Categorie
business Dibattiti Marketing Media e tecnologia Potere Pubblicità e mass media

3DNews/E adesso vediamo che sapete fare.

di Marco Ferri

Nonostante i sostanziosi acquisti di azioni Mediaset da parte di Fininvest e di Holding Italiana, sempre di famiglia, avvenuti durante l’estate per rilanciarlo, il titolo va male. Lo si è visto col rovinoso capitombolo dell’altro giorno, quando il titolo Mediaset ha toccato ripetutamente quota -12.

D’altro canto, neppure guardando alla terza trimestrale si trovano segnali positivi: la raccolta pubblicitaria è andata sotto zero. Nel comunicato stampa relativo alla riunione del cda che ha approvato la trimestrale Mediaset, si riafferma la leadership sul mercato, ma è un’affermazione un tantino autolesionistica: lo sanno tutti che ogni volta che Mediaset è in difficoltà, Sipra si sgonfia ad arte, quel tanto che permetta, appunto la riconferma della supremazia di Mediaset. Basta mandare via uno come Santoro, per esempio, per indebolire la raccolta Sipra a tutto vantaggio di Publitalia. E per lo stesso motivo continuare a far dirigere il TG UNO a un direttore che perde pubblico come un tubo rotto.

È in questa difficoltà di mercato, come viene definita nella trimestrale Mediaset, che ci si interroga sulla forte relazione che è intercorsa tra i successi politici del Berlusconi capo del governo e il Berlusconi tycoon dei media italiani. Le domande sono: che fine farà Mediaset, azienda-partito di business e di governo adesso che il Cavaliere è stato costretto alla resa? Come farà a stare sul mercato rispettando le regole del mercato? Come se la caverà senza il sostegno delle leggi ad aziendam? Più che domande irriverenti, sono problemi seri, che tormentano la premiata ditta Berlusconi&figli. D’altro canto non sarà più possibile procrastinare anacronisticamente nuove norme sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni.

Tanto per fare un esempio, Mario Monti, che probabilmente guiderà un esecutivo “tecnico”, nato per seppellire l’era berlusconista in politica, non si è mai dichiarato tenero con la mancanza di una reale concorrenza tra soggetti del mercato.

Sta lì a dimostrarlo la decennale esperienza come Commissario Europeo alla Concorrenza, ma anche la mission che Monti dovrà incarnare: la ripresa, la crescita passano per un corretto funzionamento delle regole dell’economia di mercato.

E allora Mediaset dovrà passare per le stesse strettoie cui passò la Rai, all’epoca della nascita della tv commerciale (quando si dice il contrappasso!); o Telecom quando si liberalizzò la telefonia, o Enel quando toccò all’energia: accettare di dimagrire, di restringere il perimetro aziendale per fare posto ad altri soggetti. E ripartire da lì per far valere la propria capacità imprenditoriale, magari attraverso nuovi investimenti, progetti innovativi, scelte coraggiose.

Saranno capaci Berlusconi & Figli di fare impresa senza il vantaggio di quella dose massiccia di concorrenza sleale derivante dallo stare contemporaneamente sul mercato e al potere?

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Dibattiti Media e tecnologia Potere

3DNews/USA, storica gaffe in TV di uno sfidante di Obama.

“ Ooops… non ricordo più quale ministero taglierò”
Perry, uno dei candidati repubblicani, dimentica i punti del suo programma
Di Valerio Bassan

Texano, famoso per il suo pugno di ferro, Perry ha dovuto chiedere scusa: “Il candidato perfetto non esiste e io ne sono la prova”. Per gli analisti poltici, però, la gaffe pone fine alle sue speranze di vittoria.

In qualsiasi campagna elettorale, si sa, l’abilità oratoria è importante. Se poi il tuo obiettivo è sfidare Barack Obama, che fa della finezza retorica il suo cavallo di battaglia, lo è ancora di più. Per questo Rick Perry, fino a ieri tra i più accreditati a condurre il partito repubblicano alle elezioni del 2012, pare aver messo una pietra tombale sulle sue ambizioni politiche. Il governatore del Texas è stato infatti protagonista di una gaffe che negli Usa hanno definito “la peggiore di tutta la storia del dibattito politico”: in un confronto pubblico con i rivali alla Casa Bianca, trasmesso in diretta nazionale dalla Cnbc, Perry si è dimenticato i punti del proprio programma elettorale. Colto in errore come uno scolaretto delle elementari, il successore di Bush al governo del Texas ha dovuto fare pubblica ammenda. La gaffe è avvenuta durante un dibattito tra i sette candidati repubblicani per la presidenza, tenutosi mercoledì nell’università di Oakland, nel Michigan.

Perry discute col rivale Ron Paul, elencando i tagli che apporterà ai dipartimenti governativi, da lui considerati uno spreco di denaro: «Oggi ce ne sono troppi. Quando sarò al potere ne eliminerò tre: l’agenzia del Commercio, quella dell’Educazione e…e…ehm…». Di colpo il governatore si blocca, tra lo stupore generale. «Ehm..qual è la terza che volevo dire?», aggiunge con imbarazzo. «Magari sono cinque», «Forse l’Epa, l’ente per la protezione ambientale?», lo prendono in giro gli altri candidati. Perry ride, prova a sdrammatizzare. Ma John Harwood, il moderatore, lo incalza: «Seriamente, è davvero l’Epa la terza agenzia che vuole abolire?». «No, sir», replica Perry abbassando la testa. «Qual è allora?». Perry ricomincia l’elenco con incedere traballante, mentre il pubblico in sala comincia a rumoreggiare: «Commercio, educazione, e…ehm…uhm, vediamo..no, non la so. Non la so» si arrende, dopo aver cercato di sbirciare tra i suoi appunti. «I’m sorry. Oops», conclude.

“Oops”: queste quattro lettere, secondo gli analisti americani, segneranno per sempre il futuro della carriera politica di Perry. Il candidato conservatore, soprannominato dagli oppositori “la sedia elettrica” per le 234 esecuzioni registrate in Texas dall’inizio del suo governo nel 2000, ha dovuto chiedere pubblicamente scusa per “i 53 secondi più imbarazzanti della storia del dibattito politico”. In un collegamento con la Bbc qualche ora più tardi Perry ha ammesso: «Non esiste un candidato perfetto e io in qualche modo ne sono la prova.

Tutti facciamo errori. Non sono un gran dibattitore, lo sapete. Ma se gli Stati Uniti cercano un conservatore dalle radici profonde in grado di raddrizzare l’America, ecco, quello sono io». Il texano si dice convinto che la storica figuraccia non fermerà la sua campagna e anzi potrebbe addirittura avvantaggiarlo, rendendolo più “umano” agli occhi degli elettori. I columnist politici non sembrano però d’accordo: secondo loro infatti la credibilità di Perry come candidato difficilmente si rialzerà dopo la gaffe. Intanto Barack Obama, comodamente seduto nello Studio Ovale a pochi metri dal caminetto acceso, si frega le mani.
Da www.linkiesta.it

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Movimenti politici e sociali Politica

La Destra americana ha una gran paura di Occupy Wall Street.

http://argomenti.ilsole24ore.com/paul-krugman.html

Negli ultimi due giorni ho ricevuto mail di gente che mi accusava di connivenza con i nazisti. La mia reazione immediata è stata: ma di che accidenti stanno parlando? Poi ho capito: la destra sta montando una campagna a tutto campo per etichettare Occupy Wall Street come un movimento antisemita, sulla base, a quanto capito, di un cartello esposto da un tizio.

Contemporaneamente, c’è chi accusa il movimento di essere all’origine di un’ondata di criminalità. Secondo un articolo sul New York Post del 22 ottobre, «le recenti sparatorie hanno portato il numero delle vittime di armi da fuoco a New York quest’anno leggermente al di sopra del tragico bilancio dell’anno scorso (1.484 morti contro 1.451) alla data del 16 ottobre. Quattro alti funzionari di polizia puntano il dito contro i manifestanti di Occupy Wall Street, dicendo che le loro proteste costringono la polizia a dirottare le unità speciali anticrimine dalle zone calde, dove ci sarebbe bisogno di loro».

Per credere a una tesi del genere bisogna credere non solo che qualche migliaio di manifestanti non violenti siano capaci di mettere in difficoltà una forza di polizia che può contare su 35mila agenti, ma che tutti gli assassini e gli stupratori dei quartieri periferici stiano dicendo: «Ehi, la polizia è occupata a dare la caccia agli hippy. Scateniamoci!». Per favore.
La prima cosa che mi viene da pensare è che Occupy Wall Street deve aver spaventato parecchio la destra, per spingerla a reagire così. E probabilmente è vero, ma c’è anche da dire che questo è il modo tipico in cui reagisce la destra contro tutti coloro che le si oppongono: accusarli di qualsiasi cosa, non importa quanto implausibili o contraddittorie siano le accuse. I progressisti sono socialisti atei che vogliono imporre la sharia. La lotta di classe è un male, però John Kerry è troppo ricco. E così via.

La chiave di tutta la faccenda, secondo me, è che la destra, in quanto movimento, è diventata un universo chiuso e ripiegato su se stesso, in cui per guadagnare credito non bisogna mostrarsi ragionevoli agli occhi degli elettori indipendenti (anche se qualche raro caso di opinionista di destra che interpreta il suo ruolo in modo professionale c’è), ma bisogna mostrarsi ancora più zelanti e oltranzisti degli altri compagni di strada.

Mi ricorda un po’ le invettive degli stalinisti contro i trotskisti ai vecchi tempi: i trotskisti erano deviazionisti di sinistra e al tempo stesso sabotatori al soldo dei nazisti. Ma i propagandisti non si sentono idioti quando sostengono cose del genere?
Niente affatto: nel loro universo mentale, l’estremismo in difesa di una verità più grande non è un vizio, e non c’è letteralmente limite a quello che si può dire a tale scopo.
Molti illustri commentatori non vogliono accettare il fatto che questo è quello che è diventata la politica americana: si aggrappano all’idea che a destra ci siano anziani statisti gentiluomini pronti a uscire allo scoperto se solo Obama dicesse le parole giuste.

Ma la verità è che da quel lato dello schieramento politico nessuno è disposto o è in grado di fare accordi con il guerrafondaio-antimilitarista-ateo-di-fede-islamica che risiede alla Casa Bianca.
Allacciate le cinture: non sarà per niente piacevole. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Share
Categorie
business Dibattiti Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il prezzo della pubblicità e lo sprezzo del mercato.

Il nuovo logo di ConsorzioCreativi
Think boldly, il logo e il claim di ConsorzioCreativi
(da consorziocreativi.com)

La notizia è che Consorzio Creativi, il network di creativi che hanno dato vita a una agenzia di pubblicità di nuova concezione, ha aperto on line il Negozio della buona pubblicità. E sugli scaffali del Negozio, visitabile su consorziocreativi.com, ci sono i prodotti con tanto di prezzi.

Il fatto è che il prezzo per la pubblicità italiana è un tabù. Ogni cliente pensa di fare ottimi affari, spendendo sempre meno; ogni agenzia, media o creativa, pensa di tenere botta alla concorrenza abbassando i prezzi. Ma le cose stanno proprio così?

Se prendiamo ad esempio le gare convocate dai committenti per scegliere la migliore agenzia, queste ormai non si svolgono più sul terreno della competenza, ma sul piano inclinato della convenienza. Talmente inclinato che i prezzi sono scivolati sempre più in basso, e i margini per le strutture di comunicazione hanno subito una tale contrazione da diventare ingestibili non solo all’interno, ma anche difficili da spiegare ai rispettivi headquarters internazionali.

La situazione è sfuggita di mano a tutti i soggetti. Nella seconda metà degli Ottanta, le agenzie si remuneravano con il 15% che per legge gli editori dovevano riconoscere alle agenzie che vendevano spazi e messaggi ai loro clienti. La produzione dei materiali era remunerata con il 17,65% del budget.

Di pari passo con l’espansione del mercato della comunicazione commerciale che contrassegnava quegli anni, si pensò di favorire la crescita rinunciando via via a porzioni di quel 15%. Su pressante richiesta di grandi compagnia americane, che assegnavano budget multinazionali, i reparti media delle agenzie furono scorporati, per diventare agenzie a loro volta. In Italia, la nascita e lo sviluppo supersonico della tv commerciale e l’aumento dell’offerta di spazi televisivi hanno favorito la rapida agonia del 15%.

Quel 15%, che in origine remunerava per il 7% la creatività; per il 5% il servizio di contatto commerciale; per il 3% il planning e il buying dei mezzi; quel 15%, dunque, cominciava a dissolversi. Le agenzie media, cioè chi compra spazi per conto dei clienti e le concessionarie di pubblicità, cioè chi vende spazi per conto degli editori trovarono la via di disinnescare l’obbligo, tutt’ora vigente, di riconoscere all’agenzia il 15%: alle agenzie media un meccanismo di remunerazione basato su quantità di spazi trattati, per i quali scattano premi da parte delle concessionarie; per le agenzie creative l’istituzione del fee, praticamente sganciato dalla percentuale di spesa pubblicitaria.

Venendo ai giorni nostri, il budget che una azienda investe in pubblicità non dice più nulla a proposito del fatturato della agenzia di pubblicità che ne cura l’immagine. L’agenzia media viene pagata in un modo, l’agenzia creativa in un altro, le ricerche in un altro ancora, la grafica, gli eventi, le promozioni in altri modi ancora.

Il combinato disposto di questa giungla remunerativa è stato solo apparentemente il maggior vantaggio per il committente, che è convinto di tenere sotto controllo la spesa pubblicitaria; e non è ormai più neppure il vantaggio competitivo dei grandi gruppi verso le piccole strutture: l’illusione che la massa critica compensasse i minori introiti derivati dai forti sconti si basava sulla previsione di un costante investimento da parte dei clienti. Le crisi economiche che si sono succedete negli anni, al contrario, hanno segnato una costante diminuzione degli investimenti sui mezzi classici, stampa e televisione, per esempio.

Anche senza contare l’odierna gravissima situazione economica e finanziaria in cui versa il mercato italiano, i grandi gruppi hanno da tempo cominciato a boccheggiare per mancanza di fatturati adeguati alle loro dimensioni. Vistosi e profondi tagli di personale hanno costretto le grandi agenzie a dimagrire. Col risultato di impoverire la capacità propositiva nei confronti dei clienti. I quali, dopo aver favorito in tutti i modi la corsa al controllo della spesa pubblicitaria, si trovano oggi a fare i conti con l’impoverimento dell’offerta creativa all’altezza delle durissime sfide proposte in continuazione dal mercato globale.

Così, come fossimo in una commedia di Goldoni, succede che Pantalone dice “non ti pago perché mi hai fatto un butto servizio”, e Arlecchino dice “ti ho fatto un brutto servizio perché tanto non mi paghi”.

L’aspetto grottesco, però, è che tutti si lamentano, ma nessuno dice la verità. Negli ultimi anni le associazione delle agenzie e quelle dei committenti hanno prodotto migliaia di ore di convegni e tavole rotonde, alcune tonnellate di carta imbrattata di buoni propositi senza che questo ribollire di intelligenze venisse a capo di alcunché: neppure l’obiettivo minimo, quello della remunerazione almeno delle spese per le gare, è stato raggiunto. E sì che si sono fatti proclami e stilato decaloghi, che nessuno ha mai preso in considerazione, a cominciare proprio dagli associati medesimi. Questo, tuttavia, non ha impedito che, per esempio, il sabato al convegno si tuonasse contro il dumping che il lunedì successivo si applicava senza troppi scrupoli.

In questi anni il valore sul mercato di alcuni budget pubblicitari è stato letteralmente portato vicino allo zero. Per esempio, a una grande banca che nel 2000 riconosceva all’agenzia il 7,5%, oggi è stato offerto un fee che si aggira tra il 2 e il 3 per cento, a scalare sugli importi investiti. Oppure, a una importante istituzione pubblica è stato offerto, non più tardi di tre anni fa, un fee equivalente allo 0,9% del budget. E può succedere, come è successo, che una rinomata agenzia abbia proposto al suo cliente un listino nel quale un annuncio pubblicitario senza immagini costava meno della metà di uno con una foto: la creatività non conta, contano le figure. Per non dire di quella agenzia che per acquisire un importante cliente editoriale, è arrivata a offrire uno sconto del 75%.

La spirale del dumping si avvita su se stessa quando viene messa in gara l’agenzia che aveva stracciato il prezzo, la quale perde comunque il cliente. Il quale convoca la gara proprio per non dover rinegoziare il prezzo stracciato che gli era stato precedentemente offerto. Col risultato che implicitamente la base di partenza è proprio il ribasso del ribasso precedente: è su quello si scontreranno le agenzie convocate. Ecco che da Goldoni si passa a Pinter: cioè siamo in pieno teatro dell’assurdo.

Tutto questo succede mentre i committenti si lamentano, quando non cercano agenzie di pubblicità altrove, come è successo recentemente per un grande gruppo bancario e per una grande compagnia telefonica. E mentre nelle agenzie si lavora male, con stipendi bassi o un uso diffusissimo di lavoro precario, e il costante clima da stillicidio di licenziamenti.

In questo quadro, al tempo stesso desolato e desolante, in cui il prezzo della pubblicità è stato usato con sprezzo del mercato e delle sue regole, l’unica via d’uscita è rompere il tabù dei prezzi e dichiararli apertamente. E accettare che la negoziazione tra le parti faccia il resto. Senza trucchi, senza inganni, senza piccole bugie o grossolane mezze verità.

Che è proprio quello che sta facendo Consorzio Creativi con l’apertura del Negozio della buona pubblicità, (visitabile su consorziocreativi.com). Beh, buona giornata.

Share
Categorie
democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

Il movimento del 99% pone la questione globale della democrazia come controllo dell’economia.

di ULRICH BECK-la Repubblica- (traduzione di Carlo Sandrelli).

COM’ È possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell’ Occidente, cioè la visione economica dell’ american way? Com’ è possibile che il grido “Occupy Wall Street” raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro “il sistema”.

Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato “libera economia di mercato” e che ora ricominciaa essere chiamato “capitalismo” viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l’ 1% dei profittatori? Sul sito web “WeAreThe99Percent” si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i “superflui” (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza “il sistema”. Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo.

Questo condizionale catastrofico è l’ uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un’ esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa “bancarotta di Stato”, per me? Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d’ occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca.

Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall’ interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.

Sotto il diktat dell’ emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze. Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo – ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto “follia” quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto “follia” quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto “follia” quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale.

Cosa significa “follia”? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager,i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri. Tutti noi – vale a dire il 99% – siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall’ altro, ha conseguenze durissime per tutti.

Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d’ atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza. Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni “involontarie”. Qui sta il loro bello – in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c’ è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune.

La società mondale del rischio – questo mostra il grido del “99%” – può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente. Ma da dove nasce la forza o l’ impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c’ è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in mo do pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari – come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie – nell’ interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità.

Per applicare questa “Robin Hood Tax” si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un’ alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globalie la politica nazional-statale. Quest’ ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz’ altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione. In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell’ anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico.

Nell’ alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l’ economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l’ economia. Contro la percezione – che sta diffondendosi rapidamente – di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell’ economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l’ avversario più convincente e tenace dell’ economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale. (Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

La crisi? E’ nel modello neoliberista e monetarista.

di Stefano Corradino- articolo21.info

“…E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio”. Paolo Cacciari, giornalista, ex parlamentare ed oggi membro dell “Associazione per la Decrescita”, intervistato da Articolo21, analizza a tutto campo la crisi economica ed internazionale, che è crisi “del modello neoliberista e monetarista”. Quella di Cacciari (e non solo lui) è una visione altra dell’economia e delle relazioni sociali “Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio”.

Le istanze della manifestazione di sabato 15 ottobre sono state praticamente oscurate dagli scontri che hanno messo la Capitale a ferro e fuoco. Ma le rivendicazioni degli indignati restano. “Noi la crisi non la paghiamo” recitava lo slogan portante delle mobilitazioni. Quali sono i soggetti più colpiti dalla crisi e quelli maggiormente responsabili di averla prodotta? In che modo questi ultimi possono essere inchiodati alle loro responsabilità?
E’ la politica che deve farlo? O sono le stesse istituzioni economiche e finanziarie a doversi “autoriformare”?
I giovani nelle piazze di tutto il mondo rivolgono a chi ci governa una domanda molto semplice: se chi ha provocato la crisi economica che si protrae da oltre tre anni sono stati operatori finanziari imprevidenti, intermediari di capitali spregiudicati, gestioni speculative delle valute e dei titoli azionari, perché non sono costoro a pagarne i costi? Perché i capi dei governi invece di porre il sistema bancario sotto rigido controllo svuotano le casse pubbliche e impegnano i denari dei contribuenti per tamponare i buchi di bilancio (crediti inesigibili) delle banche private? Perché i movimenti di capitale continuano a fluttuare liberi come l’aria, mentre le economie reali, l’occupazione, il potere d’acquisto dei salari precipitano? La risposta che viene dall’establishment è disarmante: i debiti sono troppo grandi per essere lasciati insolvibili.

“Default”, è il termine che più di ogni altro sembra terrorizzare gli Stati. Cosa succederebbe se fallissero le banche e gli stati?
Appunto. Non è più dato scegliere se salvare quattro banche o uno stato. La dichiarazione di fallimento di più istituti bancari e/o di più stati potrebbe avere un effetto di trascinamento (contaminazione, la chiamano) davvero dirompente in un sistema economico internazionale integrato e comandato dalla finanza come è quello in cui viviamo. Ma questa verità non può essere una scusa per lasciare le cose come sono, per non affrontare le cause strutturali che sono all’origine della crisi finanziaria, per non individuare e rimuovere i responsabili (che non sono solo dentro le banche e i governi, ma anche tra i prezzolati teorici del neoliberismo e del monetarismo dentro le accademie universitarie) e, quindi, operare i cambiamenti profondi che sono necessari. A proposito di “riforme” che non si fanno.

La politica è ostaggio dell’economia?
Le persone per bene si sono “indignate” proprio perché vedono che la politica è ostaggio dei detentori dei titoli di credito, dei capitalisti che continuano a pretendere ed ottenere tassi di rendimento (rendite finanziarie) dieci, venti volte superiori ai tassi di profitto reali delle imprese. Quando anche i manager dell’industria vengono pagati con le stock option (penso a Marchionne), cioè con le azioni e non con i fatturati industriali, allora si capisce bene che il sistema economico è semplicemente impazzito. Per essere più precisi: si regge solo grazie all’immissione di dosi sempre più massicce di droga. Droga di stato: stampa di cartamoneta, ricapitalizzazioni, acquisto di bond che non valgono nulla, rinuncia al prelievo fiscale, ecc.

Tu sei uno dei principali animatori italiani della cosiddetta “decrescita”, modello altro di sviluppo che gli stessi giovani indignati hanno più volte evocato. A prima vista sembra un paradosso. Una delle accuse rivolte all’Italia e ad altri Paesi è che sono a “crescita zero”. Voi affermate il concetto contrario: l’aumento del Pil non aumenta il benessere generale; il problema non è privilegiare la crescita ma “fermarla”, redistribuire le risorse globali. Come si realizza praticamente?
E no, sono loro immersi in una spirale perversa! La crescita del volume del valore monetario delle merci in circolazione (del Pil) può avvenire solo facendo altri enormi debiti. Ma ogni debito ha il difetto di portarsi dietro un creditore che – se lasciato libero – chiederà per se sempre qualche denaro in più del rendimento dei profitti industriali. E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio. La sfida più avanzata e moderna è: stare meglio con meno. E non penso solo agli sprechi, all’usa e getta, alla obsolescenza programmata per far durare meno gli oggetti, alle psicopatologie del consumatore compulsivo… Penso alla rarefazione delle risorse naturali (non solo il petrolio e l’uranio, ma il litio, senza del quale niente batterie per le auto elettriche, o i minerali rari, senza i quali niente telefonini, o il coltan, niente computer) che ci obbliga a diminuire i flussi di materie e di energia impegnati nei cicli produttivi. Questa è già una prima definizione, la più immediata e banale, se vuoi, di decrescita.

Un rallentamento della crescita economica e la conseguente diminuzione della produzione di merci non provocherebbe un aumento della disoccupazione e della povertà?
Non facciamo confusione: si possono creare e produrre dei beni, delle cose utili (e già ora se ne fanno moltissime, pensiamo solo al lavoro domestico, che non viene conteggiato nel Pil) senza che assumano per forza la forma di merci, valutate cioè in termini monetari e scambiate sui mercati globali. Certo, la nostra società spinge a mercificare ogni cosa: dalla cura dei bambini e degli anziani all’inquinamento atmosferico (una tonnellata di CO2 sulla borsa di Londra valeva ieri 18 euro), dalle sementi brevettate dalle multinazionali agro-farmaceutiche, al sesso… Ma è possibile ed auspicabile pensare di soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente passare per un supermercato. Se solo l’enorme potenzialità della tecnoscienza fosse finalmente indirizzata a preservare l’ambiente e a ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione (e non invece a intensificare gli sforzi produttivi) riusciremmo tutti a vivere in ambienti più salubri e a lavorare meno. Non era questa la felicità?

La crescita economica ha dimostrato di essere diseguale, accrescendo l’ineguaglianza sociale, e concentrando ricchezze nelle mani di pochi. La “decrescita”, in questo caso, si concretizzerebbe come una sorta di azione alla “Robin Hood”, togliendo materialmente le ricchezze a chi ne ha di più per redistribuirle tra i ceti meno privilegiati?
Anche, certo: lavoro e ricchezza vanno meglio distribuiti. La società capitalistica crea per sua natura accumulazione e concentrazione di ricchezze. Fino a ieri tale diseguaglianza era giustificata perché – dicevano – aumentava la competitività, l’emulazione, la produttività del sistema tutto. Il concetto di “sviluppo” e di “sottosviluppo”, quando è nato, nell’immediato secondo dopoguerra, conteneva l’idea di una avanzata di tutte le nazioni del mondo. Era, a suo modo, un’idea universalista e progressista. Assistiamo oggi al fallimento storico di quella promessa. La forbice si allarga, nel mondo, ma anche terribilmente all’interno di ogni singolo stato. Non ci sono mai state nella storia dell’umanità disparità di ricchezze patrimoniali e reddituali così marcate. Pensate: le tre persone più ricche del mondo posseggono guadagni pari alla ricchezza dei 600 milioni di persone che abitano nei 48 paesi più poveri del pianeta. 257 individui possiedono quanto il 45% delle persone sulla terra (2,8 miliardi). Raccapricciante!

La decrescita presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Da dove partire? Quanto siamo schiavi della crescita e della logica del profitto a tutti i costi?
Serge Latouche dice che dobbiamo “decolonizzare l’immaginario” e Gregory Bateson scriveva di “ecologia della mente”. Dobbiamo compiere un lavoro di sgombro dalle macerie che ci ha lasciato il falso mito della crescita infinita. Elevare le capacità critiche del pensiero. Le rivoluzioni non si esportano e non cadono dall’alto. O sono molecolari, condivise dal basso, consensuali… o non sono rivoluzioni.

Anche per la decrescita sarà così?
Sì, una rivoluzione democratica, scelta, partecipata. La decrescita già si vede in mille pratiche individuali e comunitarie. Si coniuga con l’“altra economia”, con l’economia solidale e sociale e con la gestione collettiva dei beni comuni, il nuovo potente paradigma (riscoperto anche grazie al Nobel alla Elinor Ostrom) che ci indica come sia possibile transitare dalla società del possesso a quella dell’essere, dalla competizione alla cooperazione, dal saccheggio alla preservazione, alla sufficienza, all’abbastanza, alla frugalità. E non per angelico francescanesimo, ma perché smarcarsi dalle costrizioni produttivistiche e consumistiche è bello. Saper fare da sé soddisfa. Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio. Scambiarsi oggetti, servizi, mezzi di trasporto, abitazioni… allarga i tuoi orizzonti. Prendersi cura delle cose pubbliche aumenta le occasioni di occupazione.

Da giornalista, quanto contribuiscono i media ad incentivare i consumi materiali superflui rispetto a una logica del consumo responsabile?
Dico sempre (vedi: Decrescita o barbarie, scaricabile gratuitamente da internet) che noi, persone comuni, siamo sicuramente scemi, “schiavi volontari” di convenzioni sociali e dispotismi di chi ci comanda. Ma anche loro devono impegnarsi molto per renderci così docili. I due settori economici che non conoscono crisi sono gli armamenti e la pubblicità: il bastone e la carota necessari per mantenere inalterato uno stato di cose che altrimenti, senza violenza e senza manipolazione delle menti, salterebbe subito. Tu mi chiedi dei media. Oggi televisioni e rotocalchi, ma anche la stragrande maggioranza dei quotidiani – tu mi insegni – non vendono notizie: vendono spazi pubblicitari, se è vero che gli editori ricavano più denari dagli inserzionisti che non dai lettori.

La “decrescita” parte da un rifiuto netto dei principi dell’economia liberista o si può costruire all’interno del libero mercato stesso?
Anche all’interno dei sostenitori della decrescita vi sono opinioni e tendenze diverse, più o meno radicali nei confronti del mercato. Nella Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale di Barcellona lo scorso anno (la prossima si terrà a Venezia nel settembre del 2012) si sono sentite molte voci e viste esperienze diverse. Si va da Tim Jechson (autore di: Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011) che dirige un gruppo di ricerca governativo del Regno Unito, al Wuppertal Institute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, sempre di Edizioni Ambiente) guidato da Wolfgang Sachs che è stato un allievo di Ivan Illich, per arrivare ai francesi del “Journal la Décroissance” che sicuramente sono i più anticapitalisti. Quello che penso io è sicuramente poco importante, ma i mercati, come le monete, esistevano prima del capitalismo e, per molti prodotti e se ben regolamentati, potrebbero continuare ad avere un ruolo positivo. Il guaio è quando profitto e accumulazione diventano la regola aurea, esclusiva e totalizzante dei rapporti sociali, quando natura e lavoro diventano meri strumenti (coseificazione e alienazione) per l’accrescimento del capitale impiegato nei cicli produttivi. La famosa “distruzione creativa” schumpeteriana – s’è visto – distrugge più di quanto non riesca a creare.

Questo nuovo paradigma socio-economico sembra avvicinarsi alle tesi dei modelli socialisti o comunisti di matrice marxista. In che modo la “decrescita” si sovrappone o si differenzia da queste tesi e dalle sue applicazioni pratiche così come le abbiamo conosciute? (Urss, Cuba, Cina…)
Nonostante intuizioni profetiche – anch’io ho tentato di mettere in relazione marxismo ed ecologismo (“Pensare la decrescita, Carta e Intra Moenia”, 2006, ndr) . Molto più approfondito il libro di Badiale e Bontempelli: “Decrescita e marxismo”; Marx non riesce a liberarsi dal fascino del progresso tecnologico industriale. E credo che si possano far risalire a lui molte responsabilità della parabola dell’esperienza sovietica. Con il “capital comunismo” cinese, invece, credo proprio che il povero Marx non c’entri per nulla. Ho letto che a Cuba si stanno facendo esperienza importanti nel tentativo di riterritorializzare l’economia. Così come entusiasmanti sono le esperienze in corso in Ecuador, dove i diritti di Pacha Mama, la madre terra, sono stati costituzionalizzati.

Insomma dovremmo cominciare a imparare a fare quello di cui abbiamo bisogno con quello che abbiamo?
E’ così, rinunciando definitivamente a mire imperiali, a superiorità coloniali, a ogni sogno di potenza. Alberto Magnaghi (fondatore del movimento territorialista) parla di “autarchia cosmopolita”. L’idea, non è nuova, è quella della confederazione delle autonomie sociali locali. Swadeshi, diceva Gandhi, per indicare l’autodeterminazione dei villaggi. Comunanze, si potrebbero chiamare, ma non chiuse, in reciproco, paritario rapporto tra loro. Bioregioni. Per un’idea di bioumanesimo planetario. La decrescita, insomma, non è solo dematerializzazione, non è solo demercificazione. E’ una direzione di marcia che segue una idea di società, di individuo, di natura più correlati, più armoniosi. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

L’uscita dalla crisi economica è politica.

“Gli economisti registrano la recessione analizzando l’andamento della domanda; la domanda crolla a causa della L’uscita dalla crisi economica è politica.caduta dei redditi; i redditi e quindi il potere d’acquisto diminuiscono per mancanza di lavoro il quale a sua volta cede per la scarsità di domanda. Così il cane si morde la coda, l’effetto diventa a sua volta causa, l’economia reale si avvita e il circolo perverso della stagnazione e poi della recessione si autoalimenta”, scrive oggi Eugenio Scalfari su Repubblica.

Per interromperlo -sostiene Scalfari- deve entrare in gioco un elemento nuovo, capace di bloccare il ciclo perverso e di cambiare il “trend” e le aspettative dei mercati. Bisogna dunque chiedersi quale sia l’elemento nuovo capace di capovolgere le aspettative. Su questa ricerca -aggiunge Scalfari- si sta discutendo da anni e la discussione negli ultimi mesi è diventata sempre più convulsa. Ora siamo alla stretta finale e, come sempre avviene nei gran finali, il problema è ridiventato politico.”

In Italia, il fatto nuovo che potrebbe convincere i mercati e le istituzioni finanziarie globali a dare un poco di respiro alla nostra economia è la cacciata di Berlusconi e del suo governo, per alcuni; un semplice passo indietro del Cavaliere, per altri. Comunque, la sua sostituzione alla guida del Paese è nei fatti, è nell’agenda politica da quest’estate. Ogni giorno che passa la fine di Berlusconi appare inevitabile: lo dicono apertamente, lo chiedono sommessamente, lo sperano segretamente ormai un po’ tutti.

E’ una questione di tempo, ma di tempo ne resta poco. Per come è stata ridotta la reputazione del Paese, la testa di Berlusconi forse non sarà più sufficiente; magari da solo questo evento non è risolutivo delle ormai profonde lacerazioni sociali dell’Italia. Ma da qualche parte bisogna ricominciare,e questo è pur sempre un buon inizio. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
business Dibattiti Marketing Pubblicità e mass media Società e costume

I consumi delle famiglie ai tempi della crisi.

(fonte:advexpress.it)

Secondo una ricerca di Gfk Eurisko, commissionata da Famiglia Cristiana, per 81 famiglie su cento in Italia non si stanno gettando le basi per il futuro. Per 69 su cento nel Paese “manca una visione condivisa sulle cose da fare”. Per 52 su cento da noi “si vive peggio rispetto agli altri Paesi europei”. “La crisi è ormai percepita non come evento passeggero, ma come un dato strutturale e le aspettative per il futuro sono decrescenti”, ha sottolineato Minoia, presidente onorario di Gfk Eurisko.

In positivo l’indagine dice che la famiglia tiene come istituzione di riferimento all’interno del Paese, conferma la propria centralità indiscussa e una salda vocazione civica, tutt’altro che corporativa o particolaristica. E’ un contenitore di valori etici e simbolici. Svolge una funzione fondamentale quale serbatoio di risorse economiche e finanziarie per costruire il futuro di figli e nipoti e costituisce un elemento di sostegno sociale determinante che spesso si fa carico di supplire delle carenze delle agenzie politiche e sociali.

Sul piano dei consumi, elaborando valori e scelte d’acquisto sempre più ragionate, innovative ed intelligenti, la famiglia italiana si conferma un interlocutore fondamentale per l’industria di marca. Dall’analisi emerge una riaffermazione proprio dei valori tipici delle grandi marche che, nonostante la congiuntura negativa, mantengono la loro attrattiva e il loro valore segnaletico a discapito dei prodotti anonimi.

La fedeltà alla marca preferita resta alta: non a caso calano sensibilmente le persone che si riconoscono nell’affermazione “una marca vale l’altra” quando si parla di qualità, valore, sicurezza. In un contesto di riduzione del potere d’acquisto dei salari, inevitabilmente, cresce l’attenzione delle famiglie per il prezzo e quindi l’attenzione per il prodotto di marca venduto in promozione.
“La crisi e la perdita del potere d’acquisto non pregiudicano il rapporto dei consumatori con le grandi marche”, conferma Minoia, “ma ne riconfigurano le modalità di accesso”. Non a caso i brand industriali generano il 70 per cento dei consumi: è il dato più alto registrato nei Paesi europei.

“Nel contesto di riscoperta e riaffermazione dei valori descritti nell’indagine di Gfk Eurisko”, rileva Luigi Bordoni, presidente di Centromarca, “trova spiegazione la tenuta della Marca, anche in una fase di grave difficoltà economica delle famiglie che avrebbe potuto far temere un suo declino. E’ proprio nell’insieme dei suoi valori, non solo merceologici o mercatistici, ma anche di responsabilità e di rigore nel senso più ampio, che la marca trova forza. In sintesi, nella sua “reputazione”.

Fin qui la ricerca. C’ è da sottolineare, però un passaggio: se la marca vince nelle promozioni, cioè con un politica commerciale basata sul ribasso dei prezzi, vuol dire che la fedeltà non è dovuta alla qualità, ma alla convenienza. Per dirla in altri termini: compro quello che costa meno, se è di marca, sono più tranquillo. Se le marche riusciranno a resistere, riusciranno a difendere la la fedeltà. Fino a quando? La risposta a questa domanda, ancorché capziosa, è la fotografia molto nitida della crisi. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
democrazia Dibattiti

Beh, buona giornata aderisce a “Strappare il bavaglio, per ricucire l’Italia”.

Strappare il bavaglio, per ricucire l’Italia

di Sandra Bonsanti

Forse qualcuno ci chiede ancora: ma serve davvero manifestare, andare in piazza? La risposta è facile: serve. Pensate che avremmo avuto la primavera scorsa, quando i cittadini hanno costretto il governo a voltar pagina (i referendum vinti) e le amministrazioni locali a rinnovarsi fortemente, se alle spalle non ci fossero state le grandi manifestazioni che da febbraio in poi hanno, appunto, riempito le piazze? Il Palasharp di Libertà e Giustizia, le donne di “Se non ora quando” e le mobilitazioni per difendere la libertà di informare…  È servito mostrare all’Europa e al mondo  che non tutto è ignobile, nel nostro Paese e non tutti si sono arresi, a destra, a sinistra e al centro.

Nessuno oggi ci chiede “perché” manifestiamo. Si sa, lo sappiamo.

Per rimettere insieme i cocci, per cominciare a ricostruire mentre ancora siamo fra le macerie.

Perché dobbiamo STRAPPARE IL BAVAGLIO  PER RICUCIRE L’ITALIA

Perché dobbiamo ricucire i diritti: avere per esempio un LAVORO che non uccide. Anche se fosse “soltanto” per questo, manifestare È partecipare e partecipare SERVE!

Il tema dell’informazione sarà centrale durante la manifestazione Ricucire l’Italia dell’8 ottobre a Milano, all’Arco della Pace (a partire dalle 14 e 30) . A parlarne, tra gli altri, i giornalisti Marco Travaglio, Lirio Abbate, Claudio Fava, Michele Serra e Franco Siddi segretario Fnsi.(Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

È stato previsto l’anno in cui i giornali moriranno.

È stata prevista la morte dei giornali.

In un convegno a Firenze, organizzato tra l’altro dalla Fieg, cioè dall’associazione degli editori dei giornali, è stata presentata una ricerca secondo la quale la morte dei giornali quotidiani sarà definitiva tra il 2030 e il 2040.

È stato anche fatto il calendario del decesso, che avverrebbe con una successione di avvenimenti macabri: i primi a trapassare nel 2017 saranno i giornali stampati negli Usa dove, si sa, la tecnologia è più avanzata.

A noi in Italia il funerale del quotidiano toccherebbe dieci anni dopo, cioè nel 2027. Ci facciamo sempre riconoscere!

Poi, via via la moria della carta stampata si trascinerà, come una dolorosa agonia, fino alla completa estinzione della specie entro il 2040. Tuttavia, precisano i ricercatori non si tratterebbe proprio della morte definitiva, quanto invece di una mutazione generica di tipo digitale. Insomma, è come se il medico vi dicesse che siete destinati a crepare, ma non del tutto, perché poi diventerete robot.

Lo sappiamo che non è la prima volta nella storia dell’evoluzione tecnologica che una nuova scoperta suggestiona l’idea della fine di quella precedente. Salvo verificare che non è mai successo, tanto meno con la precisione del calendario.

La radio non ha ucciso il telegrafo, che è stato invece soppiantato dalle applicazioni gps decenni dopo. Che la tv non ha ucciso la radio, né il cinema, anche se alla fine la radio, la tv e il cinema sono stati ingoiati dal web. Ora, il fatto che secondo la ricerca in questione potrebbe verificarsi è proprio simile a quest’ultimo esempio. Non è infatti difficile immaginare come andranno le cose, perché in realtà stanno giù andando così: i siti internet delle grandi testate giornalistiche hanno visite sul web ormai di gran lunga superiori alle visite in edicola. Oggi internet, anche grazie ai tablet è il luogo più frequentato per chi ama leggere il giornale. Quindi il futuro andrà in questa direzione, non ci possono essere dubbi.

Rimane però una sgradevole sensazione di mutilazione, se immaginiamo che non ci sporcheremo più i polpastrelli di inchiostro sfogliando le pagine del quotidiano. Tuttavia, quello che non dovremmo mai dimenticare è che un giornale non è oggi con le rotative e la carta, né domani con la tecnologia digitale e un supporto elettronico per la lettura semplicemente una cosa da avere tra le mani e sotto gli occhi.

Un giornale è un’idea dell’informazione, un’idea alla quale partecipano quelli che lo scrivono allo stesso modo di quelli che lo leggono. In ultima analisi, un giornale è fatto di persone. Così come non compriamo oggi carta ma un quotidiano, così domani non compreremo un download ma, appunto un giornale: quello che conta è sempre e solo quello che c’è scritto. È sempre lì che casca l’asino. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche Scienza

About the overshoot day.

L’overshoot day è stato il 27 settembre scorso. E’ stato il giorno in cui l’umanità è entrata in deficit ecologico. Vuol dire che per quest’anno abbiamo esaurito tutte le risorse naturali disponibili. Che si fa? Si fa come fanno tutti quelli che hanno debiti: inizieremo a consumare quelle riservate al prossimo anno. Insomma, da qualche giorno, stiamo mettendo mano ai risparmi che si andranno a sottrarre dal capitale ecologico ed ambientale del futuro del pianeta. Ma come siamo arrivati a questo punto? Per una inesorabile legge dell’economia: spendiamo più di quanto abbiamo. Anche in termini di risorse.

Spiega Mathis Wackernagel presidente del Global footprint network, l’associazione internazionale che calcola ogni anno la spesa ecologica dell’umanità: «Se vogliamo mantenere la società stabili e vivere bene non possiamo più sostenere un deficit di bilancio sempre più ampio tra ciò che la natura è in grado di fornire e quanto le nostre infrastrutture, economie e stili di vita richiedono». È dal 1970 in poi che le attività umane hanno superato la soglia critica di sfruttamento delle risorse del pianeta e la domanda ha iniziato a superare l’offerta in una condizione nota come superamento ecologico.

La domanda, però è davvero semplice: se il nostro sviluppo economico è basato sullo sfruttamento del pianeta, come si pensa di riuscire a fermare l’immenso spreco delle risorse ambientali? Se non si supera il capitalismo, non ci sono chances di tornare un giusto equilibrio tra capitale ecologico e “il capitale”.

Tanto più che “il capitale” ha problemi talmente gravi che ha cominciato a consumare le riserve finanziarie del futuro da almeno tre anni a questa parte, cioè dall’insorgere della bolla speculativa dei titoli tossici, che hanno prodotto un indebitamento finanziario, si dice, pari a undici volte la somma del prodotto interno lordo di tutti i paesi del pianeta.

Il pianeta se la cava meglio dell’economia globalizzata, i cui governi stanno facendo a pezzi piccoli il welfare, con il risultato di ipotecare il futuro di almeno un paio di generazioni future. Quando si parla della fine del mondo, che potrebbe essere stata prevista nel prossimo 2012, non si tiene conto non solo che di leggende catastrofiche è piena la storia degli uomini, ma soprattutto non si tiene in considerazione una cosa semplice semplice: non è dato che le sorti del genere umano coincidano con il futuro del pianeta.

La fine del mondo, semmai potrebbe significare la fine del “mondo degli uomini”, capaci come sono di autodistruggersi. Il pianeta c’era prima della nostra comparsa e ci sarà dopo.
Anzi, se è vero che la Terra è un pianeta intelligente, perché mai dovrebbe sopportarci ancora a lungo? Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro

Come elaborare il lutto della più grave crisi finanziaria dal ’29.

di MOISÉS NAÍM- La Repubblica

Le tappe sono note. Negazione («Non sta succedendo nulla»). Rabbia («Perchè proprio a me?»). Negoziazione («Che posso fare per rinviare l´inevitabile?»). Depressione («Non vale più la pena di fare niente: è finita»). Accettazione («Tutto si rimetterà a posto, il mondo andrà avanti»).

Sono le «cinque tappe del lutto», quelle attraverso cui, secondo Elisabeth Kübler Ross, passano tutti coloro che si trovano ad affrontare la morte di una persona cara o una perdita catastrofica. Probabilmente la Kübler-Ross non immaginava che il suo schema potesse risultare molto utile per comprendere il comportamento di un Governo messo di fronte a una grave crisi finanziaria. Sono passati attraverso questa trafila gli argentini (più di una volta), i brasiliani, i messicani, i russi e gli asiatici. Ora tocca all´Europa (e agli Stati Uniti, ma questa è un´altra storia). Io non so – e credo che non lo sappia nessuno – che piega prenderanno le convulsioni che stanno trasfigurando le economie europee, o come reagiranno i mercati finanziari e i Governi nel loro interminabile ciclo di azioni e reazioni. Sappiamo che i 150 miliardi di euro che l´Europa ha dato alla Grecia non sono serviti a molto e che l´Italia, la Spagna e altri Paesi a rischio hanno già adottato misure di austerità fino a poco tempo fa inimmaginabili. Ma sembra che nulla funzioni.

Quando prevedere quello che succederà diventa così difficile, bisogna cercare consiglio nel passato (pur nella consapevolezza che non sempre quello che è successo in passato può essere di aiuto per prevedere il futuro). In ogni caso, l´analisi di un gran numero di crisi di questo genere in Paesi diversi ha permesso a Carmen Reinhart, autrice (insieme a Kenneth Rogoff) del magnifico libro Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il Saggiatore, 2010), di individuare le cinque tattiche più comuni utilizzate dai Paesi fortemente indebitati per ridurre l´indebitamento.

1 Crescita. Equivale a uscire dal problema facendo espandere l´economia. Man mano che l´attività economica cresce, aumenta il gettito fiscale e si riduce il peso del debito in rapporto all´economia. Molti Paesi ci hanno provato; pochi ci sono riusciti.
2 Smettere di pagare. In linguaggio più tecnico si chiama «moratoria», «sospensione dei pagamenti», «ristrutturazione del debito», «default» o «piano Brady». Nella pratica consiste semplicemente nel notificare ai creditori che saranno pagati meno di quello a cui avrebbero diritto e in un lasso di tempo più lungo di quello concordato inizialmente. La Reinhart ha riscontrato che dall´anno della sua indipendenza, nel 1832, la Grecia è stata in mora per il 48 per cento del tempo. Anche l´Argentina ricorre spesso a questa tattica.
3 Austerità. È un tema dolorosamente familiare in questi mesi per gli europei, come lo fu negli anni 90 per i latinoamericani, i russi e gli asiatici. Comporta tagli draconiani alla spesa pubblica, sia quella superflua che quella non tanto superflua. Riduce il debito, ma produce anche manifestazioni di piazza, e a volte la caduta di Governi.
4 Inflazione. Quando aumentano i prezzi, il valore del debito diminuisce in maniera proporzionale al tasso di inflazione. L´inflazione è un male per l´economia, specialmente per i lavoratori salariati, e allevia il problema dell´indebitamento in modo politicamente meno conflittuale, ma non risolve il problema dell´indebitamento in altre valute.
5 Repressione finanziaria. Avviene quando i Governi prendono misure finalizzate a incanalare verso di loro fondi che altrimenti verrebbero destinati ad altri scopi, o uscirebbero dall´economia. L´arsenale di questo tipo di misure è variegato, tentatore, pericoloso e… frequentemente utilizzato. Comprende l´imposizione di un tetto ai tassi di interesse pagati dal Governo, l´obbligo per le banche di coprire una parte delle riserve obbligatorie con l´acquisto di titoli di Stato, la nazionalizzazione del settore bancario o di alcune parti di esso o l´imposizione di controlli sui flussi di capitali internazionali. Sembrano misure estreme, e infatti lo sono, ma erano molto usate nei Paesi meno sviluppati tra gli anni 60 e gli anni 80. Carmen Reinhart, che sospetta un prossimo ritorno in auge di misure di questo tipo, ricorda che fra il 1945 e il 1980 erano comunemente utilizzate anche negli Stati Uniti e in altri Paesi sviluppati e che diedero un contributo fondamentale alla «liquidazione» dei debiti accumulati durante la seconda guerra mondiale.

Ovviamente, nessuna di queste cinque tattiche esclude le altre; possono essere adottate insieme: in particolare, vanno spesso a braccetto inflazione e repressione finanziaria.
Ripeto: non so come si evolverà questa crisi, ma so che le idee di Elisabeth Kübler-Ross, combinate con le idee di Carmen Reinhart, contribuiscono a far capire meglio cosa c´è dietro le tante notizie che ci stanno arrivando dall´Europa. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

I governi europei nascondono dietro la crisi del debito la loro incapacità di favorire il lavoro.

di Massimo Mucchetti- Il Corriere della Sera

L’ Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c’è in tutto l’Occidente. Nei 34 Paesi dell’Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall’attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell’area Ocse diventerebbero così 100 milioni.

Il diavolo che minaccia l’Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l’enfasi dell’antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l’economia, e dunque l’occupazione. Certo, da tempo la Banca d’Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall’insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l’Italia possa basarsi soltanto sull’estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l’Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?

Forse non è un caso se George Magnus, l’economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date a Marx una chance di salvare l’economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un’impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l’accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.

Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all’agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po’ di inflazione.

Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d’inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell’Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l’euro trema.

In queste condizioni, l’Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell’economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un’altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l’Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l’Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po’ di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l’Italia dovrebbe convincere l’Eurozona ad aumentare l’Iva, così da spostare un po’ di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell’Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
business democrazia Dibattiti Media e tecnologia Potere

Undici Nove.

La guerra terrorismo? L’hanno vinta i terrorizzatori.

Poiché la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, come diceva il barone Carl von Cluasewitz, se facessimo un bilancio della guerra al terrorismo scatenata dall’Amministrazione Bush, scopriremmo chi ha vinto, a dieci anni dal quel tragico 11 settembre, che ne fu la causa scatenante.

Non l’hanno vinta i terroristi islamisti, anche se gli è stata data la grande opportunità di diventare i padroni della scena mediatica, facendone nemici più pericolosi nei breaking news che nel campo di battaglia. L’ultima fiction è andata in onda con la spettacolare uccisione di bin Laden in Pakistan.

Non l’hanno vinta i marines Usa, né i soldati della coalizione alleata: in Iraq non c’è pace, in Afghanistan la guerra continua. In compenso, abbiamo riempito le tv di funerali ai caduti occidentali e staccato la diretta alle vittime civili.

Ma allora, chi ha vinto la guerra? Il grande vincitore è stato il manistream. Ha inventato scenari inesistenti, come le provette di antrace mostrate in diretta tv o il famoso show di Bush, che vestito da pilota di caccia annuncia al mondo “mission accomplished”. Hanno vinto gli inventori del water boarding, delle rendiction, del Patriot Act.

Hanno vinto i neocons che con i loro mezzi mdiatici hanno teorizzato il destino imperiale degli Usa nel mondo post bipolare, vagheggiando un ruolo storico simile a quello che fu dell’Impero Romano. Hanno vinto gli emuli, i reggicoda, i passeggeri del carro del vincitore: i nostrani Ferrara, Farina (alias Agente Betulla), Panebianco. Quest’ultimo, dalle pagine del Corsera applaudì la tortura utile a far confessare quei cittadini britannici di origine pakistana che avrebbero progettato un attentato su un aereo di linea inglese. L’inchiesta stabilì che non ci fu nessun complotto contro la democrazia, se non, appunto, teorizzazioni come quelle sostenute dall’articolo in questione.

Hanno vinto i dietrologi e teorici del complotto di ogni tara e longitudine che, nel tentativo di confutare le tesi ufficiali relative all’attentato alle Torri Gemelle si sono ostinati a guardare il dito, e perso totalmente di vista la foresta. Mentre i terrorizzatori realizzavano su scala globale quello che De Andrè descrisse come l’epoca in cui “chi non terrorizza si ammala di terrore”, la ricerca delle armi di massa divenne la più colossale arma planetaria di “distrazione di massa”: ha permesso alla globalizzazione di dilagare senza controlli democratici, ha permesso alla finanza “creativa” di impestare di titoli marci l’economia reale, ha realizzato la fine del welfare nelle democrazie occidentali.

I terrorizzatori hanno vinto perché sono riusciti a prendere tempo, prima che la catastrofe finanziaria si abbattesse sull’economia Usa; prima che la speculazione infilzasse Grecia, Spagna, Portogallo e ora l’Italia; prima che la protesta popolare spazzasse vie i governi arabi “moderati”. Il maistream si è fatto le ossa con l’Attacco alle Torri Gemelle. Oggi governa il pianeta, alleato fedele della globalizzazione selvaggia. Non sopporta intromissioni della politica, neanche dal presidente Obama. La guerra al terrorismo non è stata la continuazione della politica, ma il suo sudario. Ecco chi sono i terrorizzatori, ecco perché l’11 settembre è il loro decimo compleanno. Auguri. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
democrazia Dibattiti Popoli e politiche Potere

Quelle macerie del berlusconismo che impediscono di rimuovere Berlusconi.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

FORSE, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell’ inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile».

Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s’ accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile.

Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice chei soldi li elargiscea persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell’ Utri, e parecchi altri. Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie.

Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando.

Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera. Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi.

La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell’ ombra. Si è avuta quest’ impressione, netta, quando Dell’ Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l’ avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe». Uno che accetta d’ esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda».

La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un’ ordinaria abitudine omertosa, e questo nell’ ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d’ Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomochiave della crisi. Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l’ arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s’ annebbia, più cresce il sospetto che anch’ egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».

Ma c’ è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l’ odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l’ immagine s’ è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all’ oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell’ Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri ». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali.

Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti. Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto tornia posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d’ interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d’ interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch’ essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po’ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l’ iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l’ opera di Visco e Prodi contro l’ evasione fiscale.

Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘ 46. Come spiegare in altro modo l’ incuria, l’ impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati? Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia,e nonè poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d’ aver acquistato a caro prezzo azioni dell’ autostrada Serravalle, quand’ era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall’ imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l’ ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano ). Prudenza avrebbe consigliato l’ allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l’ uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s’ espugna coni figli del berlusconismo.

Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s’ imbocca quando – finite le guerre – urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d’ interesse, Chiesa compresa.

Liberare l’ Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi serviràa poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ‘ 93-‘ 94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.(Beh, buona giornata),

Share
Categorie
Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E’ finito il postmoderno. Non se ne poteva più.

di EDWARD DOCX-la Repubblica

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2011 Prospect magazine Distributed by The New York Times Syndicate – EDWARD DOCX

Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la “prima retrospettiva globale” al mondo intitolata Postmoderno – Stile e sovversione 19701990. Un momento…. Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l’ ho mai capito.

Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è “postmoderno”. E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante.

Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l’ idea predominante della nostra epoca. Allora: di che cosa si è trattato, esattamente?

Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c’ era prima: il modernismo.

A differenza, per esempio, dell’ Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all’ apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull’ unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l’ opportunità, la ripetizione.

Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l’ apparenza e l’ ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l’ America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo.

I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell’ identità, del progresso storico e della certezza epistemica. Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico.

Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un “forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’ individuo, l’ intero territorio del dibattito occidentale”.

Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell’ intellettuale francese JeanFrancois Lyotard intitolato ” The Postmodern Condition “, nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine “verità” in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce – sostenne ancora Lyotard – che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano.

Questo confluire di interpretazioni costituisce l’ essenza del postmodernismo. Purtroppo, il 75 per cento di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia “continentale” per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via. Due sono gli elementi importanti.

Il primo è che il postmodernismo è un’ offensiva non soltanto all’ interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d’ arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l’ idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati.

Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento.

Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios Illuminismo. Bye bye Romanticismo.

Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti – classe sociale, genere, sesso, etnia – e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c’ è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall’ autodeterminazione alla determinazione dell’ altro.

Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l’ impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell’ ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando “soltanto” una delle possibilità che possiamo utilizzare.

Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l’ idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati. Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d’ arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo – mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale – è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione.

Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente.

Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell’ estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è.

Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l’ egemonia dei marketplace.

Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo.

La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d’ arte. Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale.

Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci.

Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell’ attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare.

Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero.

Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l’ autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell’ etica. I valori tornano ad avere importanza.

Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca.

Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata. Queste tre idee – specificità, valori, autenticità – sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla “l’ Età dell’ Autenticità”. Vediamo un po’ come andranno le cose. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Giorgio Napolitano: aver negato la portata e la gravità della crisi ha indebolito l’Italia in Europa, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire il linguaggio della verità.

Intervento del Presidente Napolitano al Meeting per l’amicizia fra i popoli
Rimini, 21/08/2011 (da quirinale.it)

Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l’ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l’occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l’Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo, in un’obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

D’altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell’Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell’Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa – da parte delle istituzioni e dei cittadini – delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo – negli itinerari dell’educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica – di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel “moto di riappropriazione” di cui parlavo : e non solo dall’alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

Ma “l’esame di coscienza collettivo” che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l’unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare – e ha in effetti abbracciato – il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l’on. Lupi ha voluto ricordare.

Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un’esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l’Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l’emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d’aggressione e l’umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all’eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l’Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi – riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 – “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare – e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani – il linguaggio della verità : perché esso “non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.

Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l’Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all’Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull’evoluzione del benessere degli italiani dall’Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo – superiore a ogni immaginabile previsione iniziale – del prodigioso balzo in avanti compiuto dall’economia e dalla società nazionale dopo l’Unità e in special modo grazie all’accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell’unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

Si impone perciò un’autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese – Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica “misura della felicità”, in quelle sedi si è richiamata l’attenzione su altri fattori : “è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana”. E’ a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno – in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato – aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del “desiderio”.

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

Quell’autentica svolta che oggi s’impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell’Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell’abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell’evasione di cui l’Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E’ una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

L’Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico – fosse pure solo panico – di una possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l’Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall’altro troppo esitante sulla via di un’integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia implica riforme : dopo l’avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com’è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E’, in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l’esperienza della straordinaria stagione dell’Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell’Italia dell’impegno civile e della solidarietà, dell’associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di “giuste forme di collaborazione” – secondo le parole di Benedetto XVI – “fra la comunità civile e quella religiosa”.

Ma potrà anche l’apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l’Italia ? Ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all’interno e vengono dall’esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell’alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell’attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l’America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell’amicizia tra i popoli – si pensi alla tragedia del Corno d’Africa – che è iscritta nella stessa ragion d’essere del vostro Meeting.

Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell’attività politica. C’è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell’impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza. E’ per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, “una risorsa umana per il nostro paese”. Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento.(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi secondo Marx ed Engels.

Dio è morto, Marx no, da olivero.blogautore.repubblica.it

Il primo segnale che qualcosa di importante stava accadendo da quelle parti è stata una recensione apparsa sul Financial Times, non proprio un Quaderno rosso. Parlando del libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché scoprire l’eredità del marxismo, lo definiva poco meno di un capolavoro di accuratezza, profondità e rigore. Un testo in grado di “diradare le nebbie del Ventesimo secolo”. Nientemeno. Il giornale della City, tempio del capitale, del mercato e del liberismo riconosceva al vecchio nemico comunista qualcosa di più dell’onore delle armi. Forse come accade a certi personaggi dei film che, rimasti senza la loro nemesi, non riescono a rassegnarsi e non possono posare lo sguardo sul campo di battaglia ormai deserto.

Quale che sia la motivazione profonda, il Ft ha ragione: Hobsbawm, uno dei più grandi storici viventi, ha raccolto una serie di saggi sul marxismo che escono dal campo accademico e proiettano quelle dottrine, quelle istanze, quelle parole sull’oggi. Le grandi intuizioni di Engels, per esempio, restano sorprendenti quasi più ora che a metà dell’800 quando le scrisse: l’assorbimento della politica nell’economia; l’amministrazione delle cose che soppianta il governo degli uomini; la capacità di trovare regole quasi scientifiche nell’alienazione degli operai e della società laddove altri vedevano soltanto disordine mentale; l’idea che le crisi a periodicità regolare fossero un aspetto integrante del capitalismo; l’unificazione delle grandi istanze della Rivoluzione francese con quelle del nuovo proletariato britannico che avrebbe generato una dottrina più pura in vista di una contrapposizione sociale più pura, quella tra operai e padroni anziché tra borghesi e aristocratici; le difficoltà pratiche in cui si sarebbe trovato un partito di massa di fronte a decisioni epocali; la fine della famiglia tradizionale a opera del capitalismo (su questo punto il Vaticano potrebbe trovare inaspettati compagni di strada).

Tutto elencato, analizzato e ricostruito da Hobsbawm con chiarezza e metodo, lo stesso metodo mutuato da Marx ed Engels, che rimasero sempre in questo, nonostante le discipline a cui diedero vita, due filosofi. Perché, “solo un individuo libero dalle illusioni della società borghese può essere un valido scienziato sociale”. Infatti mai nelle loro analisi i due autori del Manifesto usarono parole di disprezzo contro i capitalisti o i borghesi, ma sempre contro il grande “ismo”, l’ideologia che trasforma gli sfruttatori in una classe “profondamente immorale, incurabilmente corrotta dall’egoismo, corrosa nel suo essere”. I più scientifici tra i pensatori, ricorda il libro, si sono lasciati andare a profezie da brivido (e con echi che richiamano certe pagine mistiche di Simone Weil) regolarmente avveratesi: “La società borghese ha prodotto mezzi di produzione così potenti che rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate; i rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi prodotta”.

Lo scenario è fin troppo evidente a tutti. Il mercato ha vinto su ogni cosa, la politica si è ridotta a specchio della finanza. Non si produce, si scommette. Non si progetta, ci si indebita. Non si assume, si affitta. Non si costruisce, si rimanda. Non si spera, si consuma. Tutto già detto, tutto già scritto. Tutto finito. Il campo di battaglia è vuoto. Nessun sol dell’avvenir risplende all’orizzonte. Nessuno spettro si aggira per l’Europa. O no? (Beh, buona giornata).

Eric Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (tr.it. L. Clausi, Rizzoli, 22 euro)

Share
Categorie
democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Guerra&Pace Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

I ricchi vogliono pagare le tasse e scavalcano a sinistra la sinistra.

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”, (dal blog di GAD LERNER).

E’ impazzito il plurimiliardario Warren Buffett, re degli speculatori, che spiattella sui giornali gli scandalosi benefici fiscali di cui gode negli Usa? Soffrono forse di masochismo, qui in Italia, un finanziere come Pietro Modiano e gli imprenditori Carlo De Benedetti (azionista di questo giornale), Luca Cordero di Montezemolo, Anna Maria Artoni, favorevoli alla promulgazione di un’imposta sui grandi patrimoni di cui sono detentori? Perché mai, di fronte al concreto rischio di collasso del sistema, non viene richiesta dai politici di sinistra una vera tassa sulla ricchezza, nell’interesse delle classi subalterne che dovrebbero rappresentare?

E’ davvero singolare questo mondo alla rovescia in cui sembrerebbe toccare ai “ricconi” occidentali illuminati pure il privilegio di indicare la retta via della perduta giustizia sociale. Non bastasse il loro dominio sull’economia, possibile che abbiano sequestrato pure la leadership dell’analisi sull’iniqua distribuzione delle risorse cui la politica sarebbe chiamata a porre rimedio?
Nessuno come loro è consapevole della sproporzionata ricchezza accumulata da pochi, nei decenni in cui la finanza ha assoggettato l’economia reale. Se dunque auspicano un inasprimento del prelievo fiscale sui detentori di grandi patrimoni, è innanzitutto per un motivo –diciamo così- pratico: l’aumento delle tasse negli Usa, o il pagamento di una cospicua “una tantum” in Italia, non inciderebbero significativamente sul loro tenore di vita, sui loro consumi, e neanche sulle loro attività imprenditoriali.

Suppongo poi che i “ricconi illuminati” favorevoli all’imposta patrimoniale traggano dalla personale autocoscienza di cui ci rendono compartecipi altri motivi di riflessione: uno morale e uno esistenziale.
Sul piano morale, credo siano ben consci di avere goduto di un boom tutt’altro che armonico, caratterizzato dal patologico acuirsi delle disuguaglianze di reddito. Se in passato potevano illudersi che la ricchezza crescesse anche intorno a loro, se non grazie a loro, oggi è evidente il contrario.

Sul piano esistenziale, mi spiego il favore manifestato da finanzieri e capitalisti illuminati per un’imposta patrimoniale come estrema forma di attaccamento al sistema che li ha generati prima di degenerare. Nessuno come loro, che ne sono gli emblemi, desidera il suo salvataggio.
Sconcerta la modesta attenzione prestata in Italia, dove lo scandalo dell’evasione fiscale rende ancora più evidente l’ingiustizia, e il debito pubblico rende più stringente la necessità, ai buoni argomenti della patrimoniale. Quasi nessuno ha riflettuto sui calcoli esposti l’8 luglio scorso, in una lettera al “Corriere della Sera”, dal finanziere Pietro Modiano (che pure si autocandidava a “vittima” della medesima imposta).

Un prelievo del 10% sui patrimoni (escluse le case e i titoli di Stato) degli italiani più ricchi, il 20% della popolazione, fornirebbe un gettito di circa 200 miliardi. Quasi cinque volte la manovra biennale del governo. Riporterebbe il debito in rapporto al Pil vicino al 100%, conseguendo un obiettivo irraggiungibile da molteplici leggi finanziarie. Gli interessi sul debito godrebbero di una riduzione di 8 miliardi l’anno. E gli italiani ricchi chiamati a sopportare questo sacrificio –non tale da intaccare il loro benessere- potrebbero essere ricompensati con detrazioni fiscali negli anni successivi.
Fantaeconomia? Ma non è forse già un’apocalittica sequenza di fantaeconomia quella che stiamo vivendo dall’estate del 2008?

Resta da capire come mai tale istanza di drastica redistribuzione degli oneri fra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei meno abbienti, non stia in cima ai programmi della sinistra. E’ vero che ora il Partito democratico propone un supplemento di tassazione sui capitali scudati da Tremonti a quote di mero realizzo. Ma, a parte la dubbia costituzionalità di un tale provvedimento, esso continua a rivolgersi solo agli esportatori della ricchezza, non al suo complesso.

Parrebbe che un leader progressista, sia pure il presidente degli Stati Uniti, figuriamoci il segretario di un partito della sinistra italiana, si senta condannato a escludere come temerario ciò che invece ha osato sbattergli in faccia Warren Buffett. Hanno paura di passare per socialisti (o comunisti). Si illudono che la loro autorevolezza derivi ancora dalla sottomissione alle regole di un sistema giunto allo sfascio, solo perché i rapporti di forza sono tuttora dominati dagli hedge funds e dalle banche d’affari che hanno contribuito a salvare. Restano al di fuori della loro immaginazione soluzioni radicali prospettate invece da chi in passato ha saputo approfittare della fragilità della politica.

Lo scetticismo con cui i mercati hanno accolto la manovra economica italiana, ma soprattutto i conflitti sociali che scaturiranno dalla crisi dell’economia reale, ben presto si incaricheranno, ahimè, di spazzare queste cautele. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: