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3DNews/Jack Caldoro e Giggino Matthau, la strana coppia a Napoli.

Luigi De Magistris

Il sindaco e il governatore si inseguono sulla scena mediatica, rivaleggiano ma alla fine si sostengono
di Oscar Aldino

Stefano e Giggino come Felix e Oscar nella celebre commedia di Neil Simon. Jack Lemmon (Felix) è un tipo preciso, pulito, maniaco dell’ordine. Walter Matthau (Oscar) è uno che azzarda, impetuoso e pokerista. Diversi in tutto, ma costretti a coabitare nello stesso appartamento. Alla fine ognuno impara qualcosa dall’altro.

Che ne dite? Non sembrano, gag a parte, Caldoro e De Magistris? Si chiama collaborazione istituzionale, ma qualcuno la definisce “cazzimma” per necessità. Divorziati entrambi dalle tortuose logiche di coalizione (come Felix e Oscar dalle rispettive mogli), sbarcano il lunario, l’uno governando con ordine e precisione compulsiva la cassa regionale (e tenendo a distanza Cosentino), l’altro promettendo impetuose “rivoluzioni nel modo di fare politica” (e tenendo vicini gli indignati). Sono opposti, nel fisico e nei programmi, ma preferiscono aiutarsi, piuttosto che cedere a capipartito e ras elettorali. E poi non si sa mai. Con i tempi che corrono meglio ripararsi sotto la pensilina della collaborazione che ritrovarsi inzuppati d’acqua sotto la tempesta perfetta della politica italiana.

E allora via alla prima foto di famiglia: a Capodichino insieme per accogliere il vicepresidente Usa Joe Biden e sua moglie Jill. Poi, insieme a polemizzare con la Lega, insieme a Plymouth per la Coppa America a Napoli, insieme per il Forum delle culture (presidente in quota sindaco, direttore in quota governatore), insieme per togliere i rifiuti dalle strade durante la crisi e ora quasi d’accordo (sarà vero?) sul termovalorizzatore partenopeo che emigrerebbe da Napoli est a Capua, per la gioia di Giggino e il disappunto di qualche amico del governatore. Finanche propensi all’uso combinato delle “piazze”, perché ce n’è una di protesta e un’altra di proposta. “Uniamole “, esorta Caldoro, affidando la prima al sindaco e riservando, da buon riformista, la seconda per sé. “Non esistono due piazze –schiva la classificazione il sindaco- ma esiste un solo luogo sociale e politico”.

Comunque sia, Jack Caldoro e Giggino Matthau, quando possono, si scambiano garofani e bandane. E si rincorrono, in questa corsa all’aplomb istituzionale e alla notorietà pubblica, sui media e sui social con un diluvio di video, contatti, pagine fan, “mi piace”, tweet e amici fb. Falangi di giovanissimi, interpreti del “nuovo”, a guidare la macchina della comunicazione o a fare il tifo per il sindaco del popolo o per il governatore persona perbene.

Protagonisti per caso, si inseguono sulla scena mediatica, rubando all’altro qualche virtù e anche qualche trucco del mestiere. Caldoro non disdegna ora la platea, i new media e alza pure la voce col governo. De Magistris continua a bucare il video, è padrone dei social (più di 270mila fan su fb e 36mila sulla pagina di sindaco), ma non disprezza qualche conticino e si appella al governatore: “Mi devi 12 milioni di euro per le buche stradali”.

Felix e Oscar, al secolo Stefano e Giggino, hanno davvero “scassato” ogni previsione. Meglio, per il governatore, elogiare il modello De Magistris che dare punti e credito al centro-sinistra. Meglio, per il sindaco, accordarsi con chi tiene la cassa regionale che invischiarsi in rapporti troppo stretti col Pd e rinunciare al “movimento”. La strana coppia funziona.

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Dibattiti Media e tecnologia Potere

3DNews/USA, storica gaffe in TV di uno sfidante di Obama.

“ Ooops… non ricordo più quale ministero taglierò”
Perry, uno dei candidati repubblicani, dimentica i punti del suo programma
Di Valerio Bassan

Texano, famoso per il suo pugno di ferro, Perry ha dovuto chiedere scusa: “Il candidato perfetto non esiste e io ne sono la prova”. Per gli analisti poltici, però, la gaffe pone fine alle sue speranze di vittoria.

In qualsiasi campagna elettorale, si sa, l’abilità oratoria è importante. Se poi il tuo obiettivo è sfidare Barack Obama, che fa della finezza retorica il suo cavallo di battaglia, lo è ancora di più. Per questo Rick Perry, fino a ieri tra i più accreditati a condurre il partito repubblicano alle elezioni del 2012, pare aver messo una pietra tombale sulle sue ambizioni politiche. Il governatore del Texas è stato infatti protagonista di una gaffe che negli Usa hanno definito “la peggiore di tutta la storia del dibattito politico”: in un confronto pubblico con i rivali alla Casa Bianca, trasmesso in diretta nazionale dalla Cnbc, Perry si è dimenticato i punti del proprio programma elettorale. Colto in errore come uno scolaretto delle elementari, il successore di Bush al governo del Texas ha dovuto fare pubblica ammenda. La gaffe è avvenuta durante un dibattito tra i sette candidati repubblicani per la presidenza, tenutosi mercoledì nell’università di Oakland, nel Michigan.

Perry discute col rivale Ron Paul, elencando i tagli che apporterà ai dipartimenti governativi, da lui considerati uno spreco di denaro: «Oggi ce ne sono troppi. Quando sarò al potere ne eliminerò tre: l’agenzia del Commercio, quella dell’Educazione e…e…ehm…». Di colpo il governatore si blocca, tra lo stupore generale. «Ehm..qual è la terza che volevo dire?», aggiunge con imbarazzo. «Magari sono cinque», «Forse l’Epa, l’ente per la protezione ambientale?», lo prendono in giro gli altri candidati. Perry ride, prova a sdrammatizzare. Ma John Harwood, il moderatore, lo incalza: «Seriamente, è davvero l’Epa la terza agenzia che vuole abolire?». «No, sir», replica Perry abbassando la testa. «Qual è allora?». Perry ricomincia l’elenco con incedere traballante, mentre il pubblico in sala comincia a rumoreggiare: «Commercio, educazione, e…ehm…uhm, vediamo..no, non la so. Non la so» si arrende, dopo aver cercato di sbirciare tra i suoi appunti. «I’m sorry. Oops», conclude.

“Oops”: queste quattro lettere, secondo gli analisti americani, segneranno per sempre il futuro della carriera politica di Perry. Il candidato conservatore, soprannominato dagli oppositori “la sedia elettrica” per le 234 esecuzioni registrate in Texas dall’inizio del suo governo nel 2000, ha dovuto chiedere pubblicamente scusa per “i 53 secondi più imbarazzanti della storia del dibattito politico”. In un collegamento con la Bbc qualche ora più tardi Perry ha ammesso: «Non esiste un candidato perfetto e io in qualche modo ne sono la prova.

Tutti facciamo errori. Non sono un gran dibattitore, lo sapete. Ma se gli Stati Uniti cercano un conservatore dalle radici profonde in grado di raddrizzare l’America, ecco, quello sono io». Il texano si dice convinto che la storica figuraccia non fermerà la sua campagna e anzi potrebbe addirittura avvantaggiarlo, rendendolo più “umano” agli occhi degli elettori. I columnist politici non sembrano però d’accordo: secondo loro infatti la credibilità di Perry come candidato difficilmente si rialzerà dopo la gaffe. Intanto Barack Obama, comodamente seduto nello Studio Ovale a pochi metri dal caminetto acceso, si frega le mani.
Da www.linkiesta.it

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Media e tecnologia pubblicato su 3DNews, Società e costume

3DNews/Fiorello ci prova con twitter e il social show.

Fiorello ci prova con twitter
Social show

Per la prima volta in prime time un mix tra il varietà, il web e i social network
di Lorenza Fruci

Per chi è poco social e poco network, sapere che Fiorello tornerà in Rai dopo 7 anni con il primo “social show” sembra non avere rilevanza. Di fatto però, dopo “#Il più grande spettacolo dopo il weekend”, la tv avrà fatto un altro piccolo passo verso il cambiamento anche per anche per quelli che “Io facebook mai!”.

Oltre ad essere l’evento più importante del palinsesto autunnale, il nuovo programma di Fiorello -che inizierà il 14 novembre e per ora andrà avanti per quattro lunedì- è stato presentato in conferenza stampa come il primo esperimento di commistione in prima serata tra il varietà, il web e i social network.

Lo stesso cancelletto presente nel titolo viene dal web e in particolare da twitter, il sociale network con il quale Fiorello ha realizzando (intenzionalmente?) la campagna pubblicitaria più significativa per il suo ritorno in Rai.

I video della rassegna mattutina con l’edicolante, i commenti, le foto, le notizie relative allo show in costruzione hanno viaggiato sul web in maniera velocissima e senza filtri. Altro che teaser: in due mesi Fiorello ha raccolto oltre 86.000 followers e 100 di questi li porterà anche in tv…, praticamente roba da esperti di marketing.

La sua frequentazione di twitter è stata capace di creare grande attesa e coinvolgimento anche da parte degli utenti del web, confermando l’idea che l’ultima frontiera/salvezza della tv sia la sua interazione con internet, intesa sia come commistione tra media che nuova comunicazione tra e per diverse utenze. L’aspetto più interessante della relazione tra questi due mezzi resta però l’influenza tra i loro linguaggi: lo stesso Fiorello ha dichiarato che molti dei monologhi che proporrà durante il suo nuovo show sono stati ripetutamente accorciati perché non aveva senso parlare ininterrottamente per oltre 10 minuti.

Non è forse questo un pensiero influenzato dalla sintesi di twitter che non permette di usare più di 140 caratteri? Anche la tv per comunicare con il mondo che è fuori dal suo schermo deve imparare a parlare il linguaggio del web e dei social network. A detta di Fiorello “#Il più grande spettacolo dopo il weekend”, che è stato ideato con Giampiero Solari come un omaggio alla tradizione dei grandi varietà anni 60-70 (non a caso si svolgerà presso lo studio 5 di Cinecittà), sarà un “social network varietà”. Ben venga quindi un nuovo genere di una tv che guarda verso il futuro, le cui parole d’ordine siano sintesi, velocità e interattività.

Ma interattività è anche sinonimo di imprevedibilità che non va proprio d’accordo con le scalette televisive: qui entra in gioco il discorso dell’identità del web che non può entrare in tv senza perdere qualcosa di sé, cioè la partecipazione diretta.

Il noto McLuhan diceva che “il medium è il messaggio” e nel caso della televisione si tratta di un mezzo che conforta, consola, conferma e “inchioda” gli spettatori in una stasi fisica e mentale poiché favorisce lo sviluppo di una forma mentis non interattiva, al contrario di internet e di altri ambienti comunicativi a due o più sensi. Dunque, se la sfida oggi è quella di portare il web in tv e di far convivere i due mezzi, aspettiamo di vedere se ci sarà riuscito, e in che modo, Fiorello e la sua squadra.

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Cinema Cultura

3DNews/Cinema e Filosofia, “Warrior”: se non ti muovi muori.

Warrior

Per Eraclito non c’è realtà senza movimento e polemos

di Riccardo Tavani

Famosa è la foto della portaerei americana “Enteprise” con l’intero equipaggio schierato sul ponte a comporre la formula della Relatività E=mc2. Scienza e potenza, forza e intelligenza, questo il messaggio esplicito contenuto efficacemente nell’immagine. Oggi quel binomio sembra essersi scisso, proprio mentre l’America attraversa una crisi che ne minaccia la stessa sicurezza economica interna.

Brendan Conlon è un insegnante di fisica, felicemente sposato e padre di due bambine, ma ha acceso un mutuo per pagare la casa e ora la banca lo ha messo in mutande e gliela sta sequestrando. Tom Conlon, fratello di Brendan, invece, riappare una notte dall’abisso della guerra in Iraq dove ha visto tutta la sua squadra e il suo migliore amico massacrati dal fuoco amico dell’aviazione americana. Si è trascinato dentro un potenziale di rabbia incontenibile e distruttivo.

I due fratelli non hanno più rapporti da molti anni. Tom ha seguito la madre quando ha abbandonato il padre alcolizzato e manesco in famiglia. Brendan è rimasto con il padre, perché era già innamorato di Tess che poi ha sposato. Tom e sua madre hanno fatto una vita di stenti che ha portato la donna a morire dopo pochi anni. Anche Brendan appena ha potuto ha rotto completamente con il padre e si è fatto una sua vita lontano da lui. Eppure quel vecchio ubriacone e violento di Paddy Conlon aveva fatto diventare quei due ragazzi campioni di lotta greco romana, essendo uno dei migliori allenatori nel campo.

E ora sia Tom che Brendan, per vie parallele ed entrambi per tirare su soldi tornano a combattere. Il primo per aiutare la vedova dell’amico ucciso in guerra, il secondo per non farsi togliere la casa dagli strozzini della banca. Tom riallaccia i rapporti con il padre ma limitatamente agli allenamenti, Brendan si affida al preparatore Frank Campana. Ad Atlanta è indetto il più micidiale scontro diretto tra i migliori sedici lottatori d’America con una borsa in palio di cinque milioni di dollari.

Il ring è costituito da una grande gabbia metallica ed entrambi i fratelli vi si infileranno dentro. E qui rientra in ballo la questione della forza e dell’intelligenza. Tom si fa preparare dal padre solo dal punto di vista atletico, dell’alimentazione corretta, della resistenza fisica, perché la rabbia e la potenza ce la mette tutta lui e nessuno può fermarlo. Frank, il preparatore di Brendan, ha invece una sua filosofia di allenamento in cui fa uso anche della musica classica, per far capire quale sono i diversi ritmi di un combattimento. Sulla lavagna del suo ufficio c’è scritto: “Se non ti muovi muori”. Muoversi non solo e non tanto con le braccia quanto con la testa, cogliendo i rapidi mutamenti di ritmo, di situazione nella gabbia.

Accanto alla lavagna di Frank con quella scritta c’è anche una foto giovanile di Nietzsche e questo non è certo comune in una palestra di lotta greco-romana. Eppure il filosofo tedesco, che era innanzitutto un docente di filologia greca, è stato uno dei più grandi studiosi ed estimatori di Eraclito.

In Eraclito non solo tutta la realtà è movimento, cambiamento, ma è anche “polemos”, guerra, combattimento. Nel senso più profondo potremmo intendere il movimento non tanto come spostamento nello spazio ma come rottura della uniformità. Muoversi da un abitudine e attitudine statica, uniforme di pensare, guardare, agire. Non solo la realtà è movimento ma senza movimento non si dà proprio realtà. Così la vera staticità è l’uniformità, e il polemos, il combattimento, la rottura è contro questa intesa come vero nulla. Anche la forza se caratterizzata da uniformità d’azione è niente.

Simile alla scritta sulla lavagna di Frank è una frase della coreografa Pina Baush, posta come sottotitolo al film che le ha dedicato Wim Wenders: “Danziamo, danziamo, altrimenti siamo persi”. E niente meglio della danza, del ritmo, della musica rappresenta questo moto di continua rottura dell’uniformità, la quale uccide e smarrisce la realtà. Per questo Brendan entra nella gabbia accompagnato da un poderoso canto di lode al movimento interiore della vita: “L’inno alla gioia” di Beethoven.

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3DNews/For Lloyd, anarchia e terrore II.

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Cultura Fumetti.

3DNews/For Lloyd, anarchia e terrore I.

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Media e tecnologia

3DNews, edizione straordinaria su Beh, buona giornata. Online a mezzanotte.

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Telecom toglie la pubblicità al Comune di Roma: troppa illegalità.

Roma è invasa dai cartelloni pubblicitari, che spesso vengono posizionati senza alcun rispetto del decoro e dell’importanza storica e archeologica della città. Per questo Franco Bernabé, presidente di Telecom Italia, ha annunciato dalle pagine di Repubblica alcuni giorni fa che l’azienda si impegna a non pianificare più pubblicità sugli impianti che si trovano sulle strade, per stimolare una maggiore presa di coscienza sulla questione che porti a una più efficace regolamentazione.

“Sto riorganizzando il settore e avvierò un’azione di moral suasion anche con altre aziende – ha dichiarato Bernabè al quotidiano – . Sono in gioco la sicurezza urbana e stradale oltre che il decoro”.

D’accordo anche Flavio Biondi, presidente di IGPDecaux, importante multinazionale che opera proprio nel settore della comunicazione esterna e che ha vinto l’appalto per le affissioni pubblicitarie nella metropolitana, sugli autobus e sui tram della capitale. Il manager, in un’intervista pubblicata il 10 novembre, da Repubblica, dichiara che IGPDecaux è pronta a togliere i suoi 300 impianti stradali pur di incentivare un più alto livello di legalità.

La deregolamentazione vigente, che porta a un sovraffollamento di impianti, danneggia non solo le aziende di publicità esterna ma, come dichiara Biondi al quotidiano, anche gli investitori, “perchè non sanno se la loro pubblicità andrà a finire su un impianto regolare o no”.

Primo respossabile di questa deregolamentazione è il Comune, che ha istituito un sistema “in base al quale qualsiasi ditta che ha installato dei cartelloni paga un canone in cambio del quale ottiene l’inserimento in una banca dati”. Il risultato? Pur di raccogliere fondi, vengono autorizzati anche gli impianti abusivi e la città si trasforma in una giungla selvaggia di cartelloni pubblicitari, che sorgono in ogni dove, senza il minimo controllo.

E’l’ennesima inefficenza da ascrivere alla giunta presieduta da Alemanno, con il relativo danno economico alle casse del comune. Senza contare il danno alla reputazione della città, se l’esempio dovesse essere seguito da altri importanti marchi italiani e stranieri. Beh, buona giornata.

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Attualità

Billy Bilancia, un anno dopo.

Sabato 3 dicembre alle ore 18 sarà celebrata una messa presso la Chiesa degli Artisti, in Piazza del Popolo a Roma, nel primo anniversario della morte di Billy Bilancia.

Un anno fa, dietro il bancone del corner aperitivi di Vanni, famoso bar di Roma, mentre era intento alla preparazione di un Martini cocktail, Billy fu colto dal malore che se lo portò via. I medici dissero che non aveva sofferto. Come un grande attore, Billy è morto sul palcoscenico, di fronte al suo pubblico. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

L’ora è grave: ecco la dichiarazione integrale del Presidente Napolitano.

Ecco la dichiarazione integrale del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, resa nota dal Quirinale.

“Di fronte alla pressione dei mercati finanziari sui titoli del debito pubblico italiano, che ha oggi toccato livelli allarmanti, nella mia qualità di Capo dello Stato tengo a chiarire quanto segue, al fine di fugare ogni equivoco o incomprensione:
1) non esiste alcuna incertezza sulla scelta del Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi di rassegnare le dimissioni del governo da lui presieduto. Tale decisione diverra’ operativa con l’approvazione in Parlamento della legge di stabilità per il 2012;
2) sulla base di accordi tra i Presidenti del Senato e della Camera e i gruppi parlamentari sia di maggioranza sia di opposizione, la legge sarà approvata nel giro di alcuni giorni;
3) si svolgeranno quindi immediatamente e con la massima rapidità le consultazioni da parte del Presidente della Repubblica per dare soluzione alla crisi di governo conseguente alle dimissioni dell’on. Berlusconi;
4) pertanto, entro breve tempo o si formerà un nuovo governo che possa con la fiducia del Parlamento prendere ogni ulteriore necessaria decisione o si scioglierà il Parlamento per dare subito inizio a una campagna elettorale da svolgere entro i tempi più ristretti.
Sono pertanto del tutto infondati i timori che possa determinarsi in Italia un prolungato periodo di inattività governativa e parlamentare, essendo comunque possibile in ogni momento adottare, se necessario, provvedimenti di urgenza”.(Beh, buona giornata).

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democrazia Politica

Il comunicato del Quirinale che annuncia le dimissioni di Berlusconi. (Il governo non c’è più, lui però c’è ancora).

da quirinale.it

Il Presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato una volta compiuto l’adempimento dell’approvazione della Legge di Stabilità

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa sera in Quirinale il Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, accompagnato dal Sottosegretario dott. Gianni Letta. All’incontro ha partecipato il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Consigliere Donato Marra.

Il Presidente del Consiglio ha manifestato al Capo dello Stato la sua consapevolezza delle implicazioni del risultato del voto odierno alla Camera ; egli ha nello stesso tempo espresso viva preoccupazione per l’urgente necessità di dare puntuali risposte alle attese dei partner europei con l’approvazione della Legge di Stabilità, opportunamente emendata alla luce del più recente contributo di osservazioni e proposte della Commissione europea.

Una volta compiuto tale adempimento, il Presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato al Capo dello Stato, che procederà alle consultazioni di rito dando la massima attenzione alle posizioni e proposte di ogni forza politica, di quelle della maggioranza risultata dalle elezioni del 2008 come di quelle di opposizione. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Romano Prodi: il G20 ha messo sotto torchio il governo, non il Paese.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Il G20 di Cannes era partito con un obiettivo ed è finito con un altro. Per mesi la roboante regia francese ci aveva annunciato che questo sarebbe stato il vertice delle grandi riforme del sistema finanziario internazionale. Un obiettivo più volte ripetuto anche se politicamente impossibile perché le grandi riforme non si fanno in un periodo in cui nessuno ha interesse a farle. Non gli Stati Uniti perché con qualsiasi riforma perderebbero i loro ingiustificati privilegi, non la Cina perché ha tutto l’interesse a rinviare le riforme a quando sarà più forte e più pronta, non l’Europa perché a Bruxelles non comanda nessuno e nelle diverse capitali ognuno la racconta per conto suo. Tolto ogni grande progetto di riforma è rimasta in agenda l’emergenza della zona euro. In teoria il G20, rappresentando tutti i grandi Paesi del mondo, avrebbe dovuto aiutare il confezionamento di un paracadute per l’attuale crisi europea ma tutti i grandi, a cominciare dalla Cina, hanno fatto marcia indietro quando si sono resi contro che nemmeno i Paesi europei erano disposti ad aumentare il proprio contributo nei confronti del Fondo salva-Stati (Efsf).

Di fronte all’impossibilità di accordo su nuove regole e di fronte al rifiuto di raccogliere nuove risorse per fare fronte all’emergenza, l’unica strada rimasta al G20 è stata quella di fare la voce grossa di fronte ai Paesi devianti. A questo punto si è snodato l’aspetto per noi drammatico e inatteso: il processo cominciato nei confronti della Grecia si è trasformato in un serrato dibattimento contro l’Italia, con tanto di condanna ad un lungo periodo di libertà vigilata. E per essere sicuri che i comportamenti del condannato non si discostino dagli obblighi contenuti nella sentenza è stato deciso un doppio controllo sia da parte della Commissione Europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Un’umiliazione nei confronti dell’Italia del tutto inedita e, da parte di molti osservatori, ritenuta eccessiva anche tenendo conto delle difficoltà oggettive della nostra economia. A Cannes non è stata tuttavia processata l’economia italiana ma la mancanza di credibilità del nostro governo e la sua incapacità sia nel prendere le decisioni necessarie per porre rimedio alle nostre anomalie, sia nel dare attuazione agli impegni faticosamente e tardivamente assunti.

Più che un processo contro l’Italia abbiamo assistito ad un processo contro il governo italiano, ritenuto da tutti gli organismi internazionali non credibile e perciò non degno di fiducia. Un fatto estremamente dannoso perché riportato e ossessivamente ripetuto in tutti i media del pianeta, forse perché dal vertice di Cannes non vi era null’altro da riportare o forse anche perché il folklore del nostro primo ministro fa notizia ovunque. Il primo ministro, durante la conferenza stampa conclusiva, si è difeso descrivendo l’immagine di un’Italia prospera, spendacciona e felice, che potrebbe navigare serena nelle acque tempestose della crisi se non fosse entrata nell’euro con un tasso di cambio sbagliato. Non vale nemmeno la pena di sottolineare l’aspetto tragicamente ridicolo di quest’affermazione: basta ricordare come la fissazione del livello di ingresso della nostra moneta nell’euro a 990 lire per marco tedesco sia stato riconosciuto da tutti gli osservatori stranieri e italiani (compresi quelli appartenenti alla parte politica dell’attuale presidente del consiglio) come un insperato successo per l’economia italiana che, con questo tasso di cambio, poteva entrare nell’euro con la massima capacità concorrenziale possibile.

È doveroso invece sottolineare come questi attacchi all’euro e le ripetute manifestazioni di sfiducia nei suoi confronti siano state nei giorni scorsi una delle principali cause di irrigidimento dei governi europei e di sfiducia dei mercati finanziari nei nostri confronti. La conferenza stampa del premier al termine del G20 ha lanciato infatti un messaggio chiaro: la responsabilità dei problemi e dei guai dell’Italia sarà, nei prossimi mesi e nella prossima o futura campagna elettorale, interamente imputata all’euro. Lasciamo in disparte (perché rientra nel genere del ridicolo) la contraddizione fra la gravità di questi guai e la descrizione del Paese di bengodi che ci è stata propinata e concentriamoci sui danni che anche in futuro ci verranno addosso da un governo che da un lato si è impegnato ad adottare una politica e una disciplina mirate a mantenere l’Italia nell’ambito della moneta unica e, dall’altro, tenterà continuamente di imputare alla stessa moneta unica le conseguenze dei propri ritardi e della propria inazione.

Di fronte a queste prospettive ci conviene prendere per buone le affermazioni di un Twitter che il Financial Times attribuisce al ministro Tremonti. Il ministro dell’Economia avrebbe dichiarato che domani i mercati si aggiusteranno e gli spread diminuiranno solo se Berlusconi si farà da parte. È assai probabile che Tremonti non abbia detto nulla di simile e che la battuta sia da attribuire alla consueta malignità dei giornali inglesi nei nostri confronti, ma ritengo comunque che il consiglio contenuto in questo messaggio sia degno di essere preso in considerazione. (Beh, buona giornata).

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Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Movimenti politici e sociali Politica

La Destra americana ha una gran paura di Occupy Wall Street.

http://argomenti.ilsole24ore.com/paul-krugman.html

Negli ultimi due giorni ho ricevuto mail di gente che mi accusava di connivenza con i nazisti. La mia reazione immediata è stata: ma di che accidenti stanno parlando? Poi ho capito: la destra sta montando una campagna a tutto campo per etichettare Occupy Wall Street come un movimento antisemita, sulla base, a quanto capito, di un cartello esposto da un tizio.

Contemporaneamente, c’è chi accusa il movimento di essere all’origine di un’ondata di criminalità. Secondo un articolo sul New York Post del 22 ottobre, «le recenti sparatorie hanno portato il numero delle vittime di armi da fuoco a New York quest’anno leggermente al di sopra del tragico bilancio dell’anno scorso (1.484 morti contro 1.451) alla data del 16 ottobre. Quattro alti funzionari di polizia puntano il dito contro i manifestanti di Occupy Wall Street, dicendo che le loro proteste costringono la polizia a dirottare le unità speciali anticrimine dalle zone calde, dove ci sarebbe bisogno di loro».

Per credere a una tesi del genere bisogna credere non solo che qualche migliaio di manifestanti non violenti siano capaci di mettere in difficoltà una forza di polizia che può contare su 35mila agenti, ma che tutti gli assassini e gli stupratori dei quartieri periferici stiano dicendo: «Ehi, la polizia è occupata a dare la caccia agli hippy. Scateniamoci!». Per favore.
La prima cosa che mi viene da pensare è che Occupy Wall Street deve aver spaventato parecchio la destra, per spingerla a reagire così. E probabilmente è vero, ma c’è anche da dire che questo è il modo tipico in cui reagisce la destra contro tutti coloro che le si oppongono: accusarli di qualsiasi cosa, non importa quanto implausibili o contraddittorie siano le accuse. I progressisti sono socialisti atei che vogliono imporre la sharia. La lotta di classe è un male, però John Kerry è troppo ricco. E così via.

La chiave di tutta la faccenda, secondo me, è che la destra, in quanto movimento, è diventata un universo chiuso e ripiegato su se stesso, in cui per guadagnare credito non bisogna mostrarsi ragionevoli agli occhi degli elettori indipendenti (anche se qualche raro caso di opinionista di destra che interpreta il suo ruolo in modo professionale c’è), ma bisogna mostrarsi ancora più zelanti e oltranzisti degli altri compagni di strada.

Mi ricorda un po’ le invettive degli stalinisti contro i trotskisti ai vecchi tempi: i trotskisti erano deviazionisti di sinistra e al tempo stesso sabotatori al soldo dei nazisti. Ma i propagandisti non si sentono idioti quando sostengono cose del genere?
Niente affatto: nel loro universo mentale, l’estremismo in difesa di una verità più grande non è un vizio, e non c’è letteralmente limite a quello che si può dire a tale scopo.
Molti illustri commentatori non vogliono accettare il fatto che questo è quello che è diventata la politica americana: si aggrappano all’idea che a destra ci siano anziani statisti gentiluomini pronti a uscire allo scoperto se solo Obama dicesse le parole giuste.

Ma la verità è che da quel lato dello schieramento politico nessuno è disposto o è in grado di fare accordi con il guerrafondaio-antimilitarista-ateo-di-fede-islamica che risiede alla Casa Bianca.
Allacciate le cinture: non sarà per niente piacevole. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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Il Financial Times: in nome di Dio, vattene.

(fonte: ilmessaggero.it)

«In God’s name, go!» (In nome di Dio, vai via!). È l’invito secco e inequivocabile contenuto nell’editoriale di oggi del Financial Times dedicato all’Italia e alla crisi europea.

Il quotidiano britannico, che dedica l’intera apertura della prima pagina alle vicende della crisi dell’euro che ormai ha il suo epicentro a Roma, sostiene che «solo un cambio di leadership potrà ridare credibilità all’Italia». Un cambio di leader «imperativo» anche se, aggiunge, «sarebbe ingenuo credere che quando Berlusconi se ne andrà, l’Italia possa reclamare subito piena fiducia dei mercati».

L’editoriale, il primo contenuto nella rubrica dei
commenti, «senza paura e senza favore», pur dedicando il titolo all’appello verso il presidente del Consiglio Italiano, parte dall’analisi dei risultati del summit del G20 nel quale – sostiene – «i più potenti leader del mondo si sono trovati senza poteri di fronte alle manovre dei due premier europei: George Papandreou e Silvio Berlusconi».

Vengono messe in risalto le similitudini tra i due primi ministri: «Tutti e due si reggono su una sottile e risicata maggioranza parlamentare, e tutti e due stanno litigando con il loro ministro delle finanze. Ma, la cosa più importante di tutte, hanno entrambe la tendenza a rinnegare le loro promesse in un periodo nel quale i mercati sono preoccupati sulle finanze pubbliche dei loro paesi».

Ma – viene evidenziato – hanno anche «una grande differenza: l’Italia ha raggiunto un debito di 1.900 miliardi di euro ed è così alto che è potenzialmente in grado di destabilizzare l’economia del mondo in un modo superiore a quello che potrebbe atene». «La buona notizia – prosegue l’editoriale citando i dati degli spread – è che l’Italia è, ovviamente, ancora un paese in grado di pagare i suoi debiti» anche se «tuttativa i tassi di interessi sul suo debito stanno diventando sempre meno sostenibili».

Il nodo più problematico – viene comunque spiegato – è che l’Italia ha aderito alla richiesta di riforme strutturali raccomandate dall’europa e del G20 che il Fondo Monetario internazionale dovrà monitorare nei suoi progressi. «Ma il rischio che potrebbe minare il paese riguarda il leader attuale: avendo fallito l’obiettivo di realizzare riforme nelle due decadi passate in politica, Berlusconi manca della credibilità per portare avanti questi significativi cambiamenti».

Così, anche se non sarebbe una soluzione a tutti i problemi, «il cambio di leadership è imperativo» e «un nuovo primo ministro impegnato nelll’agenda della riforma potrebbe rassicurare il mercato, che è alla ricerca disperato di un piano credibile per bloccare la corsa del quarto debito più grande del mondo». «Dopo due decadi di inefficace politica da showman, le sole parole da dire a Mr Berlusconi fanno eco a quelle usate da Oliver Cromwell. In nome di Dio, dell’Italia e dell’Europa, vai via!».

Non meno teneri sono poi i contenuti degli articoli della cronaca nelle quali si spiega che, al G20, l’Italia ha accettato un monitoraggio del Fmi «altamente intrusivo» e che questa è una «concessione senza precedenti» per un paese che non è fallito mentre, nel servizio dedicato alla politica italiana, viene titolato così: «il sopravvissuto dell’Italia determinato a durare».
(Beh, buona giornata).

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Attualità

Quello che è successo a Genova si chiama flash flood.

di ANTONIO CIANCIULLO

“Siamo di fronte alle flash flood, le alluvioni lampo. Con picchi di questa intensità ci si trova a fronteggiare all’improvviso 4 mila tonnellate di acqua per ettaro: è una massa spaventosa, un vero e proprio bombardamento. Con piogge così, legate alla tropicalizzazione del clima, il rischio sarà sempre più alto”. Giampiero Maracchi, docente di climatologia all’università di Firenze, commenta il disastro di Genova spiegando in che modo sono cambiate le piogge.

“Le piogge tradizionali”, continua Maracchi, “si misuravano con 40, 60, magari 80 millimetri nell’arco di alcune ore. Adesso siamo di fronte a nubifragi che fanno precipitare, sempre in poche ore, una cortina di acqua da 120 -220 millimetri. Si può arrivare anche a 400 millimetri, cioè a 4 mila tonnellate di acqua per ettaro”.

Dunque il disastro era prevedibile?
“Dipende cosa si intende per prevedibile. Sappiamo che il cambiamento climatico prodotto dall’uso dei combustibili fossili e dalla deforestazione è in corso. Sappiamo che i fenomeni meteo estremi, che sono già diventati più frequenti, capiteranno sempre più spesso. E dunque bisogna attrezzarsi per affrontarli. In questo senso possiamo prevedere un aumento del rischio”.

E in che senso non sono prevedibili?
“L’allerta della protezione civile riguarda l’esistenza di un rischio in una certa area. Ma l’intensità della minaccia, il momento in cui può concretizzarsi e il luogo esatto non sono prevedibili”.

Allora c’è poco da fare?
“Al contrario, c’è moltissimo da fare. A cominciare dalla creazione di un’opinione pubblica informata. Le faccio un esempio. Alla fine dell’Ottocento le mamme non erano particolarmente attente a insegnare ai bambini come attraversare le strade: il numero dei morti prodotti dalle carrozze era tutto sommato trascurabile. Oggi una delle preoccupazioni principali per chi ha figli piccoli e vive in città è spiegare bene che attraversare la strada può essere pericoloso”.

E come si fa a proteggersi dalle piogge?
“Bisogna imparare principi elementari. Ovviamente in caso di nubifragio i sottopassaggi diventano luoghi pericolosi, ma bisogna stare attenti anche se la casa in cui si vive ha dietro una collina poco stabile. Se si sta accanto a un fiume o, peggio ancora, a un torrente che può avere più facilmente una crescita rapidissima. Oppure se si è in una zona con una forte pendenza, con la possibilità che un fiume d’acqua si incanali all’improvviso tra le case”.

Non dovrebbero essere gli amministratori di una città a garantire condizioni di sicurezza che tranquillizzino i cittadini?
“Non c’è dubbio, ma è bene far convivere le due precauzioni. Da una parte i cittadini devono sapere che con il cambiamento climatico la loro vita non è più la stessa. I luoghi cambiano, i rischi cambiano, l’attenzione deve cambiare. Dall’altra parte chi ha la responsabilità della gestione del territorio non può più sperare di farla franca se commette errori”.

Dal Sarno in poi i disastri non sono mancati.
“Appunto. Dal 1990 a oggi siamo a quasi 80 episodi di intensità simile a quella che abbiamo visto a Genova. E’ un numero in crescita. E dunque le possibilità che, chiudendo un occhio sull’abusivismo edilizio e sull’occupazione delle golene dei fiumi, un amministratore riesca a superare indenne il suo mandato sono in netta diminuzione”.

Eppure l’abusivismo non si ferma e di condoni si continua a parlare.
“Mi pare difficile che si possa continuare su quella strada con lo sconquasso climatico che abbiamo prodotto usando un sistema energetico ad alto rischio. Se non si interviene su entrambi i fronti, il passaggio all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili da una parte, e una politica di reale difesa del suolo dall’altra, assisteremo con frequenza crescente ad alluvioni devastanti”. (Beh, buona giornata)
 

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Attualità democrazia Politica Potere

Vecchi altarini di Matteo Renzi.

(fonte: http://www.unioneinquilini.it/index.php?id=528)

Firenze: Ritratto di Matteo Renzi, candidato PD a sindaco. Interessanti i suoi rapporti con dei noti immobiliaristi e altro ancora. Altro che l’Obama fiorentino! (A cura della sinistra unita e plurale (SUP)di Firenze).

Matteo Renzi è figlio di Tiziano Renzi, ex parlamentare della DC e gran signore della Margherita e della Massoneria in Toscana. Il feudo
incontrastato della famiglia Renzi è il Valdarno, dal quale si stanno allargando a macchia d’olio. Il padre di Matteo controlla dalla metà degli
anni ’90 la distribuzione di giornali e di pubblicità in Toscana. Questo, unito agli affari con la Baldassini-Tognozzi, la società un po’ edile e un
po’ finanziaria che controlla tutti gli appalti della Regione, spiega l’ascesa di Matteo Renzi.
Le prime 10 cose che non vanno di Matteo Renzi:

1) Da presidente della Provincia, tra il 2004 e il 2009, ha acquisito il controllo di tutta la stampa locale, radio e tv, in Toscana. L’ultimo giornale che un po’ gli era ostile era “La Nazione”. Per questo, in occasione dei 150 anni di questo giornale, ha fatto ospitare dai locali della Provincia, in via Martelli, una mostra che, naturalmente, è stata pagata coi soldi di noi contribuenti. In questo modo, La Nazione è divenuta renziana.

2) Renzi per controllare ancora meglio l’informazione locale, ha trovato un secondo lavoro a moltissimi giornalisti: gli uffici stampa degli eventi
organizzati dalla Provincia, come il Genio fiorentino, il suo stesso portavoce, tutta una serie di riviste inutili e costossime per la collettività (Chianti News, InToscana, ecc.) servono a lui e a Martini, il presidente della Regione, a tenersi buoni i cronisti locali. Inoltre, trasmissioni come “12 minuti col Presidente”, che va in onda su RTV 38 e Rete 37, gli sono servite a dare delle tangenti legalizzate alle redazioni di queste emittenti che ormai, in lui, riconoscono il vero datore di lavoro.

3) Tra le cose di cui più si vanta Renzi, vi è il recupero di Sant’Orsola.
Il grande complesso situato in San Lorenzo, chiuso e abbandonato da molti decenni, sarebbe stato recuperato dalla Provincia -così dice Renzi- conun
investimento iniziale di 20 milioni di euro. E questo non è vero. Infatti, a bilancio, a fine anno, la Provincia per Sant’Orsola ha stanziato la miseria di un milione di euro. E’ un esempio del suo continuo modo di mentire.

4) Renzi in questi 5 anni ha utilizzato la Provincia allo scopo di promuovere la propria immagine personale coi soldi nostri. A questo servono manifestazioni inutili e costose come “Il Genio fiorentino e “Riciclabilandia”. Attraverso l’utilizzo delle consulenze, degli uffici stampa, della commissione di sondaggi, pubblicazioni e pubblicità ha creato una vasta rete clientelare di giornalsti che non ne contraddicono mai le posizioni.

5) L’inchiesta di Castello: Matteo Renzi, come presidente della Provincia, è molto più coinvolto del sindaco Domenici. Infatti, le opere oggetto dell’inchiesta sono quasi tutte commissionate dalla Provincia: tre scuole, una caserma nonché naturalmente il nuovo (e che bisogno c’è?) palazzo della Provincia. Eppure sui giornali ci è finito Domenici.

6) Il braccio destro di Ligresti, patron della Fondiaria, Rapisarda, lo si vede bene nelle intercettazioni telefoniche, pretende che per le commissioni di Castello la Provincia faccia una gara d’appalto. “sennò ci accusano di fare noi il prezzo”, spiega Rapisarda al telefono all’assessore Biagi.
Pochi giorni dopo quella telefonata, compare questo titolo su Repubblica: “Renzi contro la Fondiaria: per Castello si farà la gara d’appalto”. Ovvero: Renzi è colui che meglio esegue le volontà della Fondiaria e poi appare addirittura come quello contro i poteri forti!

7) Nel 2004 come prima cosa taglia i fondi della Provincia per la raccolta differenziata. Risultato, i Verdi si arrabbiano (giustamente) e lui li espelle dalla Giunta.

8) DAl 2004 Renzi ha creato un’infinità di società alle quali la Provincia commissiona eventi culturali, indagini di mercato e così via. Il caso più clamoroso è quello di “Noilink” che, durante le primarie del PD, diventa il suo vero e proprio comitato elettorale!

9) Tutti i giornaletti del cappero che arrivano nelle case dei fiorentinim a partire da “Prima, Firenze!” sono stampati coi soldi della Provincia

10) Nessun giornalista osa fare una domanda su quanto abbiamo riportato nei primi nove punti a Matteo Renzi.

(Beh, buona giornata).

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business Dibattiti Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il prezzo della pubblicità e lo sprezzo del mercato.

Il nuovo logo di ConsorzioCreativi
Think boldly, il logo e il claim di ConsorzioCreativi
(da consorziocreativi.com)

La notizia è che Consorzio Creativi, il network di creativi che hanno dato vita a una agenzia di pubblicità di nuova concezione, ha aperto on line il Negozio della buona pubblicità. E sugli scaffali del Negozio, visitabile su consorziocreativi.com, ci sono i prodotti con tanto di prezzi.

Il fatto è che il prezzo per la pubblicità italiana è un tabù. Ogni cliente pensa di fare ottimi affari, spendendo sempre meno; ogni agenzia, media o creativa, pensa di tenere botta alla concorrenza abbassando i prezzi. Ma le cose stanno proprio così?

Se prendiamo ad esempio le gare convocate dai committenti per scegliere la migliore agenzia, queste ormai non si svolgono più sul terreno della competenza, ma sul piano inclinato della convenienza. Talmente inclinato che i prezzi sono scivolati sempre più in basso, e i margini per le strutture di comunicazione hanno subito una tale contrazione da diventare ingestibili non solo all’interno, ma anche difficili da spiegare ai rispettivi headquarters internazionali.

La situazione è sfuggita di mano a tutti i soggetti. Nella seconda metà degli Ottanta, le agenzie si remuneravano con il 15% che per legge gli editori dovevano riconoscere alle agenzie che vendevano spazi e messaggi ai loro clienti. La produzione dei materiali era remunerata con il 17,65% del budget.

Di pari passo con l’espansione del mercato della comunicazione commerciale che contrassegnava quegli anni, si pensò di favorire la crescita rinunciando via via a porzioni di quel 15%. Su pressante richiesta di grandi compagnia americane, che assegnavano budget multinazionali, i reparti media delle agenzie furono scorporati, per diventare agenzie a loro volta. In Italia, la nascita e lo sviluppo supersonico della tv commerciale e l’aumento dell’offerta di spazi televisivi hanno favorito la rapida agonia del 15%.

Quel 15%, che in origine remunerava per il 7% la creatività; per il 5% il servizio di contatto commerciale; per il 3% il planning e il buying dei mezzi; quel 15%, dunque, cominciava a dissolversi. Le agenzie media, cioè chi compra spazi per conto dei clienti e le concessionarie di pubblicità, cioè chi vende spazi per conto degli editori trovarono la via di disinnescare l’obbligo, tutt’ora vigente, di riconoscere all’agenzia il 15%: alle agenzie media un meccanismo di remunerazione basato su quantità di spazi trattati, per i quali scattano premi da parte delle concessionarie; per le agenzie creative l’istituzione del fee, praticamente sganciato dalla percentuale di spesa pubblicitaria.

Venendo ai giorni nostri, il budget che una azienda investe in pubblicità non dice più nulla a proposito del fatturato della agenzia di pubblicità che ne cura l’immagine. L’agenzia media viene pagata in un modo, l’agenzia creativa in un altro, le ricerche in un altro ancora, la grafica, gli eventi, le promozioni in altri modi ancora.

Il combinato disposto di questa giungla remunerativa è stato solo apparentemente il maggior vantaggio per il committente, che è convinto di tenere sotto controllo la spesa pubblicitaria; e non è ormai più neppure il vantaggio competitivo dei grandi gruppi verso le piccole strutture: l’illusione che la massa critica compensasse i minori introiti derivati dai forti sconti si basava sulla previsione di un costante investimento da parte dei clienti. Le crisi economiche che si sono succedete negli anni, al contrario, hanno segnato una costante diminuzione degli investimenti sui mezzi classici, stampa e televisione, per esempio.

Anche senza contare l’odierna gravissima situazione economica e finanziaria in cui versa il mercato italiano, i grandi gruppi hanno da tempo cominciato a boccheggiare per mancanza di fatturati adeguati alle loro dimensioni. Vistosi e profondi tagli di personale hanno costretto le grandi agenzie a dimagrire. Col risultato di impoverire la capacità propositiva nei confronti dei clienti. I quali, dopo aver favorito in tutti i modi la corsa al controllo della spesa pubblicitaria, si trovano oggi a fare i conti con l’impoverimento dell’offerta creativa all’altezza delle durissime sfide proposte in continuazione dal mercato globale.

Così, come fossimo in una commedia di Goldoni, succede che Pantalone dice “non ti pago perché mi hai fatto un butto servizio”, e Arlecchino dice “ti ho fatto un brutto servizio perché tanto non mi paghi”.

L’aspetto grottesco, però, è che tutti si lamentano, ma nessuno dice la verità. Negli ultimi anni le associazione delle agenzie e quelle dei committenti hanno prodotto migliaia di ore di convegni e tavole rotonde, alcune tonnellate di carta imbrattata di buoni propositi senza che questo ribollire di intelligenze venisse a capo di alcunché: neppure l’obiettivo minimo, quello della remunerazione almeno delle spese per le gare, è stato raggiunto. E sì che si sono fatti proclami e stilato decaloghi, che nessuno ha mai preso in considerazione, a cominciare proprio dagli associati medesimi. Questo, tuttavia, non ha impedito che, per esempio, il sabato al convegno si tuonasse contro il dumping che il lunedì successivo si applicava senza troppi scrupoli.

In questi anni il valore sul mercato di alcuni budget pubblicitari è stato letteralmente portato vicino allo zero. Per esempio, a una grande banca che nel 2000 riconosceva all’agenzia il 7,5%, oggi è stato offerto un fee che si aggira tra il 2 e il 3 per cento, a scalare sugli importi investiti. Oppure, a una importante istituzione pubblica è stato offerto, non più tardi di tre anni fa, un fee equivalente allo 0,9% del budget. E può succedere, come è successo, che una rinomata agenzia abbia proposto al suo cliente un listino nel quale un annuncio pubblicitario senza immagini costava meno della metà di uno con una foto: la creatività non conta, contano le figure. Per non dire di quella agenzia che per acquisire un importante cliente editoriale, è arrivata a offrire uno sconto del 75%.

La spirale del dumping si avvita su se stessa quando viene messa in gara l’agenzia che aveva stracciato il prezzo, la quale perde comunque il cliente. Il quale convoca la gara proprio per non dover rinegoziare il prezzo stracciato che gli era stato precedentemente offerto. Col risultato che implicitamente la base di partenza è proprio il ribasso del ribasso precedente: è su quello si scontreranno le agenzie convocate. Ecco che da Goldoni si passa a Pinter: cioè siamo in pieno teatro dell’assurdo.

Tutto questo succede mentre i committenti si lamentano, quando non cercano agenzie di pubblicità altrove, come è successo recentemente per un grande gruppo bancario e per una grande compagnia telefonica. E mentre nelle agenzie si lavora male, con stipendi bassi o un uso diffusissimo di lavoro precario, e il costante clima da stillicidio di licenziamenti.

In questo quadro, al tempo stesso desolato e desolante, in cui il prezzo della pubblicità è stato usato con sprezzo del mercato e delle sue regole, l’unica via d’uscita è rompere il tabù dei prezzi e dichiararli apertamente. E accettare che la negoziazione tra le parti faccia il resto. Senza trucchi, senza inganni, senza piccole bugie o grossolane mezze verità.

Che è proprio quello che sta facendo Consorzio Creativi con l’apertura del Negozio della buona pubblicità, (visitabile su consorziocreativi.com). Beh, buona giornata.

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Pubblicità: sulla stampa andiamo male.

L’Osservatorio Stampa FCP ha diffuso i dati relativi al periodo gennaio-settembre 2011 raffrontati al periodo gennaio-settembre 2010.

Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale registra un calo del -4,0%.

In particolare i quotidiani nel loro complesso registrano un -5,3 % a fatturato e un +3,4% a spazio, con la conseguente diminuizione del prezzo medio. Questo andamento è confermato dai dati relativi alle singole tipologie:
La tipologia Commerciale nazionale ha evidenziato un -6,5% a fatturato ed un +2,8% a spazio.
La tipologia Di Servizio ha segnato un -3,1% a fatturato e un +1.3% a spazio.
La tipologia Rubricata ha segnato un calo a fatturato del -8,2% e a spazio -4,4%.
La pubblicità Commerciale locale ha ottenuto un -3,6 % a fatturato ed un +4,1% a spazio.

I quotidiani Free Press nel totale delle tipologie hanno segnato un -20,7% a fatturato e un +1,0% a spazio.
La Commerciale Locale cresce a fatturato del +2,7% con un aumento del +11,0% degli spazi, mentre registra un andamento negativo a fatturato sia per la Commerciale Nazionale (-31,6%) che per la Di servizio (-48,5%).
I periodici segnano un calo a fatturato -1,6% e a spazio -2,7%.
I Settimanali registrano a fatturato un -0,9% e a spazio -2,0%
I Mensili hanno indici negativi sia a fatturato -1,9% che a spazio -3,5%.
Le Altre Periodicità registrano un calo a fatturato -9,2% e un andamento positivo a spazio -3,6%.
(Beh, buona giornata).

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

Il movimento del 99% pone la questione globale della democrazia come controllo dell’economia.

di ULRICH BECK-la Repubblica- (traduzione di Carlo Sandrelli).

COM’ È possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell’ Occidente, cioè la visione economica dell’ american way? Com’ è possibile che il grido “Occupy Wall Street” raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro “il sistema”.

Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato “libera economia di mercato” e che ora ricominciaa essere chiamato “capitalismo” viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l’ 1% dei profittatori? Sul sito web “WeAreThe99Percent” si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i “superflui” (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza “il sistema”. Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo.

Questo condizionale catastrofico è l’ uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un’ esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa “bancarotta di Stato”, per me? Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d’ occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca.

Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall’ interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.

Sotto il diktat dell’ emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze. Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo – ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto “follia” quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto “follia” quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto “follia” quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale.

Cosa significa “follia”? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager,i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri. Tutti noi – vale a dire il 99% – siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall’ altro, ha conseguenze durissime per tutti.

Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d’ atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza. Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni “involontarie”. Qui sta il loro bello – in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c’ è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune.

La società mondale del rischio – questo mostra il grido del “99%” – può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente. Ma da dove nasce la forza o l’ impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c’ è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in mo do pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari – come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie – nell’ interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità.

Per applicare questa “Robin Hood Tax” si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un’ alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globalie la politica nazional-statale. Quest’ ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz’ altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione. In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell’ anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico.

Nell’ alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l’ economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l’ economia. Contro la percezione – che sta diffondendosi rapidamente – di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell’ economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l’ avversario più convincente e tenace dell’ economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale. (Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche Potere

Verso la terza manovra? Il governo in balia della crisi.

Da controlacrisi.org

L’Italia è il prossimo candidato a diventare la vittima della “tempesta perfetta”: mancano solo 0,77 punti percentuali al baratro, ovvero la differenza tra il 6,33% di rendimento toccato dai titoli italiani e la soglia del 6,5%-7% ritenuta da tutti gli analisti il punto di non ritorno in cui il nostro paese potrà solo dichiarare la bancarotta a causa dell’impotenza nel far fronte ai debiti. Silvio Berlusconi è pronto all’ennesimo inconcludente Consiglio dei ministri. E, soprattutto, ad infilare nel decreto sviluppo la terza finanziaria del 2011, che dovrebbe aggirarsi tra i 5 e i dieci miliardi.

A suonare il de profundis all’esecutivo non è solo l’opposizione in Parlamento ma anche il mondo imprenditoriale e alcuni settori del sindacato, come la Cisl. E’ Pier Ferdinando Casini a voler dettare al premier l’agenda della settimana invitandolo a presentarsi alle Camere prima del vertice del G20 previsto per il week end. Abi, Alleanza delle cooperative, Ania, Confindustria e Rete imprese italia invitano Berlusconi ad “agire immediatamente al G20 di Cannes risultati concreti” e verificare se esistono le “condizioni per assumere le misure necessarie”, altrimenti “ne tragga le necessarie conseguenze”. “La situazione sui mercati finanziari – sottolineano in una nota – sta precipitando e il nostro Paese è al centro delle turbolenze internazionali. L’attuale condizione è insostenibile per l’Italia e per gli italiani. Non possiamo continuare ad assistere alla corsa degli spread e al crollo dei valori azionari. Non possiamo correre il rischio di perdere in poche settimane ciò che abbiamo costruito in decenni di lavoro”.

Anche per il centrosinistra siamo ai vertici straordinari. Pierluigi Bersani ha sentito ieri, oltre al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, in una «delle giornate più drammatiche che l’Italia abbia mai visto in questa crisi finanziaria», fa sapere il Partito democratico. Domani c’è in programma un vertice; non si è capito se per discutere del default dell’Italia o di quello suo dopo lo scontro tra Renzi e Bersani.
Da parte sua, il centro dello schieramento politico non sembra incline a concedere a nessuno la patente di difesa degli interessi nazionali. E così il bel Pier, che pretende ufficialmente da Berlusconi di comparire in Parlamento per riferire sulle decisioni concrete «prima del vertice del G20, non si lascia scappare l’occasione per menare fendenti a destra, ed anche a sinistra. «In una giornata come questa – scrive su Facebook – a sinistra c’è chi si preoccupa delle primarie e a destra chi annuncia trionfante un milione di tessere. È sbalorditivo e drammatico allo stesso tempo, molti di noi sembrano sulla luna».

Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom, sottolinea invece che il tanto vitupereato referendum della Grecia “è sacrosanto”. “Vogliamo un referendum anche in Italia”, aggiunge, “no alla dittatura della Bce”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il segretario del Prc Paolo Ferrero. “E’ del tutto evidente che le politiche del Governo, della Ue e della Bce ci stanno portando al disastro, come in Grecia“, dice. “La Bce per bloccare la speculazione deve acquistare i titoli di stato nel mercato primario e non in quello secondario, ed il nostro Governo deve pretendere con forza che questo avvenga da subito”, aggiunge. “Inoltre bisogna fare subito un referendum così come in Grecia, sulle politiche economiche e della Bce. Le politiche di austerity vanno sconfitte con la democrazia reale, sia il popolo e non le banche a poter decidere il proprio destino”, conclude Ferrero.

Ovviamente, l’ipotesi del referendum non è nemmeno presa lontanamente in considerazione dal Pd, che invece parla di «scelte straordinarie». «Anche attraverso la costituzione di un esecutivo di emergenza nazionale che affronti pochi punti qualificanti, a partire da quelli dell’economia e dell’occupazione», dice Cesare Damiano, capogruppo Pd commissione Lavoro della Camera. Secondo Damiano servono «misure di rigore necessarie debbono avere il carattere dell’equilibrio nei sacrifici richiesti, se non si vuole commettere l’errore di pensare che colpendo esclusivamente lo stato sociale si possa uscire da questa situazione». (Beh, buona giornata),

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