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di Slavoj Zizek – Testo dell’intervento del filosofo sloveno alla convention di Syriza (Grecia)

Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda «che cosa vuole una donna?», ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi:T «Che cosa vuole l’Europa?» Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole.

Il modo in cui gli stati europei e i media riportano ciò che sta accadendo oggi in Grecia è, credo, il miglior indicatore di che tipo di Europa vogliono. È l’Europa neoliberale, è l’Europa degli stati isolazionisti. I critici accusano Syriza di essere una minaccia per l’euro, ma Syriza è, al contrario, l’unica possibilità che ha l’Europa. Ma quale minaccia. Voi state dando all’Europa la possibilità di uscire dalla sua inerzia e di trovare una nuova via.

Nelle sue note sulla definizione di cultura, il grande poeta conservatore Thomas Eliot ha sottolineato quei momenti in cui l’unica scelta è tra eresia e il non credere. Vale a dire momenti in cui l’unico modo per mantenere il credo, per mantenere viva la religione, è necessario eseguire una diversione drastica dalla via principale. Questo è ciò che accade oggi con l’Europa. Solo una nuova eresia – rappresentata in questo momento da Syriza – può salvare ciò che vale la pena salvare dell’eredità europea, cioè la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria.

L’Europa che vincerà, se Syriza verrà messa fuori gioco, sarà un’Europa con valori asiatici: e, naturalmente, questi valori asiatici non hanno nulla a che fare con l’Asia, ma con la volontà attuale ed evidente del capitalismo contemporaneo di sospendere la democrazia.
Si dice che Syriza non ha abbastanza esperienza per governare. Sono d’accordo, manca loro l’esperienza di come far fallire un paese, truffando e rubando. Non avete questa esperienza. Questo ci porta all’assurdità dell’establishment della politica europea: ci fa la predica sul pagare le tasse, opponendosi al clientelismo greco e nello stesso tempo ripone tutte le lsue speranze sulla coalizione tra i due partiti che hanno portato la Grecia a questo clientelismo.

Christine Lagarde ha recentemente affermato che ha più simpatia per i poveri abitanti del Niger che per i greci, e ha anche consigliato i greci ad aiutare se stessi pagando le tasse, che, come ho potuto verificare pochi giorni fa, lei non deve pagare. Come tutti i liberali umanitari, ama i poveri impotenti che si comportano da vittime, evocano la nostra simpatia spingendoci a fare la carità. Ma il problema con voi greci è che sì, soffrite, ma non siete vittime passive: resistete, lottate, non volete comprensione e carità, volete solidarietà attiva. Volete e chiedete una mobilitazione, il sostegno per la vostra lotta.

Syriza è accusata di promuovere finzioni di sinistra, ma è il piano di austerità imposto da Bruxelles ad essere chiaramente una finzione. Tutti sanno che questo piano è fittizio, che lo stato greco non potrà mai ripagare il debito, in questo modo. Allora perché Bruxelles impone queste misure? Il vero scopo non è quello di salvare la Grecia, ma ovviamente di salvare le banche europee.
Queste misure non sono presentate come decisioni fondate su scelte politiche, ma come necessità imposte da una logica economica neutrale. Come a dire: se vogliamo stabilizzare la nostra economia, dobbiamo semplicemente ingoiare la pillola amara. Oppure, come dicono i proverbi tautologici: non si può spendere più di quello che si produce. Ebbene, le banche americane e gli Stati Uniti sono stati una grande prova, per decenni, che si può spendere più di quello che si produce.

Per illustrare l’errore delle misure di austerità, Paul Krugman spesso le paragona alla pratica medievale del salasso. Una bella metafora, che ritengo debba essere ulteriormente estremizzata. I medici finanziari europei, a loro volta non sicuri di come questo farmaco funzionerà, stanno usando voi greci come cavie da laboratorio, stanno rischiando il vostro sangue, non il sangue dei loro paesi. Non vi è alcun salasso per le banche tedesche e francesi. Al contrario, quelle stanno ottenendo grandi trasfusioni.

Il buon senso radicale
Dunque Syriza è davvero un gruppo di pericolosi estremisti? No, Syriza è qui per portare un pragmatico buon senso. Per cancellare la confusione creata da altri. I sognatori pericolosi sono quelli che vogliono imporre le misure di austerità. I veri sognatori sono coloro che pensano che le cose possono andare avanti, a tempo indeterminato, così come stanno apportando qualche modifica cosmetica. Voi non siete dei sognatori: voi vi state risvegliando da un sogno che si sta trasformando in un incubo. Voi non state distruggendo nulla, state reagendo al modo in cui il sistema sta gradualmente distruggendo se stesso.

Conosciamo tutti la classica scena del cartone di Tom e Jerry: il gatto raggiunge il precipizio, ma continua a camminare, ignorando il fatto che non c’è terreno sotto i suoi piedi. È solo quando comincia a scendere che guarda verso il basso e si rende conto che c’è il vuoto. Questo è quello che state facendo: state dicendo a chi è al potere, «ehi, guarda giù!» e quelli cadono.

La mappa politica della Grecia è chiara ed esemplare. Al centro c’è un solo partito, con due ali, destra e sinistra, Pasok e Nuova Democrazia. È come, che so, la Cola che è o Coca o Pepsi, una scelta che non è una scelta. Il vero nome di questo partito, se si mettono insieme Pasok e Nd, dovrebbe essere qualcosa, penso, come Nmced, Nuovo movimento ellenico contro la democrazia. Naturalmente questo grande partito sostiene di essere a favore della democrazia, ma io sostengo che sia a favore di una democrazia decaffeinata. Sapete, come il caffè senza caffeina, la birra senza alcool, il gelato senza zucchero. Vogliono la democrazia, ma una democrazia dove invece di compiere una scelta, la gente si limita a confermare quello che saggi esperti diranno loro di fare. Vogliono il dialogo democratico? Sì, ma come nei dialoghi tardi di Platone, dove un ragazzo parla tutto il tempo e l’altro dice solo, ogni dieci minuti, «per Zeus, è così!»

Poi c’è l’eccezione. Voi, Syriza, il vero miracolo, movimento di sinistra radicale, che è uscito dalla comoda posizione di resistenza marginale e coraggiosamente ha segnalato la disponibilità a prendere il potere. Questo è il motivo per cui dovete essere puniti. Ecco perché Bill Freyja ha scritto di recente, sulla rivista Forbes, un articolo dal titolo «Dare alla Grecia quello che merita: comunismo». Cito: «Quello di cui il mondo ha bisogno, non dimentichiamolo, è un esempio contemporaneo del comunismo in azione. Quale miglior candidato della Grecia? Buttatela fuori dall’Unione europea, interrompete il flusso libero di euro e ridategli le vecchie dracme. Poi, state a guardare che succede per una generazione». In altre parole, la Grecia dovrebbe essere punita in modo esemplare, così che una volta per tutte, la tentazione per una soluzione radicale e di sinistra della crisi venga messa a tacere.

So che il compito di Syriza è quasi impossibile. Syriza non è l’estrema sinistra folle, è la voce pragmatica della ragione, che contrasta la follia ideologia del mercato. Syriza avrà bisogno della combinazione formidabile di principi politici e pragmatismo senza radici di impegno democratico, oltre alla capacità di agire rapidamente e brutalmente quando necessario. Perché Syriza abbia una Cialis chance, anche una minima chance di successo, sarà necessaria una solidarietà pan-europea.

Cambiare la Grecia
Per questo penso che voi, qui in Grecia, dovreste evitare il nazionalismo facile, tutti i discorsi su come la Germania vuole rioccupare la Grecia, distruggerla e così via. Il vostro primo compito è quello di cambiare le cose qui. Syriza dovrà fare il lavoro che gli altri avrebbero dovuto fare. Il lavoro di costruzione di uno stato migliore, moderno: uno stato efficiente. Dovrete fare un lavoro di bonifica dell’apparato statale dal clientelismo. È un lavoro duro, non c’è nulla di entusiasmante in questo: è lento, duro, noioso.

I vostri critici pseudo-radicali vi stanno dicendo che la situazione non è ancora quella giusta per un vero cambiamento sociale. Che se prendete il potere ora, non farete che aiutare il sistema, rendendolo più efficiente. Questo è, se ho ben capito, quello che il Kke,, che è fondamentalmente il partito delle persone ancora vive perché si sono dimenticate di morire, vi sta dicendo.
È vero che la vostra élite politica ha dimostrato la sua incapacità di governare, ma non ci sarà mai un momento in cui la situazione sarà completamente giusta per il cambiamento. Se aspettate il momento giusto, il momento giusto non arriverà mai. Quando si interviene, è sempre il momento non proprio maturo. Quindi, avete di fronte una scelta: o aspettare comodamente e guardare la vostra società che si disintegra, come alcuni altri partiti di sinistra suggeriscono, o intervenire eroicamente, pienamente consapevoli di quanto sia difficile la situazione. Syriza ha fatto la scelta giusta.

I vostri critici vi odiano perché, penso, segretamente sanno che voi avete il coraggio di essere liberi e di agire come persone libere. Quando si è davanti agli occhi della gente, quelli che osservano colgono, almeno per un istante, che state offrendo loro la libertà. State osando fare ciò che anche loro sognano di fare. In questo istante, sono liberi. Sono un unicum con voi. Ma è solo un attimo. Torna la paura e vi odieranno ancora, perché hanno paura della loro libertà.

Qual è dunque la scelta che voi, popolo greco, vi troverete ad affrontare il 17 giugno? Si dovrebbe tenere a mente il paradosso che sostiene la libertà di voto nelle società democratiche: siete liberi di scegliere, a condizione che facciate la scelta giusta. Ecco perché, quando la scelta è quella sbagliata, per esempio quando l’Irlanda ha votato contro la costituzione europea, la scelta sbagliata è trattata come un errore. E allora vogliono ripetere la votazione, per illuminare le persone a fare la scelta giusta. È per questo che l’establishment europeo è in preda al panico. Ritengono che forse non meritiate la vostra libertà, perché c’è il pericolo che facciate la scelta sbagliata.

Caffè senza latte
C’è una barzelletta meravigliosa in Ninoska di Ernst Lubitsch: l’eroe entra in una caffetteria e ordina un caffè senza panna. Il cameriere risponde «mi dispiace, ma abbiamo esaurito la panna, abbiamo solo latte. Posso portarle un caffè senza latte?» In entrambi i casi, si avrà solo il caffè, ma credo che la barzelletta sia corretta.

Anche la negazione è importante. Un caffè senza panna non è lo stesso che un caffè senza latte. Voi oggi vi trovate nella stessa situazione: la situazione è difficile. Avrete una specie di austerità, ma avrete il caffè dell’austerità senza panna o senza latte? È qui che l’establishment europeo sta barando. Si sta comportando come se avrete il caffè dell’austerità senza panna. Vale a dire che i frutti della vostra fatica non beneficeranno solo le banche europee: vi stanno offrendo anche il caffè senza latte. Sarete voi a non beneficiare dei vostri sacrifici e difficoltà.

Nel sud del Peloponneso ci sono le cosiddette piangenti, donne che vengono chiamate per piangere ai funerali, a fare uno spettacolo per i parenti del morto. Ora, non c’è nulla di primitivo in questo. Noi, nelle nostre società sviluppate, facciamo esattamente la stessa cosa. Pensate a questa meravigliosa invenzione, penso che sia forse il maggior contributo dell’America alla cultura mondiale: il sottofondo di risate registrate. Le risate che fanno parte della colonna sonora della televisione. Torni a casa stanco, sintonizzi la tv su uno di questi stupidi programmi tipo Cheers o Friends. Ti siedi e la tv ride anche per te. E, purtroppo, funziona.

È così che chi detiene il potere, l’establishment europeo, vuole vedere non solo i greci, ma tutti noi: che guardiamo lo schermo e osserviamo come gli altri sognano, piangono e ridono. C’è un aneddoto, apocrifo ma meraviglioso, sullo scambio di telegrammi tra il quartier generale dell’esercito tedesco e quello austriaco nel mezzo della prima guerra mondiale. I tedeschi inviano un messaggio agli austriaci: «Dalla nostra parte del fronte, la situazione è grave ma non catastrofica». Gli austriaci rispondono: «Dalla nostra parte la situazione è catastrofica, ma non grave».

Questa è la differenza tra Syriza e gli altri: per gli altri la situazione è catastrofica ma non grave, le cose possono andare avanti come al solito, mentre per Syriza la situazione è grave, ma non catastrofica e per questo il coraggio e la speranza devono sostituire la paura. Dunque ciò che avete davanti, per dirla con il titolo di una vecchia canzone dei Beatles, è «una strada lunga e tortuosa». Quando anni fa la guerra fredda minacciava di esplodere in una caldissima, John Lennon scrisse una canzone, «all we are saying is give peace a chance» («tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla pace»). Oggi, voglio sentire una nuova canzone in tutta Europa, «tutto quello che stiamo dicendo è dare una chance alla Grecia».

La rivoluzione a casa propria
Consentitemi un riferimento a una delle grandi, forse la più grande, delle tragedie classiche, Antigone: non combattere battaglie che non sono le tue battaglie. Nella mia idea di Antigone, abbiamo Antigone e Creonte. Sono solo due sette della classe dirigente. Un po’ come Pasok e Nuova Democrazia. Nella mia versione di Antigone, mentre i due membri delle famiglie reali stanno combattendo tra loro, minacciando di mandare in rovina lo Stato, mi piacerebbe vedere il coro, le voci delle persone, uscire da questo ruolo stupido di mero commento saggio, impadronirsi della scena, costituire un comitato pubblico di potere del popolo, arrestare entrambi, Creonte e Antigone, e dare vita al potere del popolo.

Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela. Ma voi siete qui e questo è ciò che ammiro. Non avete paura di impegnarvi in una situazione disperata, sapendo quanto le probabilità siano contro di voi. Questo è quello che ammiro. C’è anche un opportunismo di principio, l’opportunismo dei principi. Quando si dice la situazione è persa, non possiamo fare nulla, perché significherebbe tradire i nostri principi, questo sembra essere una posizione coerente, ma in realtà è la forma estrema di opportunismo.
Syriza è un evento unico di come proprio quella sinistra – in contraddizione con ciò che fa la solita sinistra extraparlamentare, che si preoccupa di più se i diritti umani di qualche criminale vengono violati, che di migliaia di esseri umani che muoiono – ha trovato il coraggio di fare qualcosa. (Beh, buona giornata)

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L’ennesimo inutile vertice europeo sulla crisi del debito.

di Bruno Steri-rifondazione.it

Il vertice tenutosi ieri a Bruxelles era atteso come una sorta di “ultima spiaggia” per le sorti dell’euro, una tappa decisiva per decidere il futuro di un’ “Europa in bilico”. Oggi vediamo che la montagna ha partorito un topolino: niente che sia all’altezza delle aspettative. Per la verità, c’era chi lo aveva previsto. Ad esempio, qualche giorno fa, Marco Moussanet concludeva così un editoriale de Il sole 24 ore: “Si metteranno d’accordo. Su un testo che parlerà di project bond, di sblocco dei fondi strutturali, di maggiori risorse per la Banca Europea per gli Investimenti e di Tobin Tax.

Evitando accuratamente temi spinosi come il ruolo della Bce o la mutualizzazione del debito”. L’articolo si riferiva in realtà all’incontro tra Angela Merkel e François Hollande e a un’ipotizzabile “sintesi franco-tedesca”; ma la citata argomentazione può essere estesa all’incontro di Bruxelles. In sostanza si tratta di un ben magro risultato, una mediazione che non ferma l’incipiente sprofondamento del Titanic.

Mario Monti si è affrettato a rilasciare dichiarazioni rasserenanti (“Il fatto che il tema degli eurobond sia chiaramente sul tavolo (…) significa che la cosa si muove”), le quali tuttavia non convincono nessuno. Men che meno i cosiddetti “mercati”, che ieri hanno fatto precipitare gli indici azionari nelle borse di mezzo mondo, facendo toccare minimi storici a quella di Milano (- 3,68%) e innalzando il differenziale tra titoli italiani e tedeschi da 411 a 435 punti base. Disastro comprensibilmente riassunto nel titolo: “le borse non credono nel vertice Ue”.

E, in effetti, alle parole di Monti fanno da contraltare i nein della signora Merkel, le precisazioni di Mario Draghi (“L’emissione degli eurobond ci sarà solo quando avverrà un’unione di bilanci”), i traccheggi del Presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy (“Nessuno ha chiesto che gli eurobond fossero immediatamente adottati”). Così come in pochi credono alle mielose perorazioni del “salvataggio” della Grecia (“Vogliamo che resti nell’euro”): soprattutto quando, contemporaneamente e per via ufficiosa – voci “dal sen fuggite” – i tecnici Ue chiedono ai singoli Paesi di predisporre piani per affrontare un’uscita della Grecia dall’euro. Nei confronti del Paese ellenico, è la classica politica del bastone e della carota, delle premurose esortazioni unite a ricatti e secche minacce: vi vogliamo bene, ma dovete fare quel che diciamo noi (e, soprattutto, alle prossime elezioni politiche non dovete votare Syriza, la sinistra anticapitalista).

Questi signori sono pronti ad abbandonare la Grecia al suo destino – peraltro sottostimando, da veri apprendisti stregoni, gli inevitabili dirompenti effetti a catena sulla stessa tenuta dell’Unione Europea – e, nei fatti, spianano un’autostrada alle prevedibili incursioni speculative ai danni dei singoli Paesi e, in ultima analisi, dell’euro. Ciò rende quanto mai pertinente un interrogativo: qual è il gioco a cui questi signori giocano? E a vantaggio di chi? In proposito, non riusciamo a trattenere la tentazione di menzionare qui i due editoriali con cui Le monde diplomatique ha aperto i suoi ultimi due numeri di aprile e maggio. Il primo (Gli economisti sul libro paga della finanza) fa le pulci in tasca agli “esperti” di mezza Europa, evidenziando come “gli accademici invitati dai media a illuminare il dibattito pubblico, ma anche i ricercatori designati come consiglieri dai governi, sono a libro paga di banche e grandi imprese”. E che paga! Il secondo editoriale (Il volto dei signori del debito) passa al setaccio i big della politica europea, anche in questo caso puntando i riflettori sulla materialità dei loro incarichi da rendita e da capitale. I nomi di casa nostra meritano un’ampia citazione: “La copertura giornalistica della nomina di Mario Monti alla Presidenza del consiglio in Italia fornisce un perfetto esempio di discorso-paravento, che chiama in causa ‘tecnocrati’ ed ‘esperti’ laddove semplicemente si fa un governo di banchieri”. Non si tratta di metafore evocative ma di cruda realtà: “A uno sguardo più attento si vede come la maggior parte dei ministri sieda nei consigli d’amministrazione dei principali gruppi d’affari della Penisola. Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, è amministratore delegato di Intesa San Paolo; Elsa Fornero, ministro del Lavoro e professoressa di economia all’università di Torino, è vicepresidente della stessa banca; Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione e della ricerca e rettore del Politecnico di Torino, è amministratore di UniCredit Private Bank e di Telecom Italia – controllata da Intesa Sanpaolo, Generali, Mediobanca e Telefonica – dopo esser transitato anche per Pirelli; Piero Gnudi, ministro del Turismo e dello sport, è amministratore di UniCredit Group; Piero Giarda, incaricato dei Rapporti con il parlamento, professore di Scienza delle finanze all’università Cattolica del Sacro cuore di Milano, è vicepresidente del Banco popolare e amministratore di Pirelli. Quanto a Monti è stato consulente di Coca Cola e Goldman Sachs e ha fatto parte dei consigli di amministrazione di Fiat e Generali”.

L’intento sarà forse un po’ schematico; ma, all’opposto, glissare su tali fatti equivale a imbrogliare la gente. (Beh, buona giornata).

Manifestazione degli Occupy a Francoforte: la polizia appare molto rilassata al corteo.

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L’Italia alle prese con BBB+ /3.

di BILLY EMMOTT-lastampa.it

L’indisciplina degli Stati membri che ha portato alla crisi dell’euro, ha scritto nel giugno scorso un saggio, è nata da «una malsana cortesia reciproca e dall’eccessiva deferenza verso gli Stati membri di grandi dimensioni». Questo saggio è il professor Mario Monti, autore di un blog per il «Financial Times».
Ora che è il presidente Monti, e ora che la crisi dell’euro si sta di nuovo intensificando, è tempo che segua il suo stesso eccellente consiglio.

Dobbiamo sperare che, nei suoi incontri con il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbia già parlato in modo chiaro e diretto. Se così non fosse, questo è ciò che dovrebbe dire.

«Cari colleghi, come ben sapete mi piace dire che io sono il più tedesco tra tutti gli economisti italiani. Bene, ora sarò anche americano e senza peli sulla lingua. Sotto la vostra guida, la zona euro non riesce ancora ad affrontare la realtà. Sì, noi italiani siamo stati molto, molto lenti ad affrontarla, ma ora stiamo lavorando sodo. Adesso tocca a voi.

«In un attimo tornerò alla realtà italiana perché il nostro lavoro, lo so, è appena iniziato. Ma se la zona euro prosegue così com’è allo stato attuale, il nostro lavoro sarà distrutto in ogni caso, perché le nostre banche e la valuta crolleranno. Ci sono due realtà che finora avete rifiutato di accettare e affrontare.

«La prima è che la Grecia getta ancora un’ombra fosca su tutti gli altri membri dell’eurozona. Perché? Perché chiunque sia in possesso di una calcolatrice tascabile, per non dire di un computer, può capire che non sarà in grado di rimborsare i debiti, anche se i creditori privati accetteranno un’enorme riduzione del valore dei loro prestiti. Le voci sulla riduzione per ora sono cessate, ma anche se alla fine si farà, la Grecia, secondo previsioni piuttosto ottimistiche, ridurrà semplicemente il suo debito pubblico al 120% del Pil entro la fine del decennio.

«Le finanze pubbliche italiane sono state sull’orlo di una crisi con gli oneri finanziari saliti a oltre il 7%. Siamo molto più deboli, in termini economici, di quanto ci siamo raccontati nel decennio passato, ma siamo ancora molto più forti della Grecia, quindi se siamo vicini a una crisi con il nostro debito al 120% del Pil, come sopravviverà la Grecia con oneri finanziari sempre maggiori e con un’economia molto più debole? Questo significa solo che ci sarà una nuova crisi greca ogni pochi mesi, che per contagio ci danneggerà tutti.

«Sappiamo tutti che, in primo luogo la Grecia non avrebbe dovuto essere autorizzata a partecipare all’euro, e la verità è che anche all’Italia non avrebbe dovuto essere consentito farlo, perché i nostri debiti erano troppo alti. Ma questa è storia. La realtà attuale è che ora la Grecia deve lasciare l’euro, perché altrimenti la sua insolvenza continuerà ad avvelenarci tutti. Dovrebbe farlo con tutto l’aiuto finanziario possibile che noi e il Fondo monetario internazionale possiamo offrire, ma il punto importante è che dovrebbe farlo presto.

«Quando ciò accadrà, gli altri Paesi altamente indebitati, prima fra tutti l’Italia, saranno duramente colpiti dalla speculazione dei mercati sul nostro prossimo default e successiva uscita di scena. Il lavoro principale per dimostrare che ciò non è vero sta a noi: in Italia occorre fare di più per dimostrare che abbiamo un piano credibile a lungo termine per ridurre il nostro debito pubblico al livello del Trattato di Maastricht, il 60% del Pil, probabilmente entro 10 – 15 anni, introducendo allo stesso tempo misure per far crescere di nuovo la nostra economia con un tasso medio annuo di almeno il 2%.

«Stiamo lavorando a questo, come sapete, e il mio governo si accinge a presentare la prossima fase del programma di riforme. Ma la seconda realtà è che abbiamo bisogno del vostro aiuto, sia per sopravvivere abbastanza a lungo perché le riforme producano il loro effetto, e ancora di più per sopravvivere all’inevitabile e auspicabile uscita greca dall’euro.
«Pubblicamente, avete dichiarato che il fiscal compact, il patto fiscale che tutti noi (tranne la Gran Bretagna) abbiamo accettato di 9 dicembre, è la soluzione che l’euro richiede. Ma cerchiamo di affrontare la realtà, non dobbiamo essere troppo educati e deferenti: sappiamo tutti che questo non è vero. Non è vero perché anche con un trattato non c’è motivo perché i mercati credano alle nostre promesse di contenere il disavanzo pubblico e (nel caso dell’Italia) dimezzare il debito pubblico in rapporto al Pil. Queste promesse sono necessarie e importanti, ma non sono sufficienti e non sono credibili.

«Non sono credibili a causa della Grecia, come ho già detto, ma anche perché il passaggio dal peccato alla virtù sta andando troppo per le lunghe. La politica e gli imprevisti sono destinati a intervenire, mettendo in forse le nostre promesse. E come ha sottolineato la Banca centrale europea, i mercati possono già vedere come tutti stiamo cercando di indebolire le disposizioni del trattato, per renderci più accettabile l’idea di mancare gli obiettivi del deficit e del debito. I mercati sanno che la Germania e la Francia nel 2003 hanno distrutto il patto di stabilità e crescita, quindi ci sta che diffidino ancora una volta di noi e delle nostre promesse.

«No, miei cari colleghi, questo fiscal compact non è sufficiente, né i miei piani nazionali di austerità e liberalizzazione dei piani basteranno per distinguere in modo sicuro l’Italia dalla Grecia quando quel Paese andrà in default. L’unico modo per risolvere questo problema, l’unico modo per far sì che l’inevitabile uscita della Grecia non sia un disastro, è che voi due, il che significa soprattutto la Germania, accettiate la responsabilità collettiva per i debiti della zona euro, emettendo eurobond garantiti congiuntamente.

«Questi eurobond possono avere una durata limitata nel tempo e devono essere subordinati sia al fiscal compact sia ai nostri piani di liberalizzazione interna. Ma senza di essi, l’euro semplicemente non sopravviverà. So che questo significherà che il credito di ognuno verrà declassato, proprio come lo è stata la Francia e che ci sarà un grande scontro nella politica tedesca. Mi dispiace di essere maleducato, ma come direbbero gli americani: Guardate in faccia la realtà. Svegliatevi e sentite l’odore del caffè. E voi sapete che il miglior caffè lo facciamo noi italiani».
(Beh, buona giornata).

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L’Italia alle prese con BBB+ /2.

di MASSIMO GAGGI – corriere.it
L’abbassamento di due punti del rating dell’Italia è di certo un duro colpo per il governo Monti che ha ereditato una situazione difficilissima, ha adottato misure correttive assai penose per i cittadini ma apprezzate in Europa, e che da oggi si ritrova a dover percorrere un sentiero ancora più stretto e pieno di insidie. Ma se la decisione annunciata ieri sera da Standard & Poor’s è una bocciatura dell’Italia – pur con un apprezzamento per l’azione del governo Monti, mitigato però dal timore che le sue riforme, definite ambiziose, vengano frenate da un’opposizione politica -, il «declassamento di massa» è una dichiarazione di sfiducia nell’euro. Dunque un giudizio con una larga componente politico-istituzionale da parte di un’agenzia di rating americana: cioè di un Paese da sempre scettico sul destino della moneta unica, che negli eventi degli ultimi mesi ha trovato la conferma della fondatezza dei suoi dubbi.

Reagire prendendosela con gli Usa o invocando compartimenti stagni, con l’Europa giudicata da organismi di valutazione europei, non avrebbe, però, senso: tra l’altro le strutture di analisi di queste agenzie sono ormai globalizzate e al «downgrading politico» non sono sfuggiti nemmeno gli Stati Uniti che ne hanno subito uno sei mesi fa motivato con la caotica gestione del debito pubblico da parte del Congresso. Washington, poi, ha già ricevuto più di un avvertimento: presto arriverà un’altra bocciatura, con motivazioni analoghe.

Il nodo vero è che questi giudizi, che dovrebbero servire a mettere in allarme gli investitori segnalando loro rischi che non hanno ancora percepito (adeguando di conseguenza i relativi rendimenti), in realtà arrivano quando quelle preoccupazioni sono ormai ampiamente diffuse nei mercati che hanno già eseguito le loro correzioni: un intervento prociclico, che rischia di portare a un eccessivo squilibrio della reazione di mercati fin troppo reattivi, coi nervi messi a dura prova da quattro anni di crisi durante i quali ha quasi sempre piovuto sul bagnato.

Negli Stati Uniti e anche in Europa sono stati fatti vari tentativi di ridurre l’impatto di questi giudizi negativi. Ad agosto, dopo il downgrading Usa, il Tesoro americano autorizzò le banche locali a continuare a sottoscrivere titoli del governo federale senza effettuare gli accantonamenti di bilancio richiesti quando c’è un aumento del rischio. E le norme sui mercati finanziari varate a Washington l’anno scorso riducono per molte emissioni di bond l’obbligo di essere corredate dai giudizi di una pluralità di agenzie. È, inoltre, aumentata l’attenzione sui conflitti d’interesse che possono condizionare questi organismi.
Ma alla fine, trattandosi di società private, la soluzione verrà solo dall’allargamento della platea degli operatori, superando l’oligopolio S&P-Moody’s-Fitch. È il caso delle nuove agenzie che stanno emergendo in America e anche di quella cinese che, peraltro, Francia e Italia le aveva già declassate a dicembre.

Insomma dobbiamo abituarci – opinione pubblica e mercati – ad avere reazioni meno «accaldate» cogliendo, al tempo stesso, il messaggio, non nuovo, che esce rafforzato dal giudizio di Standard & Poor’s: quella europea è una crisi profonda che non ha soluzioni facili. Il percorso da compiere è lungo e pieno di insidie. Decise le manovre necessarie per disinnescare i meccanismi della crescita del debito pubblico, ora l’enfasi va posta sullo sviluppo delle economie dell’Unione e su una maggiore solidarietà tra le varie capitali per rafforzare l’euro con un’unità d’intenti almeno sulle politiche fiscali, di bilancio e del lavoro.

Certo, anche se accompagnata dalle «bocciature» di parecchi altri Paesi, dalla Francia all’Austria, dalla Spagna al Portogallo, il passo indietro di due caselle dell’Italia, che la porta al livello di Paesi come il Perù, non è di certo incoraggiante per il nostro governo. Ma questo declassamento non può cancellare la consapevolezza che il Paese sta finalmente tentando di imboccare la direzione giusta. Un dato che, oltre che dalle istituzioni e dai partner europei, viene riconosciuto anche dai mercati che col positivo andamento delle aste dei titoli del Tesoro, soprattutto a breve termine, dimostrano di avere una certa fiducia sulla stabilizzazione della situazione italiana, almeno nei prossimi 12-18 mesi.

Ma è difficile andare oltre questa scadenza nelle previsioni, le nuvole all’orizzonte sono ancora troppo fitte: alle incertezze di un quadro politico caratterizzato da una tregua che potrebbe non durare a lungo, si aggiungono quelle che derivano dalla stagnazione. Per questo da oggi diventano ancora più importanti le politiche per la crescita che Monti, varata la manovra fiscale, ha messo al centro del suo programma. Per rendere gestibile il debito pubblico e farlo diminuire rispetto al Pil il governo ha bisogno di far crescere le attività produttive, evitando, al tempo stesso, impennate dei tassi. Qui, purtroppo, la mossa di S&P, che arriva proprio quando si vedeva qualche spiraglio di luce, non aiuta: già ieri sera a Wall Street alcuni analisti invitavano gli investitori a cautelarsi rispetto a rischi crescenti di «monetizzazione» del debito pubblico dei Paesi europei. (Beh, buona giornata).

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L’Italia alle prese con BBB+

di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
All’indomani del cosiddetto “tsunami” provocato dall’agenzia di rating Standard&Poor’s ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:
1. Lo “tsunami” non c’è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l’1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l’Austria, colpita anch’essa dal “downgrade”, ha addirittura chiuso in rialzo.
2. Standard&Poor’s ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l’intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l’Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d’un giudizio politico più che economico.
3. Per quanto riguarda l’Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor’s ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.
4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.
5. La Bce ha confermato che il valore dei “collaterali” che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell’agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.

Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.

È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l’Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un’operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell’1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor’s.

* * *

Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all’Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor’s, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell’Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell’Unione, esteso dunque non solo all’economia ma all’immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.

La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all’Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell’urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l’istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.

Non c’è dubbio che l’esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L’attenzione va posta soprattutto su quell’aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l’altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l’oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l’onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l’anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l’esistenza d’una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi “fondamentali”.
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice – come ha dichiarato ieri – che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

* * *

Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor’s ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.

Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell’etica e lo debbono fare nell’interesse della società civile per la quale l’esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti……..(Beh, buona giornata).

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Dibattiti Finanza - Economia Lavoro Politica Popoli e politiche

“È ora di progettare seriamente un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”.

di Guido Viale, da il manifesto, 29 novembre 2011

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan).

Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra – quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra – è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.

Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo – risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa – ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi.

Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto – anzi molto spesso – una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio” – che fittizio non è – si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non – probabilmente – con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ’30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni – da quando hanno cominciato a correre – e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale – e ci stanno – per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte – non tutti – gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream – e in primis dai bocconiani – è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav).

Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale – di cui nessuno vuole più parlare – e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire.

È ora di pensare – e progettare seriamente – un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta – ma non è poco – l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

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Attualità Finanza - Economia Popoli e politiche

Romano Prodi: il G20 ha messo sotto torchio il governo, non il Paese.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Il G20 di Cannes era partito con un obiettivo ed è finito con un altro. Per mesi la roboante regia francese ci aveva annunciato che questo sarebbe stato il vertice delle grandi riforme del sistema finanziario internazionale. Un obiettivo più volte ripetuto anche se politicamente impossibile perché le grandi riforme non si fanno in un periodo in cui nessuno ha interesse a farle. Non gli Stati Uniti perché con qualsiasi riforma perderebbero i loro ingiustificati privilegi, non la Cina perché ha tutto l’interesse a rinviare le riforme a quando sarà più forte e più pronta, non l’Europa perché a Bruxelles non comanda nessuno e nelle diverse capitali ognuno la racconta per conto suo. Tolto ogni grande progetto di riforma è rimasta in agenda l’emergenza della zona euro. In teoria il G20, rappresentando tutti i grandi Paesi del mondo, avrebbe dovuto aiutare il confezionamento di un paracadute per l’attuale crisi europea ma tutti i grandi, a cominciare dalla Cina, hanno fatto marcia indietro quando si sono resi contro che nemmeno i Paesi europei erano disposti ad aumentare il proprio contributo nei confronti del Fondo salva-Stati (Efsf).

Di fronte all’impossibilità di accordo su nuove regole e di fronte al rifiuto di raccogliere nuove risorse per fare fronte all’emergenza, l’unica strada rimasta al G20 è stata quella di fare la voce grossa di fronte ai Paesi devianti. A questo punto si è snodato l’aspetto per noi drammatico e inatteso: il processo cominciato nei confronti della Grecia si è trasformato in un serrato dibattimento contro l’Italia, con tanto di condanna ad un lungo periodo di libertà vigilata. E per essere sicuri che i comportamenti del condannato non si discostino dagli obblighi contenuti nella sentenza è stato deciso un doppio controllo sia da parte della Commissione Europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Un’umiliazione nei confronti dell’Italia del tutto inedita e, da parte di molti osservatori, ritenuta eccessiva anche tenendo conto delle difficoltà oggettive della nostra economia. A Cannes non è stata tuttavia processata l’economia italiana ma la mancanza di credibilità del nostro governo e la sua incapacità sia nel prendere le decisioni necessarie per porre rimedio alle nostre anomalie, sia nel dare attuazione agli impegni faticosamente e tardivamente assunti.

Più che un processo contro l’Italia abbiamo assistito ad un processo contro il governo italiano, ritenuto da tutti gli organismi internazionali non credibile e perciò non degno di fiducia. Un fatto estremamente dannoso perché riportato e ossessivamente ripetuto in tutti i media del pianeta, forse perché dal vertice di Cannes non vi era null’altro da riportare o forse anche perché il folklore del nostro primo ministro fa notizia ovunque. Il primo ministro, durante la conferenza stampa conclusiva, si è difeso descrivendo l’immagine di un’Italia prospera, spendacciona e felice, che potrebbe navigare serena nelle acque tempestose della crisi se non fosse entrata nell’euro con un tasso di cambio sbagliato. Non vale nemmeno la pena di sottolineare l’aspetto tragicamente ridicolo di quest’affermazione: basta ricordare come la fissazione del livello di ingresso della nostra moneta nell’euro a 990 lire per marco tedesco sia stato riconosciuto da tutti gli osservatori stranieri e italiani (compresi quelli appartenenti alla parte politica dell’attuale presidente del consiglio) come un insperato successo per l’economia italiana che, con questo tasso di cambio, poteva entrare nell’euro con la massima capacità concorrenziale possibile.

È doveroso invece sottolineare come questi attacchi all’euro e le ripetute manifestazioni di sfiducia nei suoi confronti siano state nei giorni scorsi una delle principali cause di irrigidimento dei governi europei e di sfiducia dei mercati finanziari nei nostri confronti. La conferenza stampa del premier al termine del G20 ha lanciato infatti un messaggio chiaro: la responsabilità dei problemi e dei guai dell’Italia sarà, nei prossimi mesi e nella prossima o futura campagna elettorale, interamente imputata all’euro. Lasciamo in disparte (perché rientra nel genere del ridicolo) la contraddizione fra la gravità di questi guai e la descrizione del Paese di bengodi che ci è stata propinata e concentriamoci sui danni che anche in futuro ci verranno addosso da un governo che da un lato si è impegnato ad adottare una politica e una disciplina mirate a mantenere l’Italia nell’ambito della moneta unica e, dall’altro, tenterà continuamente di imputare alla stessa moneta unica le conseguenze dei propri ritardi e della propria inazione.

Di fronte a queste prospettive ci conviene prendere per buone le affermazioni di un Twitter che il Financial Times attribuisce al ministro Tremonti. Il ministro dell’Economia avrebbe dichiarato che domani i mercati si aggiusteranno e gli spread diminuiranno solo se Berlusconi si farà da parte. È assai probabile che Tremonti non abbia detto nulla di simile e che la battuta sia da attribuire alla consueta malignità dei giornali inglesi nei nostri confronti, ma ritengo comunque che il consiglio contenuto in questo messaggio sia degno di essere preso in considerazione. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia Politica

Aspettando il prossimo convegno di Confindustria.

di Roberto Mania-repubblica.it

La casa brucia. L’Italia è a un passo dalla prospettiva del default. Il rendimento dei Btp decennali si è impennato oltre il 6 per cento, lo spread con i Bund tedeschi viaggia costantemente sopra il 4 per cento, la Bce ha ripreso a comprare titoli italiani, crollano le azioni in Borsa, risale l’inflazione, il tasso di disoccupazione è cresciuto all’8,3 per cento e proseguirà in salita con la cassa integrazione che via via esaurirà la sua funzione per lasciare sul campo la perdita di migliaia di posti di lavoro, un giovane su tre, infine, non ha un’occupazione. Succede tutto questo ma gli industriali, piccoli e grandi, hanno perso la voce. Dove sono?

Nelle settimane scorse avevano chiesto, tutte le loro lobby insieme (dalla Confindustria all’Abi, passando per l’Alleanza delle cooperative), “discontinuità”. Hanno lanciato, più alcuni che altri, penultimatum a gogò: ancora venti giorni, quindici, dieci, sei, poi il governo deve andarsene se non è in grado di cambiare rotta. Nulla. Berlusconi ha presentato la lettera-fuffa a Bruxelles. Una lista delle cose non fatte più che di impegni per il futuro. Ma gli industriali hanno detto che andava nella direzione giusta. Fine degli ultimatum. E poi nella lettera hanno ritrovato il vecchio spartito: basta con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con annesso lo slogan “più assunzioni con più licenziamenti”. Il mondo alla rovescia. Per la discontinuità insomma sono arrivati i tempi supplementari. Il rischio terrorismo evocato dal ministro Sacconi? Silenzio. Se ne parlerà – forse – al prossimo convegno. D’altra parte questo è il ponte d’Ognissanti. Il ponte degli industriali.

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democrazia Finanza - Economia Popoli e politiche

Bifo, Mario Draghi e il movimento degli indignati.

di Franco Berardi BIFO.

La dichiarazione rilasciata da Mario Draghi la mattina del 15 Ottobre è segno di sarcastica arroganza della classe finanziaria. Mario Draghi, prossimo Presidente della Banca Centrale Europea, che ha detto di essere dalla parte degli “indignati”: “Anche noi siamo arrabbiati contro la crisi figuriamoci i ventenni che non trovano lavoro.” Ciò significa che non appena prenderà il suo posto di presidente della Banca, Mario Draghi tasserà le transazioni finanziarie nella stessa misura in cui tassa il mio stipendio? Che la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei?

Chiederà ai governi europei di investire nuovamente i soldi tagliati alla scuola, e di riassumere i dipendenti pubblici e privati licenziati per effetto delle misure deflazioniste e privatistiche della passata gestione della BCE?

Ne dubito.

Chi è Draghi? Allievo del compianto Federico Caffè ed ex direttore esecutivo della Banca Mondiale, Draghi è stato dal 2002 al 2005 vicepresidente e membro del Management Committee Worldwide della Goldman Sachs, la banca d’affari che si può considerare responsabile principale della speculazione globale che sta portando al collasso le democrazie e alla miseria le popolazioni. Per quanto presentato come persona di specchiata moralità, Mario Draghi non è un gentiluomo. Non è al soldo della mafia come la maggior parte dei ministri del governo Berlusconi, ma è portatore di quegli interessi finanziari che sono un pericolo mortale per la vita quotidiana della popolazione europea.

Draghi viene avanti per far fuori le mafie secondarie, come quella di Berlusconi, e imporre gli interessi della mafia dominante, quella della Banca Centrale europea, cuore nero dell’imposizione dogmatica di criteri economici che confliggono con il benessere, la pace, e la civiltà sociale.

Ma forse Draghi non ha capito bene: il movimento non è arrabbiato contro la crisi come crede lui e come suggerisce uno slogan sbagliato che circola nel movimento.

Senza polemizzare con i compagni di Global Project, e della FIOM per i quali nutro affetto solidarietà e rispetto, vorrei suggerirgli di cambiare nome alla loro iniziativa unitaria.

Il movimento non è contro la crisi (che non significa niente). E’ contro il capitalismo, contro lo sfruttamento, la competizione, il dogma del profitto e della crescita.

La crisi non è che uno degli effetti della follia del capitalismo finanziario, e può essere l’occasione per consegnare il capitalismo alla storia. Non è l’emergenza della crisi a distruggere la nostra vita, ma la normalità del capitalismo che sfrutta, uccide, inquina. La crisi non è che il momento più violento della normalità capitalista, ed è anche il momento nel quale la società può rompere la catena politica, sociale e culturale che la incatena. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia Lavoro

Dopo i costi della crisi, ci tocca pagare i costi della speculazione.

I COSTI DEL CAPITALISMO LI PAGHINO QUELLI CHE LI STANNO PRODUCENDO, NON I LAVORATORI!
Sulla Grecia ci stanno truffando-paoloferrero.it

La vicenda della crisi greca è un esempio da manuale di una grande truffa in cui la speculazione guadagna e i lavoratori pagano. I giornali dicono che i governi europei stanno lottando contro gli speculatori e i mercati finanziari per difendere l’Euro. Si tratta di una balla colossale. In realtà i governi e i mercati finanziari stanno tutti dalla stessa parte contro i lavoratori. Vediamo perché:

In seguito all’attacco fatto dagli speculatori alla Grecia, i governi europei hanno dato un prestito alla Grecia condizionato al fatto che in Grecia si taglino i salari, le pensioni, lo stato sociale. Il governo Greco, con i soldi del prestito pagherà gli interessi sul suo debito a Banche e speculatori, interessi che sono aumentati a causa dell’attacco speculativo. Il governo Greco restituirà i soldi del prestito ai governi europei grazie ai sacrifici imposti ai lavoratori greci. In pratica i soldi del prestito vanno a banche e speculatori e quei soldi li mettono i lavoratori greci.

Dopo la Grecia, i governi europei hanno stanziato 600 miliardi di euro per far fronte ad eventuali speculazioni verso altri paesi e le borse hanno festeggiato crescendo del 10%. E’ evidente che gli speculatori fanno bene a festeggiare perché questo vuol dire che dopo aver guadagnato sulla Grecia, adesso potranno ripetere l’offensiva su altri paesi avendo a disposizione 600 miliardi su cui fare affari. Dappertutto si ripeterà lo stesso scenario: attacco speculativo su un paese per volta (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia o Gran Bretagna), richiesta di pesanti sacrifici ai lavoratori per poter accedere al prestito europeo e conseguente versamento del prestito nelle tasche delle banche e degli speculatori. Si tratta di una truffa colossale che pagheranno innanzitutto i lavoratori dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi, ma che avrà effetti negativi sui lavoratori di tutti i paesi. Infatti se si peggiorano le condizioni di lavoro in un paese queste si diffondono anche negli altri.

Ci sono soluzioni alternative: certo!

1) Il modo più semplice per bloccar questo gioco al massacro sulle spalle dei lavoratori è che la Banca Centrale Europea, quando un paese è sottoposto ad un attacco speculativo, intervenga immediatamente e senza condizioni ad acquistare i titoli di stato di quel paese. In questo modo l’attacco speculativo risulta inefficace, gli speculatori ci perdono e i lavoratori non devono fare nessun sacrificio per ingrassare i banchieri.
2) L’immediata rottura di ogni rapporto con i paradisi fiscali.
3) L’immediata nazionalizzazione degli istituti bancari di rilevanza nazionale che sono risultati impegnati in attività speculative
4) L’immediata modifica del Trattato di Maastricht, sostituendo le politiche restrittive di bilancio, alibi usato per tagliare servizi sociali e pensioni, distruggere diritti dei lavoratori, precarizzare il lavoro, con politiche finalizzate a redistribuire la ricchezza e a creare posti di lavoro, attraverso la riconversione ambientale dell’economia e la riduzione dell’orario di lavoro.

Per questo ci opponiamo a questo piano europeo approvato dal governo Berlusconi e chiediamo ai sindacati di costruire la mobilitazione. Occorre bloccare questo nuovo attacco ai lavoratori e ai pensionati che oggi avviene in Grecia e domani in Italia. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Il maxi piano salva- euro e un piccolo pianista da piano bar.

Angela Merkel, una delle vere protagoniste del vertice di emergenza della Eu ha detto: “Il maxi-piano è necessario per garantire il futuro dell’euro. E’ necessario attaccare i problemi alla radice e combattere realmente le cause delle tensioni che pesano sulla moneta unica”.

Il ministro francese delle Finanze Cristine Lagarde ha evitato di attribuire meriti al proprio Paese: “Abbiamo serrato le file per salvare l’euro”.

“L’eurozona sta certamente riguadagnando fiducia. I nostri fondamentali sono buoni”, sostiene il presidente della commissione Ue, Jose Manuel Barroso.

Dopo il piano “la Bce si aspetta ora una politica di rigore nei bilanci pubblici dai governi europei”, ribadisce il presidente della Bce Jean Claude Trichet. “Per noi – ha spiegato riferendosi alla richiesta fatta dall’Ecofin a Spagna e Portogallo – questo impegno è stato assolutamente decisivo”. Silenzio sulla portata degli interventi: “E’ la Bce che decide”.

E poi, ecco il perepèperepè, paraponzi ponzi pù: “Un impulso fondamentale allo sblocco dei serrati negoziati sul piano di salvataggio dell’euro ieri all’Ecofin l’ha dato il presidente Berlusconi quando, poco prima dell’1 di notte, ha chiamato al telefono il cancelliere Merkel”, recita un comunicato di Palazzo Chigi. Pitipitù, pitipitù, paaaa! Meno male che Silvio c’é, come i supplì, al telefono. Beh, buona giornata.

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Che sta succedendo all’economia europea/9.

CRISI FISCALE, CONTAGIO E FUTURO DELL’EURO, di Marco Pagano-lavoce.info

Cerchiamo di capire il terremoto finanziario che sta scuotendo Eurolandia. Perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Crisi fiscale, contagio, collasso della moneta unica: potrebbe diventare uno tsunami ben peggiore di quello dei mutui subprime. Ma il modo per arginarlo c’è, rafforzando le strutture comunitarie e sovranazionali. Trasformando la crisi in un’occasione storica per l’Europa.

Crisi fiscale, contagio, collasso dell’euro … Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Invece è proprio in situazioni di emergenza come questa che è importante fare chiarezza, proprio per evitare che si realizzino gli scenari peggiori e individuare la via di uscita.
Punto primo. Quando uno stato sovrano accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restuire capitale e interessi generando avanzi di bilancio in futuro (cioè un gettito fiscale superiore alla spesa pubblica). In questo caso, chiedono tassi di interesse maggiori per acquistare nuovo debito pubblico, poiché vogliono essere compensati per il rischio di insolvenza. Ciò in realtà aggrava il pericolo di insolvenza, perché appesantisce i conti pubblici, per cui alla fine arriva il momento in cui non c’è più un tasso di interesse capace di compensarli del rischio di insolvenza: allora essi smettono di sottoscrivere il debito pubblico. Questa è la crisi fiscale, e ha solo due esiti possibili, che fra l’altro non si escludono tra loro: 1) l’insolvenza da parte dello stato, con conseguente ristrutturazione del debito (come ha fatto l’Argentina); 2) la “monetizzazione” del debito, che viene acquistato dalla banca centrale immettendo moneta nell’economia e quindi causando inflazione e deprezzamento del tasso di cambio.

DALLA GRECIA ALL’ITALIA

Punto secondo. Nel caso della Grecia, la seconda strada – quella della monetizzazione – era esclusa dalla sua appartenenza all’area dell’euro: il governo greco non poteva imporre alla Banca centrale europea (Bce) di acquistare i propri titoli del debito pubblico, per cui la sola strada aperta era quella dell’insolvenza e della ristrutturazione del debito, a meno di non ottenere prestiti da altri paesi a tassi inferiori a quelli richiesti dal mercato. Ma perché i paesi dell’area dell’euro hanno deciso di fare questo sacrificio? Come si è visto in questi giorni, dopo non poche indecisioni lo hanno fatto soprattutto per timore del “contagio”. Ma cos’è questo contagio? Qui veniamo alla parte più interessante della storia.
Punto terzo: il contagio. Ammaestrati dalla crisi della Grecia, gli investitori hanno cominciato a sospettare che altri paesi con elevato debito pubblico – Portogallo, Spagna, Italia – possano trovarsi in una situazione simile. Perché? Come i governi di questi paesi si sono affrettati a spiegare, i loro conti pubblici non sono nello stato drammatico di quelli greci. Allora perché gli investitori sono preoccupati? Perché rischiano i propri soldi in una scommessa perdente? Perché, come dicono gli economisti, in questa partita tra Stati sovrani e investitori ci possono essere “equilibri multipli” (1): anche quando uno Stato non è molto indebitato, gli investitori possono cominciare a temere che, non volendo alzare la pressione fiscale oltre un certo livello “politicamente sostenibile”, in futuro esso potrà voler ricorrere alla ristruttrazione o alla monetizzazione del debito, o a entrambe. Nel timore che questo accada, essi spingono i tassi a livello talmente alto che “la loro profezia si autoavvera”: a quei tassi, lo stato che altrimenti avrebbe fatto fronte ai suoi debiti finisce davvero per dover davvero ristrutturare o monetizzare il debito, cioè per non ripagarlo interamente.
Quindi tutto dipende dalla “fiducia” degli investitori: se e fin quando la fiducia c’è, si resta nell’“equilibrio buono” con tassi di interesse moderati e mercati tranquilli; quando la fiducia scompare, si salta all’“equilibrio cattivo”, quello in cui c’è la crisi fiscale. Il “contagio” che la crisi greca ha scatenato è stato proprio questo: ha indebolito la fiducia degli investitori anche verso stati che avrebbero potuto continuare a navigare in acque tranquille se avessero continuato a godere della loro fiducia. Si noti fra l’altro che l’onere stesso del salvataggio della Grecia sta appesantendo i conti pubblici di Portogallo, Spagna e Italia, e anche questo ha contribuito a indebolire la fiducia nella loro solidità di debitori.

LA BORSA E LA SPECULAZIONE

Punto quarto: il rifinanziamento del debito pubblico. I paesi in questione sono esposti alla crisi fiscale (l’“equilibrio cattivo”) nella misura in cui sono costretti a ricorrere ai mercati per il rifinanziamento del debito pubblico, e quindi a seconda di quanto debito pubblico scadrà nei prossimi mesi. Ciò a sua volta dipende dalla scadenza media del debito pubblico: se il debito pubblico è per lo più a lunga scadenza, la quantità di debito da rifinanziare in un dato intervallo di tempo è piccola, e anche doverlo fare a tassi elevati è un costo sopportabile. In questo caso, il rischio di crisi fiscale è escluso. Se invece il debito è per lo più a breve termine, cosicché la quantità di debito da rifinanziare è elevata, il rischio di crisi fiscale esiste, come dimostrato da Giavazzi e Pagano (1990). (2) L’argomentazione è simile quella usata nel valutare la solvibilità delle imprese delle banche, in cui il “rollover risk” derivante dall’indebitamento a breve è uno dei fattori che determina il rischio di fallimento.
Punto quinto: il deprezzamento dell’euro. Perché l’euro si sta deprezzando? Una possibile risposta è che man mano che la crisi si allarga ad altri grandi paesi dell’area dell’euro, il rischio di monetizzazione del debito pubblico da remoto si fa più concreto. Se la Grecia può essere salvata (forse) dagli altri paesi dell’area euro, questo non può certo valere per l’imponente debito pubblico di Italia, Spagna e Portogallo. A quel punto, il rischio che la Bce debba monetizzarlo esiste, e i timori di inflazione che ne derivano potrebbero spiegare il deprezzamento dell’euro. Ma poiché ciò metterebbe a repentaglio la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, e rappresenterebbe un imponente trasferimento di risorse dai paesi forti dell’euro a quelli deboli, è uno scenario poco probabile.
Una spiegazione alternativa del deprezzamento dell’euro è il timore della rottura dell’eurosistema, uno scenario fino a poco tempo fa impensabile: proprio per non essere chiamati a contribuire alle finanze dei paesi deboli dell’area dell’euro con la monetizzazione del debito, i paesi forti potrebbero spingere quelli deboli al di fuori dell’eurosistema. Ovviamente questo è uno scenario drammatico, in quanto la ridefinizione dei confini della moneta unica difficilmente potrebbe avvenire senza impressionanti scossoni. E inoltre nel frattempo la crisi fiscale potrebbe tradursi nell’insolvenza sul debito pubblico di vari paesi dell’area dell’euro, con effetti globali devastanti: considerato che il debito pubblico di questi paesi è massicciamente presente nei bilanci di banche e assicurazioni di tutto il mondo, e soprattutto dell’area dell’euro, potrebbero determinarsi catastrofiche reazioni a catena in tutto il sistema finanziario. Il “contagio” diventerebbe davvero globale. Al confronto, la crisi innescata dai mutui “subprime” diventerebbe un pallido ricordo.
Ciò spiega perché le borse stanno crollando, e perché i governanti siano molto preoccupati, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Tuttavia, le invettive dei governi contro gli “speculatori” e i “mercati” sono infantili. La parola “speculatore” nasce dal latino specula (vedetta), e indica chi cerca di “guardare lontano”, e quindi metaforicamente “prevedere il futuro”. Nel momento in cui un qualsiasi risparmiatore decide se sottoscrivere i titoli del debito pubblico, anch’egli cerca di “guardare lontano”, e in questo senso in qualche misura siamo tutti speculatori. E tutti contribuiamo a determinare l’andamento dei mercati, perfino quando decidiamo di non servircene. Sta ai governi dimostrare che in questo momento speculatori e mercati stanno sbagliando previsioni e scommesse.

RECUPERARE LA FIDUCIA DEI MERCATI

Ma esiste un modo di recuperare la fiducia dei mercati? Poiché l’origine del problema è nella politica fiscale, il modo di recuperarla è sul fronte del fisco: occorre dare segnali forti e coordinati che gli stati deboli dell’area dell’euro sono capaci di “mettere a posto” i propri conti pubblici, accettando un monitoraggio e una disciplina comunitaria molto forte sulle proprie finanze.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea. (Beh, buona giornata).

(1) Si veda ad esempio Guillermo Calvo, “Servicing the Public Debt: The Role of Expectations,” American Economic Review, September 1988.
(2) Francesco Giavazzi e Marco Pagano, “The Management of Public Debt and Financial Markets,” in High Public Debt: the Italian Experience, edited by L. Spaventa and F. Giavazzi, Cambridge University Press, Cambridge, 1988.

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Che sta succedendo all’economia europea/8.

Come far piangere gli speculatori, di LUIGI SPAVENTA-repubblica.it

IN CHE COSA consiste la speculazione? In un’imponente concentrazione di mezzi finanziari atta a provocare un esito che, pur se non altrimenti giustificato, fa vincere la scommessa. La speculazione si batte non con le deprecazioni né mandando i marines, ma facendo piangere chi ci ha provato: le lacrime di chi ci ha provato sono i soldi che gli si fanno perdere. Per far perdere i soldi alla speculazione, le autorità devono essere decise e dimenticare per un momento le regole del galateo.

I ribassisti ne fanno di tutte; dispongono dei mezzi tecnici più sofisticati; operano con una leva gigantesca, senza impegnare soldi propri. Se la pressione cresce (otto giorni fa al mercato dei derivati di Chicago si contavano 103.400 contratti al ribasso sull’euro, pari a quattro volte le posizioni lunghe, per un valore di quasi 17 miliardi di dollari) che cosa dovrebbero fare le autorità che tutelano la nostra stabilità? Consultare il manuale di buone maniere di Monsignor della Casa e reagire senza dare prova di maleducazione? Oppure togliersi i guanti e picchiare?

Nell’agosto del 1998, in esito alla crisi finanziaria del Sud-Est asiatico, quando finirono al tappeto le economie più dinamiche dell’area, la speculazione prese di mira con pesanti bordate la valuta e il mercato azionario di Hong Kong. Poiché i consueti strumenti di difesa (aumento dei tassi) non bastavano, l’autorità monetaria del territorio buttò alle ortiche l’ortodossia e decise di presentarsi in borsa come compratore di ultima istanza, in contropartita dei venditori a pronti e a termine, e acquistò azioni – azioni, si badi, non casti titoli di Stato – per 15 miliardi di dollari. Questa operazione (battezzata doppio slam, double whammy) inflisse gravissime perdite ai ribassisti, che dovettero abbandonare il terreno con gravi perdite. Vi fu anche un lieto fine: l’autorità monetaria rivendette gradualmente le azioni acquistate lucrando un profitto di 4 miliardi per le casse pubbliche (così come la banca centrale americana sta facendo profitti, rivendendo i titoli acquistati durante la crisi per sostenere le banche).

Non suoni eresia: la sola entità che possiede più mezzi di qualsiasi diabolico speculatore è una banca centrale che abbia il potere di emettere moneta. Solo quella banca centrale può essere compratore di ultima istanza di qualsiasi attività finanziaria che sia oggetto di un attacco speculativo ribassista, a condizione che quella attività sia denominata nella valuta che essa emette (per la Bce un titolo in euro, per la Federal Reserve un titolo in dollari).

Naturalmente questo è un rimedio estremo per mali estremi: per metterlo in opera si deve essere convinti che il valore mirato dalla speculazione non sia quello “giusto”; che senza turbolenze si potrebbe raggiungere un valore diverso e mettere in opera procedure più ordinate. Mi pare evidente che queste condizioni ricorrano oggi: occorre tempo per verificare il funzionamento del piano messo su per la Grecia; Spagna e Portogallo non meritano le frustate ad essi inflitte dai mercati solo per bastonare l’euro; il funzionamento dell’euro dovrà essere ripensato, ma non in un’affannosa emergenza. La Banca centrale europea è chiamata a fare la sua parte (“tutte le istituzioni… convengono di ricorrere a tutta la gamma di strumenti disponibili per garantire la stabilità”, recita il comunicato del Consiglio europeo di venerdì).

L’art. 123 del Trattato di Lisbona vieta esplicitamente alla Bce l’acquisto diretto di titoli di debito emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico, ma non ne impedisce l’acquisto sul mercato, con operazioni che un tempo venivano definite di mercato aperto. Le dissertazioni sull'”azzardo morale” (nozione cara agli economisti) e sul rischio di inflazione non hanno pregio: lasciar prevalere i ribassisti quando si ritengano ingiustificati i loro obiettivi, quello sì è offrire occasione di azzardo morale; sappiamo che la massa monetaria creata occasionalmente (e quanta se ne creò per finanziare le banche!) può essere agevolmente riassorbita, anche liquidando nel tempo i titoli immessi nell’attivo anche con operazioni di acquisto. Altri espedienti sono opportuni, ma non sufficienti a battere la speculazione.

Un fondo di assistenza di qualche decina di miliardi? Ottimo, ma complicato da mettere in opera; soprattutto si indica alla speculazione che essa vince se riesce a mobilitare (magari solo sulla carta) una cifra maggiore. Più soldi resi disponibili dalla Bce alle banche? A poco servirebbero, posto che al momento le banche, di nuovo diffidenti l’una dell’altra, stanno depositando liquidità a Francoforte. È il momento del coraggio: si può riuscire a farli piangere gli speculatori, ma non con le chiacchiere di chi, come avrebbe detto Krusciov, non ha divisioni da mandare in combattimento. (Beh, buona giornata).

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Cosa sta succedendo all’economia europea/7.

(fonte: repubblica.it)
Dopo la maratona di ieri, durata oltre dieci ore, i ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno trovato l’accordo per un piano salva-euro che potrebbe raggiungere i 720 miliardi. L’intesa è per 500 miliardi di aiuti europei cui si aggiungerà una cifra non precisata del Fondo monetario internazionale che secondo la presidenza di turno spagnola della Ue potrebbe arrivare a 220 miliardi. Al fondo non parteciperà la Gran Bretagna: “Voglio essere chiaro, la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo”, ha detto il titolare delle Finanze di Londra, Alistair Darlin.

Oggi volano le Borse dopo l’accordo sul piano anti-speculatori e l’annuncio che anche le banche centrali interverranno sui mercati. Piazza Affari si è impennata fin dall’apertura e sale di oltre il 7%. In avvio ben 16 titoli dell’indice Ftse non riuscivano a fare prezzo per eccesso di scostamento. A beneficiare soprattutto il settore bancario, più penalizzato nelle sedute della scorsa settimana dalle vendite. Unicredit e Intesa salgono di oltre il 15 e oltre il 14%, rialzi a due cifre anche per Mediobanca e Popolare di Milano.

Lisbona guadagna oltre l’8%, seguita da Bruxelles con oltre il 7,5. Oltre il 7 anche Parigi, seguita da Amsterdam (5%) e Francoforte e Londra oltre il 4. Atene è balzata di oltre 7 punti percentuali in apertura.

Forse più ancora che dalle decisioni dell’Ecofin il maxi-rimbalzo è provocato dall’annuncio che anche le banche centrali intervengono per sostenere la stabilità finanziaria. La Banca centrale europea, subito dopo la fine della riunione dei 27 a Bruxelles da Francoforte ha annunciato “misure eccezionali” sul mercato dei titoli di Stato e su quello dei cambi. L’intento, è scritto in un comunicato, è “di mettere fine alle disfunzioni” che sono state riscontrate dopo l’esplosione della crisi greca. Altra misura è stata concertata con la Fed, e le banche centrali di Canada, Inghilterra, Svizzera alle quali si è poi aggiunta quella giapponese. In sostanza i banchieri centrali hanno riattivato il meccanismo di scambio delle divise (swap) per facilitare l’approviggionamento in dollari delle banche della zona euro.

Misure necessarie, secondo la Bce, per fare fronte “alle gravi tensioni osservate sui mercati finanziari”. Buona la reazione dell’Euro che torna ad 1,30 nel cambio con il dollaro dopo che nei giorni scorsi era sceso sotto quota 1,26. “Il fondo rafforzerà e proteggerà l’euro, ma i problemi vanno affrontati alla radice” rafforzando la disciplina di bilancio” commenta il cancelliere tedesco Angela Merkel.

La prima Borsa a chiudere, dopo gli interventi di Ue, Fmi e banche centrali è stata quella di Tokyo: l’indice Nikkei chiude a +1,30% dopo due sessioni in calo. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/6.

Vertice salva-euro in bilico ,Dopo lo stop di Londra arrivano i dubbi di Berlino,di Fabio Grattagliano-sole24ore.com

La Germania ha proposto un piano di aiuti finaziari per i paesi della zona euro in difficoltà pari a una cifra di 600 miliardi di euro, con la partecipazione del Fondo monetario internazionale. Lo si apprende a margine della riunione dell’Ecofin

I ministri dell’economia e delle finanze dei 27 paesi Ue riuniti a Bruxelles per trovare una soluzione in grado di salvare in maniera strutturale l’euro e i paesi sotto minaccia della speculazione hanno preso una pausa. La riunione dell’Ecofin è stata al momento sospesa per consentire i lavori del Comitato economico e finanziario della Ue, l’organismo dedicato ad affrontare le modalità più tecniche del piano che sta cercando una sintesi in grado di accontentare tutte le posizioni espresse al tavolo dei ministri.

L’ultima bozza che circola
Se accolto dagli stati membri, il piano di aiuti finanziari sarebbe senza precedenti nella storia dei salvataggi. I 600 miliardi, l’ultima cifra che circola assieme alle bozze dei tecnici al lavoro, sarebbero così composti: 60 miliardi di garanzie dalla Commissione dell’Ue, 440 miliardi di garanzie dagli stati membri e 100 miliardi di euro di linee di credito messe a disposizione – se necessario – dal Fondo monetario internazionale. Nelle conversazioni telefoniche intercorse oggi tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, sono servite – riferiscono fonti diplomatiche – a rafforzare l’asse con Washington per la partecipazione del Fmi. Il modello che verrebbe seguito per le garanzie degli stati membri sarebbe lo stesso usato per il caso Grecia. Germania e Olanda però si sono opposte al sistema di garanzie che era stato individuato nella proposta della Commissione. «È un’arma formidabile contro la speculazione», commentano fonti diplomatiche. «Se Francia e Germania sono unite e determinate è impossibile che la speculazione attacchi paesi come la Spagna o il Portogallo».

Il rifiuto di Londra. La ricerca di un meccanismo condiviso di stabilizzazione della moneta unica ha ricevuto un pesante stop dopo il rifiuto della Gran Bretagna a contribuire alla creazione del fondo. Anche la Germania starebbe creando qualche difficoltà sul fondo e in maniera particolare sul meccanismo di garanzie dei prestiti. «Voglio essere chiaro – ha detto il cancelliere dello scacchiere Allistair Darling – la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo. Quello che non faremo e non potremo è dare sostegno all’euro. La responsabilità di sostenere l’euro deve essere in capo ai membri dell’eurogruppo». Il rifiuto di Londra – che riguarderebbe solo la disponibilità di risorse al fondo e non uno stop politico alla creazione dello stesso – potrebbe spingere l’Ecofin verso l’ipotesi di limitare il meccanismo di prestiti garantiti ai soli 16 paesi della zona dell’euro.

Piano di salvataggio. Secondo le indiscrezioni le garanzie sul tavolo dovrebbero ammontare a 60/70 miliardi di euro: una cifra in grado di mobilitare sui mercati prestiti per almeno 600 miliardi. Se avere un fondo a 27 o a 16 «è una questione ancora in discussione», sottolineano fonti a Bruxelles. «Mai dire mai» ha detto il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, arrivando alla riunione, mentre la collega spagnola Elena Salgado, ministro dell’Economia e delle Finanze e presidente di turno dell’Ecofin ha detto che «La Spagna non si prepara a ricorrere a nessun fondo» rispondendo alla domanda se Madrid si stesse accingendo ad usufruire del piano salva-Stati allo studio dei ministri della Ue.

Le opzioni sul tavolo. Tra le opzioni in gioco, una prevede che l’Ecofin approvi la costituzione di un Fondo di stabilizzazione sul modello già utilizzato in passato per gli aiuti a paesi non dell’eurozona (Lettonia, Ungheria e Romania): a intervenire in questi casi è l’articolo 143 del Trattato Ue in caso di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Si tratterebbe di estendere anche ai paesi dell’eurozona la possibilità di ricevere supporto finanziario allargando l’ipotesi anche per difficoltà di approvvigionamento sui mercati per finanziare il debito sovrano. Fondendo le somme disponibili per i due strumenti si arriverebbe a una dotazione di oltre 100 miliardi di euro. Il problema è che l’articolo 143 è applicabile solo agli Stati dell’eurozona. La soluzione potrebbe arrivare grazie all’articolo 122 del trattato Ue, che prevede che il Consiglio dei 27 in caso di circostanze eccezionali possa decidere a maggioranza qualificata di concedere assistenza finanziaria a uno stato in difficoltà. L’ipotesi, in un primo momento osteggiata dal governo di Londra perché in questa evenienza la Gran Bretagna riteneva di poter essere “costretta” a fornire la propria quota di finanziamento, è ora valutata da Londra con maggior favore.

Banchieri riuniti. A Basilea i banchieri centrali della Bce attendono di capire quale ruolo sarà loro attribuito dall’Ecofin nella gestione del piano di difesa dell’euro e in special modo sulle modalità di acquisto di titoli di Stato in cambio di impegni precisi dei paesi sul risanamento dei bilanci. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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L’attacco all’euro è colpa degli speculatori?

http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Ora la caccia allo speculatore è in cima alle preoccupazioni dei governi dell’Eurozona. Questo purtroppo conferma la debolezza della risposta europea a questa crisi. Quando s’invocano le oscure forze del capitale è un brutto segno.

La speculazione esiste, ha mezzi consistenti, io stesso ho raccontato le “cene segrete” di Wall Street tra gli hedge fund, sulle quali la magistratura e la Sec hanno aperto un’indagine per capire se ci fu collusione nell’organizzare gli attacchi all’euro.

Ma prendersela con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta.

Ricordiamo l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: fu possibile per l’altissimo debito pubblico dei due paesi, e l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (allora lo Sme).

Soros precipitò il crollo della lira, l’uscita dallo Sme, ma così facendo costrinse l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (Amato) che era necessario in quanto tale: eravamo avviati su una china distruttiva, per comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti.

Oggi la situazione non è diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione della Germania nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione è messa di fronte al conto degli errori accumulati in molti anni.

La speculazione ci si arricchisce sopra. Ma nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto: rafforzava l’euro, consentiva alle banche europee di rimpinguarsi i bilanci con finanziamenti a tasso zero. C

‘è un’attenzione asimmetrica ai danni degli speculatori. Li si scopre malvagi e distruttivi solo quando le loro scommesse disturbano uno status quo consolidato.

L’ultima grande crisi che ebbe come suo epicentro l’Asia, quella del 1997, fu l’occasione anche là di alte grida contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahatir divenne famoso per le sue denunce contro le congiure degli speculatori angloamericani.

Da allora però l’Asia, più che prendersela con gli speculatori, ha imparato una lezione diversa. Oggi le nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro tutto questo, ci sono delle economie reali con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività.

Questo andrebbe ricordato, perché se l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per i nostri governi e banchieri centrali, ma è pseudo-economia. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia

Quella gran voglia delle banche di riaumentare il costo del denaro.

La Federal Reserve ha aumentato il tasso di sconto di un quarto di punto, dallo 0,50% allo 0,75%. Ma ha tenuto a precisare che la decisione non implica un cambiamento della politica monetaria o delle prospettive per l’economia. E ha ribadito che i tassi rimarranno a livelli bassi per un periodo prolungato. In rialzo dello 0,25% anche il tasso di offerta minima creato a dicembre 2007 nel momento della recessione. A quando la Bce? Beh, buona giornata.

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