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Il pacchetto sicurezza ha preso di mira Internet.

Con il pacchetto sulla sicurezza approvato dal Senato, il Governo italiano dà al ministro degli Interni il potere di chiudere siti Internet, filtrarli e multarli pesantemente.

Infatti, il pacchetto sulla sicurezza appena approvato dal Senato (dovrà ancora tornare alla Camera) prevede che il ministero dell’Interno potrà ordinare l’oscuramento dei siti Internet sui quali si commette il reato di apologia o si istiga a delinquere. Lo stesso ministero potrà chiedere che vi vengano apposti filtri adeguati. I siti “disobbedienti” dovranno pagare una sanzione dai 50mila a 250mila euro.

In pratica il governo si arroga un potere che nei Paesi democratici può essere esercitato solo dall’autorità giudiziaria e mai dal governo per via amministrativa.
Il senatore  Gianpiero D’Alia, dell’UDC, firmatario dell’emendamento anti-internet accolto nel pacchetto sulla sicurezza ha detto: “In questo modo diamo concretezza alle nostre iniziative per ripulire la rete, e in particolare il social network Facebook, dagli emuli di Riina, Provenzano, delle Br, degli stupratori di Guidonia e di tutti gli altri cattivi esempi cui finora si è dato irresponsabilmente spazio.” 

Ripulire? Un verbo che evoca tristi esempi di soppressione delle libertà civili.

E’ la solita vecchia storia della censura di tutti i tempi: fare della libertà di opinione e di espressione una mera questione di ordine pubblico.  

Ecco il testo inserito nel pacchetto sicurezza, con i complimenti ai senatori che lo hanno approvato e a quelli che, pur non condividendolo non lo hanno pubblicamente denunciato come  attentato alla libertà di espressione, di opinione  e al diritto all’ informazione.  Così i complici si sono deliberatamente messi sullo stesso piano  dei colpevoli. (Beh, buona giornata)

Art. 50-bis.

(Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet)

1. Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

2. Il Ministro dell’interno si avvale, per gli accertamenti finalizzati all’adozione del decreto di cui al comma 1, della polizia postale e delle comunicazioni. Avverso il provvedimento di interruzione è ammesso ricorso all’autorità giudiziaria. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengano meno i presupposti indicati nel medesimo comma.

3. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, per l’effetto del decreto di cui al comma 1, devono provvedere ad eseguire l’attività di filtraggio imposta entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000, alla cui irrogazione provvede il Ministro dell’interno con proprio provvedimento.

4. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente legge il Ministro dell’interno, con proprio decreto, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione, individua e definisce i requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio di cui al comma 1, con le relative soluzioni tecnologiche.

5. Al quarto comma dell’articolo 266 del codice penale, il numero 1) è così sostituito: “col mezzo della stampa, in via telematica sulla rete internet, o con altro mezzo di propaganda”.»

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Prove tecniche di Terza repubblica: il Vaticano contro Napolitano.

di LUIGI LA SPINA da lastampa.it
Lo strapotere della Chiesa lo scivolone del Quirinale il pugno del Cavaliere.

In un momento in cui ogni coscienza si sente dilaniata da una scelta ugualmente terribile e iniqua, in una questione in cui nessuno si può arrogare il monopolio della giustizia e della verità perché è il dubbio che ci tormenta, c’è una sensazione che addolora di più e acuisce tristezza e pena: la consapevolezza che il grave conflitto politico e istituzionale che si è aperto ieri si gioca sulla pelle di una ragazza. Anzi, sul corpo di una ex ragazza divenuta donna nella lunghissima attesa della morte.

Se guardiamo l’incalzare febbrile delle vicende che, in queste ore, si sono susseguite fuori da quella porta che, fortunatamente, ancora separa Eluana dai politici, dai giudici, dai preti, dai dimostranti, dagli schermi tv, si possono cogliere almeno tre impressioni fondamentali: la volontà della Chiesa cattolica, meglio del Vaticano, di dimostrare la forza del suo potere sulla classe politica italiana; la mossa irrituale, comprensibile ma forse sbagliata nella valutazione delle conseguenze, da parte del presidente Napolitano, quando ha spedito la lettera con il preventivo «no» al decreto; il pugno di Berlusconi, con un duplice obbiettivo, di mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica e di dimostrare la necessità di una riforma costituzionale che rafforzi i poteri del premier.

Per i laici è solo una coincidenza, per i credenti un segno provvidenziale. Per tutti, è comunque curioso che proprio nei giorni in cui si celebrano l’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa e il quarto di secolo della revisione di quegli accordi, allo scontro tra istituzioni italiane si affianchi il rischio di una dura polemica tra Santa Sede e presidenza della Repubblica. Con ministri vaticani che criticano pesantemente Napolitano.

Nell’augurio che non si apra nella società italiana una «guerra di religione» di cui non si sente davvero il bisogno, né se ne comprende la giustificazione, è interessante notare come, sul caso Eluana, sia stata la Santa Sede a esprimere i toni più forti ed esasperati, sia nella polemica pubblica sia col protagonismo indiscusso del Segretario di Stato, cardinal Bertone, nel dialogo con i leader della nostra scena politica. Questo corrisponde alla prevalenza, ormai evidente nel pontificato di Benedetto XVI, degli aspetti teologici su quelli diplomatici. Un carattere che tende a sottovalutare il ruolo anche di capo di Stato che il Pontefice riveste e, quindi, delle pesanti conseguenze che certe parole e certe accuse possono avere sul rapporto tra Vaticano e presidente di uno Stato laico. Uno Stato che rivendica, o dovrebbe rivendicare, la piena autonomia delle sue scelte contro ogni tipo di ingerenze esterne, sia spirituali che temporali.

Sarebbe un errore, però, scambiare l’indubbio segnale di forza dimostrato dal Vaticano sulla classe politica italiana, con un’accresciuta influenza della Chiesa nella nostra società. Forse alla debolezza dei partiti e delle leadership si affianca, parallelamente, il timore dei vertici vaticani di un crescente distacco tra i sentimenti e i costumi degli italiani e la Chiesa. Un rischio che si cerca di esorcizzare più con fredde dimostrazioni di potere e di autorità che con manifestazioni di vicinanza pastorale ed affettiva ai problemi concreti della nostra popolazione.

Nell’ex residenza dei Papi, al Quirinale, si è vissuta una giornata di altrettanta tensione. È stato evidente il tentativo compiuto da Napolitano di avvertire pubblicamente Berlusconi di quella responsabilità di uno scontro istituzionale che si sarebbe assunta varando il decreto per Eluana. Nel timore di dover esprimere un «no» che lo avrebbe esposto all’accusa di aver voluto firmare una sentenza di morte. Ma il parere preventivo, arrivato proprio durante un consiglio dei ministri che stava decidendo sulla questione, può apparire lesivo di quella piena autonomia e responsabilità che la Costituzione riserva al governo in questi casi.

Nella partita a scacchi tra organi dello Stato che si è svolta ieri resta da notare la determinazione del presidente del Consiglio nell’imboccare consapevolmente la via dello scontro col Quirinale. Non tanto e non solo per piegarsi alle volontà del Vaticano, assumendo il ruolo di difensore della fede e della morale cattolica nella politica italiana, in una versione confessionale dell’eredità democristiana. Quanto per assestare, in modo clamoroso, un colpo al prestigio e al ruolo del Capo dello Stato e a chi, come Fini, ne segue troppo pedissequamente i consigli. Sfogando un risentimento che Berlusconi cova da tempo nei confronti di Napolitano e che, finora, si era acconciato a mimetizzare nella diplomazia istituzionale molto a malincuore. Nella speranza, inoltre, di dimostrare quanto sia necessario un riequilibrio dei poteri a favore della presidenza del Consiglio, manifestatasi così impotente in una questione così delicata. Sarà difficile che una riforma costituzionale quale Berlusconi vagheggia sia realizzabile, almeno in tempi ragionevolmente brevi. Ma in politica, soprattutto in quella italiana, non sempre servono i risultati. Bastano le intenzioni. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica: l’appello di Libertà e Giustizia.

Firma l’appello su www.libertaegiustizia.it

“Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità… La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti.
Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”.
Norberto Bobbio

Primi firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Umberto Eco, Claudio Magris, Guido Rossi, Sandra Bonsanti, Giunio Luzzatto, Simona Peverelli, Elisabetta Rubini, Salvatore Veca.

Rompiamo il silenzio. Mai come ora è giustificato l’allarme. Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti. Quando i legami sociali sono messi a rischio, non stupiscono le idee secessioniste, le pulsioni razziste e xenofobe, la volgarità, l’arroganza e la violenza nei rapporti tra gli individui e i gruppi. Preoccupa soprattutto l’accettazione passiva che penetra nella cultura. Una nuova incipiente legittimità è all’opera per avvilire quella costituzionale. Non sono difetti o deviazioni occasionali, ma segni premonitori su cui si cerca di stendere un velo di silenzio, un velo che forse un giorno sarà sollevato e mostrerà che cosa nasconde, ma sarà troppo tardi.

Non vedere è non voler vedere. Non conosciamo gli esiti, ma avvertiamo che la democrazia è in bilico.

Pochi Paesi al mondo affrontano l’attuale crisi economica e sociale in un decadimento etico e istituzionale così esteso e avanzato, con regole deboli e contestate, punti di riferimento comuni cancellati e gruppi dirigenti inadeguati. La democrazia non si è mai giovata di crisi come quella attuale. Questa può sì essere occasione di riflessione e rinnovamento, ma può anche essere facilmente il terreno di coltura della demagogia, ciò da cui il nostro Paese, particolarmente, non è immune.

La demagogia è il rovesciamento del rapporto democratico tra governanti e governati. La sua massima è: il potere scende dall’alto e il consenso si fa salire dal basso. ll primo suo segnale è la caduta di rappresentatività del Parlamento. Regole elettorali artificiose, pensate più nell’interesse dei partiti che dei cittadini, l’assenza di strumenti di scelta delle candidature (elezioni primarie) e dei candidati (preferenze) capovolgono la rappresentanza. L’investitura da parte di monarchie o oligarchie di partito si mette al posto dell’elezione. La selezione della classe politica diventa una cooptazione chiusa. L’esautoramento del Parlamento da parte del governo, dove siedono monarchi e oligarchi di partito, è una conseguenza, di cui i decreti-legge e le questioni di fiducia a ripetizione sono a loro volta conseguenza.

La separazione dei poteri è fondamento di ogni regime che teme il dispotismo, ma la demagogia le è nemica, perché per essa il potere deve scorrere senza limiti dall’alto al basso. Così, l’autonomia della funzione giudiziaria è minacciata; così il presidenzialismo all’italiana, cioè senza contrappesi e controlli, è oggetto di desiderio.

Ci sono però altre separazioni, anche più importanti, che sono travolte: tra politica, economia, cultura, e informazione; tra pubblico e privato; tra Stato e Chiesa. L’intreccio tra questi fattori della vita collettiva, da cui nascono collusioni e concentrazioni di potere, spesso invisibili e sempre inconfessabili, è la vera, grande anomalia del nostro Paese. Economia, politica, informazione, cultura, religione si alimentano reciprocamente: crescono, si compromettono e si corrompono l’una con l’altra. I grandi temi delle incompatibilità, dei conflitti d’interesse, dell’etica pubblica, della laicità riguardano queste separazioni di potere e sono tanto meno presenti  nell’agenda politica quanto più se ne parla a vanvera.

Soprattutto, il risultato che ci sta dinnanzi spaventoso è un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti, respinge chi, per difendere la propria dignità, non vuole asservirsi, mortifica le energie fresche e allontana i migliori. È materia di giustizia, ma anche di declino del nostro Paese, tutto intero. 

Guardiamo la realtà, per quanto preoccupante sia. Rivendichiamo i nostri diritti di cittadini. Consideriamo ogni giorno un punto d’inizio, invece che un punto d’arrivo. Cioè: sconfiggiamo la rassegnazione e cerchiamo di dare esiti allo sdegno. 

Che cosa possiamo fare dunque noi, soci e amici di Libertà e Giustizia? Possiamo far crescere le nostre forze per unirle alle intelligenze, alle culture e alle energie di coloro che rendono vivo il nostro Paese e, per amor di sé e dei propri figli, non si rassegnano al suo declino. Con questi obiettivi primari.

Innanzitutto, contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo. Nelle condizioni politiche attuali del nostro Paese, esse sarebbero non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche.

Difendere la legalità contro il lassismo e la corruzione, chiedendo ai partiti che aspirano a rappresentarci di non tollerare al proprio interno faccendieri e corrotti, ancorché portatori di voti. Non usare le candidature nelle elezioni come risorse improprie per risolvere problemi interni, per ripescare personaggi, per pagare conti, per cedere a ricatti. Promuovere, anche così, l’obbligatorio ricambio della classe dirigente.

Non lasciar morire il tema delle incompatibilità e dei conflitti d’interesse, un tema cruciale,  che non si può ridurre ad argomento della polemica politica contingente, un tema che destra e sinistra hanno lasciato cadere. Riaffermare la linea di confine, cioè la laicità senza aggettivi, nel rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, indipendenti e sovrani “ciascuno nel proprio ordine”, non appartenendo la legislazione civile, se non negli stati teocratici, all’ordine della Chiesa.

Promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali.

Sono obiettivi ambiziosi ma non irrealistici se la voce collettiva di Libertà e Giustizia potrà pesare e farsi ascoltare. Per questo chiediamo la tua adesione. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica.

“La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato.”

di EZIO MAURO da repubblica.it

UNA questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d’urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a “rivolgersi al popolo” per cambiare la Costituzione.

Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un’esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l’istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.

È uno scontro che segna un’epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un’altra, che ha l’impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l'”istituzionalizzazione del carisma” e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all’italiana.

Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all’opportunità di dare alla sua destra senz’anima e senza tradizione un’identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell’alimentazione e dell’idratazione per Eluana.

Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l’insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all’esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all’istituto della “moral suasion”, ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d’urgenza. C’è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c’è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare “il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto” tra poteri dello Stato, c’è la norma costituzionale dell’uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c’è la funzione di “garanzia istituzionale” che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l’invito al governo di “evitare un contrasto”, riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.

Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l’occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali (“Non mi voglio sentire responsabile di un’omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita”) ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi (“Lo stato vegetativo potrebbe variare”), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: “Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio”.

Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d’urgenza è l’unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato “decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita”, non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento “a riunirsi ad horas” per approvare “in due o tre giorni” una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l’esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. “Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo”.

La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l’unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un’aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all’esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell’urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di “caricarsi della responsabilità di una vita”. Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.

La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L’assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all’esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i “lodi” che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l’eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.

Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l’immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall’altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua “profonda delusione” per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).

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Dopo Wall Street crolla anche il Wall Street Journal: la crisi della pubblicità mette in crisi i giornali.

da repubblica.it

Primo rosso da oltre tre anni per la News Corporation di Rupert Murdoch: il colosso dei media chiude il secondo trimestre dell’esercizio 2008-2009 con perdite per 6,4 miliardi di dollari. E annuncia un “rigoroso taglio dei costi” che si tradurrà in una riduzione della forza lavoro, anche al Wall Street Journal. A pesare sui conti della società sono gli 8,4 miliardi di svalutazioni effettuate e il calo della raccolta pubblicitaria sia dei quotidiani del gruppo sia delle stazioni televisive, che hanno visto scendere l’utile di gestione del 93%.

“I nostri risultati trimestrali riflettono direttamente il difficile clima economico” spiega Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. “Il rallentamento è più severo e probabilmente più lungo di quanto precedentemente previsto” e per questo News Corp “sta mettendo in atto un rigoroso piano di riduzione dei costi in tutte le attività e di riduzione personale dove è opportuno”.

La riduzione dell’organico riguarderà anche il Wall Street Journal, l’illustre quotidiano economico di Dow Jones, gruppo acquistato da Murdoch nel dicembre 2007 per 5,2 miliardi di dollari. L’imprenditore non ha specificato quali settori del gruppo saranno colpiti dal ridimensionamento. Ma secondo quanto riportato dallo stesso Wall Street Journal, i tagli riguarderanno circa 24 posizioni e saranno effettuati attraverso licenziamenti e incentivi all’uscita.

News Corp, così come tutte le società media, accusa un calo della raccolta pubblicitaria, oltre che un rallentamento nelle vendite di dvd. Nel trimestre che si è chiuso il 31 dicembre scorso le vendite di News Corp sono scese del 9,4% a 7,87 miliardi di dollari, al di sotto quindi delle attese degli analisti. Nel quarto trimestre 2008 l’industria dei giornali americana ha accusato – secondo le stime di Wachovia Capital markets – un calo della raccolta pubblicitaria del 20%.

Fra le varie unità del gruppo News Corp, la divisione cable network ha registrato un utile operativo di 428 milioni di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle pubblicità. La divisione film e produzione televisiva, invece, ha visto scendere i propri profitti del 72% a causa della brusca frenata delle vendite di dvd.

Significativa battuta d’arresto anche per la divisione via satellite, i cui profitti operativi sono scesi dell’84% in seguito all’aumento dei costi legato al più alto volume di sottoscrittori, e ai diritti tv per lo sport rincarati, così come i costi di marketing. In rosso anche Fox Interactive e MySpace, che soffrono una perdita di 38 milioni in seguito all’espansione internazionale, alla crescita del numero di utilizzatori unici e al lancio di MySpace Music. (Beh, buona giornata).

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L’Unione europea contro la legge Gasparri: un richiamo ufficiale sul duopolio Rai Mediaset.

da ilmessaggero.it

La Legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo e della Rai è ancora sotto osservazione da parte della Ue. Il portavoce della Commissione Ue Jonathan Todd ha confermato le notizie secondo le quali ieri Bruxelles ha inviato un nuovo richiamo a Roma con una lettera indirizzata al governo.

La procedura, aperta nel luglio 2006, contesta in particolare il sistema di duopolio televisivo dell’Italia, con Rai e Mediaset, e il sistema in vigore di assegnazione delle frequenze digitali. E nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale l’Italia avrebbe riprodotto lo schema di duopolio. Bruxelles chiede dunque al governo italiano di superare questa situazione cambiando i criteri previsti. 

«La procedura di infrazione Ue contro la Legge Gasparri non è stata affatto archiviata e la mancata apertura del mercato delle frequenze è una grave ipoteca sulla transizione al digitale nel nostro paese» ha detto Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Pd. Il decreto dello scorso anno «non serviva a chiudere la procedura di infrazione, ma dava una ulteriore legittimazione all’occupazione di fatto delle frequenze da parte di emittenti come Rete 4 prive di concessione. Allora riuscimmo a sventare l’operazione “salvafrequenze di Rete4” e oggi la Ue conferma le nostre ragioni di allora». (Beh, buona giornata).
 

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Attualità Leggi e diritto

Dalla parte del Presidente della Repubblica.

Il testo completo della lettera inviata a Silvio Berlusconi
dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da repubblica.it

 

“Signor Presidente, lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale – scrive Napolitano -. Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti. I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche. Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate – prosegue il capo dello Stato -, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente. Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge, piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica, appare soluzione inappropriata”.

“Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare – sottolinea Napolitano – non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.

Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo.

Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo”.

“Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato – aggiunge – ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori. Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare”. (Beh, buona giornata)

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Scontro istituzionale tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica.

Una domanda.

 

di HANS SUTER

 

Dove era il giornalista che tirava una scarpa a Berlusconi nella conferenza stampa ? (Beh, buona giornata).

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Mettiamo in crisi la crisi.

Globalizzazione in crisi, partita aperta

 

di FRANCESCO PICCIONI*

 

     1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.

Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.

Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.

Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.

 

     2)  Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).

Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.

Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.

E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).

La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.

La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.

 

      3)  La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.

L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.

 

      4)  La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si  riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).

Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.

E’ la situazione che ci troviamo davanti.

 

5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.

La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.

Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati ­ troppo spesso retrivi ­ della riottosità nazionalista.

     

      6)  Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.

Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile ­ nell’intero periodo ­ nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).

La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.

 

7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.

Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.

Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano ­ sotto le vesti di venture capital ­ solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?

Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset).  L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.

La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.

 

     8)  La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.

La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.

C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.

     

      9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema. 

       10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure  questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.

    

      11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)

 

* giornalista economico del Il Manifesto

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Attualità

Non c’è più religione: anche il Papa prima dice poi smentisce.

 

« Richiamandoci dunque fedelmente alla tradizione, come l’abbiamo assunta dalle prime epoche del Cristianesimo, noi insegniamo, ad onore di Dio, nostro Salvatore, per gloria della Religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio, e dichiariamo quale dogma rivelato da Dio: ogni qualvolta il Romano Pontefice parla ex cathedra, vale a dire quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, allora egli, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro, possiede appunto quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi. Pertanto, tali decreti e insegnamenti del Romano Pontefice non consentono più modifica alcuna, e precisamente per sé medesimi, e non solo in conseguenza all’approvazione ecclesiastica. Tuttavia, chi dovesse arrogarsi, che Dio ne guardi, di contraddire a questa decisione di fede, sarà oggetto di scomunica. »
 
(Pastor Aeternus, 18 luglio 1870)

 

In una nota ufficiale della Santa Sede si afferma che le posizioni negazioniste del vescovo Richard Williamson erano “non conosciute dal Santo Padre nel momento della remissione della scomunica”. Benedetto papa Ratzingher, cerchi di stare più attento, no? Beh, buona giornata.

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Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Crisi finanziaria globale: “tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.”

QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

di Daron Acemoglu da lavoce.info

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).

 

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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Legge Alfano contro le intercettazioni: “muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.”

 
di GIAN CARLO CASELLI* da lastampa.it
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale. (Beh, buona giornata).

*procuratore capo di Torino

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.”

di Roberto Natale* – da liberainformazione.org

La minaccia del carcere per i giornalisti è venuta meno, ma la sostanza non cambia: anche dopo gli emendamenti presentati dal governo il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.

Non solo perché le sanzioni rimangono comunque pesanti: diecimila euro di ammenda massima per il singolo cronista, che diventano però quasi cinquecentomila per l’editore che ospiti il pezzo; con l’ovvia conseguenza – giustamente denunciata dalla Fieg – che i proprietari dei giornali sarebbero indotti ad intervenire sui contenuti, violando le prerogative dei direttori ed attuando quella “censura preventiva” contro la quale ha messo in guardia il Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

Il disegno di legge si conferma incompatibile con il diritto ad informare e ad essere informati perché il governo ha scelto di non modificare la scelta di fondo: quella di impedire la cronaca giudiziaria, vietando la pubblicazione (“anche parziale, o per riassunto o nel contenuto”, e “anche se non sussiste più il segreto”) degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare. E’ qui l’attacco più grave, dissimulato sotto gli insistenti richiami alla riservatezza. La privacy è diritto caro anche a noi giornalisti, ed abbiamo dato piena disponibilità a rendere più incisive, se necessario, le norme di autoregolamentazione per salvaguardarla.

Ma non ha senso invocare la sfera privata quando parliamo di scalate bancarie, del crack Parmalat, dello scandalo del calcio, della clinica Santa Rita: tutte vicende che, se la proposta Alfano fosse stata già legge, i cittadini italiani avrebbero potuto conoscere soltanto mesi o anni dopo.

E’ questo il gigantesco esproprio che si prepara, ai danni di noi giornalisti e ai danni dell’intera comunità civile: verrà mutilato il suo diritto di conoscere fatti di assoluta rilevanza sociale, che solo un’interessata mistificazione politica può cercare di spacciare per pettegolezzo o gossip.

Ne va proprio della qualità della nostra democrazia. E dunque dobbiamo sapere sviluppare ogni possibile alleanza. Con gli editori c’è un’ampia concordanza, che attende di essere tradotta in visibili, incisive iniziative comuni: consapevoli entrambi, giornalisti e imprenditori, che per la vita dell’informazione il diritto di fare cronaca è essenziale almeno quanto nuovi ammortizzatori sociali per il settore. E insieme ci sono i nostri lettori, spettatori, ascoltatori: pochi altri temi ci consentono di presentarci loro come titolari e difensori di un diritto di tutti.

Il Presidente del Consiglio ama ripetere che, nei suoi comizi, nessuno alza la mano quando lui chiede chi sia sicuro di non essere intercettato. Gli proponiamo di aggiungere un’altra domanda: chiedere alla piazza chi avrebbe rinunciato a sapere di Moggi, di Antonio Fazio, di una truffa ai danni dei piccoli risparmiatori, dei trapianti disposti da medici senza scrupoli. Abbiamo la forza di essere dalla parte dell’interesse generale. Perciò nessuno strumento sindacale andrà risparmiato, nelle prossime settimane, se servirà per evitare una legge-bavaglio. (Beh, buona giornata).

* Presidente Fnsi

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Attualità Leggi e diritto

A me non mi ferma Nettuno.

“Per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge”. Maroni dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Il Google Drive (“GDrive”) potrebbe uccidere il computer da scrivania.”

di David Smith – «The Guardian» – tradotto da ComeDonChisciotte.org

Secondo un rapporto dell’azienda, Google sta per lanciare un servizio che permetterebbe agli utenti di accedere al loro personal computer da qualunque connessione Internet. Ma i critici avvertono che ciò darebbe al behemoth della rete un controllo senza precedenti sui dati personali degli individui.

Il Google Drive, o “GDrive”, potrebbe uccidere il computer da scrivania basato su un potente hard disk. Invece i file personali dell’utente e il sistema operativo potrebbero essere custoditi sui server di Google avendovi accesso tramite Internet.

Secondo il sito Web di notizie tecnologiche TG Daily, che lo descrive come “il prodotto più atteso della storia di Google”, il GDrive di cui si è tanto parlato dovrebbe essere lanciato quest’anno. Esso viene visto come un cambio di paradigma, con l’allontanamento dal sistema operativo Windows di Microsoft, che gira all’interno di gran parte dei computer del mondo, in favore del “cloud computing” [“elaborazione a nuvola” N.d.t.], in cui l’elaborazione e la memorizzazione vengono effettuati a migliaia di chilometri in remoti centri dati.

Gli utenti da casa o da lavoro si stanno sempre più rivolgendo a servizi basati sul Web, solitamente gratuiti, che vanno dalle e-mail (come Hotmail e Gmail) alla memorizzazione di foto digitali (come Flickr e Picasa) e a sempre più applicazioni per documenti e fogli dati (come Google Apps). La perdita di un computer portatile o la rottura di un hard disk non mettono a repentaglio i dati perché essi sono regolarmente salvati nella “nuvola” e possono essere consultati tramite Web da qualunque macchina.

Il GDrive seguirà questa logica sino alla sua estrema conclusione spostando i contenuti dell’hard disk dell’utente nei server di Google. Il PC sarà un dispositivo più semplice ed economico che funzionerà come portale verso l’Web, forse tramite un adattamento di Android, il sistema operativo di Google per telefoni cellulari. Gli utenti penseranno al loro computer come a un software piuttosto che a un hardware.

È questa prospettiva che mette in allarme i critici delle ambizioni di Google. Peter Brown, direttore esecutivo della Free Software Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che difende le libertà di chi utilizza il computer, non ha messo in discussione la convenienza che viene offerta, ma ha detto: “Sarebbe un po’ come dire ‘siamo in una dittatura, i treni viaggiano in orario’. Ma vi importa che qualcuno possa vedere tutto ciò che avete sul vostro computer? Vi importa che Google può essere in qualunque momento vincolato legalmente a consegnare tutti i vostri dati al governo americano?”

Google si è rifiutata di dare conferme sul GDrive, ma ha riconosciuto l’esistenza di una crescente domanda per il cloud computing. Dave Armstrong, direttore del dipartimento prodotti e marketing della Google Enterprise ha detto: “Vi è una chiara direzione… che allontana dall’idea ‘ Questo è il mio PC, questo è il mio hard disk’ e porta verso ‘ Questo è il modo in cui interagisco con le informazioni, questo è il modo in cui interagisco con il Web'”. (Beh, buona giornata).

Titolo originale: “Google plans to make PCs history”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
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25.01.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALCENERO

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“Rispetto alla fisica l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente.”

di Jean-Philippe Bouchaud – Science & Finance, Capital Fund Management

Sostengo che l’attuale crisi finanziaria evidenzia la necessità cruciale di un cambiamento di mentalità nell’economia e nell’ingegneria finanziaria, che dovrebbero allontanarsi dagli assiomi dogmatici per concentrarsi maggiormente sui dati, gli ordini di grandezza, e su plausibili, ancorché non rigorosi, argomenti. Una versione ridotta di questo saggio è apparsa su «Nature».

Rispetto alla fisica, sembra giusto dire che l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente. I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? Perché le cose vanno così?

Naturalmente, modellare la follia delle persone è più difficile del moto dei pianeti, come disse una volta Newton. Ma l’obiettivo qui è quello di descrivere il comportamento di grandi popolazioni, per le quali dovrebbero emergere regolarità statistiche, così come la legge dei gas ideali emerge dal movimento incredibilmente caotico delle singole molecole. Per me, la differenza fondamentale tra le scienze fisiche e l’economia o la matematica finanziaria è piuttosto nel relativo ruolo dei concetti, delle equazioni e dei dati empirici. L’economia classica si basa su ipotesi molto forti che diventano rapidamente assiomi: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l’efficienza del mercato, ecc.

Un economista una volta mi ha detto, sconcertandomi: questi concetti sono così forti che si sostituiscono a qualunque osservazione empirica. Come Robert Nelson ha affermato nel suo libro, Economics as Religion (L’economia come una religione, ndt), il mercato è stato divinizzato. I fisici, d’altro canto, hanno imparato a essere diffidenti nei confronti di assiomi e modelli. Se l’osservazione empirica è incompatibile con il modello, il modello deve essere cestinato o emendato, anche se è concettualmente bello o matematicamente conveniente. Così tante idee ben accette si sono rivelate sbagliate nella storia della fisica al punto che i fisici hanno maturato fino a essere critici e guardinghi rispetto ai loro modelli. Purtroppo, analoghe salutari rivoluzioni scientifiche non hanno ancora preso piede in economia, laddove le idee si sono cristallizzate in dogmi, che ossessionano gli accademici, nonché i responsabili delle decisioni nelle posizioni apicali delle agenzie governative e delle istituzioni finanziarie.

Questi dogmi sono perpetuati attraverso il sistema dell’istruzione: la didattica della realtà, con tutte le sue sfumature ed eccezioni, è molto più difficile da insegnare rispetto a una bella formula coerente.

Gli studenti non discutono i teoremi che possono usare senza pensare.

Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticato la metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta.

La presunta onniscienza e perfetta efficacia di un libero mercato deriva dal lavoro economico degli anni ‘50 e ‘60, che – con il senno di poi – sembra più propaganda contro il comunismo che una descrizione scientifica plausibile.

In realtà, i mercati non sono efficienti, gli uomini tendono ad essere eccessivamente mirati al breve periodo e ciechi sul lungo periodo, e gli errori si amplificano per via della pressione sociale e l’intruppamento acritico, e in ultima analisi portano a irrazionalità collettiva, panico e dissesti.

I mercati liberi sono mercati selvaggi.

È assurdo credere che il mercato possa imporre la propria auto-disciplina, come è stato sostenuto dalla US Securities and Exchange Commission nel 2004, quando ha consentito alle banche di accumulare ancora nuovi debiti.

Il ricorso a modelli basati su assiomi errati ha evidenti e grandi effetti. Il modello Black-Scholes è stato inventato nel 1973 per dare un prezzo alle ‘options’ supponendo che le variazioni di prezzo abbiano una distribuzione gaussiana, come a dire che la probabilità di eventi estremi è considerata trascurabile. Venti anni fa, l’uso indebito del modello di copertura del rischio sul crollo dei mercati azionari entrò nella spirale del crack borsistico dell’ottobre 1987: un crollo del 23% in un solo giorno, tanto da far apparire piccoli i recenti singhiozzi dei mercati. Ironia della sorte, è proprio l’uso del modello anti crack Black-Scholes che destabilizzò il mercato!

Questa volta, il problema risiede in parte nello sviluppo di prodotti finanziari strutturati che hanno impacchettato il rischio subprime all’interno di investimenti ad alto rendimento apparentemente rispettabili. I modelli utilizzati per stabilirne i prezzi erano fondamentalmente errati: hanno sottovalutato la probabilità che più mutuatari sarebbero stati insolventi sui loro prestiti contemporaneamente. In altre parole, questi modelli hanno di nuovo trascurato proprio la possibilità di una crisi globale, anche se hanno contribuito ad innescarne una. Gli ingegneri finanziari che hanno sviluppato questi modelli non si sono nemmeno resi conto che hanno aiutato i trafficanti di credito del settore finanziario a contrabbandare i loro prodotti in tutto il mondo: non erano stati addestrati a decifrare che cosa implicassero davvero le loro ipotesi.

Sorprendentemente, non vi è alcun quadro di riferimento nell’economia classica per comprendere i mercati selvaggi, anche se la loro esistenza è così evidente per i profani. La fisica, d’altro canto, ha sviluppato diversi modelli che permettono di capire in che modo le piccole perturbazioni possano portare a effetti incontrollabili. La teoria della complessità, sviluppata nella letteratura della fisica durante gli ultimi trenta anni, mostra che, quantunque un sistema possa avere uno stato ottimale (come uno stato di energia più basso, per esempio), sia talvolta difficile da identificare giacché il sistema non si situa mai in quella condizione. Questa soluzione ottimale non solo è inafferrabile, è anche fragilissima rispetto a piccole modifiche dell’ambiente, e quindi spesso irrilevante per capire cosa stia succedendo. Vi sono buone ragioni per credere che questo paradigma della complessità dovrebbe essere applicato ai sistemi economici in generale e ai mercati finanziari in particolare.
Semplici idee di equilibrio e di linearità (l’ipotesi che piccole azioni producano piccoli effetti) non funzionano. Abbiamo bisogno di rompere con l’economia classica e sviluppare strumenti del tutto nuovi, come si è cercato in modo ancora frammentario e disorganizzato da parte degli ‘economisti comportamentali’ e degli ‘econofisici’. Ma la loro sforzo di nicchia non è preso sul serio dall’economia mainstream.

Intanto che si sta lavorando per migliorare i modelli, anche la normativa ha bisogno di migliorare. Dovrebbero essere esaminate le innovazioni nei prodotti finanziari, sottoposte a dei “crash test” rispetto a scenari estremi e approvate da agenzie indipendenti, proprio come abbiamo fatto con le altre industrie potenzialmente letali (chimiche, farmaceutiche, aerospaziali, nucleari, ecc.).
In considerazione della presente caotica fuoriuscita dal settore finanziario alla vita di ogni giorno, un parallelo con queste altre attività umane pericolose sembra pertinente.

Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa di essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema. I curriculum economici richiedono che siano incluse più scienze naturali. I presupposti per una maggiore stabilità a lungo termine risiedono nello sviluppo di una più pragmatica e realistica rappresentazione di ciò che sta succedendo nei mercati finanziari, e di concentrarsi sui dati, che dovrebbero sempre soppiantare perfette equazioni ed estetici postulati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Pino CabrasMegachip
Fonte originale: Economics needs a scientific revolution

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La stampa spagnola è in guai seri.

di Ettore Siniscalchi – da www.articolo21.info

I venti della crisi si abbattono sulla stampa spagnola. Licenziamenti, ristrutturazioni, testate che chiudono e gli editori che chiedono a Zapatero aiuti al settore. Solo tra i giornalisti ci sono stati oltre cinquecento licenziamenti in tre mesi. Ondata di proteste e scioperi in arrivo.
 
In Spagna c’è un sistema editoriale vitale, con una molteplicità di operatori, di dimensioni anche internazionali, che competono sulla base dei prodotti in un mercato aperto, nel quale non manca anche un’importante presenza italiana. È interessante per molti motivi, quindi, guardare a cosa accade in Spagna, davanti alla grande crisi che colpisce il settore dell’informazione.

Alla base di tutto c’è il crollo della domanda di spazi pubblicitari, scesa del 35% nell’intero settore della comunicazione, alla quale si aggiunge una flessione dell’audience dei media tradizionali. A fare il quadro, sembra un bollettino di guerra, a cominciare dai giganti.
Il gruppo Prisa – un colosso editoriale che opera in mezzo mondo, il principale in Spagna – è in un momento difficile. Lo sbarco televisivo, col lancio di Cuatro, la nuova emittente nazionale in chiaro, è costato molto in quanto a valori di borsa. Partita alla grande coi diritti del campionato di calcio, li ha poi persi, ma comunque è in crescita. Il disastro c’è stato però col consorzio di televisioni locali, Localia Tv, nato anni fa, che non ottenne le frequenze per il passaggio al digitale terrestre e che il 31 dicembre ha chiuso, lasciando in strada 250 lavoratori. Ciò pesa su tutto il gruppo, non solo sul settore televisivo.
Nel quotidiano El País, in flessione di vendite anche se minore rispetto alla concorrenza, c’è stato un pesante intervento, con l’unificazione delle redazioni tradizionale e internet, che ha fatto sfiorare lo sciopero. I lavoratori di Prisa ora temono lo spettro della vendita, di testate, come la radio Cadena Ser, o di intere divisioni editoriali, dato che i vertici hanno fatto capire che intendono “disinvestire”.

Gli avversari de El Mundo – del gruppo Unidad Editorial, nel quale è presente anche Rizzoli – non se la passano meglio. Proprio da Milano pare sia venuta la pressante richiesta di riduzione dei costi del personale, per trenta milioni di euro l’anno. Il direttore del giornale, Pedro J. Ramirez, ha convocato i sindacati per informarli e chiedere proposte. Intanto, loro hanno tradotto quei trenta milioni in una riduzione del 17% dell’organico: 400 lavoratori, più o meno.

Il catalano Grupo Z, è quello che per ora paga di più la crisi. Per tutto febbraio i lavoratori terranno scioperi e mobilitazioni. Il governo autonomico ha aperto un tavolo di mediazione per un piano che prevede 531 licenziamenti su 2300 lavoratori.

Anche il gruppo basco Vocento, editore tra l’altro dello storico quotidiano conservatore Abc, si presta a licenziare 125 persone del giornale. Mentre sono già  in strada gli 83 lavoratori, la maggioranza giornalisti, di Metro, lo storico gratuito internazionale che, travolto dal crollo della pubblicità, ha chiuso le sue edizioni spagnole malgrado 1milione e 800mila lettori quotidiani lo attestassero come quinto quotidiano più letto del paese.
La crisi di un altro gratuito, Adn – che supera il milione di esemplari diffusi ma soffre il crollo delle inserzioni – porta alla chiusura Adn.es, in cui lavoravano 40 persone. Non si trattava della semplice versione on-line del giornale ma di una redazione autonoma che agiva in sinergia col giornale.

Un primo tentativo di un quotidiano esclusivamente on-line, che si è rivelato un grande successo, con milioni di contatti unici quotidiani. In questo caso l’amarezza dei lavoratori è ancora più grande perché il progetto è stato affondato mentre andava come un treno, bruciando le tappe dei piani di rientro, per colpa della crisi della versione cartacea. Il gruppo Planeta, partecipato da De Agostini, ha puntato sul giornale più tradizionale decidendo di sacrificare tutto il comparto Medios Digitales. Resta in piedi, invece, AdnTv, recente iniziativa nata nell’esperienza di Adn.es.

La caduta pubblicitaria colpisce senza pietà anche i canali televisivi. Per il mese di gennaio le previsioni sono di una caduta che arriva fino al 37% rispetto allo stesso periodo del 2008, come nel caso di Telecinco. La rete Mediaset diretta da Paolo Vasile incasserà circa 30 milioni di euro in meno, a fronte di una perdita di share del 3.4%.
Antena 3, del gruppo Planeta – De Agostini, è la seconda rete più colpita dalla contrazione delle entrate pubblicitarie, un 23% meno rispetto allo scorso gennaio, con una perdita di share dell’1,3%.
Terza, con il 23% di ingressi pubblicitari in meno, La Primera, di Television Española, a fronte però di una crescita dell’1% di share.

Nessuno degli operatori che operano nel sistema dei media spagnolo è escluso dalle conseguenze della crisi finanziaria globale, che si aggiunge alla rivoluzione tecnologica in atto, con internet che diventa la prima fonte di informazioni per sempre più persone. Anche la rete, però, a fronte di una sempre maggiore penetrazione, non vede aumentare il valore degli spazi pubblicitari.

Se il mercato editoriale soffre la brusca caduta degli investimenti pubblicitari, non vuol dire che non si scontino anche scelte sbagliate – i sindacati dei giornalisti puntano il dito verso un esagerato espansionismo imprenditoriale – a fronte delle consistenti entrate di cui gli editori hanno goduto negli ultimi 20 anni.

L’Associazione degli editori spagnoli (Aede), dal canto suo, ha lanciato un grido d’allarme per il futuro del settore, facendo una serie di richieste al governo spagnolo. Come l’applicazione dell’Iva allo 0%, attualmente è al 4. Gli editori si rifanno agli aiuti per difendere e sviluppare il pluralismo nella stampa, nati proprio che in occasione della crisi economica degli anni ’70, in vigore in molti paesi, sotto forma di rimborsi per le spese di distribuzione, di finanziamenti per lo sviluppo tecnologico, per la diffusione della lettura tra i giovani e per lo sviluppo dell’editoria web. E sottolineano l’esempio di paesi come l’Italia, la cui stampa ha ricevuto 150 milioni di euro, e la Francia, con 101 milioni.

Intanto, la situazione dell’occupazione giornalistica non è rosea. Allo scorso settembre, dei circa 50mila giornalisti spagnoli, 3.247 erano in disoccupazione, altri 4.374 in condizioni di lavoro precarie e instabili e nei tre mesi precedenti, in 450 avevano perso il posto, secondo i dati dell’Instituto Nacional de Empleo (Inem), presentati lo scorso dicembre nell’ambito del Rapporto annuale sulla professione giornalistica della Asociación de la Prensa de Madrid (Apm).

In quell’occasione, il presidente dell’Apm, Fernando González Urbaneja, ha fatto previsioni fosche per il 2009, citando un’inchiesta del Rapporto per la quale 6 direttori di testata spagnoli su 10 prevedono licenziamenti nella loro redazione. Una perdita più vicina «ai duemila che ai mille posti», secondo Urbaneja, che ha invitato gli editori a preservare la forza lavoro, gli inserzionisti a premiare la qualità e il governo a non aiutare solo gli amici e a perseguire con durezza la precarietà lavorativa.
Se nel 2009 ci saranno «perdite superiori ai 3000 posti di lavoro – ha aggiunto Urbaneja – sarà una catastrofe». (Beh, buona giornata.)

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