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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia

Il governo italiano manovra per piazzare uomini di fiducia al comando della stampa?

di Miguel Mora – «El País» (da megachip.info)

Il cataclisma finanziario, il calo della pubblicità, l’adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono questioni che occupano tutti i giornali del mondo. Molti esperti, e non pochi lettori, temono che il processo incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo, assieme alla Russia, nel quale il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è duplice. Al duopolio televisivo, o piuttosto al monopolio tout court, formato da Mediaset e RAI, potrebbe presto aggiungersi una sorta di rivoluzione della stampa scritta.

Al fondo di questo movimento tellurico in incubazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono due testate milanesi molto prestigiose, il «Corriere della Sera», il più grande quotidiano italiano, e «Il Sole 24 Ore», il grande quotidiano economico del paese.

«Questa volta, Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà», ha detto Giancarlo Santalmassi, giornalista della RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando non è stato epurato, l’autunno scorso, dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale da parte del governo del Cavaliere nel 2006. Enzo Marzo, giornalista veterano del Corriere, ha concordato “pienamente” con Santalmassi. Giovedì, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa tenutosi presso la sede della Commissione europea a Roma, ha detto che la battaglia per la direzione del quotidiano è già iniziata.

Il nucleo dirigente del gruppo RCS – editore di Unedisa in Spagna – nonché proprietario del «Corriere», ha spiegato Marzo, ha ritirato la sua fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e tratta su due sostituti. Il primo è Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi, e il secondo è Roberto Napoletano, direttore de «Il Messaggero», che, ricorda Marzo, «divenne famoso nell’ultima notte elettorale, perché fu immortalato da una telecamera mentre patteggiava al telefono con il portavoce di Casini (leader della democristiana UDC dei Democratici e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che doveva piazzare il giorno dopo».

Rossella è il presidente di Medusa, la casa distributrice cinematografica di Berlusconi, e ha ricevuto la benedizione de «Il Giornale», il quotidiano della famiglia del magnate, che ha ricordato che questi lo «ha in grande simpatia, e lo ha già incaricato di dirigere le sue due più importanti testate, «Panorama» e Tg5 [il telegiornale di Canale 5].»

All’interno di RCS, Rossella conta su altri sostegni significativi: Diego Della Valle, proprietario di Tod’s e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e di Ferrari nonché amministratore delegato de «La Stampa».

Ma la parola di Berlusconi sarà decisiva, ragiona senza nessun cenno di pudore il quotidiano di suo fratello, perché, mentre la crisi strangola i giornali, «l’intero sistema bancario dipende dal primo ministro.»

Napoletano ha le sue carte: non spiace a Berlusconi ed è uno dei pochi a parlare al telefono con Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e editorialista per «Il Messaggero». Secondo «Il Giornale», il ministro «sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare» e la sua idea è quella di collocare Napoletano a «Il Sole» (proprietà, come Radio24, del padronato di Confindustria) e dare al suo attuale direttore, Ferruccio De Bortoli, il timone del «Corriere». Se non parlassimo dell’Italia, tutto questo fermento risulterebbe inverosimile, degno tutt’al più di una citazione in un pezzo di gossip. Ma tutte le fonti concordano nel segnalare che si tratta di “manovre serie e reali”, il cui effetto produrrà “un terremoto”.

Il malcontento del governo nei confronti di un altro grande giornale, «La Stampa» di Torino, di proprietà Fiat, è lampante. Secondo gli ambienti berlusconiani, il suo direttore, Giulio Anselmi, verrà tentato con una grande poltrona: quella di presidente dell’agenzia Ansa. Se accetta, verrà messo al suo posto un direttore meno ostile al governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani tengono testa come possono alla tempesta. Il presidente di RCS, Piergaetano Marchetti, che ha visto i profitti del gruppo abbassarsi nel 2008 a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo «gravi e immediati tagli di pubblicità.» E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo nei primi mesi dell’anno obbligherà a «ridurre il personale». «Dobbiamo agire sui costi e sui modelli di business, in Italia e all’estero.»

Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede ugualmente «chiusure e riallineamenti». In modo ironico, Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: «Entro dieci anni sarà splendido.» Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

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Attualità Popoli e politiche

Quando il Papa parla.

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni di Benedetto XVI: comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana, mal aiutato da chi lo circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il pontefice stesso, nella lettera scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli errori di gestione sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle opinioni del vescovo Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli scismatici «non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti altri gesti, e l’errore di gestione non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno fatto abortire una bambina in Brasile, stuprata e minacciata mortalmente perché gravida a 9 anni.

La scomunica, che colpisce anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife: il Vaticano l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta sull’aereo che lo portava in Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids – una verità evidente – ma perfino nocivi. C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex premier francese Juppé parla di autismo. Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del metodo in questa follia. C’è il riaffiorare possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono più vicini al vero coloro che stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo anniversario del suo annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo: l’associazione Il Nostro 58, sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta una prova spirituale.

Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica: l’occasione che riesumerà lo spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come in queste settimane che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che mai. Chi legga l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel che successe allora, che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato, e avversato oggi come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica di San Paolo, solo 24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio Vaticano III se il secondo è ai primordi. Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il filosofo Giovanni Reale sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull’Amore). Se in principio non c’è un dogma ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude Reale. Diventa inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in Africa, dove Aids e sovrappopolazione sono flagelli. In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento».

È un annuncio singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a un potere fine a se stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del suo vicario: una tentazione non del Papa forse – che nell’orizzonte nuovo pareva credere – ma di parte della Chiesa. L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un orizzonte vuoto non restano che astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui valori, innanzitutto: «La legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave dello stupro. In un caso la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli elogi del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi. Né Sobrinho né Re vedono l’uomo: né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta. Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che invece vide Giovanni XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale dell’Anima di Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere, anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della chiesa cattolica. (…) Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». Comprenderlo meglio era «riconoscere i segni dei tempi».

O come dice Melloni: indagare l’oggi. Vedere nell’uomo in quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il destinatario del messaggio, o il protagonista di un rifiuto, ovvero – peggio ancora – il mendicante ferito di un “senso” di cui la Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa Giovanni, Einaudi, 2009). Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della Chiesa non pensa come il Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga l’oggi, specie dove l’uomo è pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor Emmanuelle, che a 63 anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno scrisse una lettera a Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine continuamente ingravidate. Lo narra in un libro scritto prima di morire (J’ai 100 ans et je voudrais vous dire, Plon). Distribuiva profilattici senza teorizzare su di essi. Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte. Ma il silenzio ha un pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu grata: disse che il suo silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il silenzio che pensa, ha sete di sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì, va solo compreso meglio. Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo spirito soffia dove vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8). Soffia come il fato delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della forza. Chi fa silenzio o è solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero.

In Africa, il Papa ha accennato al «mito» della sua solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché questo ridere? Come capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione della forza (la forza numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi, impotente, incorre nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i malati che si difendono come possono dall’Aids? Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora paventa gli aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per rifarne una più pura. Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima tradizione. La tradizione del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede nei modi più diversi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Verso il Pdl: “La tendenza presidenzialista corre parallela all’affermarsi della ‘democrazia del pubblico’.”

di ILVO DIAMANTI da repubblica.it

LE polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.

Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell’esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, “premier”, echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire “personali” (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, “presidenziali”. Perché tutti – e non solo l’archetipo Forza Italia – sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento – per definizione – più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.

Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l’interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l’immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell’esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).

Alla preminenza dell’esecutivo sul Parlamento, d’altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i “grandi della Terra”, secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all’affermarsi della “democrazia del pubblico”, come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all’auditel.

Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall’Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l’Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: “Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle”. Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure – ahimé lunghe e complesse – della democrazia rappresentativa. E avanza l’idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all’italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l’aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l’immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più “popolari” di lui.

D’altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull’Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua – quasi un mantra – contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L’irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L’intento di intervenire anche sui giornali “indipendenti” più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l’Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l’insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Lo scioglimento di An: “Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo.”

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

OGGI Gianfranco Fini darà l’addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L’esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d’una propria identità, d’una propria egemonia che non deve disperdersi – così spera Fini – nel magma indistinto di Forza Italia.

Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l’inevitabile trascorrere del tempo che “va dintorno con le force”.

Si tratta d’una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio “libertà, eguaglianza, fraternità” in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.

E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l’unità contro le spinte centrifughe e l’eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l’economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.

Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell’atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell’impresa che non gli somiglia affatto anche il “boss dei boss”, il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?

Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l’attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell’opposizione riformista. Infine l’esito della crisi che infuria sull’economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.

Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent’anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza.

Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell’imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all’educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.

Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l’individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l’esaltazione della felicità immediata nell’immediato presente, l’antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.

Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull’incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.

Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell’amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi “colonnelli” hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati.

Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l’idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c’era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli.

Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all’Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L’esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.

Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l’attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione. Le analoghe dimensioni sono un’ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l’ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell’irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt’al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all’opposizione.

I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta “alta” sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.

Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.

Resta l’opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza. Franceschini è una scoperta e qualche risultato l’ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l’ha fatto, qualche punto di consenso l’ha riguadagnato. L’esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell’asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c’è e comincerà l’implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.

Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un’organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?

Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata. Nell’esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.

L’obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell’avvenire. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Il Papa in Africa: manco un minuto di silenzio per le vittime.

Benedetto XVI è stato accolto da danze tradizionali, colori e suoni di tamburi.

Ma il suo arrivo è stato preceduto da un grave incidente: due ragazze scout sono morte e almeno altre otto sono rimaste ferite nella calca per entrare allo stadio “Dos Coquiros” di Luanda, dove il Papa ha poi presieduto l’incontro con i giovani. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

Sky vs Mediaset: licenziato Mike Bongiorno (Mettete un Fiorello nei vostri cannoni).

(da ilmessaggero.it)

E’ ufficiale. Non vedremo più Mike Bongiorno sugli schermi di Mediaset. O meglio: l’azienda non esclude in futuro progetti con il maestro della tv, ma per ora il divorzio è certo. Mediaset non ha rinnovato il contratto al noto conduttore. E spiega: «Vincolare un simile personaggio ad un contratto di esclusiva con una sola azienda senza un progetto di produzione concretamente avviato, sarebbe stato controproducente per lo stesso Mike».

Mike ci tiene a sottolineare: non sono un traditore, semplicemente il contratto non è stato rinnovato. E ora Mike è libero di apparire in altre trasmissioni. Prima X-Factor sulla Rai nella serata in cui su Canale 5 andrà in onda la finale di Amici, e poi, immancabile, su Sky al fianco del partener ultra collaudato Fiorello che il 2 aprile sbarca sulla rete di Murdoch con un mega spettacolo. «Da molte parti leggo che Mike Bongiorno ha tradito Silvio Berlusconì, ma la verità è un’altra Mediaset prima della fine dell’anno scorso – spiega Mike – senza preavviso, non mi ha rinnovato il contratto che mi legava al gruppo fin dalla sua fondazione. Di conseguenza ora non avendo legami sono libero di svolgere il mio lavoro con chiunque».

La coppia Bongiorno-Fiorello è ormai consolidata. Nella lunga serie di spot pubblicitari, ma anche in iniziative “in strada”, come quando Fiorello epr festeggiare il mitico programma VivaRadioDue scese in strada con Bongiorno sotto gli studi Rai di via Asiago in veste di banda a stelle e strisce. In tv il duetto tv risale al novembre 2006, quando Mike, prestato da Mediaset, fu ospite d’onore su Raiuno di uno degli speciali tv di Viva Radiodue. E fece il picco di ascolti, 13 milioni di spettatori. «Questo è un avvenimento straordinario, un po’ come quando ho lasciato la Rai e sono andato a lavorare per Berlusconi a Mediaset», aveva detto Mike con tono profetico nello spot con Fiorello, in onda qualche giorno fa su Sky Sport poco prima di Torino-Juventus.

I rapporti con Mediaset. Qualcuno intanto ricorda che i rapporti fra il re del quiz e Mediaset – che nel 1990 lo nominò vicepresidente ad honorem di Canale 5 – negli ultimi tempi si erano un pò deteriorati: a Mike, per esempio, era dispiaciuto che l’unica a non festeggiare i suoi 80 anni era stata proprio la sua azienda. Mediaset, comunque, non chiude le porte al re del quiz e pensa «a nuovi progetti adeguati alla professionalità di Mike Bongiorno». Giorni fa Maurizio Costanzo aveva criticato la scelta di Mike di promuovere promuovere su Sky il nuovo show di Fiorello. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il mainstream e la quarta crisi.

di Pino Cabras – Megachip.info

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi – che però ancora facevano massa critica – per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali – molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l’analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All’opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato – gradualmente ma inesorabilmente – la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l’altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira – quella vera, non gli sfottò – che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L’esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un’impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l’impresa e la libertà d’intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l’insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un’idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E’ un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell’ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l’ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l’unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall’impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi continua a “bruciare” posti di lavoro: Thyssenkrupp, pronti 3.000 licenziamenti.

(ANSA) – ROMA, 19 MAR – ThyssenKrupp,il maggior gruppo siderurgico tedesco,si prepara a licenziare 3.000 lavoratori con il calo della domanda di acciaio. Il crollo della domanda infatti mandera’ in rosso il suo bilancio trimestrale per la prima volta negli ultimi tre anni. Il gruppo – scrive il Financial Times – ha deciso una riorganizzazione in due unita’ dalle attuali 5, che permettera’ risparmi per 500 milioni. Ciononostante le difficili condizioni di mercato – prevede il gruppo – comporteranno una perdita netta nel secondo trimestre di quest’anno. Per questo la conglomerata tedesca ha intenzione di mettere mano a oltre 3.000 licenziamenti nelle divisioni acciaio, navale e automobilistica, scrive il Ft citando fonti vicine al dossier. Quella decisa da ThyssenKrupp, un colosso che da’ lavoro a circa 200.000 persone e che e’ presente anche in Italia con stabilimenti concentrati a Torino e a Terni, e’ la prima ondata di licenziamenti veri e propri da parte di un grande gruppo industriale tedesco. Le azioni del gruppo siderurgico hanno chiuso in calo del 5,4% a 13,69 euro alla borsa di Francoforte. (ANSA) (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Bla-bla.

(fonte: AGI)
“Abbiamo ottenuto quello che volevamo”: il premier Silvio Berlusconi e’ soddisfatto al termine della prima giornata del Consiglio europeo. “E’ andata bene”, ha detto rientrando al suo albergo di Bruxelles dopo la cena con gli altri capi di governo dei 27 Paesi dell’Unione. In particolare, Berlusconi ha fatto riferimento all’investimento di 5 miliardi in infrastrutture europee: “Ci sono tanti progetti, tra cui il gasdotto dall’Algeria”. Il presidente del Consiglio non ha voluto aggiungere di piu’: “La conferma sara’ domani”, ha spiegato. E, riferendosi alla posizione comune che i leader Ue vogliono raggiungere in vista del G20 di inizio aprile, si e’ limitato a dire: “Ognuno ha espresso la sua idea”. (beh, buona giornata).

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Attualità

Quello che sta succedendo oltre l’Adriatico.

(fonte: RaiNews 24)

Forte esplosione ad Atene, non ci sono vittime
Atene Una bomba ad alto potenziale è esplosa davanti alla sede del demanio, nel centro di Atene, facendo gravi danni ma nessuna vittima, ultimo apparente attacco della guerriglia marxista contro lo Stato.

Il potente ordigno, di fabbricazione artigianale, è esploso intorno alle 21:30 tra le strade Koniari e Alexandra, a poca distanza dalla centrale generale della polizia e del tribunale supremo. Il boato e’ stato sentito in un vasto raggio. Sul posto sono accorsi artificieri ed esperti antiterroristi.

Le fonti ufficiali si sono limitate a confermare che si e’ trattato di un attentato, ma benche’ questo non sia stato rivendicato, gli osservatori tendono a ritenere che il tipo di ordigno e le circostanze dell’esplosione suggeriscano una nuova azione di ‘Lotta Rivoluzionaria’ (Ea) l’organizzazione armata marxista che ha rivendicato recentemente due attentati dinamitardi contro sedi della Citibank ad Atene.

In due comunicati Ea aveva avvertito che avrebbe continuato a colpire interessi politici, economici e la polizia ma non avrebbe sparso sangue di civili innocenti.

Il nuovo attentato avviene mentre il governo è sotto accusa da parte di stampa e opposizione per l’apparente incapacita’ a far fronte alla violenza terroristica e anarchica nel centro della capitale dopo i gravi incidenti che a dicembre erano seguiti all’uccisione da parte della polizia di uno studente di quindici anni. Accuse inaspritesi soprattutto dopo che attentati dinamitardi e attacchi contro le forze dell’ordine sono stati seguiti nei giorni scorsi da due raid di commandos anarchici ad Atene e Salonicco che hanno seminato distruzione e panico.

L’esecutivo ha successivamente annunciato, al termine di un vertice straordinario, l’adozione di alcune misure fra cui la creazione di unita’ speciali di intervento e il divieto all’uso di cappucci durante le manifestazioni. Ed ha chiesto l’aiuto di Scotland Yard. L’associazione dei commercianti ha da parte sua domandato al governo una revisione dell’immunita’ concessa agli Atenei, dopo la fine della dittatura dei colonnelli, e che
sarebbero divenuti ormai ‘santuari’ degli estremisti. In base alla legge la polizia non puo’ intervenire nei campus universitari se non su richiesta del rettore o di un magistrato per un reato grave ivi commesso. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Quello che sta succedendo oltre le Alpi.

(fonte: ilmanifesto.it)

Francia, sciopero: 3 milioni di manifestanti in strada

Lavoratori in corteo a Lione in occasione dello sciopero generale in Francia. REUTERS/Robert Pratta
PARIGI (Reuters) – Circa tre milioni di persone sono scese in strada oggi in Francia, nella seconda ondata di proteste contro la gestione della crisi economica da parte del presidente Nicolas Sarkozy per chiedere maggiori aiuti per i lavoratori in difficoltà.

Le proteste, a cui secondo i sondaggi sono favorevoli circa il 75% degli elettori francesi, riflettono la disillusione crescente della popolazione nei confronti delle riforme messe in atto dal governo, dopo che decine di migliaia di persone hanno perso il lavoro a causa della recessione.

Diverse centinaia di giovani si sono scontrati con la polizia alla fine della maggiore manifestazione sindacale a Parigi, sottolineando le tensioni nella nazione, che ha alle spalle una lunga storia di dimostrazioni pubbliche.

La giornata primaverile ha contribuito al successo delle manifestazioni, infatti il numero dei partecipanti ha ampiamente superato quello del primo giorno di proteste nazionali il 29 gennaio, secondo quanto riferito dai sindacati.

Ma nonostante la massiccia adesione, il primo ministro francese Francois Fillon ha respinto le richieste di maggiori aiuti statali dicendo che non sono previsti ulteriori piani di stimolo.

In centro a Parigi le strade erano occupate da manifestanti che mostravano striscioni ‘anti-Sarkozy’ e intonavano slogan.

In Francia i disoccupati sono oltre due milioni e anche molti di coloro che hanno un lavoro sono in difficoltà a causa dell’elevato costo della vita.

PROBLEMI AL SETTORE ENERGETICO

Lo sciopero generale ha creato grossi problemi anche al settore energetico francese, costringendo alla chiusura alcun centri di produzione di energia elettrica e danneggiando la produzione nelle sei raffinerie della Total, secondo quanto riferito dal sindacato Cgt.

Le otto sigle sindacali del paese hanno indetto una giornata di sciopero generale per oggi per sollecitare il governo e le aziende a fare di più per tutelare lavoro e stipendi a fronte della recessione economica. I lavoratori del settore energetico nella notte hanno ridotto di 10.500 megawatt la capacità produttiva di energia in Francia, di cui 9.000 Mw di capacità nucleare in 11 diversi impianti, secondo quanto riferito dal sindacato Cgt.

L’azienda statale di energia Edf ha dichiarato che il 28% dei suoi lavoratori ha aderito allo sciopero generale, cinque punti percentuali sotto la partecipazione allo sciopero del 29 gennaio.

Un reattore nucleare ha una capacità media di 1.000 Mw.

Le riduzioni non hanno avuto effetti sulle scorte destinate ai consumatori domestici ma hanno diminuito la capacità dell’azienda statale Edf di vendere energia elettrica destinata ai paesi vicini alla Francia.

Nel settore delle raffinerie, i lavoratori hanno scioperato nei sei impianti francesi di Total, seppur con un limitato impatto sulle operazioni di produzione, secondo quanto riferito dalla compagnia.

Cgt invece ha detto che lo sciopero ha provocato una sospensione della attività di raffineria della Total, che ha una capacità di circa 1 milione di barili al giorno.

I dipendenti della raffineria di Gonfreville, nel nord della Francia, hanno iniziato lo sciopero ieri per protestare contro un piano che prevede il taglio di posti di lavoro.

Le proteste si vanno ad aggiungere allo sciopero generale del 29 gennaio scorso, che ha visto un’ampia adesione da parte dei lavoratori del settore energetico e che ha avuto come ripercussione il taglio di circa il 20% della capacità energetica nucleare del Paese.

“Ci aspettiamo una maggiore riduzione della produzione nucleare più tardi e finora siamo stati limitati da Edf che ci ha chiesto di non ridurla ulteriormente”, ha detto un funzionario del sindacato.

Edf gestisce 58 reattori nucleari in Francia con una capacità totale di 63.260 Mw.

Si è fermato anche il principale hub petrolifero francese di Fos-Lavera, vicino a Marsiglia, impedendo a sette navi di caricare, secondo quanto riferito dai funzionari del porto. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Una precisazione a proposito della guerra tra Sky e Mediaset.

Ieri Confalonieri e Adreani (ad di Publitalia) hanno dichiarato un calo della raccolta pubblicitaria del -12% nel primo bimestre 2009. Quindi è inesatto dire che tutte le concessionarie calano tranne Publitalia, come ho erroneamente scritto in “Sky contro Auditel. Tom Mockridge ha letto “L’arbitro è il venduto”?

Ringrazio Salvatore Sagone, direttore di advexpress.it per la cortese precisazione di cui mi ha fatto partecipe. Mi scuso con Publitalia per l’inesattezza. E, soprattutto con i lettori di “Beh, buona giornata”, i quali avrebbero potuto avere la sensazione di una posizione predominante sul mercato della pubblicità da parte di Mediaset.

Nonostante le buone intenzioni di chi sta al governo, anche la tv commerciale soffre della “quarta crisi,” quella che sta attraversando i media e la pubblicità. Coraggio, il meglio è passato. Beh, buona giornata.

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Attualità Società e costume

Roma-Italy, storia di ordinaria xenofobia (con buona pace del sindaco Alemanno)

(lettera a il messaggero.it)
Ostia, Roma, linea 05/ treno 5 vettura 6024 diretto a Via Ebridi proveniente da Via Mar Rosso alla prima fermata dopo che Via dei Velieri incrocia Viale Vasco de Gama sono costretto ad arrestare la corsa del mezzo, aprire le porte e per la seconda volta in meno di 12 mesi a frappormi tra una donna italiana e una ragazza straniera (stavolta era dell’est europeo anziché nera) per evitare che si arrivi alle mani e finisca per pagarne il conto un bambino.

La vettura era piuttosto piena, la giornata bella e tutto procedeva tranquillamente quando una signora italiana di piccola statura con i capelli biondi ha iniziato a inveire contro una giovane ragazza per il passeggino con il bambino dentro che a suo dire le intralciava il passaggio, ne è nato un alterco tra le due donne con i toni usati dalla signora italiana che in un crescendo rossiniano divenivano sempre meno inerenti al passeggino e sempre più a sfondo razziale.

La giovane mamma ha avuto inizialmente un reazione di indifferenza e silenzio per poi cercare di rispondere educatamente quando alla fine, ripetutamente insultata (si è partiti da “siete tutti assassini” fino a “rimonta sur gommone”) in preda alle lacrime si è lanciata addosso alla sua controparte, inevitabile l’arresto della vettura, l’apertura delle porte e il dover intervenire frapponendomi tra le due contendenti, per fortuna questa volta non ho riscontrato la totale indifferenza della volta precedente e un ragazzo è corso in mio aiuto per sedare la lite ma purtroppo la tensione si è diffusa e alla fine l’intera vettura si è divisa tra chi esigeva da me che facessi scendere la giovane ragazza e il suo passeggino e chi altresì incitava invece a far scendere la signora italiana.

Una situazione assurda in cui ho dovuto urlare a squarciagola per sedare gli animi e affermare in tono imperativo che non avevo la facoltà di far scendere nessuno e che non potevo assolutamente toccare nessuno; in tutto questo tra le sostenitrici (perché la cosa triste è che a quell’ora verso le 11.39 i passeggeri sono per lo più anziane e donne) della defenestrazione della ragazza e del passeggino spuntava una signora bionda che mi accusava di essere la causa del problema anzi di averne in toto la colpa e la responsabilità perché avrei dovuto sin dall’inizio impedire alla ragazza e al suo passeggino di salire a bordo del mezzo!

A mio vantaggio per sedare gli animi e contenere la situazione ha giocato il tipo di vettura (Mercedes Citaro) caratterizzato da pochi posti in piedi, corridoio di camminamento strettissimo (permette il passaggio di una sola persona), due solo porte (di cui una singola posta sulla parte anteriore) con il quale ho cerchiobottistamente convinto le parti in causa che sebbene la norma preveda che i passeggini siano chiusi e i bambini presi in braccio era pur vero e incontrovertibile che il modello di bus era privo di spazi nei quali seppure chiuso fosse possibile tenere il passeggino (il corridoio ne risulterebbe comunque ostruito e lo spazio tra sedili è insufficiente, sfido chiunque con un passeggino e un metro a sostenere il contrario e dimostrarlo) , alla fine ho convinto la signora italiana ad accomodarsi vicino a me al posto guida (scoperto) e l’ho portata a distanza di sicurezza dalla ragazza dell’est.

Ciò che mi ha molto colpito è la vicinanza di due casi simili in uno spazio di tempo non molto ampio con un iter identico e un casus belli futile, indubbiamente le caratteristiche tecniche della vettura hanno influito ma la volta precedente si trattava ma questo non spiega il sentirsi coinvolto con il dovere di schierarsi di tutti gli altri passeggeri, si è calpestato tutto dalla sacralità della maternità (e a farlo erano delle donne!!!) all’innocenza di un bambino fino alla dignità umana!

La cosa sconvolgente è che erano presenti tra le passeggere donne anziane che hanno visto la guerra, le deportazioni, il fascismo e che pure inveivano genericamente contro la ragazza pretendendo che la buttassi fuori e la lasciassi a piedi per il passeggino ma sottolineando che se lo teneva aperto era per la sua provenienza geografica come se questa determinasse aprioristicamente il suo comportamento!

Se anche chi rappresenta la memoria vivente del passato ha dimenticato quanto orribile sia discriminare una persona, un essere umano per via del suo luogo di nascita mi chiedo se non si sia passato il confine che ci divide da una società non più degna di questo nome.

La cosa bella (si fa per dire) è che tutte le donne munite di passeggino non lo chiudono mai! Di qualunque colore, razza o religione! E che solitamente invitarle a farlo scateni una reazioni che vede l’autista letteralmente ricoperto di insulti da tutti i passeggeri che immantinentemente solidarizzano con la mamma in barba alle regole! L’altra cosa che evidenzia quanto sia soggetto a variazioni notevoli il comportamento umano è che se invece di una giovane ragazza sola ci fossero stati 4 o 5 bulletti (made in italy o d’importazione non conta) con i piedi sui sedili e la musica a tutto volume nessuno avrebbe fiatato!

Ci sono cose che non capirò mai. (Beh, buona giornata).

Roberto Staiano

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Lavoro Leggi e diritto Scuola Società e costume

L’Italia non è un paese per giovani.

di ROSARIA AMATO da repubblica.it

L’età giusta per un ingresso adeguato nel mondo del lavoro? Trentacinque-quarant’anni. E per una stabile affermazione professionale? Dai 50 ai 60. Non si tratta di una boutade, ma dei risultati del rapporto del Forum Nazionale dei Giovani e del Cnel, in collaborazione con Unicredit Group, dal titolo ” Urge ricambio generazionale – Primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova”.

Già i titoli dei vari capitoli del rapporto la dicono lunga sulle conclusioni dei ricercatori: “Non è un Paese per giovani: l’emarginazione politica di una generazione”. Oppure “In paziente attesa del proprio turno. Diventare medico in Italia”. O ancora: “L’odissea dei giovani avvocati tra la libera professione e la trappola del precariato”. I vari percorsi professionali analizzati nel corso dell’indagine differiscono tra loro per le caratteristiche, ma non per le enormi difficoltà incontrate in misura sempre maggiore dai giovani, soprattutto negli ultimi anni.

“Il quadro che emerge non è incoraggiante – osservano gli autori del rapporto – e lo spaccato della gioventù italiana è permeato da una forte sicurezza individuale e sociale: i giovani italiani, seppur capaci e meritevoli, a fatica riescono ad affermarsi professionalmente e ad emanciparsi dalla propria famiglia prima dei quarant’anni. Non a caso si è andata affermando una nuova categoria sociale: quella dei giovani-adulti. Né tanto meno i giovani italiani sono nelle condizioni di poter incidere sulle scelte politiche, economiche e sociali della nazione, essendo esclusi da tutti i cosiddetti “circuiti” del potere”.

Under-35: precario uno su due. Prima ancora che dalla politica, tuttavia, l’emarginazione dei giovani italiani nasce nel mondo del lavoro. “Incertezza, disoccupazione, bassi salari sono tre dei principali fattori di disagio con cui i giovani guardano al problema del lavoro”, dice il presidente del Cnel Antonio Marzano. I dati: oltre un collaboratore su due ha meno di 35 anni. Ma non si tratta di contratti d’ingresso: secondo l’Istat, il 73,1% dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, a distanza di un anno erano ancora nella stessa posizione. Naturalmente chi lavora per 10 anni a progetto, come collaboratore, o a tempo determinato “ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto escluso dalle posizioni di vertice”.

Per i giovani retribuzioni più basse. Lavori meno importanti, retribuzioni più basse. “Se nel 2003 il guadagno medio lordo di un giovane d’età compresa tra i 24 e i 30 anni – si legge nel rapporto – era di 20.252 euro, rispetto ai 25.032 euro percepiti dagli over50, nel 2007 il divario si è significativamente ampliato: a fronte dei 22.121 euro corrisposti agli under30, i 51-60enni hanno percepito una retribuzione media lorda di 29.976 euro”.

E i disoccupati sono in forte aumento. Ma tra gli under-35 non ci sono solo i precari malpagati, ci sono anche i disoccupati, e ce ne sono molti di più che nelle altre fasce di età. “Tra il 2006 e il 2007 crescono di circa 200.000 i giovani inattivi, cioè ragazzi che non lavorano e non cercano lavoro. Questi giovani hanno avuto un brusco cambiamento di status: nel 2006 erano formalmente inseriti nelle forze di lavoro (come occupati o persone in cerca), mentre nel 2007 hanno deciso di non provare nemmeno a cercare un lavoro”. A questi si aggiungono 430.000 giovani che nel 2006 erano in cerca di prima occupazione, e l’anno successivo sono risultati inattivi.

Classi dirigenti sempre più vecchie. Visto che i giovani sono tenuti fuori dal mondo del lavoro, o al più lavorano in posizione marginali, guadagnando poco, le classi dirigenti negli ultimi anni sono invecchiate inesorabilmente. Da un’analisi condotta sulla banca dati del Who’s who (il database dei top manager pubblici e privati) risulta “un sensibile aumento dell’età delle classi dirigenti italiane: si è passata da una media di 56,8 anni a una di quasi 61 (60,8 anni). Un sistema di potere che invecchia di anno in anno, quello italiano, in tutti gli ambiti: anche i neoparlamentari hanno un’età media di 51 anni. Dal 1992 a oggi i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10% degli eletti alla Camera, fatta eccezione per la XII Legislatura (nella quale costituivano il 12,4%). Infatti negli anni ’90 sembrava essersi instaurata, almeno nel Parlamento, una dinamica favorevole ai giovani, ma nell’attuale decennio si è decisamente interrotta. E quindi i giovani dai 25 ai 25 anni, che costituiscono il 18,7% della popolazione maggiorenne, hanno una rappresentanza pari solo a un terzo dell’incidenza effettiva sugli elettori.

La Lega Nord il partito più “giovane”. La rappresentanza giovanile è scarsa in tutti i partiti, con l’unica eccezione della Lega Nord, che presenta nell’ultima legislatura un 20,1% di eletti tra gli over35 contro l’11,4% tra i 25-35enni; per gli altri partiti la percentuale di eletti in età matura è quasi il triplo (47,4%). Anche nelle amministrazioni comunali, sostengono gli autori del rapporto, “nell’ultimo decennio gli under35 hanno perso terreno: finanche a livello locale le oligarchie di partito tendono ad estromettere le nuove generazioni dal governo del territorio”.

L’Università: nessun ricambio generazionale. Il rapporto analizza poi alcune professioni in particolare. Si comincia dal mondo accademico, sclerotizzato in misura inimmaginabile: tra i professori ordinari l’età media è di 59 anni. “Nel dettaglio, la metà dei professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su 100 (7,6%) hanno compiuto i 70 anni”. Non va meglio per le fasce più basse: l’età media dei professori associati è di 52 anni, e quella dei ricercatori è di 45. Solo il 3,4% di chi ottiene un dottorato di ricerca, infine, ha meno di 28 anni.

Ma va male anche nelle libere professioni. Non va meglio nelle libere professioni. Il giornalismo, la medicina, l’avvocatura e il notariato hanno tempi di accesso lunghissimi: “Per i più stage, tirocini gratuiti e condizioni di estremo precariato o sotto-occupazione di susseguono senza soluzione di continuità fino a oltre 40 anni. Qualche esempio: l’età media dei praticanti giornalisti è di 36 anni. I medici con non più di 35 anni sono poco meno del 12%, mentre i 35-39enni, rispetto a 11 anni fa, sono diminuiti del 13,8%. Mentre gli avvocati, pur iscritti all’albo, sono costretti per anni e anni a un ruolo umiliante di garzoni di bottega, e tra i notai due su dieci sono figli d’arte.

I padri tolgono in pubblico e restituiscono in privato. In questo scenario desolante il ruolo delle famiglie è ambiguo. Infatti in Italia ci sarebbero tutte le condizioni perché esploda un feroce conflitto generazionale tra i padri che mantengono il potere fino alla tomba e i figli esclusi, ma non esplode un bel niente perché, rilevano gli autori dell’indagine, “i genitori italiani sono tra i più generosi d’Europa quando è necessario dare un aiuto ai propri figli”, mentre “nel momento in cui sono chiamati a pensare ai giovani in quanto tali (e quindi ai figli degli altri) diventano molto egoisti”. In pratica, conclude il rapporto, “ci troviamo di fronte a una vera e propria legge del contrappasso: ciò che i genitori tolgono ai propri figli nella vita pubblica, è restituito (e con interessi molto alti) all’interno dei nuclei familiari”. Ma le conseguenze non sono positive: “Il rischio è che i giovani, rassegnati a questo immobilismo sociale, continuino ad accettare la propria condizione di emarginati in una società organizzata per caste e al cui vertice si trova una gerontocrazia inamovibile”.

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Finanza - Economia - Lavoro

Crisi globale: Berlusconi, uno che c’ha “le balle”.

«Molti paesi membri del G20 devono ancora avvertire il pieno impatto della crisi, per questo dovrebbero adottare azioni immediate per contenere un ulteriore deterioramento della situazione». FMI (Fondo monetario internazionale) dixit. Beh, buona giornata.

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Scuola

La somara, raccomandata con ricevuta di ritorno al Ministero dell’ Istruzione.

“Anche io ho preso un 5 in condotta ma non sono mai stata rimandata”. Gelmini dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Il giudizio dell’ONU su i valori della Destra al governo in Italia.

“È evidente e crescente l’incidenza della discriminazione e delle violazioni dei diritti umani fondamentali nei confronti degli immigrati in Italia. Nel paese persistono razzismo e xenofobia anche verso richiedenti asilo e rifugiati, compresi i Rom. Chiediamo al governo di intervenire efficacemente per contrastare il clima di intolleranza e per garantire la tutela ai migranti, a prescindere dal loro status”. ILO, organizzazione internazionale del lavoro, dipartimento ONU dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Scuola

Tornano di moda: “penne d’ordine” contro gli studenti.

di Giovani Sabbatucci da ilmessaggero.it

Il rituale è antico e collaudato. Gruppi di studenti protestano contro qualche decisione dei governi o delle autorità accademiche, organizzano cortei e occupazioni, lanciano slogan violenti, qualche volta occupano sedi universitarie, scuole o altri spazi pubblici.

Da qualche mese a questa parte, obiettivo della protesta sono i tagli alla spesa universitaria decisi dal ministro Gelmini, in parte ridimensionati e comunque contestati da un fronte abbastanza ampio che comprende anche docenti e organizzazioni sindacali. Ma le occasioni per protestare non sono mai mancate e verosimilmente non mancheranno in futuro.

L’impressione è che, in molti casi, la mobilitazione sia soprattutto fine a se stessa, che serva cioè a tenere in vita un “movimento” altrimenti destinato a esaurirsi: se poi, come è avvenuto ieri mattina alla Sapienza, parte una carica della polizia, l’obiettivo può dirsi per lo più raggiunto, visto che la repressione suscita ulteriore mobilitazione e così via all’infinito.

Fin qui tutto scontato e tutto già visto: ciò che colpisce è però la sproporzione sempre più evidente fra la consistenza numerica del movimento e la sua capacità di mobilitarsi e di occupare spazi. Ieri, davanti ai cancelli di piazzale Aldo Moro, c’erano poche centinaia di giovani, fronteggiati da un numero di poco inferiore di agenti di polizia in assetto antisommossa; dentro le facoltà, lo dico da testimone oculare, le lezioni e le altre attività accademiche si svolgevano regolarmente, senza che nessuno sapesse che cosa stava succedendo fuori.

L’“onda” evocata dalla protesta studentesca non aveva in realtà nulla di travolgente. Eppure gli incidenti (per fortuna non gravi), provocati dal rifiuto della polizia di lasciar partire un corteo non autorizzato, rischiano di mettere in moto altre agitazioni e di suscitare altre turbative della didattica, con inevitabile pregiudizio degli interessi dei più.

Nemmeno questa, a guardar bene, è una novità. Anche negli anni Sessanta e Settanta, e persino durante il mitico 76essantotto, gli studenti attivi nella contestazione erano una minoranza nel paese e nella stessa Università. Ma erano una minoranza consistente, collegata a un più generale e duraturo movimento di protesta sociale. Oggi i protestatari non solo sono espressione di un’area politica (la sinistra estrema) ridotta ai minimi termini, non solo rappresentano, come in passato, una minoranza della popolazione studentesca, ma appaiono sempre più isolati e arroccati nella difesa di spazi occupati non si sa bene a che titolo.

Anche le minoranze, naturalmente, hanno diritto di manifestare le loro opinioni in piazza, nei limiti stabiliti dalla legge (la normativa attualmente in vigore a Roma, come si sa, impone qualche restrizione, a tutela della libertà di movimento dei cittadini). Ciò che una minoranza protestataria – per quanto attiva, per quanto rumorosa, per quanto radicata in una tradizione ormai più che quarantennale – non può pretendere e attribuirsi una rappresentanza categoriale che nessuno le ha mai conferito (i risultati delle elezioni studentesche di qualche mese fa parlano chiaro in proposito), occupare spazi pubblici che nessuno le ha mai concesso, rifiutare ogni controllo di rappresentatività in base a una retorica assembleare che non ha nulla a che vedere con le procedure democratiche.

Fondandosi su queste premesse, il movimento potrà anche conoscere qualche giornata di gloria mediatica, guadagnare qualche generico e distratto sostegno in una parte (minoritaria) dell’opinione pubblica, e soprattutto centrare il suo obiettivo principale, ossia la perpetuazione di se stesso. Ma al prezzo di esaurirsi nella sua autoreferenzialità, di sopravvivere come fenomeno residuale, tollerato più per abitudine che per convinzione. Non ne trarrà vantaggio la funzionalità di un’istituzione universitaria di per sé già abbastanza disastrata. E, paradossalmente, non se ne gioverà nemmeno l’efficacia della protesta. (Beh, buona giornata).

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Attualità Scuola

Tornano di moda: fascistelli e polizia contro gli studenti.

da torino.repubblica.it

Scontri oggi a Torino a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, tra alcune decine di studenti del Fuan-Azione Universitaria e quelli dei Collettivi universitari autonomi che si sono spintonati sulle scale d’ingresso dell’ateneo. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine che hanno disperso i due gruppi Al centro della contestazione il volantinaggio fatto dal Fuan all’esterno di Palazzo Nuovo per le elezioni universitarie.

Secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine, quando i giovani del Fuan hanno cercato di entrare nell’Università per riunirsi in un’aula concessa dal Rettore, gli autonomi hanno bloccato l’ingresso. Ne è nata una contrapposizione fra i due gruppi con insulti, scambio di pugni e spintonamenti. Soltanto dopo l’intervento delle forze dell’ordine che hanno effettuato una carica, i giovani del Fuan sono entrati nell’Ateneo ed hanno potuto raggiungere l’aula.

All’interno, tuttavia, i giovani dei Collettivi contestano attualmente l’incontro con slogan contro gli studenti del Fuan. Lo scorso 9 marzo, per lo stesso motivo, c’erano stati incidenti con vari feriti tra le forze dell’ordine e un autonomo arrestato. In seguito il rettore Pelizzetti ha vietato all’interno di Palazzo Nuovo volantini elettorali e banchetti per la raccolta firme. (Beh, buona giornata).

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