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Il 2025 non sarà un buon anno.

di Francesco Piccioni, contropiano.org.

I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.

Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.

Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee. 

Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.

Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.

I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali ad esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).

Il tutto è riassumibile nell’assenza totale di qualsiasi orientamento pubblico (statale o comunitario) che andasse al di là dell’occhiuta sorveglianza di “regole di bilancio” così perfette – sulla carta – da esser sempre state violate da quasi tutti i paesi membri. Ora che tocca anche alla Germania, come si dice, il re è nudo.

Come sintetizza Karnitschnig, tutto questo “ha funzionato… finché non ha funzionato più”. “Il pilota automatico”. alla fine, ci ha portato contro gli scogli…

Molto interessante, ancorché detta di sfuggita, la valutazione di quanto questo modello economico, nel riuscito tentativo di prolungare la propria esistenza senza grandi cambiamenti, abbia contribuito a conquistare l’Est europeo veicolando anche l’allargamento della Nato. Fino ad incontrare la barriera russa…

Nelle analisi sull’espansione della Nato, fatte a sinistra, ci si concentra in effetti fin troppo spesso sul bisogno degli Stati Uniti di rafforzare la propria egemonia portando sempre più ad est le proprie basi militari. Karnitschnig – certo involontariamente – rimette invece al centro quelle ragioni “strutturali” che ogni allievo di Marx dovrebbe ricordare a memoria.

La “conquista dell’Est” è avvenuta secondo il format messo a punto nella riunificazione tedesca (l’Anschluss, secondo la brillante definizione di Vladimiro Giacché), e il suo successo era fondato su pochi ma decisivi pilastri: basso costo dell’energia grazie al gas russo, bassi salari per popolazioni di lavoratori comunque istruite e immediatamente inseribili nel ciclo produttivo, immagine vincente dell’Occidente sul resto del mondo (rafforzato da guerre asimmetriche contro avversari troppo più deboli), superiorità tecnologica (ma solo nei settori maturi, come l’automotive).

Il legame tra successo ed espansione è quindi solare: solo allargando ulteriormente lo spazio da annettere all’Europa capitalistica (e dunque anche alla Nato) quel modello poteva prolungare la propria vita senza troppi scossoni.

Si comprende meglio, a questo punto, cosa volesse dire Mario Draghi a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, quando affermava quasi ogni giorno “La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile, ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica, ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”.

Sfrondata dalla retorica sui presunti “valori” (si è visto quanto fossero concreti quando Israele, con il supporto di tutto l’Occidente, ha cominciato la sua opera di genocidio in Palestina e di aggressione a tutto il Medio Oriente), Draghi faceva coincidere il successo della UE con la possibilità di proseguire l’espansione ad Est, annettendo anche l’Ucraina… e poi si sarebbe visto.

Si comprende dunque meglio, anche, la “strana” condiscendenza europea verso l’aggressività statunitense persino quando questa demoliva asset e relazioni fondamentali per quel “modello europeo” (ad esempio il silenzio e il depistaggio di fronte alla distruzione del gasdotto North Stream, i cui autori sono stati individuati dalla magistratura tedesca nei servizi segreti ucraini, supportati da Usa, Norvegia e Gran Bretagna).

In altri termini la competizione latente tra Usa ed “Europa” poteva svilupparsi solo se la seconda poteva continuare a crescere… ma sempre sotto l’ombrello militare statunitense. Fermata l’espansione, finita anche la competizione, resta solo la subordinazione. 

Ciò contribuisce in parte anche a spiegare perché, all’interno dell’Unione Europea, la sofferenza popolare venga capitalizzata per ora soprattutto dall’estrema destra sotto gli slogan di un nazionalismo d’altri tempi e perché questa crescita venga catalogata come “filo-putiniana” anche quando si divide in modo decisamente netto tra “atlantisti-europeisti” (Meloni, l’olandese Wilders, i polacchi di quasi tutti i partiti, ecc) e ben poco attendibili”pacifisti” (Orbàn, Afd tedesca, il rumeno Georgescu, ecc).

Orbàn, da questa angolazione, ha fatto davvero scuola mentre i “democratici” guerrafondai lo criticavano soltanto per il controllo sulla magistratura o le idiozie contro la “cultura gender”.

Se il sedicente “progressismo liberale” ha condotto sull’orlo del baratro e della guerra, e continua a spingere sul trinomio “austerità, guerra e svuotamento della democrazia”, non c’è da troppo da stupirsi che gli ultradestri peggiori conquistino un ruolo importante.

Anche perché i difetti strutturali del modello export oriented sono usciti alla luce del sole: fine della superiorità tecnologica nel principale dei settori maturi (l’automotive cinese è di anni più avanti, ormai), crescita esponenziale del costo dell’energia, restrizione fatale del mercato interno (i bassi salari vanno bene per esportare, ma quando l’export si ferma nessuno lo può sostituire), inesistenza nei settori-guida del presente e del futuro (informatica, piattaforme, intelligenza artificiale, ecc).

Il tutto sotto la spada di Damocle di una popolazione che invecchia, una conclamata crisi demografica (in Italia nascevano oltre un milione di neonati nel 1964, solo 380mila nel 2023), del declino cognitivo di gran parte della popolazione (il 33% non comprende quello che legge), della “fuga dei cervelli”…

Nonché dell’impossibilità di compensare con un’immigrazione che non mette a disposizione competenze già formate altrove (com’era avvenuto con l’Est post-sovietico), non viene accolta con politiche di formazione-integrazione e dunque si trasforma in un ulteriore “problema di ordine pubblico” che ha favorito il risorse del razzismo fascista (specializzato nel risolvere a chiacchiere i “problemi di cronaca”, ma senza soluzioni per quelli “di sistema”).

Su questo continente alle corde si abbatterà ora anche il “ciclone Trump”, ovvero il bisogno degli Stati Uniti di “confermare il proprio standard di vita” sottraendo risorse ad altri. Lo stop nell’espansione ad Est vale però anche per Washington, che reagisce imponendo dazi o minacciandone di nuovi, pretende un aumento delle spese militari (a tutto vantaggio delle proprie industrie) e acquisti più massicci di petrolio e gas (a prezzi quadrupli rispetto a quelli russi). Insomma, declassando l’Europa da predatore secondario a preda.

Non stupisce perciò l’altra sintesi proposta da Karnitschnig: “bloccati nel XIX secolo”, quindi destinati a soccombere.

Sappiamo bene come l’establishment europeo presuma di uscire da questa tenaglia: trasformando ogni cittadino del continente in un “soldato” della produzione e/o dell’esercito (con parecchi problemi derivanti proprio dalla crisi demografica, che non mette a disposizione “forze fresche” da gettare nelle trincee né nelle fabbriche che chiudono), salutando definitivamente ogni pretesa di “democrazia” e concentrando tutti i poteri verso l’esecutivo.

Che però a livello europeo non c’è, visto che la “Commissione von der Leyen” non può essere considerata tale neanche con uno sforzo di fantasia hollywoodiana…

Crisi nera, dunque. Ma è nell’esplodere delle crisi, nei “collassi di sistema”, che si crea lo spazio sociale e politico per rovesciare i rapporti di forza tra le classi e iniziare perciò a cambiare davvero il mondo.

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Quando parliamo di economia parliamo di politica, cioè di chi ha il potere e di chi lo subisce.

di Clara E. Mattei

Quando i Jerome Powell e le Christine Lagarde (attuale presidente della Bce) di questo mondo si accaniscono ad alzare i tassi di interesse ben sapendo che causeranno una recessione economica, lo fanno per una preoccupazione, oserei dire un’angoscia: se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. […]

Prendiamo il nostro Paese come esempio: se guardiamo alla spesa «aggregata» dello Stato italiano, non vedremo alcuna traccia di austerità.

Infatti lo Stato sta spendendo moltissimo in ambito militare e nel sostegno delle imprese (le banche per esempio) che mettono così in sicurezza i propri profitti.

I numeri della spesa pubblica non calano. Ma la questione rilevante è un’altra. Non si tratta semplicemente di vedere se lo Stato spende, quanto piuttosto dove lo Stato spende o, meglio, per chi lo Stato spende.

L’austerità non è una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, è invece un’azione politica che agisce sulla capacità di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualità della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’élite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti. […]

Se lo Stato italiano, come la maggior parte degli Stati del mondo, aumenta la spesa militare o quella per salvare e sostenere banche e imprese in difficoltà e al contempo taglia la spesa sociale (sanità, scuola, trasporti, edilizia pubblica, sussidi di disoccupazione e via dicendo), sta trasferendo strutturalmente le risorse dai molti cittadini che dipendono dai salari che guadagnano ai pochissimi che vivono dei redditi da capitale generati dalla ricchezza posseduta. […]

In altre parole, non si tratta per gli Stati di non spendere, ma di «spendere» nella maniera «corretta», ovvero a favore dell’élite economico-finanziaria e a discapito della maggioranza della popolazione.

Mentre ci curiamo in ospedali fatiscenti, studiamo in classi pollaio e facciamo file chilometriche per rinnovare la carta d’identità, i forzieri di Leonardo, produttore di armi, e Autostrade per l’Italia (i cui azionisti sono per metà asset manager stranieri come Blackstone e Macquarie) traboccano di soldi delle nostre tasse.

Queste manovre economiche non sono solo decisioni tecniche, sono scelte profondamente politiche.

Meno risorse sociali abbiamo, meno diritti abbiamo in quanto cittadini e più siamo costretti a comprare tali diritti con il denaro.

Così la nostra dipendenza dal mercato aumenta. Se vogliamo garantire una buona istruzione ai nostri figli, assicurarci cure mediche adeguate, una casa dignitosa, il diritto al trasporto, siamo sempre più vincolati alla necessità di avere soldi a sufficienza, che ci possiamo procurare in un solo modo, vendendo la nostra capacità di lavorare in cambio di un salario. […]

Lo stesso vale per l’altro lato della medaglia dell’austerità fiscale, quello che riguarda le entrate dello Stato: non si tratta di vedere se lo Stato aumenta le tasse ma piuttosto a chi le aumenta.

Oggi la maggior parte dei Paesi fanno riforme del fisco in senso regressivo, ovvero continuano a tagliare le tasse a coloro che hanno redditi da capitale e le aumentano a chi ha redditi da lavoro. (“L’economia è politica: Tutto quello che non vediamo dell’economia e che nessuno racconta” di “Clara E. Mattei”).

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L’apocalisse economica dell’Europa è ora

di Matthew Karnitschnig, politico.eu

L’Europa sta finendo il tempo.

Con Donald Trump pronto a tornare alla Casa Bianca tra poche settimane e l’economia del continente in una crisi sempre più profonda, le fondamenta su cui si basa la prosperità della regione non stanno solo mostrando crepe: rischiano di crollare.

L’economia europea ha dimostrato una notevole resilienza negli ultimi decenni grazie all’espansione verso est del blocco e alla forte domanda dei suoi prodotti da parte di Asia e Stati Uniti. Ma con il rallentamento del boom economico cinese e le tensioni commerciali con Washington che offuscano il quadro dei rapporti transatlantici, i tempi d’oro sono chiaramente finiti.

I venti contrari economici che soffiano sul continente rischiano di trasformarsi in una tempesta perfetta nel prossimo anno, mentre un Trump senza freni punta l’Europa. Oltre a imporre nuovi dazi su tutto, dal Bordeaux ai Brioni (i suoi completi italiani preferiti), il nuovo leader del mondo libero è certo di rafforzare la sua richiesta che i paesi della NATO contribuiscano di più alla loro difesa o perdano la protezione americana.

Ciò significa che le capitali europee, già impegnate a contenere deficit in crescita in mezzo a un calo delle entrate fiscali, dovranno affrontare ulteriori pressioni finanziarie, che potrebbero innescare nuove turbolenze politiche e sociali.

Le recessioni e le guerre commerciali possono andare e venire, ma ciò che rende questo momento così pericoloso per la prosperità del continente riguarda la più grande verità scomoda: l’UE è diventata un deserto dell’innovazione.

Sebbene l’Europa abbia una ricca storia di invenzioni straordinarie, comprese scoperte scientifiche che hanno dato al mondo tutto, dall’automobile al telefono, dalla radio alla televisione e ai prodotti farmaceutici, si è ridotta a un ruolo di comprimaria.

Un tempo sinonimo di tecnologia automobilistica all’avanguardia, oggi l’Europa non ha nemmeno un modello tra le 15 auto elettriche più vendute. Come ha sottolineato l’ex primo ministro e banchiere centrale italiano Mario Draghi nel suo rapporto recente sulla perdita di competitività dell’Europa, solo quattro delle 50 principali aziende tecnologiche mondiali sono europee.

Se l’Europa continuerà sulla traiettoria attuale, il suo futuro sarà anche quello dell’Italia: quello di un museo a cielo aperto, decadente, per quanto bello, pieno di debiti, destinato ai turisti americani e cinesi.

Stiamo vivendo un periodo di rapido cambiamento tecnologico, guidato in particolare dai progressi nell’innovazione digitale, e, a differenza del passato, l’Europa non è più all’avanguardia,” ha detto a novembre la presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde.

Parlando presso il medievale Collège des Bernardins a Parigi, Lagarde ha avvertito che il modello sociale europeo, tanto celebrato, sarà a rischio se non si cambia rapidamente rotta.

«Altrimenti, non saremo in grado di generare la ricchezza necessaria per affrontare l’aumento delle spese indispensabili per garantire la nostra sicurezza, combattere il cambiamento climatico e proteggere l’ambiente», ha detto.
Draghi, che ha presentato il suo rapporto alla Commissione Europea a settembre, è stato più diretto: «Questa è una sfida esistenziale

Infrastrutture inadeguate

Sfortunatamente, riparare l’infrastruttura economica dell’Europa è più facile a dirsi che a farsi.

Con Donald Trump alla Casa Bianca e i Repubblicani al controllo di entrambe le camere del Congresso, l’Europa non è mai stata così esposta ai capricci della politica commerciale americana.

Se Trump darà seguito alla sua minaccia di imporre dazi fino al 20% sulle importazioni dal continente, l’industria europea subirebbe un colpo devastante. Con oltre 500 miliardi di euro di esportazioni annuali verso gli Stati Uniti dall’UE, l’America è di gran lunga la destinazione più importante per i beni europei.

Per qualche motivo, l’Europa sembra aver fatto poco per prepararsi al ritorno di Trump. La prima risposta della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen alla sua rielezione è stata quella di suggerire che l’Europa acquisti più gas naturale liquefatto (LNG) dagli Stati Uniti. Questo potrebbe compiacere Trump per un po’, ma non rappresenta certo una strategia.

«Il fallimento dei leader europei nell’imparare le lezioni dalla prima presidenza Trump ora ci sta perseguitando», dice Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo con sede a Monaco, un importante think tank economico.

Fuest avverte che Trump potrebbe non essere una cattiva notizia su tutta la linea per l’UE. Se, ad esempio, darà seguito ai suoi piani per rinnovare massicci tagli fiscali per i ricchi e imporre nuovi dazi, l’inflazione negli Stati Uniti potrebbe aumentare, costringendo a un rialzo dei tassi di interesse. Questo rafforzerebbe il dollaro, favorendo gli esportatori europei quando convertono i loro ricavi americani in euro.

Trump potrebbe anche essere aperto a una più ampia negoziazione commerciale con l’Europa per evitare del tutto un nuovo giro di dazi.

Tuttavia, il sentimento generale dell’industria europea nei confronti del nuovo presidente è di apprensione, in gran parte perché i dirigenti ricordano bene il passato.

Nel 2018, Trump ha imposto dazi su acciaio e alluminio europei che sono ancora in vigore. L’attuale presidente americano Joe Biden ha concordato di sospendere tali dazi fino a marzo 2025, preparando il terreno per un nuovo scontro con Trump nelle prime settimane della sua nuova amministrazione. I banchieri centrali europei stanno già avvertendo che un nuovo ciclo di dazi potrebbe riaccendere l’inflazione e minare in modo fondamentale il commercio globale.

«Se il governo degli Stati Uniti darà seguito a questa promessa, potremmo assistere a un punto di svolta significativo nel modo in cui viene condotto il commercio internazionale», ha detto recentemente Joachim Nagel, presidente della Bundesbank tedesca.

Problemi di fondo

Sfortunatamente, Trump è solo un sintomo di problemi molto più profondi.

Anche se l’UE è concentrata su Trump e su cosa potrebbe fare in futuro, per quanto riguarda l’economia europea, non è lui il vero problema. In definitiva, con le sue continue minacce di dazi e il suo stile ‘bombastico’, non fa altro che sollevare il velo sul fragile modello economico dell’Europa.

Se l’Europa avesse basi economiche più solide e fosse più competitiva con gli Stati Uniti, Trump avrebbe poco margine di manovra sul continente.

Il divario tra Europa e Stati Uniti in termini di competitività economica dall’inizio del secolo è impressionante. Il gap del PIL pro capite, ad esempio, è raddoppiato, secondo alcune metriche, arrivando al 30%, principalmente a causa della più bassa crescita della produttività nell’UE.

In parole semplici, gli europei lavorano troppo poco. Un lavoratore tedesco medio, ad esempio, lavora oltre il 20% di ore in meno rispetto ai suoi omologhi americani.

Un’altra causa della scarsa produttività europea è il fallimento del settore aziendale nell’innovare.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), le aziende tecnologiche statunitensi investono in ricerca e sviluppo più del doppio rispetto alle loro controparti europee. Mentre le aziende statunitensi hanno registrato un aumento della produttività del 40% dal 2005, la produttività nel settore tecnologico europeo è rimasta stagnante.

Questo divario si riflette anche nel mercato azionario: mentre le valutazioni di mercato statunitensi sono più che triplicate dal 2005, quelle europee sono aumentate solo del 60%.

«L’Europa sta perdendo terreno nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura», ha detto Lagarde nel suo discorso a Parigi.

È un eufemismo. L’Europa non sta solo perdendo terreno, non è nemmeno davvero in gara.

Al vertice UE di Lisbona nel 2000, i leader si impegnarono a rendere «l’economia europea la più competitiva al mondo». Un pilastro chiave della cosiddetta Strategia di Lisbona era «un salto decisivo negli investimenti per l’istruzione superiore, la ricerca e l’innovazione».

Un quarto di secolo dopo, l’Europa non solo non ha raggiunto il suo obiettivo, ma è rimasta ben indietro rispetto a Stati Uniti e Cina.

L’Europa non è mai riuscita nemmeno a raggiungere il suo scopo di spendere il 3% del PIL del blocco in ricerca e sviluppo (R&D), il principale motore dell’innovazione economica. Di fatto, la spesa per la ricerca da parte delle aziende europee e del settore pubblico rimane ferma al 2% circa, lo stesso livello del 2000.

Le università europee sarebbero un luogo naturale per dare slancio a innovazione e ricerca, ma anche qui il continente è in ritardo.

Tra le migliori università globali valutate da Times Higher Education, solo un’istituzione dell’UE è entrata nella top 30: la Technical University di Monaco, che si è classificata al 30° posto.

L’investimento europeo in R&D «non è solo troppo basso, ma una parte sostanziale fluisce nelle aree sbagliate», ha detto Clemens Fuest dell’Ifo.

Il segreto nascosto

È qui che entra in gioco la Germania. Il segreto poco noto della spesa europea per l’R&D è che la metà di essa proviene dalla Germania. E la maggior parte di questi investimenti si concentra in un solo settore: l’automotive.

Sebbene ciò possa sembrare ovvio dato il peso del settore (il fatturato annuale dell’industria automobilistica tedesca sfiora i 500 miliardi di euro), non è lì che si ottengono i maggiori ritorni sugli investimenti. Questo perché le innovazioni nel settore automobilistico, come il miglioramento dell’efficienza del motore, sono incrementali.

In altre parole, le aziende stanno letteralmente reinventando la ruota, invece di creare nuovi prodotti, come un iPhone o Instagram, che aprirebbero nuovi mercati.

Se non altro, l’Europa è stata coerente. Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in R&D nell’UE erano Mercedes, VW e Siemens. Nel 2022, erano Mercedes, VW e Bosch.

Nel complesso, puntare tutto su un unico settore ha funzionato… finché non ha funzionato più. Sebbene l’Europa rappresenti oltre il 40% della spesa globale in R&D nel settore automobilistico, i rinomati produttori tedeschi hanno comunque perso il treno delle auto elettriche.

Questo fallimento è al centro della crisi economica tedesca, come dimostra il recente annuncio di VW di chiudere alcuni impianti tedeschi per la prima volta nella sua storia.

Il dominio del settore automobilistico tedesco è a rischio poiché la riluttanza a investire nei veicoli elettrici ha spinto altri — in particolare Tesla e numerosi produttori cinesi — a colmare il vuoto. Mentre queste aziende hanno investito pesantemente nella tecnologia delle batterie e acquisito preziosi brevetti, i tedeschi hanno lavorato per perfezionare il motore diesel. Non è andata bene.

La crisi nell’industria automobilistica tedesca è solo la punta dell’iceberg. Il paese sta lottando per affrontare altre sfide complesse che stanno prosciugando il suo potenziale economico. La più grande: una combinazione devastante di una società che invecchia rapidamente e una carenza di lavoratori altamente qualificati.

Molti in Germania speravano che l’afflusso di rifugiati degli ultimi anni avrebbe alleviato questa pressione. Il problema è che pochi rifugiati hanno il background educativo e le competenze necessarie per occupare posti di lavoro altamente qualificati nelle aziende tedesche.

Detto ciò, al ritmo con cui le aziende industriali tedesche stanno licenziando lavoratori, la carenza di manodopera potrebbe presto risolversi, anche se non in modo positivo. Nelle ultime settimane, VW, Ford e ThyssenKrupp, tra gli altri, hanno annunciato decine di migliaia di licenziamenti.

Di fronte ad alcuni dei costi energetici più alti al mondo, a manodopera costosa e a normative gravose, molte grandi aziende tedesche stanno semplicemente trasferendosi in altre regioni. Secondo un recente sondaggio della DIHK, quasi il 40% delle aziende industriali tedesche sta considerando di trasferirsi altrove.

Veronika Grimm, membro del Consiglio di esperti economici tedeschi, un panel apartitico che consiglia il governo tedesco, sostiene che l’unico modo per invertire il declino del paese sia perseguire riforme strutturali fondamentali per incoraggiare gli investimenti.

«La situazione è piuttosto cupa», ha detto Grimm il mese scorso dopo la pubblicazione dell’analisi annuale del Consiglio sullo stato dell’economia tedesca.

Bloccati nel XIX secolo

Come economia più grande dell’UE, le difficoltà economiche della Germania si ripercuotono su tutto il blocco. Questo è particolarmente vero nell’Europa centrale e orientale, che negli ultimi decenni è diventata di fatto il piano produttivo per i produttori tedeschi di auto e macchinari.

Se acquistate una Mercedes, una BMW o una VW, è probabile che il motore o il telaio siano stati prodotti in Ungheria, Slovacchia o Polonia.

Ciò che rende così difficile da risolvere la crisi dell’industria automobilistica tedesca per l’Europa è che il continente non ha altri settori su cui fare affidamento.

Anche qui, il contrasto con gli Stati Uniti è netto.

Nel 2003, i maggiori investitori aziendali in ricerca e sviluppo negli USA erano Ford, Pfizer e General Motors. Due decenni dopo, sono Amazon, Alphabet (Google) e Meta (Facebook).

Dato il dominio di questi attori e del resto della Silicon Valley nel mondo tecnologico, è difficile immaginare come il settore tecnologico europeo possa mai competere nello stesso campionato, per non parlare di recuperare terreno.

Una ragione è il denaro. Le startup statunitensi sono generalmente finanziate attraverso il venture capital. Ma il pool di venture capital in Europa è una frazione di quello statunitense. Nell’ultimo decennio, le società di venture capital statunitensi hanno raccolto 800 miliardi di dollari in più rispetto ai loro concorrenti europei, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Invece di investire nel futuro, gli europei preferiscono lasciare i propri soldi in contanti in banca, dove circa 14 trilioni di euro dei risparmi degli europei vengono lentamente erosi dall’inflazione.

«I modesti pool di venture capital in Europa stanno privando le startup innovative di investimenti, rendendo più difficile stimolare la crescita economica e migliorare gli standard di vita», hanno concluso un team di analisti dell’FMI in una recente analisi.

Se quindi automobili e IT sono esclusi, l’UE potrebbe affidarsi alle tecnologie del XIX secolo in cui ha sempre eccelso, come macchinari e treni, giusto?

Purtroppo, qui entrano in gioco i cinesi.

Il numero di settori in cui le aziende cinesi competono direttamente con quelle della zona euro, molte delle quali produttrici di macchinari, è passato da circa un quarto nel 2002 a due quinti oggi, secondo una recente analisi della BCE.

Peggio ancora, i cinesi sono estremamente aggressivi sui prezzi, il che ha contribuito a una significativa riduzione della quota dell’UE nel commercio globale.

La politica dello struzzo

Con l’Europa alle prese con una crescita stagnante, una competitività in calo e tensioni con Washington — solo per citare alcuni dei problemi — ci si potrebbe aspettare un vivace dibattito pubblico su un’ampia agenda di riforme.

Magari fosse così. Il rapporto di Draghi ha ottenuto circa un giorno di copertura nei principali media del continente per poi essere rapidamente dimenticato. Allo stesso modo, i continui allarmi lanciati da FMI e BCE cadono nel vuoto.

Probabilmente perché gli europei non stanno realmente avvertendo il dolore — almeno, non ancora.

Sebbene l’UE rappresenti una quota sempre più ridotta del PIL mondiale, guida tutte le classifiche globali quando si tratta della generosità dei sistemi di welfare dei suoi membri.

Tuttavia, con il peggiorare delle prospettive economiche della regione, gli europei potrebbero ricevere una brusca sveglia. Paesi come la Francia, che quest’anno affronta un deficit di bilancio del 6% e del 7% nel 2025 — più del doppio del limite consentito nella zona euro — avranno difficoltà a mantenere uno stato sociale generoso.

Parigi spende attualmente oltre il 30% del PIL in spesa sociale, una delle percentuali più alte al mondo. Molti altri paesi dell’UE non sono lontani.

Se le fortune economiche dell’Europa non cambieranno presto, quei paesi si troveranno a dover prendere decisioni difficili, proprio come ha fatto la Grecia nel 2010, con l’aumento dei costi di indebitamento.

Il probabile risultato è una radicalizzazione della politica, come accaduto in Grecia durante la crisi del debito, con i populisti di estrema destra e sinistra che colgono l’opportunità di attaccare l’establishment.

Questa radicalizzazione è già in atto in diversi paesi, il più preoccupante dei quali è la Francia. Il successo delle frange estremiste è tanto più inquietante se si considera che il peggio della sofferenza economica deve probabilmente ancora arrivare.

Il problema è che, quando gli europei si sveglieranno di fronte alla nuova realtà, potrebbe essere troppo tardi per fare qualcosa.

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A Gaza niente doni, se i bimbi potessero scrivere a Babbo Natale chiederebbero solo di poter morire

, Repubblica

La vignetta, pubblicata su La Nuova Sacrofano, giornale dei cambiamenti (lanuovasacrofano.it), è di Roberto Conti

La testimonianza: più di 444 giorni di vita sospesa, e mentre il mondo festeggia, nella Striscia i più piccoli cercano avanzi di cibo marcio tra i rifiuti. Le loro mani non si alzano per festeggiare, ma per proteggersi dai missili

DEIR AL BALAH – Più di 444 Giorni di Vita Sospesa a Gaza. Qui, il tempo ha smesso di scorrere. Niente scuole, niente lavoro, niente speranza. Solo giorni che nel loro dolore si rispecchiano l’uno nell’altro, come infinite repliche della stessa catastrofe. Giorni sospesi nel vuoto, appesantiti dall’eco delle esplosioni e dal suono incessante dei proiettili, costante promemoria che la vita qui è diversa da qualsiasi altra vita, in qualsiasi altro luogo. A migliaia di chilometri di distanza dai mercati affollati, adornati di luci scintillanti e dal suono delle campane natalizie, esiste un altro mondo—un mondo che non conosce né il calore delle feste, né la benedizione della pace. Qui a Gaza, dove il rombo degli aerei e delle esplosioni non cessa mai, la gioia del Natale è assente, sostituita da una realtà cupa che sfugge a ogni umana descrizione.

In questi giorni, mentre il mondo accende alberi di Natale e innalza preghiere per la pace, noi alziamo le mani, non in segno di festa, ma in un disperato tentativo di proteggere i nostri figli dal terrore dei missili. Nelle strade della mia città, non ci sono decorazioni, né risate—solo resti di case distrutte e sogni infranti. In mezzo a questo inferno, l’inverno arriva come un ospite indesiderato, portando solo altra sofferenza. 

Gaza non è estranea al dolore, ma a dicembre diventa ancora più insopportabile. Qui, i regali non si scambiano sotto gli alberi; invece, si distribuiscono razioni di cibo scarse in lunghe file, accompagnate dalla paura che le scorte finiscano prima di arrivare a tutti. Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra perso nelle sue celebrazioni, sommerso dal bagliore delle sue festività.

In inverno, la sofferenza del popolo di Gaza si raddoppia. Le famiglie si ritrovano intrappolate tra il freddo pungente dell’inverno e muri fatiscenti che non offrono protezione. I bambini dormono sul terreno ghiacciato, i loro volti pallidi raccontano storie di fame e freddo. L’inverno qui non è solo un’altra stagione; è un’ulteriore prova di resistenza contro l’insopportabile.

I vicoli stretti, ora inondati di fango dopo le piogge, costringono i bambini scalzi a percorrere sentieri mentre i loro piccoli corpi tremano. Le famiglie vivono in tende strappate circondate da pozze d’acqua dopo le tempeste, mentre i bambini cercano di accendere fuochi usando spazzatura solo per scaldarsi le mani.

Ieri sera, mentre camminavo tra i vicoli del quartiere, cercando di comprare del cibo dal costo esorbitante e scarso fino alla disperazione, ho chiesto ai bambini che ho incontrato: “Cosa desiderate?” I loro volti erano stanchi, le loro espressioni raccontavano storie di esaurimento che non dovrebbero appartenere all’infanzia. Le loro risposte andavano dal desiderare calore, al voler morire, al desiderare la fine di questo genocidio che soffoca Gaza.

Ma c’è stata una bambina, non più grande di cinque anni, che mi ha colpito più di ogni altra cosa. Portava sulla spalla una scatola di cartone in cui raccoglieva avanzi di cibo marcio che aveva recuperato da cumuli di immondizia. La sua immagine da sola sarebbe bastata a spezzare qualsiasi cuore. Le ho chiesto: “Cosa desideri?” Si è fermata per un momento, poi ha risposto con una voce dolce che portava il peso del mondo: “Vorrei trovare cibo per nutrire i miei fratellini. Mio padre ha perso gli arti, e mia madre è stata martirizzata. Sono io la responsabile di loro.”

Non ho potuto rispondere. Le parole mi sono mancate mentre la guardavo. In quel momento, la mia ricerca di cibo non aveva più importanza. Tutto sembrava insignificante rispetto al dolore in quegli occhi piccoli.

In tutto il mondo, i bambini scrivono lettere a Babbo Natale, chiedendo giocattoli e regali. Decorano alberi di Natale e riempiono le loro case di risate e gioia. Ma a Gaza, non ci sono lettere e non ci sono feste. Qui, se i bambini scrivessero qualcosa, non sarebbe per chiedere giocattoli o regali. Chiederebbero solo una cosa: la morte, come fuga da una vita che ha rubato loro l’infanzia e distrutto i loro sogni.

A Gaza, la vita non è vita. È una serie infinita di crisi che iniziano e non finiscono mai, mettendo alla prova anche i bambini più piccoli prima che possano capire il significato dell’innocenza. Sperano che oggi sia l’ultimo giorno, perché i giorni futuri non portano altro che più fame, paura e silenzio assordante. Migliaia di chilometri lontano, i bambini accendono candele e si riuniscono intorno a tavole piene di amore e cibo. Ma qui, le candele si accendono solo per vedere cosa rimane delle nostre case, e la tavola è vuota tranne che per un’attesa dolorosa.

Ogni volta che sento parlare delle lettere che i bambini inviano a Babbo Natale, mi chiedo: e se i bambini di Gaza scrivessero lettere? Chiederebbero qualcosa di diverso dalla morte? Chiederebbero un giocattolo per riportare una gioia che non hanno mai conosciuto? Gaza esiste ai margini della vita, isolata da un mondo che sembra averla completamente dimenticata, sommerso nel bagliore delle sue festività.

A Gaza, tutto è fermo: niente elettricità, niente acqua potabile, nessuna parvenza di vita normale. Persino sognare, un tempo un rifugio semplice, è diventato un lusso che nessuno osa concedersi. Ma lontano da questo angolo di mondo, la vita va avanti. Le città si illuminano con i colori del Natale, i mercati sono affollati e le persone si scambiano regali. Altrove, il tempo vola, e il mondo si occupa delle sue routine quotidiane, mentre qui a Gaza, ogni minuto porta un peso insopportabile.

Più di 444 giorni, e il mondo non si è fermato nemmeno per un momento a chiedersi: come sopravvivono due milioni di persone senza alcun orizzonte? Come continuano a vivere in mezzo alla completa assenza di tutto?

Più di 444 giorni, senza risposte.

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Attualità

È morto schiacciato da un automezzo dell’Amsa. Se un operaio stasera non torna a casa per la vigilia di Natale, non date la colpa al destino.

Un uomo di 52 anni è morto a Milano in un impianto dell’Amsa, la società che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani della città.

Secondo una prima ricostruzione dell’incidente avvenuto alle 18 nell’impianto di via Zama, l’operaio che stava lavorando a bordo di un mezzo sarebbe rimasto schiacciato tra il suo camion e un’autovettura, i vigili del fuoco hanno estratto il corpo purtroppo privo di vita.

Sul posto anche polizia di Stato, ATS e 118. L’operaio era residente a Cernusco sul Naviglio. (Fonte: repubblica.it).

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Attualità

Anche in mare si muore di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

I pescatori Massimo e Claudio Di Biase, 62 e 29 anni, padre e figlio, una pescheria a Ostia, domenica 22 dicembre sono usciti in mare dal porto di Fiumicino con il loro “Sette fratelli”, una vongolara di 13 metri.

C’era da soddisfare la forte richiesta prenatalizia. Il tempo di spingersi qualche miglio a nord e le condizioni meteo sono peggiorate bruscamente, con onde di due metri e mezzo.

I due hanno fatto dietrofront e intorno alle 14 erano ormai in vista di Fiumicino quando l’imbarcazione si è ribaltata ed è andata in pezzi. Un fenomeno improvviso e violento, 900 metri al largo di Focene.

Dalla costa chi ha assistito all’evento ha lanciato l’allarme, mobilitando guardia costiera e vigili del fuoco. Intorno alle 19 è stato recuperato in mare il corpo di uno dei due pescatori, mentre l’altro è stato trovato poco più tardi sulla spiaggia di Focene.

Alan Baisi, 28 anni, moglie e due figli, carrozziere a Reggio Emilia, venerdì 20 dicembre è uscito di casa intorno alle 19,30 per riconsegnare una Mini Cooper a un cliente.

È stata una telefonata di quest’ultimo a mettere in allarme la moglie: chiedeva il perché del ritardo nella consegna. La donna, altri due figli da una precedente relazione, è uscita per cercare Alan e a San Bartolomeo, frazione di Reggio Emilia, ha fatto la terribile scoperta: il 28enne era rimasto coinvolto in uno scontro frontale con un furgone, ed era morto sul colpo. Deceduto in ospedale l’83enne alla guida del furgone.

Marco Fuccaro, 65enne di Dogna (Udine), venerdì 20 dicembre è stato trovato senza vita in un bosco di sua proprietà nel quale stava facendo dei lavori. Un malore improvviso la causa della morte.

#claudiodibiase#massimodibiase#alanbaisi#marcofuccaro#mortidilavoro

Dicembre 2024: 54 morti (sul lavoro 49; in itinere 5; media giorno 2,5)

Anno 2024: 1120 morti (sul lavoro 853; in itinere 267; media giorno 3,1)

160 Lombardia (112 sul lavoro – 48 in itinere)

112 Campania (95 – 17)

104 Veneto (73 – 31)

89 Sicilia (64 – 25)

87 Emilia Romagna (66 – 21), Lazio (58 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Friuli V.G. (18 – 4), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

Sette indagati della Procura di Genova per la morte del portuale Giovanni Battista Macciò nel terminale di Prà.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Si tratta di un’iscrizione tecnica, per dare modo ai sette di nominare gli avvocati che li rappresentino lunedì 23 dicembre, quando è fissata l’autopsia della vittima.

Si tratta di Patrizio Randazzo, alla guida del mezzo investitore e, tra gli altri, di Antonio Benvenuti, Console della Culmv, del general manager di Psa Roberto Goglio, di Paolo Casali, head of services di Psa e di Marco Ferrari, direttore ingegneria civile di Psa Italy Services.

Il quadro delle indagini è complicato, perché la dinamica dell’incidente appare incompatibile con il colpo di sonno di cui ha parlato Randazzo, che era comunque al secondo turno di lavoro consecutivo.

Sullo sfondo c’è lo scambio di accuse incrociate tra le varie componenti che agiscono nel Porto di Genova. La vedova di Macciò parla apertamente di favoritismi all’interno della Culmv, sostenendo che vengono fatti lavorare soci in condizioni psicofisiche non buone o addirittura sotto l’effetto di stupefacenti.

Randazzo ad esempio è risultato positivo ai cannabinoidi: scrive Repubblica che nel 2021 gli era stata ritirata la patente e che ha potuto continuare a lavorare nei terminal solo grazie all’intervento diretto di Benvenuti.

Non ci vanno leggeri nemmeno gli autotrasportatori, secondo i quali i soci Culmv guidano i trattori portuali con molta leggerezza e ampio uso dei telefonini.

Volano gli stracci, insomma, e in una situazione del genere è difficile accertare cosa è vero e cosa no. Anche perché non esiste un controllo dei carichi di lavoro nel porto, il cui eccesso viene indicato da Randazzo come causa dell’investimento di Macciò.

Sta di fatto che i terminalisti non sanno se un socio Culmv è reduce da un turno di lavoro precedente, né l’Autorità di sistema portuale è mai riuscita a fare ordine nella materia. Su tutto questo dovranno lavorare gli inquirenti, coordinati dal pm Arianna Ciavattini.

#giovannibattistamacciò#mortidilavoro#Culmv#portodigenova

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Attualità

Ha detto al Wall Street Journal che lui non firma nessun accordo per porre fine alla guerra a Gaza finché non li “sradica” tutti. La domanda che si ripropone è quella di sempre: i kibbutznikim rapiti, ormai di chi sono ostaggi, di Hamas o di Netanyahu?

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Attualità

Il Tribunale di Palermo ha condannato Meloni: dovrà continuare a sopportare Salvini al governo. Fine pena mai?

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“Non rispetta gli standard europei in materia di diritti umani”. Lo dice anche la Ue: il Ddl Sicurezza è una vera schifezza.

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Attualità

“Se almeno avessimo lottato, ci saremmo sentiti uniti dalla speranza, invece che dalla paura”(*)

“La lotta degli operai della ex Gkn, condotta con creatività e resistenza pacifiche, ha risvegliato in molti quel senso di giustizia soffocato dal fatalismo rassegnato, portando a galla questioni esistenziali che non riguardano soltanto i 422 licenziati ex abrupto, ma l’intera collettività.

Che si tratti di un negozio, di una fabbrica, di un’agenzia di viaggi o di comunicazione, di un pezzo dell’industria mediatica-culturale o persino dello Stato nei suoi mille impieghi, non c’è quasi persona che non si sia trovata a lavorare in condizioni irregolari, con contratti che non corrispondono alle reali mansioni o al tempo dedicato, oppure sottopagata, senza possibilità di mettere in discussione scelte sbagliate e ingiuste, che non abbia subito ricatti più o meno aperti.

Nei cortei e sul palco delle moltissime manifestazioni del Collettivo sono state fatte le domande che tutti dovrebbero porsi, e ancora di più coloro che vogliono per mestiere, missione o coscienza essere interpreti del presente.

La volontà di non capitolare di fronte all’abuso e alla presunta assenza di alternative ha aperto gli occhi sugli abusi che tutte e tutti, ognuno a proprio modo, subiscono, e sull’atomizzazione dell’azione che è ricetta per la sconfitta del gruppo.

Antonio Gramsci scriveva nel 1917 – a 26 anni – parole che appartengono pienamente al presente, al ruolo della cittadinanza, di ogni lavoratrice e lavoratore, del sindacato, dei media.

“L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.

È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza.

Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti.

Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.

Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.

I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa.

Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente.

E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?” (Antonio Gramsci, “Odio gli indifferenti”, Chiarelettere, Milano 2011.)

(*) Marco Ferri, “Dannazione donna”, 2017).

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Attualità

“Chi rovina le scuole paghi”, ha detto l’apposito ministro. Giusto. Permette una domanda? Lei a che ora si costituisce?

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Attualità

Giovanni, Stefano, Domenico, Davide, Mario e Fausto sono morti di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Mercoledì 18 dicembre i media sono tornati ai conteggi selettivi, ai morti di lavoro sfogliati come i petali di una margherita: questo sì, questo no, questo sì, questo no…

Il risultato è che i titoli di giornata raccontano agli italiani di due o tre vittime, quando in realtà i lavoratori che hanno perso la vita sono stati sei.

Esattamente il doppio. Tutti hanno parlato di Giovanni Battista Macciò (Genova) e Stefano Deiana (Elmas), quasi tutti di Domenico Caputo (Postiglione), quasi nessuno di Davide Benetti (Riva del Po), Mario Masiero (Borgo Veneto) e Fausto Conca (Lissone).

Giovanni Battista Macciò, 52 anni, residente con moglie e figlio a Castiglione Chiavarese (Genova), ex tassista, era uno dei 900 soci del Culmv (Compagnia unica fra i lavoratori delle merci varie) attiva nel Porto di Genova.

Un camallo, si sarebbe detto una volta. È morto intorno alle 3 della notte di mercoledì 18 dicembre, travolto da un trattore portuale nel Terminal Psa di Prà mentre controllava i sigilli di un container.

Tutti da verificare i motivi per i quali il trattore ha effettuato un’inversione a U nel piazzale e anziché proseguire lungo la corsia di marcia ha preso una traiettoria diagonale, investendo Macciò, per tutti Francesco.

Era membro del Comitato vittime del Ponte Morandi e domenica aveva partecipato all’inaugurazione del memoriale. Subito dopo la morte del lavoratore è scattato uno sciopero di 24 ore dei lavoratori portuali, con l’affissione di striscioni emblematici.

Stefano Deiana aveva 57 anni, viveva a Capoterra (Cagliari) ed era un dipendente della Carvi srl di Elmas, officina per mezzi pesanti.

Mercoledì 18 dicembre insieme al 27enne senegalese Abdoulaye Lo era alle prese con le ruote di un camion, sdraiato dietro la gomma posteriore destra, quando l’autista del mezzo è salito in cabina e ha tolto il freno, senza accorgersi dei due meccanici.

Il camion si è mosso schiacciando “Jerry”, come tutti conoscevano Deiana, che non è sopravvissuto alle lesioni. Ricoverato al Brotzu di Cagliari in condizioni non gravi l’operaio senegalese.

Domenico Caputo, 36enne camionista di Postiglione (Salerno), è morto mercoledì 18 dicembre nel cortile dell’azienda produttrice di pellet di proprietà della famiglia della moglie.

Caputo è stato schiacciato contro un muro da un camion, mossosi all’improvviso perché quasi certamente non frenato. Nulla da fare per Caputo.

Davide Benetti, 43 anni, era un insegnante di sostegno nella scuola di Riva del Po (Ferrara) ed è morto mercoledì 18 dicembre nell’ospedale Sant’Anna di Ferrara, dove era stato ricoverato il 9 dicembre per un incidente avvenuto durante una gita scolastica.

In visita con una quinta elementare e una seconda media a Villa Rivani Farolfi di Ro (municipio di Riva del Po), Benetti era caduto da un’altezza di 5 metri a causa del crollo di un balcone dell’edificio.

Ricoverato in gravi condizioni per le fratture agli arti, l’insegnante si è progressivamente aggravato, fino alla morte.

Mario Masiero, 79 anni, storico proprietario del bar-ristorante Nonno Mario a Santa Margherita d’Adige (municipio di Borgo Veneto, Padova), è morto intorno alle 7 del mattino di mercoledì 18 dicembre in un incidente stradale causato anche dalla fitta nebbia.

Dopo aver aperto il suo esercizio, Masiero era salito in macchina per acquistare i quotidiani da mettere a disposizione della clientela e stava tornando indietro quando si è scontrato frontalmente con un camion. È morto sul colpo.

Un tamponamento con un camion è la causa della morte di Fausto Raffaele Conca, 54 anni, residente a Lissone (Monza e Brianza), e tecnico specializzato presso Phoebus Sistemi Audio di Sesto San Giovanni (Milano).

Nel tardo pomeriggio di lunedì 16 dicembre tornava a casa lungo la A4 quando ha tamponato un autoarticolato, riportando lesioni gravissime. Ricoverato all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, è morto martedì 17 dicembre.

#giovannibattistamacciò#stefanodeiana#domenicocaputo#davidebenetti#mariomasiero#faustoconca#mortidilavoro

Dicembre 2024: 48 morti (sul lavoro 43; in itinere 5; media giorno 2,7)

Anno 2024: 1114 morti (sul lavoro 847; in itinere 267; media giorno 3,1)

160 Lombardia (112 sul lavoro – 48 in itinere)

112 Campania (95 – 17)

103 Veneto (72 – 31)

89 Sicilia (64 – 25)

86 Emilia Romagna (65 – 21)

85 Lazio (56 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

35 Sardegna (30 – 5)

34 Marche (24 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Liguria (19 – 3), Estero (19 – 3)

21 Trentino (17 – 4)

20 Friuli V.G. (16 – 4),

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

La solidarietà con il popolo palestinese è amore rivoluzionario.

di Samah Jabr (*)

“La chiamata alla solidarietà con il popolo palestinese è radicata nell’amore rivoluzionario.

È reciproca. anche se le mani dei palestinesi sono legate e non possono estenderle ai nostri compagni nello stesso modo in cui loro lo fanno con noi.

Da decenni i palestinesi sono immersi nelle difficoltà personali e collettive, le nostre vite sono soggette a controllo e scrutinio costanti. Eppure, in questa oscurità, la sensazione di essere connessi a una comunità umana più ampia non è scomparsa.

Ricordo diverse occasioni in cui gli impiegati pubblici palestinesi hanno donato una piccola quantità del loro stipendio ai rifugiati siriani.

Analogamente i palestinesi hanno dimostrato solidarietà con il popolo turco che ha perso la vita proteggendo la democrazia., nel 2016, manifestando a sostengo del popolo Robinia a Burma, egualmente oppresso.

A Gaza ho assistito a raccolte fondi per sostenere i sopravvissuti ai terremoti in Turchia e in Siria, oltre che per le vittime delle inondazioni in Libia. Medici, psicologi e psicoterapeuti palestinesi hanno a loro volta preso parte a missioni di sostegno in diverse aree di crisi a livello mondiale.

Si tratta di una testimonianza della forza dell’amore rivoluzionario che i palestinesi continuano a nutrire, incentivando connessioni con comunità indigene, nere e marginalizzate. […]

Il sostegno alla lotta palestinese implica il riconoscimento e l’affermazione dell’umanità di un popolo che è stato troppo a lungo de-umanizzato.

I palestinesi si trovano al vertice di uno scontro di civiltà, sfidando non solo Israele bensì un ordine mondiale unipolare e deforme, in cui la dignità i i diritti umani sono divisi in maniera iniqua.

Questo mondo deforme ci propone dei confini ambigui e illusori tra Occidente e Oriente, tra Nord globale e Sud globale. In questo mondiale corrotto dall’occupazione israeliana che ci toglie l’aria è considerata molto europea, occidentale e civilizzata, mentre noi veniamo rappresentati come selvaggi barbari e de-umanizzati.

Non dovremmo essere soli in questa lotta. Un mondo che afferma di provare rimorso per la schiavitù dei neri e lo sterminio degli indigeni durante la conquista di. nuovi continenti dovrebbe mostrare solidarietà ai palestinesi.

L’amore rivoluzionario è vedere i vostri antenati nei nostri occhi, sentire le loro voci nelle nostre grida.

L’amore rivoluzionario significa comprendere che il dolore dei palestinesi è universale e che i nostri sogni sono legittimi e umani. È il riconoscimento del nostro diritto di spingere via il grosso macigno che pesa sul nostro petto, per tornare a respirare e a entrare in connessione come pari. […]

Abbracciando l’amore rivoluzionario dichiariamo che la lotta per porre fine all’occupazione della Palestina è una lotta ispirata dall’amore per l’umanità, non dall’odio – contrariamente a ciò che viene falsamente sostenuto dai nostri avversari.

È una richiesta di azione che incita le persone del mondo a unirsi non come osservatori passivi, ma come partecipanti attivi nella lotta per la giustizia”. (“Un mondo senza confini”: l’amore rivoluzionario”, 16 luglio 2024).

(*) Samah Jabr, nata nel 1976 a Gerusalemme Est, è psichiatra, scrittrice e assistente alla George Washington University. Dirige l’unità di salute mentale del Ministero della sanità palestinese.

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Zelensky è putiniano?

“Il re è nudo.”

“Non abbiamo la forza per riprenderci il Donbass e la Crimea”, lo dice adesso, Volodymir Zelenski. “Il re è nudo”, dopo due anni di una guerra che ha fatto migliaia di morti, che è costata centinaia di migliaia di dollari ed euro, che ha fatto schizzare in alto i costi energetici, che ha provocato l’aumento delle spese militari, a detrimento della spesa sociale, imposto dalla Nato.

Quando lo dicevano tutti quelli che avevano capito l’inganno USA per piegare la Ue al suo dominio in declino, tanto da far deragliare la cosiddetta locomotiva franco-tedesca; quando denunciavamo il bellicismo atlantico come panacea per risolvere la crisi delle democrazie occidentali; quando vedevamo con chiarezza che le regioni russofone al confine con la Federazione non si sarebbero mai piegate all’autoritarismo di Kiev; quando dimostravamo il fermo disaccordo con pennivendoli e ciarlatani della geopolitica che imperversavano a reti unificate; allora siamo stati tacciati, con disprezzo della realtà, della verità, della stessa libertà di opinione, di puntinismo.

“Il burattinaio ventriloquo di Washington”.

Oggi che il burattinaio di Washington, il ventricolo che fa parlare da due anni Zelensky, dice quello che era sotto gli occhi di tutti, fin dall’inizio dell’insensata prova di forza della Nato, oggi è quanto mai chiaro l’inganno dello slogan “c’è un invaso e un invasore”.

“Vassalli, valvassori e valvassini”.

La verità è che c’è una superpotenza imperiale, arrogante piena di sé, che manovra a suo piacimento i vassalli, i valvassori e i valvassini, che brancolano nel più bieco servilismo, muovendosi a tentoni nei governi, nella Ue, nel G7, nell’informazione, nella politica.

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Attualità

Porto di Genova: ennesimo omicidio sul lavoro. Sciopero immediato di 24 ore. 

di USB Porto di Genova

Il porto di Genova PRA, area PSA alle 3 di stamattina è stato il teatro dell’ennesimo morto sul lavoro, un operaio di 52 anni è stato investito da una ralla mentre era impegnato a controllare i sigilli di un container, il suo collega alla guida del mezzo è rimasto ferito e ora si trova in ospedale.

Oltre alla scarna dinamica dei fatti di cui si è al momento a conoscenza, rimane certo il drammatico contesto di sfruttamento che, ogni giorno, vede crescere il conteggio dei lavoratori e delle lavoratrici uccisi nei posti di lavoro o che subiscono lesioni.

La salute e la sicurezza dei lavoratori portuali e marittimi nel corso degli anni è andata costantemente peggiorando,  la deregolamentazione delle banchine, l’attacco alle compagnie portuali, l’autoproduzione (privatizzazione) hanno messo le vite e l’integrità fisica dei lavoratori nelle mani delle grandi multinazionali che mettono i profitti davanti a tutto.

Ritmi di lavoro sopra le capacità fisiche, incremento dei turni notturni e festivi, introduzione di lavoro flessibile, oggi oltre il 15% dei portuali è a chiamata, sono la base su cui si fonda un affare da centinaia di miliardi, dove le aziende si fanno sempre meno scrupoli.

L’USB portuali si stringe alla famiglia, agli affetti e ai compagni di lavoro del nostro collega, chiama uno sciopero di 24 in tutto il porto di Genova .

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Attualità

Eppur si muore.

Piero Santomastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Chiara Moscardi, 26 anni, rodigina ma residente a Padova, a marzo si era laureata in psicologia e lavorava con la cooperativa sociale Cosep, che tra le altre cose gestisce per il Comune di Venezia il servizio drop-in a Mestre.

Martedì 17 dicembre era con tre colleghi su un pullmino Nissan aziendale fermo per un’avaria sulla corsia d’emergenza della A4, nel territorio di Noventa di Piave (Venezia). Un tir con targa ceca ha colpito e semidistrutto il mezzo, scaraventandolo a bordo strada per poi rovesciarsi su un fianco.

Chiara, che sedeva sul lato passeggero, è morta intrappolata tra le lamiere; gravemente ferita una sua collega.

Vasto il cordoglio nel mondo del rugby, sport praticato anche dalla psicologa e in cui il padre, il fratello e gli zii erano arrivati fino alla nazionale.

Ernesto Della Mina, 72enne imprenditore edile di Traona (Sondrio), titolare della DME srl, è morto martedì 17 dicembre mentre era ai comandi di un escavatore impegnato nei lavori di svaso e pulizia delle sponde del fiume Adda, sempre a Traona.

Probabilmente a causa di un cedimento del terreno, l’escavatore si è ribaltato nel fiume, schiacciando Della Mina nell’acqua gelida.

L’imprenditore è stato recuperato e caricato su un elicottero del 118, ma è morto durante il volo verso l’ospedale per i gravi traumi riportati al petto e all’addome.

Adalberto Marani, 58enne di Belforte del Chienti (Macerata), responsabile dei servizi finanziari del Comune di Corridonia (Macerata), è morto lunedì 16 dicembre nel suo ufficio, stroncato da un malore mentre era al lavoro.

#chiaramoscardi#ernestodellamina#adalbertomarani#mortidilavoro

Dicembre 2024: 42 morti (sul lavoro 38; in itinere 4; media giorno 2,5)

Anno 2024: 1108 morti (sul lavoro 842; in itinere 266; media giorno 3,1)

159 Lombardia (112 sul lavoro – 47 in itinere)

111 Campania (94 – 17)

102 Veneto (71 – 31)

89 Sicilia (64 – 25)

85 Emilia Romagna (64 – 21), Lazio (56 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

34 Marche (24 – 10 ), Sardegna (29 – 5)

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Estero (19 – 3)

21 Liguria (18 – 3), Trentino (17 – 4)

20 Friuli V.G. (16 – 4),

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

Dov’è finita la sicurezza sul lavoro? Nel cesso.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Mario Garini, 60 anni, moglie e 3 figli, viveva a Chieve (Cremona) e da venti anni lavorava a una ventina di chilometri di distanza, macellaio nell’ipermercato Bennet del centro commerciale di Pieve Fissiraga (Lodi).

Nel pomeriggio di sabato 14 dicembre è arrivato regolarmente al lavoro per prendere servizio alle 17, ma da quel momento si sono perse le sue tracce.

La moglie Marzia ha iniziato a preoccuparsi non vedendolo tornare dopo le 20 e ha allertato i due cognati.

Alle 22 i familiari erano davanti al centro commerciale ormai chiuso e la preoccupazione è salita alle stelle quando hanno visto la macchina del lavoratore regolarmente parcheggiata.

Hanno fermato una volante della polizia e dato l’allarme, ma solo all’una della notte si è trovato qualcuno in grado di aprire i locali dell’ipermercato. Mario giaceva in un bagno dello spogliatoio, stroncato da un infarto.

Erano passate più di sette ore senza che qualcuno si accorgesse di lui.

La famiglia ora esige risposte: «Vogliamo che sia fatta chiarezza sulla sicurezza interna al supermercato, in primis per la dignità di Mario — racconta il fratello Bruno a La Provincia di Cremona — è rimasto sette ore riverso a terra e chiuso in una toilette.

Possibile che non ci sia stato un incaricato della sicurezza interna che in tutto questo lasso di tempo sia passato per un controllo negli spogliatoi? E i colleghi?».

Mercoledì 11 dicembre è stato vittima di un malore anche Rosario Sileci, 58 anni, forestale siciliano residente a Godrano (Palermo) con la moglie e il figlio. Il lavoratore si è sentito male mentre era in servizio nel Bosco della Ficuzza, a Corleone, ed è morto.

Francesco Siani, 41 anni, di Battipaglia (Salerno), moglie e una figlia, è morto domenica 15 dicembre mentre lavorava in un terreno di sua proprietà a Eboli, sempre nel Salernitano. L’uomo è stato travolto dal bobcat che stava manovrando.

Nelle prime ore di domenica 15 dicembre è morto nell’ospedale di Udine l’ottantenne Roberto Fumagalli, macellaio di Tricesimo (Udine). Aveva ceduto al figlio la gestione della macelleria aperta negli anni Sessanta, ma continuava a lavorarvi.

Nel tardo pomeriggio di sabato 14 dicembre è caduto da una scala a chiocciola, battendo violentemente la testa e riportando lesioni che lo hanno condotto alla morte.

#mariogarini#rosariosileci#francescosiani#robertofumagalli#mortidilavoro

Dicembre 2024: 38 morti (sul lavoro 34; in itinere 4; media giorno 2,5)

Anno 2024: 1104 morti (sul lavoro 838; in itinere 266; media giorno 3,1)

158 Lombardia (111 sul lavoro – 47 in itinere)

111 Campania (94 – 17)

101 Veneto (70 – 31)

89 Sicilia (64 – 25)

85 Emilia Romagna (64 – 21)

84 Lazio (55 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

34 Sardegna (29 – 5)

33 Marche (23 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Estero (19 – 3)

21 Liguria (18- 3), Trentino (17 – 4)

20 Friuli V.G. (16 – 4),

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

I cantieri per le olimpiadi invernali del 2026 hanno fatto la loro prima vittima.

di Piero Santonastaso | Facebook.com / Mortidiavoro

Si tratta di Salvatore Briamonte, 65 anni, moglie e 3 figli, residente a Sant’Arcangelo (Potenza) e dipendente di un’azienda piemontese specializzata in manufatti in cemento.

Briamonte venerdì 13 dicembre era al lavoro nel cantiere di Bianzone (Sondrio) per la costruzione della nuova tangenziale di Tirano.

Intorno alle 13 stava pulendo un macchinario usato per le gettate in cemento quando è rimasto incastrato in un rullo ed è andato incontro a una morte orribile.

Mercoledì il cantiere era stato visitato da un gasatissimo Matteo Salvini che si era profuso in complimenti per lo stato di avanzamento dei lavori e da bravo rodomonte aveva rivendicato il fatto che si andasse più velocemente rispetto ai tempi previsti, perché “l’obiettivo è che valligiani e turisti percorrano questa tangenziale già dalla fine dell’anno prossimo” grazie ai finanziamenti “per le olimpiadi volute dalla Lega”.

Con tanti saluti alle procedure per la sicurezza.

Giovedì 12 dicembre la 49enne Teresa Carceo, marito e due figli, dipendente di un agriturismo di Barberino di Mugello (Firenze), ha perso la vita precipitando da un terrazzamento di 4 metri con uno dei veicoli elettrici in uso nella struttura.

La lavoratrice ha perso il controllo in un tratto in forte pendenza, fino allo schianto fatale.

Giuseppe Simione, 61 anni, artigiano di San Nicola la Strada (Caserta) è morto giovedì 12 dicembre in un albergo di vialone Carlo III.

L’uomo stava lavorando nella zona ascensori quando si è accasciato, probabilmente a causa di un malore. I soccorritori intervenuti non hanno potuto fare nulla.

Paolo Rabbia, 61 anni, boscaiolo di Saluzzo (Cuneo) è morto mentre era al lavoro in una zona particolarmente impervia di un bosco saluzzese.

L’ipotesi più accreditata è che sia stato colpito da un malore.

#salvatorebriamonte#teresacarceo#giuseppesimione#paolorabbia#mortidilavoro

Dicembre 2024: 34 morti (sul lavoro 30; in itinere 4; media giorno 2,6)

Anno 2024: 1100 morti (sul lavoro 834; in itinere 266; media giorno 3,1)

157 Lombardia (110 sul lavoro – 47 in itinere)

110 Campania (93 – 17)

101 Veneto (70 – 31)

88 Sicilia (63 – 25)

85 Emilia Romagna (64 – 21)

84 Lazio (55 – 29)

69 Puglia (45 – 24)

68 Toscana (55 – 13)

66 Piemonte (52 – 14)

34 Sardegna (29 – 5)

33 Marche (23 – 10 )

27 Abruzzo (22 – 5),

25 Calabria (20 – 5)

22 Estero (19 – 3)

21 Liguria (18- 3), Trentino (17 – 4)

19 Friuli V.G. (15 – 4),

18 Umbria (14 – 4)

14 Basilicata (14 – 0)

13 Alto Adige (12 – 1)

7 Valle d’Aosta (7 – 0)

4 Molise (4 – 0).

Novembre 2024: 102 morti (sul lavoro 77; in itinere 25; media giorno 3,4)

Ottobre 2024: 100 morti (sul lavoro 74; in itinere 26; media giorno 3,2)

Settembre 2024: 93 morti (sul lavoro 67; in itinere 26; media giorno 3,1)

Agosto 2024: 97 morti (sul lavoro 67; in itinere 30; media giorno 3,1)

Luglio 2024: 104 morti (sul lavoro 83; in itinere 21; media giorno 3,3)

Giugno 2024: 105 morti (sul lavoro 72; in itinere 33; media giorno 3,5)

Maggio 2024: 101 morti (sul lavoro 79; in itinere 22; media giorno 3,1)

Aprile 2024: 105 morti (sul lavoro 85; in itinere 20; media giorno 3,5)

Marzo 2024: 84 morti (sul lavoro 68; in itinere 16; media giorno 2,7)

Febbraio 2024: 96 morti (sul lavoro 76; in itinere 20; media giorno 3,3)

Gennaio 2024: 81 morti (sul lavoro 55; in itinere 26; media 2,6)

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Attualità

Il governo premia i ministri Crosetto, Giuli e Piantedosi e anche Calderone, ministra del Lavoro. In Italia gli unici a cui non vogliono aumentare lo stipendio sono i lavoratori.

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