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Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Ovunque nel mondo il fondamentalismo religioso è un po’ pazzo e un po’ pericoloso. Insopportabile, sempre.

di Francesco Battistini da corriere.it

GERUSALEMME – Separati in bus. Pensiline col divisorio. Niente calche immonde. E nessun bisogno di cedere il posto alle signore. Perché le signore devono viaggiare su mezzi propri, con linee a parte, salendo e scendendo ad apposite fermate. L’ultima battaglia dei rabbini estremi è la chiacchiera preferita, sugli autobus di Gerusalemme, e gli animi si scaldano: al sindaco della città, Nir Barkat, è arrivata l’ennesima petizione degli ultraortodossi che considerano immondo, nella città sacra, vedere questi carichi di persone mischiate fra loro all’ora di punta, uomini e donne che si schiacciano (e quindi si toccano) senza pudore.

Mai più: i rabbini vogliono altre carrozze kosher, maschi di qua e femmine di là, anzi vogliono solo pullman timorati di Dio, come già ne hanno ottenuti l’anno scorso quando la compagnia municipalizzata Egged provvide alle loro esigenze e si dotò di mezzi secondo morale. Le intenzioni sono serie e l’hanno dimostrato giovedì sera, dopo un sit-in di duemila persone all’ingresso di Meah Sharim, il quartiere dei turboreligiosi: «Traveling the right way», viaggiare nel modo giusto e sulla retta via, hanno scandito sotto un palco. Al corteo hanno partecipato anche autisti della Egged, che appoggiano l’idea dei bus separati. Per le gerarchie religiose di Gerusalemme, i trasporti pubblici sono un’ossessione. Durante l’ultima campagna elettorale, hanno chiesto e ottenuto che le pubblicità sulle fiancate dei mezzi non mostrassero foto di candidate donne: la stessa Tzipi Livni s’è dovuta accontentare di scritte acchiappavoti.

L’anno scorso, un gruppo di rabbini s’è scagliato contro gl’infernali lavori della metropolitana scoperta che, da mesi e almeno fino al 2011, stanno paralizzando il traffico cittadino. La loro preoccupazione non è l’effetto devastante del trenino, che in barba a ogni vincolo e nell’assordante silenzio dell’Unesco passerà perfino sotto le antiche mura di Suleimano il Magnifico: no, gli ortodossi temono la «contaminazione« che la nuova linea provocherà, costringendoli a entrare in quartieri che di solito evitano. Pure qui, la protesta monta e la compagnia tranviaria è dovuta ricorrere all’acquisto di carrozze speciali, blindate, a prova di sassaiole: non solo per le eventuali reazioni dei religiosi, ma soprattutto perché il trenino elettrico finirà per sfiorare anche zone calde palestinesi.

Tanto attivismo comincia a stancare e a suscitare reazioni, in una città dove ormai i religiosi sono più del 30 per cento della popolazione. Alla manifestazione dell’altro giorno, se n’è opposta un’altra (più piccola) di giovani israeliani con cartelli che dicevano «non vogliamo diventare un altro Iran», «no all’apartheid dei trasporti», «no alla segregazione sugli autobus»… Ferma anche la risposta di Rachel Azaria, responsabile del comune di Gerusalemme: «Il trasporto è un diritto di libertà – dice -. Io non obbligo nessuno a sedersi vicino a me. E chiunque può decidere, da solo, se sedersi o no vicino a qualcun altro. Non possiamo accettare, però, che qualcuno venga a dirci come dobbiamo sederci e viaggiare sui nostri autobus. Non fosse così, non lo chiameremmo trasporto pubblico». (Beh, buona giornata).

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