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Berlusconi al ministro Scajola: “vedrai che tra una settimana si sgonfierà tutto, devi solo tenere duro finché non passa l’onda. Devi difenderti in maniera più dura, con il coltello tra i denti”.

Nuove accuse per Scajola, 4 testimoni lo incastrano. Berlusconi: “Tieni duro e vai avanti”-blitzquotidiano.it

Ci sono 4 testimoni e i passaggi di denaro su alcuni conti bancari a smentire il ministro Scajola e che dimostrano invece come lui conoscesse la provenienza degli 80 assegni “neri” che servirono a pagare oltre la metà del suo appartamento romano, in zona Colosseo. ieri il ministro ha anche ricevuto la solidarietà di Berlusconi. Dimissioni, neanche a parlarne. Il premier lo ha rassicurato: “Devi difenderti con il coltello tra i denti”.

Sulla compravendita dell’appartamento i testimoni concordano nel riferire che fu Scajola stesso a consegnare gli assegni, per un totale di 900mila euro, e che gli furono messi a disposizione proprio da Anemone, l’imprenditore finito in galera per la vicenda degli appalti legati ai Grandi Eventi. Anemone infatti ha ottenuto negli anni passati il Nos, il certificato di “nulla osta di segretezza” che gli ha consentito di aggiudicarsi lavori cosiddetti “sensibili”, vale a dire la ristrutturazione o la costruzione di edifici per il ministero dell’Interno, per quello della Giustizia comprese alcune carceri, e per i servizi segreti

Le testimonianze, da come risulta dagli atti dei pm di Perugia che conducono l’indagine, concordano nel riferire che il giorno del rogito fu proprio il ministro ad avere materialmente in mano quegli assegni. E che, nonostante fosse consapevole del reale valore dell’immobile (1 milione e 710mila euro), il ministro davanti al notaio dichiarò che il costo fosse di 600mila. Secondo l’accusa la mossa di Scajola ha due spiegazioni. Da una parte nascondere al Fisco la portata reale dell’operazione e dall’altra cancellare la traccia di altre due circostanze: la consegna di 200mila euro alle due venditrici dell’appartamento al momento dell’accordo preliminare, e il legame con l’architetto Angelo Zampolini, braccio destro di Anemone oggi indagato per riciclaggio, che gli aveva consegnato gli 80 assegni.

Il racconto che fanno le sorelle Barbara e Beatrice Papa, venditrici dell’appartamento, e Zampolini, dimostra che Scajola sapesse da dove provenivano i soldi, mentre finora il ministro ha dichiarato di aver comparto la casa per un valore di 600mila euro, accendendo un mutuo presso la banca San Paolo Imi. Nel 2004, dunque, il ministro decide di acquistare casa e coinvolge Diego Anemone, imprenditore vicino al ministero dell’Interno, guidato da Scajola fino a due anni prima. Anemone passa la faccenda all’architetto Zampolini che sottopone al ministro alcune proposte: la scelta cade sull’appartamento in viadel Fagutale 2, vista Colosseo. Costo: 1milione e 710 mila euro. Poco prima del rogito le due sorelle Papa ammettono di aver ricevuto dal ministro 200mila euro, senza alcun contratto preliminare. Zampolini davanti ai magistrati sostiene che i soldi fossero del ministro ma gli inquirenti ritengono che fosse la prima “tranche” con cui Anemone comprava casa a Scajola.

Ci sono poi i 900mila euro, cambiati in 80 assegni da Zampolini presso un’agenzia della Deutsche Bank. E’ Zampolini stesso, il 6 luglio di quel 2004, ad andare in banca. 80 assegni, non un numero a caso. Ognuno dell’importo di 12mila500 euro, ossia la soglia massima prima che scatti l’obbligo da parte della banca di avvertire il circuito interbancario e la Guardia di Finanza. Ma in banca, un impiegato zelante decide comunque di fare un controllo su quella “operazione sospetta di frazionamento”, come viene chiamata in gergo. Sarà l’inizio dell’inchiesta.

Ma torniamo al giorno del rogito. Si svolge negli uffici del ministro alla presenza del notaio Gianluca Napoleone, delle due sorelle Papa e di Scajola stesso. In questa occasione le Papa ricordano che il ministro consegna loro gli 80 assegni per un valore di 900mila euro. Ma davanti al notaio il prezzo dichiarato della vendita è di 600mila: il ministro infatti ha con sè altri assegni della banca San Paolo Imi presso la quale ha acceso un mutuo. Da questa ricostruzione il notaio avrebbe quindi autenticato una compravendita non corrispondente alla realtà, ma su queso punto Napoleoni si giustifica dicendo che il passaggio degli 80 assegni non è avvenuto davanti ai suoi occhi e che comunque le leggi del 2004 non impedivano una eventuale scrittura privata tra le parti per integrare il prezzo di vendita.

Il ministro ora si difende dalle accuse e riceve l’appoggio del premier Berlusconi che ha incontrato ieri a palazzo Grazioli. Dimissioni? Neanche a parlarne. “Claudio devi andare avanti – insiste Berlusconi – anche perché, se accettassi le tue dimissioni, ne uscirebbe indebolito il governo: daremmo un’immagine di sfaldamento proprio mentre siamo sotto l’attacco di Fini. Non se ne parla”. Berlusconi, stando al racconto dei presenti, prova quindi a tranquillizzarlo: “Se la prendono con te per attaccare me, lo sai. Ma vedrai che tra una settimana si sgonfierà tutto, devi solo tenere duro finché non passa l’onda. Devi difenderti in maniera più dura, con il coltello tra i denti”.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’Italia dell’Era Berlusconi: disoccupazione 8,8%; disoccupazione giovanile 27,7%, la più alta d’Europa. Proprio un bel Primo Maggio!

Solo in un anno, da marzo 2009 a marzo 2010, sono stati persi 367 mila posti di lavoro. Si tratta di una riduzione consistente, spiega l’Istat, che in termini di percentuale si traduce in un calo dello 0,2 per cento rispetto a febbraio e dell’1,6 per cento rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è così pari al 56,7% (inferiore, rispetto a febbraio, di 0,1 punti percentuali e di 1,1 punti percentuali rispetto a marzo dell’anno precedente). Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 194 mila unità, in crescita del 2,7% (+58 mila unità) rispetto al mese precedente e ben del 12% (+236 mila unità) rispetto a marzo 2009.

Il tasso di disoccupazione, invece, si innalza ai massimi dal secondo trimestre del 2002: sempre secondo l’Istat, si è attestato a marzo all’8,8%, lo 0,2% in più rispetto al mese precedente e l’1% rispetto a marzo 2009. In forte rialzo anche il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 27,7%, in calo dello 0,4% rispetto al mese precedente e in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009. Beh, buona giornata.

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democrazia Lavoro Leggi e diritto

L’Italia dell’era Berlusconi: il 60% delle aziende italiane sono fuori legge, 2 milioni e 966 mila lavoratori sono irregolari. Lo dice il ministro del Lavoro, in audizione ufficiale davanti al Parlamento. Scusi, ma lei che ci sta a fare in quel ministero?

Irregolare la Repubblica delle imprese: sei aziende su dieci “fuori legge”-blitzquotidiano.it

Sono il nerbo del paese, la spina dorsale dell’Italia, reggono l’economia. Però si reggono spesso e volentieri sulla bugia, bugia al fisco, all’Inps, alle regole e alle leggi. Fune e colonna vertebrale che sostengono il corpo nazionale, ma anche anima furbetta e impunita. Sono le aziende italiane che vivono e praticano una legalità “altra” da quella ufficiale. Infatti più della metà risultano irregolari ai controlli di Stato peraltro non ossessivi. E, se più della metà applica una legge “altra”, qual è la vera legge, quella dei codici o quella appunto delle aziende? I conti delle aziende “fuori legge” non sono stati ostilmente redatti e tirati da sindacati o consumatori. A “denunciare”, suo malgrado è stato il ministro del lavoro Maurizio Sacconi in audizione ufficiale davanti al Parlamento.

Ispezioni fatte nel 2009: 303.691 le aziende esaminate, di queste 175.144 irregolari, vale a dire circa il 60 per cento. Insomma una Repubblica dell’impresa “fondata sull’eccezione”. Eccezione che in questo caso è la regola.

Ciliegina sulla torta, apposta dallo stesso Sacconi, “a preoccupare è il grado di pericolosità dei luoghi di lavoro, visto che “i dati evidenziano un incremento sostanziale della gravità delle irregolarità riscontrate”.

Tradotti in uomini si parla di 2 milioni e 966 mila i lavoratori irregolari. Non si pensi ad uno stuolo di extracomunitari, però: perché i residenti (italiani e stranieri) sono la componente più rilevante, mentre gli stranieri clandestini rappresentano solo una quota marginale, all’incirca il 12 per cento. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

L’offensiva mediatica di Gianfranco Fini. La politica in Italia è bassa cucina.

Fini:”Non sono presidente per un cadeau di Berlusconi”-rainews24.it

‘Non sono presidente della Camera in ragione di un concorso vinto o di un cadeau del Presidente del Consiglio”. Gianfranco Fini lo mette in chiaro poco dopo essersi seduto sulla poltrona di pelle bianca di ‘Porta a Porta’ per una lunga intervista con Bruno Vespa che e’ un difficile esercizio di politica.

“Non ho intenzione di divorziare o di litigare, a patto che si rispettino le mie opinioni”, dice rivolto alla pubblica opinione anche per mettere subito sui giusti binari la questione dei suoi rapporti con Silvio Berlusconi, dopo la burrascosa direzione di una settimana fa. E poi e’ tutto un gioco di frizione tra la volonta’ di non compromettere una pax politica e quella di rivendicare il diritto di dire sempre come la pensa. Orgogliosamente Fini dice al premier, convitato di pietra della puntata, che alla Presidenza della Camera pensa di essere arrivato “per una storia politica che e’ quella di una destra senza bava alla bocca”. E aggiunge: “Non ho nessuna intenzione di dimettermi e fino alla noia, finche’ saro’ Presidente, difendero’ le prerogative del Parlamento”.

“Mi spiace doverlo ricordare – torna sulla lite in direzione -, ma Berlusconi non puo’ dirmi ‘se vuoi fare politica devi dimetterti da presidente della Camera’. Vespa ribatte: ‘Credo intendesse dire che doveva dimettersi da presidente della Camera se voleva fare una corrente’. Qui Fini stoppa il conduttore piccato: ‘A me non e’ parso, direttore. E comunque credo che quello che e’ accaduto lo abbiano visto in tanti”.

La puntata tocca l’acme quando Fini rivela ironico di aver ricevuto “la solidarieta’ del fratello del direttore” dopo l’attacco odierno del ‘Giornale’ di Feltri. “Non e’ stato un incidente – affonda l’ex leader di An – E comunque o non legge i giornali (Berlusconi ndr.) o non si capisce perche’ solo oggi la solidarieta’. Quindi uno sdegnato attacco contro il giornalismo “che sguazza nel fango, per non citare la materia organica che rese famoso Cambonne” e che “va oltre la decenza” infangando le persone sul piano familiare, cosi’ come fa anche la politica.

Ma Fini e’ teso anche quando deve mettere in chiaro che non accettera’ che Italo Bocchino sia usato come vittima sacrificale e sfiduciato dal capogruppo vicario del Pdl. “Si puo’ essere sfiduciati in ragione di addebiti – si butta avanti Fini -. Cosa si puo’ addebitare a Bocchino? Di aver sabotato il gruppo? Di aver organizzato qualche imboscata? Non si puo’ addebitarglielo. Viene rimproverato perche’ si ritrova su posizioni del Presidente dalla Camera. E’ questa la ragione? Se e’ questa, altro che partito dell’amore, se si inizia a tagliare teste”.

Ma il presidente della Camera, anche sui presidenti di commissione a lui vicini, non vuole credere che “Berlusconi pensi ad epurazioni”. Ne’ accetta che inizi la “caccia alle streghe” addebitando ai finiani la battuta d’arresto del governo, oggi andato sotto alla Camera su un emendamento del Pd al ddl Lavoro. Fini e’ tranchant quando afferma “E’ imbecille dire che lavoro per la sinistra” e smentisce ogni ipotesi ribaltonista dicendo degli avversari “Quando si e’ in fase di disperazione politica, ci si attacca a tutto cio’ che passa. Si augurano che io faccia qualcosa contro il governo centrodestra, ma io lavoro perche’ sia piu’ efficace, non per farlo cadere. Cosa sperano?”.

Nel mirino anche i retropensieri nel centrodestra: “Un patto sulle riforme non puo’ essere considerato l’anticamera dell’ammucchiata anti-Berlusconi. Anche se su alcune riforme si puo’ ragionevolemente arrivare ad una convergenza”. Cosi’, punto per punto, l’ex leader di An ribadisce le ‘tesi’ della storica direzione “nel cui documento finale il partito sembrava un impaccio, una parentesi”. Spiegando che esiste “differenza tra governare e comandare”, Fini ribadisce che “elezioni anticipate sarebbero da irresponsabili” e che lui lavora “non a logorare il governo ma a rinforzare esecutivo e Pdl. “Il logoramento – va avanti propositivo – nessuno lo vuole -. Berlusconi lavorera’ per un chiarimento e per evitare il logoramento. Io faro’ lo stesso”. Pero’ insiste su un federalismo fiscale del quale siano chiari i costi, su una riforma della giustizia che “non denigri i magistrati, baluardo di liberta’, e non crei sacche di impunita”‘, su un presidente del Consiglio che non dica certe cose su Saviano “perche’ sarebbe come dire che Camus con ‘La peste’ ha fatto l’untore”.

Fini chiede rapporti “improntati al massimo della correttezza” con le istituzioni, Colle in testa, insiste per un “sereno confronto” e nega si possa parlare di “tregua armata”, perche’ non c’e’ guerra in corso ma solo “una fase nuova”, dove e’ possibile dissentire senza essere bollato di tradimento. E a Vespa che gli chiede di riassumere in un titolo, Fini replica: “Guardi che se appare uno che si fa suggerire da me le cose, in questo momento rischia di avere problemi”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Metti un immigrato nello spot.

La Cassazione ha deciso niente adozione per quelle coppie che fanno distinzione di pelle tra i bambini. Infatti, la procura della Cassazione dice no a chi vuole essere genitore dichiarandosi indisponibile a ricevere bimbi di pelle nera o di etnia non europea.

La procura della Suprema Corte, sollecitata da un esposto dell’associazione ‘Amici dei bambini’, ha espresso questo orientamento innanzi alle Sezioni Unite che dovranno prendere posizione al più presto. Sono certo sia una decisione saggia, oltre che, evidentemente legalmente ineccepibile, essendo la Cassazione a emanarlo.

Suggestionati da bislacche tesi politiche, alla spasmodica ricerca dei piani bassi del consenso elettorale, gli italiani sembrano aver smarrito il senso del reale, non dico il senso della Storia, ma almeno quello della Geografia: siamo un Paese in mezzo al Mediterraneo, sicché ne abbiamo avuto di immigrazioni, a cominciare dai tempi della Magna Grecia.

Per non parlare delle immigrazioni indo-europee. Una volta Indro Montanelli ebbe a dire che nessuno in Lombardia potrebbe essere certo che un lanzechenecco non si sia coricato, almeno una volta, con l’antenata di una delle nostre nonne.

Ciò non di meno, a Rosarno, in Calabria, normali cittadini si sono fatti ku klux clan contro gli africani, salvo scoprire che la rivolta di gennaio era stata provocata proprio dagli schiavisti delle arance: la magistratura ha disposto una ventina di arresti tra capi clan e caporali del lavoro nero.

Ciò non di meno a Treviso, una masnada di giovinastri dell’estrema destra neo-nazi, al canto di ‘sbianchiamo Samir’ costringono una giovane fanciulla africana e i suoi amici ad abbandonare un bar del centro storico, per evitare risse. Gli avventori hanno scritto ai giornali scandalizzati, il proprietario ha fatto il vago.

Che il nostro Paese abbia bisogno di una dose forte di ragionevolezza è un fatto acclarato. Gli immigrati esistono. Essi vivono, lavorano e consumano fra noi. Essi consumano, dunque spendono. Infatti una primaria compagnia telefonica fa campagne pubblicitarie nelle loro lingue. Ho visto anche che una primaria marca italiana di merende per bambini fare campagne nelle loro lingue.

E allora, facciamo una cosa utile alla convivenza civile e magari anche al business dei nostri clienti: essi esistono, lavorano, portano i bimbi a scuola, vanno nei negozi. È giunto il momento che ‘essi’ vengano presi in considerazione anche nei ‘casting’ degli spot pubblicitari.

Noi italiani siamo multietnici dalla nascita, di che cosa abbiamo paura? Nelle scuole, nei mezzi pubblici, nelle nostre case, nei supermercati ‘essi vivono’, spendono, consumano, comprano.

Bisogna rappresentarli, magari quei coglioni di razzisti, quelli ‘che io non sono razzista, però…’ guardando lo spot, l’annuncio, l’affissione si rendono conto che quelli strani non sono ‘essi’, ma loro stessi. Beh, buona giornata.

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Stefania Craxi, vuoi star zitta, per favore?

Monumento ai “profeti” della P2, veri “padri della patria”. E “pentitevi di Piazzale Loreto”-blitzquotidiano.it

Chiamasi “Seconda Repubblica” quella che venne quasi per sbaglio e poi comodamente e di fatto si installò in Italia nella seconda metà degli anni novanta. Quella Repubblica nata dal crollo dei “vecchi” partiti, disprezzati più che odiati dalla pubblica opinione. Quella della politica “nuova”, degli uomini nuovi e del “nuovismo” come canone e metro di giudizio. Quella del “territorio” come fonte prima se non unica della sovranità, quella degli “elettori hanno sempre ragione”, un po’ come i clienti a bottega. Quella del leader della coalizione con il nome scritto sulla scheda elettorale. Quella dei frizzanti talk-show politici in tv al posto delle noiose Tribune politiche. Insomma la Repubblica della “gente”, gente che prendeva il ruolo di quello che era stato il “popolo”. Quella del berlusconismo, della caduta del comunismo per manifesto fallimento, quella del “meno male che Silvio c’è”, della sinistra “alternativa”, tanto alternativa da dire no a tutto, anche alla costruzione di una strada. Quella del partito di Berlusconi che cambia nomi ma è sempre lo stesso e quella del partito della sinistra riformista che cambia nomi e non si sa mai che partito è.

Pare, dicono stia finendo il tempo anche della “Seconda Repubblica”. Tra federalismo che darà alle Regioni poteri grossi e grassi e riforma del potere che sta a Roma che dovrebbe dare “all’eletto” tutti i poteri residui, si marcia verso la “Terza Repubblica”. E’ un film che presto vedremo, per ora sono in circolazione e programmazione nella “Sala Italia” ancora immagini e scene della “Seconda”. Una colpisce per la sua insolente sfrontatezza: da giovedì 29 aprile alla Galleria Michel Rain di Parigi è esposta una reverente lapide commemorativa. Vi si legge: “Nell’anno XVI della Seconda Repubblica/ A ricordo dei suoi figli migliori fondatori della patria/ L’Italia dedica per il loro impegno e sacrificio/ Questa lapide a futura memoria”. Seguono i nomi, i cognomi e il numero di tessera d’iscrizione di tutti coloro, almeno i più noti, che a suo tempo aderirono e militarono nella Loggia P2, quella di Licio Gelli. E’ un gioco insolente e sfrontato di artista, tal Luca Vitone, che in 30 metri quadrati fa il verso ai monumenti che le “patrie” dedicano ai loro profeti, figli illustri e precursori.

Ma è anche un “gioco di realtà”. Il caso, sfrontato e insolente anche lui, spalleggia la “provocazione d’artista”. Il Caso e solo il bizzarro e capriccioso Caso vuole che il programma della P2, ciò che la Loggia voleva l’Italia diventasse, sia molto simile a ciò che l’Italia è diventata. La P2 voleva un Parlamento “pennacchio”, un Parlamento e una Repubblica parlamentare senza prestigio e senza potere. Fatto. Fatto per Caso, ma fatto. La P2 voleva un leader eletto per via plebiscitaria. Ci stiamo lavorando, per Caso. La P2 voleva una tv pubblica sostanzialmente inguardabile. Fatto. Una magistratura ancella della politica. E’ in cantiere. La P2 voleva partiti trasformati in comitati elettorali. Fatto. La P2 voleva che tra chi ha in mano la Cosa Pubblica e la gente votante non ci fossero di mezzo istituzioni e poteri “terzi”, men che mai neutri. Manca davvero poco. Per Caso, solo per mano del Caso la scena del presente vissuto dalla Seconda Repubblica ha più o meno gli stessi connotati e sequenze del paradosso di una sua commemorazione ante litteram: erano quelli della P2 i veri “padri della nuova patria” dice per fare scandalo l’iscrizione in mostra a Parigi. Eppure tanto scandalo non fa, fa constatazione di come nella realtà lavora quel gran burlone che è il Caso.
stefania craxi

Altro giro, altra scena da “Seconda Repubblica”. La figlia di Bettino Craxi, quella Stefania che scelse di far politica in nome del padre, per rendergli omaggio e giustizia e che scelse per questa “mission” Berlusconi e Forza Italia, invoca oggi con orgoglio e decisione un “pentimento” pubblico e di Stato su Piazzale Loreto, cioè sull’esecuzione e la mostra in piazza del cadavere di Benito Mussolini. Dice Stefania Craxi che è giunto il tempo di avere “il coraggio civile e l’onestà intellettuale” di dichiarare Piazzale Loreto e quel che significa un errore e un orrore. Sempre per Caso, Stefania Craxi non colloca questa sua nuova etica sensibilità in un’Italia qualsiasi. Mettiamo: un’Italia di popolo e di Stato, di sindaci e giornali, di parlamentari e giornalisti-storici che riconosce ai Partigiani e alla Resistenza di aver versato il sangue contro la peggior dittatura, alleata del peggior sterminatore di umani. E di averlo versato per dare alla democrazia e alla libertà la possibilità di nascere. Un’Italia che apprezza e si tiene care la Costituzione, lo Stato unitario e la democrazia parlamentare. In un’Italia così cercar di portare umana pietà anche sulla pagina dell’esecuzione del Duce-dittatore può avere un senso.

Ma l’Italia che c’è pullula di sindaci che espellono per sospetta indegnità i Partigiani dalla storia nobile. Di giornali, parlamentari e giornalisti-storici che si commuovono alle sofferenze dei militi di Salò che combattevano al fianco delle SS naziste. Un’Italia indifferente se non ostile alla sua storia unitaria, ai suoi nomi e ai suoi simboli, dal tricolore a Garibaldi. In un’Italia così chiedere la condanna dell’errore e dell’orrore di Piazzale Loreto non è avere pietà dei “vinti”, è proclamare giunto il tempo della rivincita dei vinti. Non è dire che esporre cadaveri è crudeltà, è sostenere che errore fu sparare ai fascisti. Stefania Craxi, lo sappia o no, se ne renda conto o meno, non esige la fatica della pacificazione benedetta dalla storia che è passata, pretende l’abiura se non l’umiliazione di chi nella storia passata combatté e morì dalla parte giusta. Deve essere per Caso che anche questo, perfino questo appaia nella Seconda Repubblica più o meno normale.

(Beh, buona giornata).

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Attualità

Due anni di governo della destra al Comune di Roma. Quello che è successo, ma soprattutto quello che non è successo.

Alemanno, due anni di destra al governo luci e ombre su decoro, sicurezza, traffico
Da 730 giorni al Campidoglio: casse vuote, emergenza nomadi, sottopassini e ordinanze anti-lavavetri di Ernesto Menicucci-corrriere.it

Due anni di Alemanno, oggi. Era il 28 aprile 2008, quando il centrodestra prese il Campidoglio. Adesso, 730 giorni dopo, è tempo di bilanci. All’ora di pranzo parlerà il sindaco. Intanto l’opposizione anticipa i giudizi: «Un voto ad Alemanno? Gli darei 3…», dice Umberto Marroni, capogruppo del Pd in Campidoglio.

I soldi che non ci sono Per chi era partito denunciando il «buco di bilancio», è quasi un contrappasso: le casse comunali, adesso, sono vuote. Il bilancio preventivo non è stato ancora presentato, i servizi sociali saltano e i Municipi sono in sofferenza.

Le opere pubbliche e le infrastrutture Secondo una ricerca del «Cresme», dal 2007 le gare di appalto per lavori pubblici sono drasticamente diminuite: da 500 milioni di euro, ai 177 del 2008 e 145 nel 2009. Le aziende, così, sono in crisi e l’economia fa fatica a ripartire. Alemanno, a febbraio, ha chiesto al prefetto Giuseppe Pecoraro di «riaprire il tavolo sulla crisi, per creare 100 mila posti di lavoro entro il 2011». Sulle opere pubbliche Alemanno ha rispolverato il sottopassino di Castel Sant’Angelo e, il sottopasso dell’Ara Pacis: idee delle giunte precedenti.

Le metropolitane L’ultimo intoppo è stato sulla linea C, da San Giovanni al Colosseo: il comitato dei lavori pubblici aveva espresso parere negativo sul progetto esecutivo. I lavori per la «B1», la linea che andrà da piazza Bologna a Conca d’Oro procedono, anche se a rilento. Sul prolungamento della B, da Rebibbia a Casal Monastero, e sulla linea D (Eur-Talenti) siamo ancora alla pubblicazione del bando.

L’emergenza nomadi Uno dei temi sui quali la giunta Alemanno ha piazzato un punto: la chiusura del «Casilino 900», il più grande campo nomadi di Roma. Adesso, però, ci sono problemi su Tor de’ Cenci dove bosniaci e macedoni hanno rifiutato il trasferimento. Alemanno, in campagna elettorale, aveva anche promesso l’espulsione di 20 mila nomadi. Quante ne sono state fatte, fino ad ora?

La sicurezza È stato il tema forte della campagna elettorale, ma non tutto ha funzionato a dovere. Il Comune, citando i dati delle forze dell’ordine, parla di reati in calo ma in questi due anni non sono mancati i problemi: dall’emergenza stupri, alle liti interne all’amministrazione che hanno portato il generale Mario Mori sull’orlo delle dimissioni. Il nodo era l’organizzazione della «Sala sistema Roma», affidata ora ai Vigili urbani. Alemanno ha varato diverse ordinanze: anti- prostituzione, anti-lavavetri, contro i writers e chi sporca, anti-borsoni. Alcune (come le prime due) hanno funzionato, altre meno.

Le municipalizzate L’Acea, regina delle municipalizzate, per la prima volta non ha distribuito dividendi agli azionisti. «Risorse per Roma» è stata più volte ricapitalizzata e solo negli ultimi mesi ha cominciato a ricevere commesse comunali. E la vendita del ramo d’azienda di «Gemma» a Roma Entrate è ancora ferma.

Degrado e decoro Roma è invasa dai maxi cartelloni, abusivi e non, grazie anche alla «liberalizzazione» voluta dall’assessore al Commercio Davide Bordoni. Sulle buche, c’è chi si lamenta e chi plaude il Comune. L’emergenza resta, nonostante la revoca del mega-appalto alla Romeo sulla manutenzione stradale. Alcuni interventi sono stati conclusi: via IV Novembre, i Fori Imperiali.

Il traffico Il sindaco, dopo i disagi durante il vertice Fao, si è scusato coi cittadini per i disagi. E nella conferenza per la mobilità sono state studiate alcune soluzioni: pedonalizzazione del centro, tram sul Moro Torto. Altra idea, mutuata da Rutelli, il prolungamento dell’8 fino a Termini. L’unico intervento rilevante, per il momento, è quello di via Flaminia dove verranno tolte le barriere del tram che dividono la strada.

La pulizia stradale Nel nuovo contratto di servizio dell’Ama sono previsti anche l’acquisto di nuovi macchinari, la pulizia delle strade tutti i giorni, l’aumento della raccolta differenziata: quest’ultima, in particolare, procede con diverse difficoltà e con la protesta di residenti e commercianti.(Beh, buona giornata).

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Sergio Zavoli: “Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione.”

Zavoli: “La credibilità è crollata non si rispettano autonomia e qualità”
Il presidente della Vigilanza traccia un quadro dai contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente. “Ormai non hanno spazio neppure i vecchi prudenti linguaggi”
di GOFFREDO DE MARCHIS-repubblica.it

Il caso Ruffini è solo la punta dell’iceberg. La Rai è ormai “una pulzella promessa” che dice sì “alle pretese di tutti i pretendenti”. La commissione di Vigilanza vede “distorti” da Viale Mazzini i suoi atti di indirizzo e viene da chiedersi se “la sua autorevolezza possa risolversi in un rito esortativo”. Il quadro descritto da Sergio Zavoli, popolarissimo giornalista tv, senatore del Pd e presidente della commissione parlamentare che vigila sulla Rai, ha contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente: la sua autonomia, la sua capacità di critica, “neppure i vecchi, prudenti linguaggi”.

Una delibera del cda disattesa, una soluzione che non accontenta nessuno. E Ruffini dice: contro di me c’è una discriminazione politica. È così?
“In Rai c’era e c’è un problema di fondo: l’assenza, o l’imperfezione, o il rifiuto della regola. La quale viene prima del consenso. Ne consegue che il pacta sunt servanda, così spesso trasgredito, rischia d’essere una citazione sapienziale ormai a buon mercato. Ma nel caso nostro va anche detto che quando i patti non sono rispettati la prima causa cui doversi richiamare non è tanto la regola quanto l’idea che un “servizio pubblico” – ignorando la doverosità, la puntualità e la funzionalità del suo compito – possa impunemente tradursi in un grave danno inferto alla credibilità dell’istituzione”.

Ruffini ha avuto una collocazione adeguata?
“La sua è una vicenda che nessuna grande organizzazione imprenditoriale può permettersi: ciò che è successo si sottrae a valutazioni di principio, men che meno manageriali. È la licenza di un’azienda che sta smarrendo una sua autonoma facoltà critica”.

Sia lei sia Paolo Garimberti, presidenti di garanzia, avete molte difficoltà ad esercitare le vostre funzioni. Quale ruolo può avere la minoranza schiacciata dalla logica dei numeri?
“Poter esercitare un legittimo potere con la forza dei numeri non esclude affatto il coinvolgimento dell’opposizione. Non ricorro all’abusato argomento della dittatura delle maggioranze: mi limito a dire che rinunciare all’allargamento del consenso è una pregiudiziale abdicazione a un ulteriore tasso di democrazia, che conferirebbe un’aria di vaga infondatezza al proposito di coinvolgere l’opposizione nelle riforme”.

Basterebbe una riforma della Rai per tirar fuori la politica da Viale Mazzini?
“Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione. Questa è radicata nella più comoda e reciproca delle garanzie: il compromesso – poco nobile intellettualmente, culturalmente, aziendalmente – rinnovabile a ogni cambio di governo attraverso il citatissimo spoil system, ma soprattutto quella ingegneria combinatoria che si chiama “lottizzazione”, la più pigra e matematica delle soluzioni adottate con il consenso dell’azienda. Il pluralismo non è una somma di “legittime faziosità”. Perciò la storia e il prestigio della Rai meritano un colpo d’ala anche al suo interno. Comunque, il primo passo spetta alla politica. Dovrà opporsi all’idea ormai invalsa di un’azienda che non rispecchi i principi dell’autonomia e della responsabilità, della competenza e della qualità”.

La commissione non ha gli strumenti per intervenire?
“Le giro io un’altra domanda: è ragionevole credere che la Commissione possa fare un “miracolo” al giorno (tranne quando la disputa partitica obbedisce a specialissimi input, come è successo di recente nella controversia sui talk show) se, non avendo poteri vincolanti, il suo indirizzo può essere disatteso dall’azienda, oppure distorto, vanificando così ogni effetto riparatore della commissione? Noi abbiamo fatto dei seminari e caveremo dei materiali per rispondere ai problemi della qualità e del pluralismo. Ma si pone un legittimo interrogativo sull’autorevolezza di un organismo parlamentare, per giunta bicamerale, che non può certo risolvere il suo ruolo in un rito esortativo”.

Al Tg1 i giornalisti sono sul piede di guerra contro Minzolini, le intercettazioni di Trani dimostrano le pressioni del Cavaliere sulla Rai. È la notte della tv di Stato?
“Andiamo con ordine. La più grande testata italiana, sottoposta a varie scosse telluriche, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare, insieme con la sua identità, una parte dell’ascolto tradizionale. Intercettazioni: voglio credere che il ministro Alfano sia disposto a ripensare le norme del suo disegno di legge, in discussione al Senato, lesive della libertà di cronaca e del diritto-dovere di informare. Trani: quelle telefonate si commentano da sole, non occorre che aggiunga altro, se non una personale amarezza”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Partigiani dei lavoratori.

di Marco Ferri – da 3D n. 12 del 24 aprile 2010. (pubblicato anche da megachipdue.info).

I lavoratori di Eutelia hanno ottenuto, da un tribunale, che l’azienda vada in amministrazione controllata. Per vie legali. Questo vuol dire che potrebbero accedere alla cassa integrazione. C’è chi parla di vittoria. Va bene. Ma va davvero bene? No.

Se i diritti dei lavoratori di questo nostro Paese sono legati alle tecnicalità delle leggi amministrative, è difficile pensare a un traguardo, figuriamoci a una vittoria politica e sindacale. È, invece, la misura, per altro colma, di come venga trattato il lavoro salariato nell’Era del berlusconismo, che altro non è che la faccia grottesca del neo liberismo in economia, politica, relazioni industriali.

Tuttavia si deve gioire per il destino dei lavoratori di Eutelia, non per convinzione, ma per obbligo. Ma è anche un obbligo ricordare che questo Paese deve molto ai lavoratori. La classe operaia ha decisamente contribuito alla nascita della nostra democrazia. Lo sciopero nelle fabbriche del nord Italia nel marzo del 1943 aprì la strada alla Resistenza. Gli operai furono attivi protagonisti della lotta partigiana fino a salvare le fabbriche, impedendo che fossero distrutte durante la ritirata degli occupanti nel ‘45. La nostra Costituzione dà un riconoscimento formale e sostanziale al ruolo dei lavoratori: è nell’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro”.

Nel dopoguerra, la classe operaia italiana ha partecipato alla ricostruzione, ha dato impulso alla democrazia, ha abbattuto le gabbie salariali, cioè la divisione dei salari per aree geografiche. La classe operaia in Italia ha fatto da barriera invalicabile contro tutti i tentativi golpisti degli anni ‘70. Ha ottenuto lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. La classe operaia ha favorito l’integrazione delle grandi emigrazione dal sud, ha gestito la grande incazzatura degli studenti del ‘68, le rivendicazioni femministe, e, più recentemente, le istanze degli immigrati di prima e seconda generazione. La classe operaia in Italia è stata capace di far volare fino al cielo della politica la Sinistra, per poi punirla e appoggiare la Lega al nord: una ricerca della Fiom di Brescia ha svelato che la maggioranza dei suoi tesserati è anche iscritta alla Lega Nord di Bossi.

Gli echi del 25 Aprile, festa della Liberazione, suonano così, quest’anno. Non si può dimenticare il contributo dei lavoratori alla nascita della democrazia. Ma non si deve dimenticare che il progressivo disinteresse alla condizione materiale del Lavoro è in Italia il maggior alleato “oggettivo” alla Vandea berlusconista.

È in questo contesto che la lotta dei lavoratori di Eutelia va valutata. Non sottovalutata.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

Il Pec è un pacco. Un altro flop del ministro Brunetta.

Il Ministro Brunetta è uno sciagurato. Ha sparato la grande idea della posta elettronica certificata (Pec). Si è fatto riprendere dalle telecamere, ha digitato i suoi dati e poi è andato in un ufficio postale per farsi certificare. Tutto finto, col cavolo che il ministro è andato alla posta.

Tutto finto, col cavolo che tutte le amministrazioni pubbliche sono raggiungibili via e-mail: solo 29 enti governativi, solo 9 regioni, solo una quarantina di Asl.

Alla qual cosa si aggiunge che il server del servizio Pec non regge le iscrizioni: è andato in tilt dopo quarantamila richieste di accesso.

Caro ministro, forse lei non ci arriva: quando si fanno promesse di efficienza tecnologica, come minimo bisognerebbe esserne all’altezza. Non ci può credere come sia possibile fare ‘ste cazzate. Un vero professionista del flop. Con i soldi pubblici. Beh, buona giornata,

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Web, buona giornata.

Binaghi è il nuovo presidente Iab-“Il web non è piu’ una riserva indiana”-repubblica.it
Roberto Binaghi è il nuovo presidente di Iab Italia, eletto all’unanimità dal consiglio direttivo. La Iab è un’associazione internazionale che si occupa dello sviluppo della comunicazione e della pubblicità interattiva.

46 anni, Binaghi ha iniziato la sua carriera professionale nel 1987 nel reparto media di Y&R. Da venti anni è tra i protagonisti media industry e vanta una particolare esperienza nel comparto dei centri media: è stato CEO di Mindshare e successivamente di OMD. E’ stato inoltre presidente del Centro Studi di Assocomunicazione e consigliere di amministrazione di Audiweb, Audipress ed Audiposter. Dal 2009 è il vice direttore generale di Manzoni con delega al marketing strategico, al multimedia ed al digitale e si occupa del coordinamento tra concessionaria e divisioni operative del Gruppo Espresso per la gestione dei progetti editoriali.

“Ritengo significativo che a guidare il vertice dello Iab sia stato chiamato un professionista che proviene da un gruppo multimediale e plurimediale. Internet non è piu’ una riserva indiana che deve emanciparsi, ma una componente stabile della dieta mediatica degli italiani e del mix degli inserzionisti. La mia nomina è un segnale di integrazione fra mezzi e mondi un tempo separati”.

Il neo-presidente vuol puntare sul dialogo con le altre associazioni: “E fare da tramite con organizzazioni come la Fedoweb (gli editori) e la Fcp, i concessionari di pubblicità. Non un’associazione chiusa, ma aperta al dialogo e ai progetti. I miei ringraziamenti vanno innanzitutto all’Assemblea dei Soci che mi ha permesso di entrare nel board, al Consiglio Direttivo che mi ha eletto Presidente e al Presidente Onorario Layla Pavone, che ha contribuito alla crescita e all’accreditamento di IAB Italia in questi anni”, dichiara Binaghi.

“In qualità di nuovo Presidente mi impegnerò in prima persona per la crescita di Iab che potrà continuare a ricoprire un ruolo di primissimo piano, alla luce del crescente sviluppo del digitale nel nostro Paese e del peso sempre maggiore di internet, sia in termini culturali, sia economici”.

Salvatore Ippolito, Sales Director BU Portal & Mobile VAS di Wind, è stato nominato vicepresidente. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Le indagini della polizia confermano: a Rosarno la rivolta degli immigrati fu provocata dallo schiavismo dei “caporali”.

Rosarno, immigrati sfruttati: caporali arrestati, 10 milioni di beni sequestrati
Extracomunitari costretti a lavorare anche 14 ore, chi si ribellava subiva ritorsioni e minacce-ilmessaggero.it

Lo sfruttamento e le condizioni inique in cui erano costretti a lavorare fu alla base della rivolta degli immigrati avvenuta nei mesi scorsi a Rosarno. È quanto emerso dalle indagini che hanno portato stamani ad una operazione della squadra mobile, dei carabinieri e dei finanzieri contro il fenomeno del caporalato con il sequestro di venti aziende e duecento terreni, per un valore complessivo di circa 10 milioni di euro, contestualmente all’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare nei confronti di 31 persone.

Immigrati sfruttati. Gli investigatori hanno accertato che alla base delle proteste e degli episodi di violenza vi erano le condizioni di assoluta subordinazione in cui versavano gli immigrati finiti nelle mani di persone che li costringevano a lavorare in condizioni inique. Gli immigrati, inoltre, avrebbero subito anche ripetute minacce. I lavoratori extracomunitari erano costretti, infatti, a lavorare mediamente dalle 12 alle 14 ore al giorno ricevendo un compenso di una decina di euro al giorno.

Gli extracomunitari che si ribellavano subivano ritorsioni e minacce. La rivolta di Rosarno, infatti, fu determinata proprio dal ferimento a colpi d’arma da fuoco di due lavoratori extracomunitari. Nel corso delle indagini gli investigatori hanno compiuto accertamenti patrimoniali nei confronti degli indagati ed hanno potuto ricostruire la quantità di beni mobili ed immobili ritenuti frutto di illecito arricchimento e, soprattutto, funzionale alla realizzazione delle condizioni di impiego di manodopera in nero. Sono state scoperte anche numerose presunte truffe compiute nei confronti degli enti previdenziali.

Gli arrestati. Nove persone sono state arrestate e portate in carcere, ventuno sono detenute ai domiciliari ed una è stata sottoposta all’obbligo di dimora. Tra le persone destinatarie dell’ordinanza di custodia cautelare ci sono anche alcuni extracomunitari. Tre di questi sono stati rintracciati ed arrestati nelle province di Caserta, Catania e Siracusa dove si erano trasferiti dopo la rivolta avvenuta a Rosarno. Le indagini, coordinate dalla Procura di Palmi, hanno portato alla luce un sistema di caporalato collocamento illegale di manodopera clandestina destinata ai lavori in agricoltura. Identificate anche le aziende agricole che utilizzavano la manodopera straniera sottopagandola.

Sacconi: caporalato odioso, contrasto è priorità. contrasto Il caporalato rappresenta una odiosa forma di sfruttamento del lavoro. L’attività di contrasto, che è da realizzare in collaborazione tra le diverse forse in campo, è una delle priorità dell’azione di Governo: è la posizione del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi che plaude alle iniziative di contrasto al lavoro nero e del caporalato.

Epifani: rafforzata scelta 1 maggio lì. «I fatti di oggi confermano la preoccupazione che c’era e che dà forza alla scelta di festeggiare lì il primo maggio». Lo ha detto il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, ricordando che «Rosarno è un luogo simbolo che dimostra come dove non c’è legalità non c’è rispetto per il lavoro. La nostra decisione è stata presa proprio per affermare il principio di rispetto per chi lavora spesso in condizioni di schiavitù». (Beh, buona giornata).

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Attualità

25 Aprile: Frangetta nera contestata a Roma.

Renata Polverini è stata contestata con fischi e lanci di oggetti mentre partecipava alla manifestazione a Porta San Paolo a Roma in occasione dell’anniversario della Liberazione. La Polverini è stata bersagliata da urla “buu, buu” e lancio di uova e frutta e alcuni fumogeni. Polverini era stata contestata già mentre saliva sul palco per tenere il suo discorso, che non ha svolto, lasciando la manifestazione immediatamente tra i fischi dei presenti. Tra le frasi rivoltele: «Polverini vattene a Casa Pound, fascista e ipocrita». Ne ha fatto le spese Nicola Zingaretti. Il presidente della provincia di Roma era insieme a Renata Polverini contestata nella manifestazione in ricordo della Liberazione nella capitale. E anche a lui è arrivato un frutto lanciato dai manifestanti: “Abisso tra questi atti e il valore del 25 aprile” Beh, buona giornata.

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democrazia

Il 25 Aprile, Festa della Liberazione nelle parole di Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana.

Intervento del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
al 65° anniversario della Liberazione
Milano, 24 aprile 2010
Signora Sindaco, Signor Presidente della Provincia, Signor Presidente della Regione, Signori rappresentanti del Comitato Antifascista e di tutte le associazioni partigiane e combattentistiche, Signor Presidente del Consiglio, Onorevoli parlamentari, Autorità, cittadini di Milano,
si può facilmente comprendere con quale animo io abbia accolto l’invito a celebrare a Milano il 65° anniversario della Liberazione. Con animo grato, per la speciale occasione che mi veniva offerta, con viva emozione e con grande rispetto per quel che Milano ha rappresentato in una stagione drammatica, in una fase cruciale della storia d’Italia. E tanto più forte è l’emozione nel rivolgere questo mio discorso al paese dal palcoscenico del glorioso Teatro La Scala, che seppe risollevarsi dai colpi distruttivi della guerra per divenire
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espressione e simbolo, nel mondo intero, della grande tradizione musicale e culturale italiana.
Si, viva e sincera è la mia emozione perché fu Milano che assunse la guida politica e militare della Resistenza. Nel gennaio del 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale lombardo venne investito dal CLN di Roma – nella prospettiva di una non lontana liberazione della capitale, e di una separazione dell’Italia settentrionale dal resto d’Italia – dei poteri di “governo straordinario del Nord”. Esso si trasformò così in Comitato Nazionale di Liberazione per l’Alta Italia e si mise all’opera per assicurare la massima unitarietà di orientamenti e di direttive al movimento di liberazione. Più avanti – superata la crisi dell’inverno 1944 e avvicinandosi la fase conclusiva della lotta – si costituirà, per assicurare anche sul piano militare la necessaria unitarietà di direzione, il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà : lo guiderà il generale Raffaele Cadorna. Seguono ben presto i piani pre-insurrezionali, che vedono al primo posto il cruciale obbiettivo della difesa degli impianti dalle minacce di distruzione tedesche, e infine i piani operativi per l’insurrezione, soprattutto nelle tre città-chiave della Resistenza nel Nord, Torino, Milano, Genova.
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Nel piano di Milano, di lì irradiandosi le direttive per tutta la periferia, è previsto l’impiego di 32 mila partigiani. L’insurrezione si prepara come sbocco, sempre più maturo, dello sviluppo – con l’approssimarsi della primavera, e al prezzo di duri sforzi e sacrifici – delle azioni partigiane (2 mila nell’area di Milano tra febbraio e aprile) ; essa non è dunque la fiammata di un giorno glorioso, ma il frutto di una lunga, eroica semina e di una sapiente organizzazione finale.
Genova è la prima ad insorgere, per decisione presa dal CLN già la sera del 23 aprile ; il piano si snoda attraverso momenti drammatici e prove magnifiche da parte delle squadre partigiane, e si conclude la sera del 25 con la firma, da parte del generale Meinhold, dell’atto di resa delle forze armate germaniche alle Forze Armate del Corpo Volontari della Liguria e, per esse, al Presidente del CLN di Genova. Ne dà l’annuncio alla radio Paolo Emilio Taviani, tra i protagonisti dell’insurrezione, con le solenni parole : “Per la prima volta nella storia di questa guerra un corpo d’Esercito si è arreso dinanzi alle forze spontanee di popolo”.
A Milano, la decisione viene presa, l’ordine viene impartito, per il 25 aprile – in rapporto con le notizie provenienti da Genova – dal Comitato insurrezionale :
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Sandro Pertini, Emilio Sereni, Leo Valiani. Cade, già nel pomeriggio del 24, prima vittima, Gina Galeotti Bianchi, dirigente dei Gruppi di difesa delle donne, la partigiana Lia, ricordata e onorata proprio giorni fa alla Camera dei Deputati. La mattina del 25 Sandro Pertini, già impegnatosi in audaci azioni di attacco, accorre alla fabbrica CGE, dinanzi ai cui cancelli due operai, precedentemente rinchiusi a San Vittore, sono stati trascinati e brutalmente uccisi anche per intimorire le maestranze : Pertini parla ai lavoratori nel piazzale portando l’appello del Comitato insurrezionale. La sera del 26 Milano è praticamente liberata. Gli ultimi reparti tedeschi capitoleranno all’arrivo in città delle divisioni partigiane dell’Oltrepo pavese.
In quei tesissimi giorni, si consumeranno a Milano anche gli ultimi tentativi di impossibili trattative cui si erano mostrati ambiguamente disponibili i capi fascisti. E a Milano si compì poi il tragico epilogo dell’avventura mussoliniana, in uno scenario di orrore che replicò altri orrori inscenati nello stesso luogo di Piazzale Loreto. La guerra era finita, con la vittoria delle forze alleate ; e insieme era finita, con la sconfitta del fascismo repubblichino, anche la guerra civile fatalmente intrecciatasi con la Resistenza.
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Nel Campo della gloria al Cimitero maggiore verranno raccolti i resti mortali, verranno scolpiti i nomi, di 4.134 cittadine e cittadini milanesi caduti per la libertà tra l’8 settembre 1943 e la primavera del ’45, di 2.351 partigiani del Corpo Volontari della Libertà.
Ho voluto partire da un sommario richiamo a drammatici eventi, a memorabili momenti della storia della Resistenza – per quanto più volte e più puntualmente ripercorsi nelle celebrazioni del 25 aprile – perché mai in queste celebrazioni, e dunque nemmeno in quella di oggi, si può smarrire il riferimento ai fatti, al vissuto, a quel che fu un viluppo di circostanze concrete, di dilemmi, di scelte difficili, di decisioni coraggiose e costose, di sconfitte e di successi ; non si può mai smarrire il riferimento a tutto ciò, rinunciare a ricostruire e tramandare costantemente quelle esperienze reali, se non si vuole ridurre il movimento di Liberazione a immagine sbiadita o ad oggetto di dispute astratte.
Nella mia rapida rievocazione del ruolo di Milano in quegli eventi, è risuonato il nome di Sandro Pertini. E non c’è migliore occasione di questa per ricordarlo a vent’anni dalla scomparsa. Perché il suo nome spicca in tutto il percorso della Resistenza, tra quelli che da Milano la guidarono, come protagonisti del Comitato di
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Liberazione Alta Italia, del Comando del Corpo Volontari della Libertà, del Comitato insurrezionale.
Fu combattente instancabile, senza eguali per slancio, audacia, generosità, a cominciare dalla partecipazione – all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre – al disperato tentativo di resistere ai tedeschi nel cuore di Roma, a Porta San Paolo, dopo che il Re è fuggito a Pescara e la capitale è stata militarmente abbandonata. Pertini è lì, reduce da lunghi anni di carcere, di confino e di esilio ; è lì anche da vecchio combattente, medaglia d’argento, della prima guerra mondiale. Ne uscirà capo dell’organizzazione militare del Partito socialista per l’Italia centrale occupata.
Ma già il 15 ottobre viene arrestato, insieme con Giuseppe Saragat e altri socialisti, invano interrogato per due giorni e due notti in Questura, rinchiuso a Regina Coeli (inizialmente nel braccio tedesco), fino a quando tutto il gruppo dei sette socialisti poté evaderne grazie a un piano ingegnoso che ebbe tra i suoi registi un grande patriota, poi eminente giurista e uomo pubblico, Giuliano Vassalli.
Pertini riprese così il suo posto nella lotta contro l’occupazione tedesca, cui si dedicò, da Roma, in tutti i primi mesi del ’44 : il 3 aprile Vassalli fu trascinato
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nella famigerata via Tasso e sottoposto ad ogni violenza dalle SS. Nel mese successivo si avviano colloqui al più alto livello in Vaticano con il comandante delle SS in Italia per evitare la distruzione della capitale (e da quei contatti scaturì anche la liberazione di Vassalli). Il progetto dell’insurrezione a Roma viene accantonato ; Pertini sceglie allora, a metà maggio, di partire per Milano, perché “lassù” – disse – “c’era tanto da fare e da combattere”. E da Milano si muoverà per portare il suo contributo e il suo impulso in tutto il Nord.
A luglio è chiamato a Roma per consultazioni politiche : ma si ferma a Firenze per partecipare all’insurrezione fino a liberare la città dai tedeschi. Giunto a Roma, freme per tornare al più presto a Milano: e per raggiungere quella meta compie un viaggio quanto mai avventuroso, in aereo fino a Digione in Francia, e poi valicando con una guida il Monte Bianco. Di lì a Cogne e a Torino, e finalmente a Milano, in tempo per contribuire a organizzare e guidare la fase finale della guerra di Liberazione.
L’immagine conclusiva del suo impegno – come poi dirà la motivazione della medaglia d’oro al valor militare – di “prezioso e insostituibile animatore e combattente” della Resistenza, è rimasta consegnata alla fotografia che
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lo ritrae mentre tiene il suo primo discorso, dopo decenni di privazione della libertà, il 26 aprile 1945 a Piazza del Duomo.
E’ stato – dobbiamo dirlo – un onore per l’Italia, un onore per la Repubblica, avere tra i suoi Presidenti Sandro Pertini.
L’omaggio che oggi gli rendo, anche con forte sentimento personale per il rapporto che ci fu tra noi, vorrei fosse però incitamento ed auspicio per un nuovo, deciso impegno istituzionale, politico, culturale, educativo diretto a far conoscere e meditare vicende collettive ed esempi personali che danno senso e dignità al nostro essere italiani come eredi di ispirazioni nobilissime, di insegnamenti altissimi, più forti delle meschinità e delle degenerazioni da cui abbiamo dovuto risollevarci. Un impegno siffatto è mancato, o è sempre rimasto molto al di sotto del necessario. Abbiamo esitato, esitiamo a presentare in tutte le sue luci il patrimonio che ci ha garantito un posto più che degno nel mondo : esitiamo per eccessiva ritrosia, per timore, oltre ogni limite, della retorica e dei miti, o per sostanziale incomprensione del dovere di affermare, senza iattanza ma senza autolesionismi, quel che di meglio abbiamo storicamente espresso e rappresentiamo.
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E questo amaro discorso vale per le grandi pagine e le grandi figure del processo che condusse, 150 anni fa, all’Unità d’Italia ; così come per le più luminose pagine e figure dell’antifascismo e della Resistenza. Perfino a Sandro Pertini, che pure è stato Presidente amato e popolare, non abbiamo – al di là di quel che con affetto lo ricorda nella sua terra natale – saputo dedicare un memorial, un luogo di memorie, come quelli che in grandi paesi democratici (si pensi agli Stati Uniti d’America) onorano e fanno vivere le figure dei maggiori rappresentanti della storia, per quanto travagliata, della nazione.
Eppure, l’identità, la consapevolezza storica, l’orgoglio nazionale di un paese traggono forza dalla coltivazione e valorizzazione di fatti, di figure, di simboli, in cui il popolo, in cui i cittadini possano riconoscersi traendone motivi di fierezza e di fiducia.
Naturalmente, l’impegno che sollecito, riferito alla Resistenza, esige – per dispiegarsi pienamente, per ottenere riscontri positivi e suscitare il più largo consenso – la massima attenzione nel declinare correttamente il significato e l’eredità della Resistenza, in termini condivisibili, non restrittivi e settari, non condizionati da esclusivismi faziosi.
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Guardiamo, per intenderci, a quel che si legge nel Diario di Benedetto Croce, alla data del 26 aprile 1945 :
“Grande sollievo per la rapida liberazione dell’alta Italia dai tedeschi senza le minacciate e temute distruzioni, e per opera dei patrioti e partigiani, che è gran beneficio, anche morale, per l’Italia”.
Poche essenziali parole, con le quali il grande uomo di pensiero e di cultura liberale scolpì il valore della conclusione vittoriosa della Resistenza. Valore nazionale, per il “gran beneficio anche morale” assicurato all’Italia restituendole piena dignità di paese libero, liberatosi con le sue forze, di concerto con la determinante avanzata degli eserciti alleati ma senza restare inerte ad attenderne il trionfo. Chi può negare che l’apporto delle forze angloamericane fu decisivo per schiacciare la macchina militare tedesca, per scacciarne le truppe dal territorio italiano che occupavano e opprimevano? Certamente nessuno, ma è egualmente indubbio che il generoso contributo italiano, contro ogni comodo e calcolato attendismo, ci procurò un prezioso riconoscimento e rispetto.
E ho citato Benedetto Croce perché le parole, prive di ogni ombra di retorica ma così significative e lineari, di un’eminente figura dell’Italia prefascista, lontanissima
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dalle correnti ideali e politiche che attraversarono più ampiamente il moto resistenziale e che sarebbero risultate maggioritarie al momento della nascita della Repubblica, danno il segno di un’obbiettiva definizione del 25 aprile come storica giornata di riscatto nazionale, al di là di ogni caratterizzazione di parte.
Che cosa era in effetti accaduto in quei venti mesi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945? Che cosa era accaduto a partire dal momento della presa d’atto – con l’armistizio – della disfatta in cui era culminata la disastrosa guerra voluta da Mussolini al fianco della Germania hitleriana? Che cosa era accaduto da quello che fu il momento del collasso dello Stato sabaudo fascistizzato e di un generale, pauroso sbandamento del paese, ma anche il momento dei primi segni di una nuova volontà di resistenza al sopruso e all’oppressione, di ritrovamento della propria fierezza e identità di italiani?
Era accaduto che nell’esperienza della partecipazione alla Resistenza, in tutte le sue forme ed espressioni, si era riscoperto, recuperato, rinnovato, un sentimento, un fondamentale riferimento emotivo e ideale che sembrava essersi dissolto. Praticamente dissolto, come aveva detto – già mesi prima della caduta del fascismo – lo stesso
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Benedetto Croce, in uno scritto che circolò clandestinamente :
“Risuona oggi, alta su tutto, la parola libertà ; ma non un’altra che un tempo andava a questa strettamente congiunta : la patria, l’amore della patria, l’amore, per noi italiani, dell’Italia.
Perché?
Perché … la ripugnanza sempre crescente contro il nazionalismo si è tirata dietro una sorta di esitazione e di ritrosia a parlare di ‘patria’ e di ‘amor di patria’.
Ma se ne deve riparlare, e l’amor della patria deve tornare in onore appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario.”
Ebbene, con la Resistenza, di fronte alla brutalità offensiva e feroce dell’occupazione nazista, rinacque proprio l’amore, il senso della patria, il più antico e genuino sentimento nazionale. “Le parole ‘patria’ e ‘Italia’” – scrisse poi una sensibilissima scrittrice, Natalia Ginzburg – che erano divenute “gonfie di vuoto”, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta.” E Carlo Azeglio Ciampi ha richiamato autobiograficamente il momento del “collasso dello
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Stato” nel settembre ’43, quando lui e tanti altri “trovarono nelle loro coscienze l’orientamento”, perché in esse “vibrava profondo il senso della Patria”.
Personalmente, ho più volte ribadito come non ci si debba chiudere in rappresentazioni idilliache e mitiche della Resistenza e in particolare del movimento partigiano, come non se ne debbano tacere i limiti e le ombre, come se ne possano mettere a confronto diverse letture e interpretazioni : senza che ciò conduca, sia chiaro, a sommarie svalutazioni e inaccettabili denigrazioni. E’ comunque un fatto che anche studiosi attenti a cogliere le molteplici dimensioni del fenomeno della Resistenza, compresa quella di “guerra civile”, non ne abbiano certo negato o sminuito quella di “guerra patriottica”.
D’altronde, le “lettere dei condannati a morte della Resistenza” restano la più ricca, drammatica testimonianza delle motivazioni patriottiche dell’impegno e del sacrificio di tanti partigiani, soprattutto giovani partigiani.
E quando parlo di tutte le forme e le espressioni di partecipazione alla Resistenza, attraverso le quali si è compiuta una vera e propria riscoperta del senso della patria e della nazione, mi riferisco in special modo alla
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rilevantissima componente costituita dal concorso dei militari al moto di liberazione, di riconquista della libertà e dell’indipendenza del paese : dai contingenti militari regolari chiamati a durissime prove all’indomani dell’armistizio – a Cefalonia, per non ricordare che un luogo-simbolo di quelle manifestazioni di eroico senso dell’onore e coraggio – agli ufficiali e ai soldati che si unirono alle formazioni partigiane, alle centinaia di migliaia di internati in Germania in campi di concentramento, alle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. A queste ultime ho dedicato lo scorso anno la cerimonia del 25 aprile a Mignano Montelungo, che fu teatro, nel dicembre 1943, di un’aspra battaglia e costituì “il battesimo di sangue del rinato Esercito italiano”. Quell’azione dei nostri soldati fu esaltata dal Generale Clark, Comandante della V Armata americana, come esempio di determinazione per liberare il proprio paese dalla dominazione tedesca : “un esempio – egli disse – per i popoli oppressi d’Europa”.
Naturali portatori, nella Resistenza, del senso della patria e della nazione furono i militari, e tra essi quelli che si unirono alle formazioni partigiane, che si collocarono nelle strutture clandestine del movimento di
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Liberazione. Ne furono portatori anche in termini di continuità, sia pure nel travaglio della partecipazione a una guerra antitetica a quella precedentemente combattuta. Un travaglio che si coglie nella lettera indirizzata alla moglie dal generale Giuseppe Perotti all’indomani della condanna a morte decretata dal Tribunale Speciale, e alla vigilia della fucilazione al Martinetto in Torino : egli scrive di un esito tragico, che “non so come classificare”, di un “destino imperscrutabile” che comunque lo conduce a morire in guerra. In quegli stessi giorni, il più giovane capitano Franco Balbis, arrestato e fucilato, il 5 aprile 1944, insieme col generale Perotti e con altri, tutti membri del Comitato Militare Regionale Piemontese, scrive alla madre di offrire la sua vita “per ricostruire l’unità italiana” dopo aver servito la Patria “sui campi d’Africa”, e chiede che si celebrino “in una chiesa delle colline torinesi due messe”, nell’anniversario della battaglia di Ain El Gazala e di quella di El Alamein, nelle quali aveva valorosamente combattuto.
Emerge in effetti da tante di quelle estreme motivazioni del proprio impegno e del proprio sacrificio, come nella scelta di schierarsi fino in fondo con la Resistenza avessero finito per confluire ideali di
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liberazione sociale, visioni universalistiche, aspirazioni a “un mondo migliore”, consapevolezza antifascista, sete di libertà, e amore per l’Italia. E l’elemento unificante non poteva che essere questo, l’attaccamento alla propria terra, alla Patria, la volontà di liberarla. Ritorno sulle parole del capitano Balbis : “ricostruire l’unità italiana”, come supremo obbiettivo per cui sacrificare la vita.
Si, vedete, amici, il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione : è Festa della riunificazione d’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, l’Italia si riunifica, nella libertà e nell’indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale.
Gli storici hanno analizzato anche l’aspetto del ricollegarsi della Resistenza al Risorgimento, ne hanno con misura pesato i molti segni, nella pubblicistica politica, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari deportati e internati in Germania. E se hanno poi potuto apparire abusate certe formule, e poco fondate le facili generalizzazioni, resta il fatto che la memoria del Risorgimento, il richiamo a quell’eredità –
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per quanto venisse assunto ambiguamente anche dall’altra parte – fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Si trattò di un decisivo arricchimento di quella che era e rimase la matrice antifascista della guerra di Liberazione : nel più ampio e condiviso sentimento della Nazione, nel grande alveo della guerra patriottica si raccolsero forze che non erano state partecipi dell’antifascismo militante e fresche energie rappresentative di nuove, giovanissime generazioni. E questa caratterizzazione più ricca, e sempre meno di parte, della Resistenza si rispecchiò più tardi nel confronto costituente, nel disegno e nei principi della Costituzione repubblicana.
Se nella Costituzione possono ben riconoscersi – come dissi celebrando il 25 aprile due anno orsono a Genova, e come voglio ripetere – anche quanti vissero diversamente dai combattenti della libertà i drammatici anni 1943-45, “anche quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi condivisi”, è perché la Carta approvata nel ’47 sancì – dandovi solide basi democratiche – una rinnovata identità e unità della nazionale italiana.
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Mi auguro che in questo spirito si celebri il 65° anniversario della Liberazione e Riunificazione d’Italia. “Il nostro paese ha un debito inestinguibile” – da detto un anno fa in un impegnativo discorso a Onna in Abruzzo il Presidente del Consiglio – “verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita per riscattare l’onore della patria………..”: ricordando con rispetto “tutti i caduti”, senza che “questo significhi neutralità o indifferenza”. Si tratta in effetti di celebrare il 25 aprile nel suo profondo significato nazionale ; ed è così che si stabilisce un ponte ideale con il prossimo centocinquantenario della nascita dello Stato unitario.
Mi si permetterà, credo, di ignorare qualche battuta sgangherata, che qua e là si legge, sulla ricorrenza del prossimo anno. Siamo chiari. Se noi tutti, Nord e Sud, tra l’800 e il 900, entrammo nella modernità, fu perché l’Italia si unì facendosi Stato ; se, 150 anni dopo, siamo un paese democratico profondamente trasformatosi, tra i più avanzati in quell’Europa integrata che abbiamo concorso a fondare, è perché superammo i traumi del fascismo e della guerra, recuperando libertà e indipendenza, ritrovando la nostra unità.
Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili. Non può
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formare oggetto di irrisione, né considerarsi un mito obsoleto, un residuo del passato. Solo se ci si pone fuori della storia e della realtà si possono evocare con nostalgia, o tornare a immaginare, più entità statuali separate nella nostra penisola. Come bene intesero tutte le correnti e le figure di spicco del Risorgimento, l’Italia è chiamata a vivere come nazione e come Stato nell’unità del suo territorio, della sua lingua, della sua storia. Se non si consolidasse questa unità, finiremmo ai margini del processo di globalizzazione – che vede emergere nuovi giganti nazionali in impetuosa crescita – e anche ai margini del processo di integrazione europeo.
Un’Europa sempre più integrata e assertiva sulla base di istituzioni comuni è la sola dimensione entro la quale gli stessi Stati nazionali più forti del nostro continente potranno far valere insieme il loro patrimonio storico, la loro capacità di contribuire allo sviluppo di un più giusto e bilanciato sviluppo globale il cui baricentro si sta assestando lontano da noi. Ma non c’è nessuna contraddizione tra l’imperativo dell’integrazione, la salvaguardia della diversità delle tradizioni e delle culture nazionali, il rafforzamento della coesione e dell’unità nazionale di ciascuno Stato membro dell’Unione.
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Per contare in Europa e per contare nel mondo di oggi e di domani, la nostra unità nazionale resta punto di forza e leva essenziale. Unità nazionale che non contrasta ma si consolida e arricchisce con il pieno riconoscimento e la concreta promozione delle autonomie, come d’altronde vuole la Costituzione repubblicana : quelle autonomie regionali e locali, di cui si sta rinnovando e accrescendo il ruolo secondo un’ispirazione federalistica.
Questa è la strada per far crescere di più e meglio tutto il nostro paese, in vista di obbiettivi che mai come ora ci appaiono critici e vitali per garantire innanzitutto il diritto al lavoro e prospettive di futuro per le giovani generazioni.
La complessità dei problemi che si sono venuti accumulando nei decenni dell’Italia repubblicana – talvolta per eredità di un più lontano passato – esige un grande sforzo collettivo, una comune assunzione di responsabilità. Questa esigenza non può essere respinta, quello sforzo non può essere rifiutato, come se si trattasse di rimuovere ogni conflitto sociale e politico, di mortificare una naturale dialettica, in particolare, tra forze di maggioranza e forze di opposizione. Si tratta invece di uscire da una spirale di contrapposizioni
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indiscriminate, che blocca il riconoscimento di temi e impegni di più alto interesse nazionale, tali da richiedere una limpida e mirata convergenza tra forze destinate a restare distinte in una democrazia dell’alternanza.
All’auspicabile crearsi di questo nuovo clima, può contribuire non poco il diffondersi tra gli italiani di un più forte senso dell’identità e unità nazionale. Così ritengo giusto che si concepisca anche la celebrazione di anniversari come quello della Liberazione, al di là, dunque, degli steccati e delle quotidiane polemiche che segnano il terreno della politica. Le condizioni sono ormai mature per sbarazzare il campo dalle divisioni e incomprensioni a lungo protrattesi sulla scelta e sul valore della Resistenza, per ritrovarci in una comune consapevolezza storica della sua eredità più condivisa e duratura. Vedo in ciò una premessa importante di quel libero, lungimirante confronto e di quello sforzo di raccoglimento unitario, di cui ha bisogno oggi il paese, di cui ha bisogno oggi l’Italia. (Beh buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La cifra della comunicazione delle cifre.

Durante i mesi duri e bui della grande crisi economica che ha sconvolto il mondo globalizzato, la tendenza a tenere nascosti i dati preoccupanti è stata palese, per certi versi sfacciata. Lo hanno fatto i governi, figuriamoci se non lo dovevano fare le agenzie di pubblicità. Certo, ci sono stati anche momenti grotteschi: ‘in controtendenza con l’andamento del mercato’ si citavano risultati a due cifre, contemporaneamente si mandavano via persone, però, coerentemente, anche i tagli sono stati a due cifre.

Qualche settimana fa, ho letto una dichiarazione del CEO di un’agenzia italiana, il quale sosteneva di aver chiuso il 2009 con un + 50%, nonostante la sua agenzia non avesse fatto alcuna nuova acquisizione nel corso dell’anno. Sono rimasto di sasso: il nostro eroe deve aver finalmente inventato la pietra filosofale, quella che gli alchimisti hanno cercato inutilmente per tutto il Medio Evo, quella, per intenderci che si credeva potesse ‘creare’ l’oro. Complimentoni. Chissà che marca di alambicchi ha usato.

Comunque, poiché siamo nella stagione delle trimestrali, cominciano a circolare i dati relativi ai primi tre mesi dell’anno. Siccome va sempre e comunque di moda ‘l’ottimismo’ vedremo rispuntare segni più. Che però non sono del tutto veri. Cito a memoria la trimestrale di un noto network, potrei sbagliare di qualche decimale: a fronte di una chiusura 2009 negativa del 8,4%, il noto network in questione dichiara un +1,5 nei primi tre mesi del 2010. Urca, dirà qualcuno, che bravi. E no, cari miei: o nella notte di Capodanno tra il 2009 e il 2010, magicamente si sono recuperati 8,4 punti di svantaggio, per poi salire a 1,5, oppure, quel +1,5 va semplicemente sottratto al l’8,4. Risultato? Chiuso l’anno con- 8,4 si riparte da +1,5, cioè da -7,3.

Certo questi trucchetti di tipo cosmetico vengono fatti anche dai ministri dell’Economia dei paesi sottoschiaffo per la crisi. In Italia, per esempio, l’anno si chiude con un rapporto deficit-Pil a -5,5%. Siccome c’è chi sostiene che nel 2010 ci potrebbe essere una ripresa dello 0,5, vorrà dire che invece che -5,5, il risultato sarà di -5%. Dice: però non è carino dirlo così all’opinione pubblica. Meglio dirgli che c’è una crescita, piuttosto che una riduzione delle perdite. Fate un po’ come volete, ma, come diceva Totò, ‘è la somma che fa il totale’. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Signore e signori, trasmettiamo ora il “partito dell’amore, contro l’odio e l’invidia”: http://tv.repubblica.it/dossier/direzione-pdl-fini-berlusconi/berlusconi-vs-fini-il-remix-su-youtube/46053?video=&pagefrom=1

http://tv.repubblica.it/dossier/direzione-pdl-fini-berlusconi/berlusconi-vs-fini-il-remix-su-youtube/46053?video=&pagefrom=

(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Fini voleva la corrente, Berlusconi è andato in corto-circuito.

A carte scoperte di Gianpasquale Santomassimo-il Manifesto
La direzione del Pdl è stata organizzata come una cerimonia di umiliazione pubblica per il Presidente della Camera, affiancato a Rotondi e Giovanardi (e altri sette politici di cui molti ignoravano l’esistenza) come cofondatore del partito, in una assise volta ufficialmente a celebrare la vittoria elettorale e i successi del governo.
Nel suo intervento Fini ha rivolto critiche esplicite a Berlusconi, di fronte a una platea di dipendenti non abituati ad ascoltare critiche pubbliche al padrone da cui – qualunque sia loro provenienza – dipendono interamente carriere presenti e prospettive future.

Sono confluite nel discorso di Fini idee antiche e tradizionali, unità nazionale, coesione del paese, senso dello stato e della legalità, e quest’ultimo è fra tutti il vero nervo scoperto del berlusconismo, come si è visto dalle reazioni del personaggio, mai così teso e insofferente in pubblico. Ma si sono innestate, nel discorso di Fini, anche le questioni nuove che da qualche anno sostanziano le sue prese di posizione pubbliche: diritti individuali e civili, laicità delle istituzioni, costruzione di un percorso inclusivo di cittadinanza per gli immigrati.

Tutto quello che, attraverso l’ultimo Fini e il lavoro della sua Fondazione Farefuturo, dovrebbe costruire il volto di una destra italiana moderna e di tipo europeo, che entra in rotta di collisione inevitabile con ideologia e pulsioni della Lega, ma anche con sostanza e identità profonda della destra reale in Italia.
Perché Fini sia uscito allo scoperto proprio ora e nelle condizioni per lui peggiori è facilmente intuibile: di fronte a progetti di riforma istituzionale decisi nelle cene di Arcore con Calderoli, Bossi, e il figlio di Bossi, non reagire avrebbe significato condannarsi a una irrilevanza politica sempre più evidente, mentre la campagna acquisti dei suoi ex colonnelli da parte di Berlusconi è virtualmente conclusa, e resa esplicita dalla conta impietosa di questi giorni.

Il destino di Fini, ormai sessantenne, non è più certamente quello di un delfino che può attendere l’uscita di scena del leader indiscusso: se ci sarà un successore di Berlusconi non sarà lui. A Fini resta un notevole capitale di stima e di consenso, rilevato dai sondaggi, ma che difficilmente può tradursi in voti fuori della gabbia di questa destra.
Certamente non accetterà senza reagire lo sfratto dalla Presidenza della Camera intimatogli da Berlusconi, ma la prospettiva di una corrente organizzata in un partito di questo tipo (“carismatico” è la definizione ufficiale) è affidata a un esile filo di probabilità, e non è neppure detto che questa libertà di manovra gli venga concessa.

Si apre un periodo di inevitabile assestamento e riposizionamento, e la prospettiva, del tutto inedita, di una rottura dell’unanimismo forzato all’interno della destra italiana. Nell’incontro con Berlusconi all’origine dello strappo, veniva attribuita a Fini la dichiarazione per cui la propaganda da sola non può bastare, e la politica non può venire sostituita dalla propaganda stessa. Pensiero giudizioso, che in ogni paese occidentale apparirebbe scontato. Ma molto meno scontato nell’Italia modellata da Berlusconi a sua immagine e somiglianza, con questa legge elettorale. Questo sistema può durare ancora a lungo, in una decadenza avvilente e rovinosa.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il Gruppo Espresso muove i primi passi fuori dalla quarta crisi?

Si è riunito ieri Il Consiglio di Amministrazione di Gruppo Editoriale L’Espresso, presieduto da Carlo De Benedetti, che ha approvato i risultati consolidati del primo trimestre dell’esercizio 2010.

I ricavi netti consolidati del Gruppo nel primo trimestre 2010 ammontano a 213,6 mln di euro, importo sostanzialmente in linea (-0,7%) con quello registrato nel corrispondente periodo dell’esercizio precedente (215,0 mln). Al netto dei prodotti opzionali, il fatturato registra una crescita del 6,5%. I ricavi diffusionali, esclusi i prodotti opzionali, sono pari a 65,3 mln, in linea con i 65,8 mln del corrispondente periodo dell’esercizio precedente.

Sul fronte della diffusione, La Repubblica e L’espresso hanno registrato leggeri incrementi delle vendite in edicola. Le diffusioni complessive mostrano, invece, una flessione interamente imputabile alla soppressione della distribuzione promozionale, ancora in vigore nel primo trimestre del 2009, ad alberghi e scuole (per queste ultime è stato sviluppato un servizio internet dedicato).

I ricavi pubblicitari, pari a 121,6 mln, sono cresciuti dell’11,2% rispetto al primo trimestre 2009. La raccolta sui mezzi del Gruppo, escludendo quindi i mezzi di terzi e le nuove concessioni acquisite, è aumentata dell’8,4%. La raccolta delle radio del Gruppo registra nel trimestre una crescita a due cifre (+24,4%. Anche la stampa mostra un’evoluzione positiva (+5,2%) che interessa sia i quotidiani che i periodici. Infine, la raccolta su internet è aumentata del 18,7%.I ricavi dei prodotti opzionali ammontano a 22,8 mln, in calo del 36,3% rispetto al corrispondente periodo del 2009.

I costi operativi totali sono stati ridotti del 9,1% rispetto al primo trimestre del 2009, andamento che, considerati i risparmi già conseguiti nel primo trimestre del 2009, è in linea con l’obiettivo del piano che prevede un taglio complessivo dei costi del 17% rispetto all’esercizio 2008 (base di riferimento per la formulazione del piano di riorganizzazione aziendale). Il margine operativo lordo consolidato è pari a 30,4 mln (16,7 mln nel primo trimestre 2009) ed il risultato operativo consolidato è pari a 21,2 mln (6 mln nel primo trimestre del 2009).

In definizione lo sbarco, a maggio, di Repubblica sull’iPad. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Enzo Baldoni è tornato dall’Iraq.

Le spoglie di Enzo Baldoni sono finalmente a casa.

Dopo i rilievi scientifici eseguiti dai Ris e la controperizia fatta eseguire dai familiari, è certo che le spoglie di Enzo sono state restituite.

Sandro Baldoni, suo fratello, in un’intervista telefonica rilasciata a RepubblicaTv conferma che i resti di Enzo sono finalmente tornati. Ma Sandro dice anche che si è perso tanto, tanto tempo e che il ritrovamento si deve alla pervicacia di un pm, all’abnegazione di un ufficiale dei servizi e alla perseveranza di Giusy, moglie di Enzo, la mamma dei suoi due ragazzi.

Sandro dice che si è riaperta un ferita per la sua famiglia. Vorrei dirgli che quella ferita, noi amici a colleghi suoi e di Enzo la porteremo nel cuore.

Perché è il cuore di un paese che ripudiava la guerra che porta la ferita della morte violenta di un uomo pacifico come Enzo, catturato e ammazzato mentre era al seguito di un convoglio della Croce Rossa. Così pacifico da essere apostrofato da un noto direttore di giornale come ‘pirlacchione’. Quello stesso direttore che aveva come vice una ‘barba finta’.

Dico che l’Italia ripudiava, perché poi è finita che si è voluto travestire la partecipazione bellica da ‘missione umanitaria’.

L’uccisione di Enzo sta lì a dimostrare che i sofismi politico-diplomatici servono a poco: quanti morti abbiamo pianto in questi anni, per la ‘missione di pace’ in Iraq e in Afghanistan? Pare che la guerra in Afghanistan costi al nostro paese un paio di milioni di euro al giorno. Non so. So che la morte di Enzo è stata un’ingiustizia insopportabile. Ecco: Sandro Baldoni ha davvero ragione, quando dice che si è riaperta una ferita. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Alla fine Fini è diventato doroteo. Berlusconi può dormire sonni tranquilli. E D’Alema (e Casini, e Rutelli e Bersani) ancora con un palmo di naso.

Roma, 20 apr. (Adnkronos/Ign) – “Ho posto questioni di tipo politico, non sull’organigramma interno” né “per gelosia”, e “non ho intenzione di togliere il disturbo e di stare zitto”. Così il presidente della Camera Gianfranco Fini durante la riunione con i parlamentari ex An che si è svolta oggi nella sala Tatarella di Montecitorio.

“Non credo di attentare al governo e al partito se dico che c’è distacco con la nostra gente – ha detto Fini -. Il dissenso è legittimo o siamo il partito del predellino in cui bisogna dire che le cose vanno bene?”. Arriva un momento in cui “ci si deve guardare allo specchio”. “Se non si è disposti a rischiare per le proprie idee o non valgono le idee o non vale chi le esprime”. Il presidente della Camera ha però criticato “chi ha cercato di interpretare il pensiero di Fini, incendiando il dibattito politico”.

“Il progetto – ha proseguito Fini parlando del Pdl – non è in sintonia con quanto stabilito all’inizio. C’è una scarsa attenzione alla coesione sociale, alla coesione nazionale, il Sud è scomparso dal dibattito politico, sono temi che una grande forza deve trattare, per garantire i suoi valori strategici”. Non si tratta, ha precisato, di “una riproposizione degli attriti con Tremonti, che ha fatto un ottimo lavoro, anzi senza Tremonti saremmo come la Grecia”.

Quanto alla Lega, “è un alleato strategico importantissimo e leale, ma in questo momento sta dimostrando di essere il dominus”.

Per quanto riguarda gli equilibri interni tra le due anime del Pdl, “si apre una nuova fase, anche per quanto riguarda la ripartizione 70-30, chi ha più filo da tessere, tesserà”. Fini ha quindi espresso “soddisfazione perché per la prima volta è stata convocata la direzione del partito”. Inoltre, “pare che si vada verso un congresso e questo è positivo”.

Gli ex di An hanno ascoltato la relazione del presidente della Camera e hanno firmato un ordine del giorno per assicurare il loro sostegno a Gianfranco Fini e per dire no a scissioni e al voto ancipato. Il documento è stato firmato da 50 parlamentari, 36 deputati e 14 senatori. Lo si apprende dagli uomini più vicini al presidente della Camera secondo le quali ”altri parlamentari, oggi assenti per vari motivi, non hanno potuto firmare il documento, ma hanno dato il loro assenso”.

Ora è il momento di ”riportare il confronto su un piano costruttivo – si legge – isolando quanti più o meno consapevolmente stanno in queste ore lavorando per destabilizzare il rapporto tra i cofondatori del Pdl. Per questi motivi confermiamo la fiducia al presidente Fini a rappresentare tali istanze”. ”In merito alle polemiche che l’incontro Fini-Berlusconi ha suscitato nei media e nell’opinione pubblica – scrivono gli ex di An – riteniamo necessario esprimere soldiarietà a Fini contro il quale sono stati espressi giudici ingenerosi con toni a volte astiosi. Per parte nostra, riteniamo che le questioni poste da Fini meritino un approfondimento e una discussione attenta nelle competenti sedi di partito”. ”Nel corso della Direzione di giovedì prossimo – sottolineano – sarà lo stesso presidente della Camera a chiarire le sue proposte, aprendo un dibattito che ci consentirà di articolare e aggiornare un progetto di rilancio del Pdl, aperto alla partecipazione di tutte le componenti del partito”. ”La prospettiva di una escalation e anche il solo parlare di scissioni ed elezioni anticipate risultano incomprensibili per noi e per l’opinione pubblica che invece si aspetta una fase più incisiva dell’azione del nostro governo. Bisogna, quindi, riportare il confronto su un piano costruttivo”.

A stretto giro la replica di 75 ex parlamentari di Alleanza nazionale non di ‘osservanza finiana’ che hanno firmato un documento in cui si definisce il Pdl una scelta ”giusta e irreversibile”. Pur senza sottovalutare i problemi ”politici e organizzativi” che il partito deve affrontare”. Le stesse posizioni espresse da Fini dovranno trovare nei luoghi di discussione del partito la possibilità di essere discusse. Nel Pdl deve esserci un ”costante, libero, proficuo confronto di idee”, garantendo al massimo ”la democrazia interna”. Tra le firme, quelle degli ex colonnelli Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Alterno Matteoli, più il ministro Giorgia Meloni, a lungo a capo dell’organizzazione giovanile di An.

Nel testo si afferma, tra l’altro, che occorre superare “definitivamente” le “quote di provenienza” tra gli ex di An e di Forza Italia attraverso “la convocazione di un nuovo congresso nazionale del Pdl da celebrare nei tempi più rapidi possibili”. Per i firmatari del testo, inoltre, ”deve essere difeso il sistema bipolare, aprendo la stagione delle riforme istituzionali per il rafforzamento della democrazia diretta”. In particolare, scrivono i parlamentari non finiani, ”è necessario attuare, insieme al presidenzialismo, il federalismo fiscale in modo efficace e solidale”. (Beh, buona giornata).

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