stracciati, di lavatrici a 69 euro, di tv ultima generazione a costi irripetibili, hanno messo in ginocchio mezza Roma, paralizzando due consolari, la Cassia e la Flaminia, la Tangenziale e un nodo stradale strategico come Tor di Quinto, perennemente intasato dalle sette alle dieci di ogni mattina.

Questa è la notizia, alla quale si possono aggiungere una vetrina in frantumi, qualche accenno di rissa, un certo numero di spintoni.

In genere, la ressa all’inaugurazione di un mega store è una buona pubblicità per i grandi marchi della distribuzione. Ma stavolta si sono superati i limiti. Per via del non funzionamento dei sensori sul territorio, con i quali sarebbe stato facile non solo prevedere la grande affluenza, ma gestire con intelligenza anticipatoria gli effetti sulla viabilità in particolare, sull’ordine pubblico in generale.

Qualcuno dirà: questi sono compiti che spettano all’amministrazione delle città, dunque alla politica. È vero. E infatti le polemiche sono già cominciate. Al di là delle quali c’è una semplice constatazione: se ottomila persone bloccano una città di tre milioni di abitanti, beh è impossibile non vedere che c’è più di un qualche problema di efficienza.

Ma qui vorremmo occuparci del rapporto tra un grande brand come Trony e il territorio in cui svolge la propria attività. Ponte Milvio è un antico quartiere di Roma e non meritava certo di essere strapazzato in quel modo. E qui, forse, è il brand che deve saper agire in supplenza delle macroscopiche carenze che si sono verificate a Roma. Perché altrimenti il successo dell’inaugurazione diventa controproducente alla reputazione del brand.

“La gente è fuori di testa, si accapigliano per un mega sconto”, si sente dire. E anche questo non è del tutto giusto: che male c’è a voler risparmiare? Proprio niente, men che meno di questi tempi.

E allora, anche ob torto collo, sarebbe meglio autodisciplinare gli eventi di questo tipo, magari scegliendo giorni e orari che non impattino improvvisamente sulla vita di tutti i giorni; magari diluendo e rilasciando gli sconti, spalmati su più appuntamenti. Anche per il semplice fatto di non essere l’involontaria causa scatenante di ingorghi, tumulti e disagi.

A volte la responsabilità sociale di una marca si misura nella capacità di saper agire in previsione dei comportamenti altrui. Quelli istituzionali, ma anche quelli individuali. Per poi, magari, fare una campagna che dica: i clienti Trony? Non ci sono paragoni. Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia - Lavoro Marketing Politica Potere Pubblicità e mass media

Il CEO di Palazzo Chigi.

Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, Angela Merkel e Nikolas Sarkozy vorrebbero mettere sotto pressione Silvio Berlusconi al prossimo vertice europeo anticrisi.

Contemporaneamente, il quotidiano tedesco Handelsblatt riferisce quanto affermato dal commissario economico dell’Ue Olly Rehn, secondo cui: ”L’Italia deve sgombrare il campo da ogni dubbio sulla sua politica fiscale”. Non solo.

Si apprende anche che la Commissione Ue “prende nota dello slittamento del decreto sviluppo in Italia e chiede al governo di finalizzare con la massima urgenza forti misure per la crescita”: lo avrebbe detto proprio il portavoce del Commissario Ue agli Affari Economici Olli Rehn.

In epoca di presentazione dei risultati del terzo trimestre, possiamo immaginare che questa scena stia succedendo, più o meno con le stesse parole, in tutte agenzie di pubblicità che fanno parte di network globali.

Non c’è network, infatti, in cui non si mettano sotto pressione i CEO nostrani perché taglino più costi e spingano con più energia verso una sostanziale crescita dei fatturati. E la minaccia, sempre meno velata di essere rimossi per venire sostituiti da manager più giovani e dinamici incombe, come la famigerata spada di Damocle, a ogni meeting internazionale.

Che, mutatis mutandis, è esattamente quello che sta succedendo al CEO di Palazzo Chigi. Beh, buona giornata.

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I consumi delle famiglie ai tempi della crisi.

(fonte:advexpress.it)

Secondo una ricerca di Gfk Eurisko, commissionata da Famiglia Cristiana, per 81 famiglie su cento in Italia non si stanno gettando le basi per il futuro. Per 69 su cento nel Paese “manca una visione condivisa sulle cose da fare”. Per 52 su cento da noi “si vive peggio rispetto agli altri Paesi europei”. “La crisi è ormai percepita non come evento passeggero, ma come un dato strutturale e le aspettative per il futuro sono decrescenti”, ha sottolineato Minoia, presidente onorario di Gfk Eurisko.

In positivo l’indagine dice che la famiglia tiene come istituzione di riferimento all’interno del Paese, conferma la propria centralità indiscussa e una salda vocazione civica, tutt’altro che corporativa o particolaristica. E’ un contenitore di valori etici e simbolici. Svolge una funzione fondamentale quale serbatoio di risorse economiche e finanziarie per costruire il futuro di figli e nipoti e costituisce un elemento di sostegno sociale determinante che spesso si fa carico di supplire delle carenze delle agenzie politiche e sociali.

Sul piano dei consumi, elaborando valori e scelte d’acquisto sempre più ragionate, innovative ed intelligenti, la famiglia italiana si conferma un interlocutore fondamentale per l’industria di marca. Dall’analisi emerge una riaffermazione proprio dei valori tipici delle grandi marche che, nonostante la congiuntura negativa, mantengono la loro attrattiva e il loro valore segnaletico a discapito dei prodotti anonimi.

La fedeltà alla marca preferita resta alta: non a caso calano sensibilmente le persone che si riconoscono nell’affermazione “una marca vale l’altra” quando si parla di qualità, valore, sicurezza. In un contesto di riduzione del potere d’acquisto dei salari, inevitabilmente, cresce l’attenzione delle famiglie per il prezzo e quindi l’attenzione per il prodotto di marca venduto in promozione.
“La crisi e la perdita del potere d’acquisto non pregiudicano il rapporto dei consumatori con le grandi marche”, conferma Minoia, “ma ne riconfigurano le modalità di accesso”. Non a caso i brand industriali generano il 70 per cento dei consumi: è il dato più alto registrato nei Paesi europei.

“Nel contesto di riscoperta e riaffermazione dei valori descritti nell’indagine di Gfk Eurisko”, rileva Luigi Bordoni, presidente di Centromarca, “trova spiegazione la tenuta della Marca, anche in una fase di grave difficoltà economica delle famiglie che avrebbe potuto far temere un suo declino. E’ proprio nell’insieme dei suoi valori, non solo merceologici o mercatistici, ma anche di responsabilità e di rigore nel senso più ampio, che la marca trova forza. In sintesi, nella sua “reputazione”.

Fin qui la ricerca. C’ è da sottolineare, però un passaggio: se la marca vince nelle promozioni, cioè con un politica commerciale basata sul ribasso dei prezzi, vuol dire che la fedeltà non è dovuta alla qualità, ma alla convenienza. Per dirla in altri termini: compro quello che costa meno, se è di marca, sono più tranquillo. Se le marche riusciranno a resistere, riusciranno a difendere la la fedeltà. Fino a quando? La risposta a questa domanda, ancorché capziosa, è la fotografia molto nitida della crisi. Beh, buona giornata.

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