“A fine agosto 2024 Eden è stata uccise insieme ad altri cinque israeliani nei tunnel.
Probabilmente i miliziani hanno sentito le truppe israeliane in avvicinamento e hanno voluto evitare che venissero recuperati vivi.
‘Tutti sanno che puoi provare a salvare gli ostaggi che sono negli appartamenti, in case in superficie, ma è impossibile fare operazioni di questo tipo nei tunnel’ ha detto Hila.
In quella fase il governo stava rallentando i negoziati insistendo sulla questione del corridoio di Filadelfia, il che ha scatenato l’indignazione popolare.
Come poteva Bibi lasciarli morire rifiutandosi di essere più flessibile?
Mettendo il problema degli ostaggi in secondo piano ‘Netanyahu ha distrutto l’anima di Israele’ mi ha detto Hila, reduce dal funerale di Eden a Tel Aviv.
‘Gaza è distrutta fuori, ma noi israeliani siamo distrutti dentro. Mi vergogno di essere israeliana nel mio stesso Paese’. (“Il sentiero dei dieci”, Davide Lerner, PIEMME.)
“Netanyahu e il suo governo devono pagare non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele”.
I morti di Gaza sono opera di uno Stato che si proclama a gran voce democratico, l’unica democrazia del Medio Oriente, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas.
Un capo che sarà sostituito da un altro dopo pochi giorni.
E gli ebrei del mondo, di quella diaspora che si riempie la bocca e la mente di etica ebraica e di pensiero ebraico, come possono accettarlo senza reagire?
Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza?
L’unico modo in cui possono farlo è se davvero credono che tutti gli arabi, che tutti i palestinesi, siano terroristi pronti a sgozzarli.
Non voglio pensare che sia così, preferisco vedere in questo il volto terribile della vendetta.
[…]
“Il percorso di Israele appare sempre più come un vero e proprio suicidio.
L’escalation del governo israeliano non si ferma e aggiunge ogni giorno nuovi morti nei bombardamenti, nuove violenze, nuove dichiarazioni provocatorie dei suoi ministri. Israele restituisce colpo su colpo.
Ma è davvero questa la strategia vincente?
Forse presto questo governo di estremisti cadrà e le bombe smetteranno di uccidere civili a Gaza. E in qualche misura, coi necessari compromessi, la vita ripartirà in Israele e nei territori palestinesi.
Compromessi, perché dopo questa terribile esplosione di odio la strada non dico per la pace ma per una semplice convivenza è lunga.
Le ferite devono rimarginarsi, quello che è stato distrutto deve almeno iniziare ad essere ricostruito.
Netanyahu e il suo governo devono pagare non solo per quello che hanno fatto ai palestinesi di Gaza, ma anche per quello che la loro politica ha comportato per la stessa Israele.
Gli israeliani dovranno trattare con Hamas, colpevole della terribile strage del 7 ottobre, ma i palestinesi dovranno trattare con chi è colpevole di aver distrutto le loro case e ucciso le loro famiglie.
Non possiamo dare per scontato che l’odio lasciato da tutti questi traumi cesserà un giorno. Ma non ci sono altre strade che questa.” (da “Il suicidio di Israele” di Anna Foa, Editori Laterza).
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Giuseppe Gioacchino Bordonaro aveva 52 anni, moglie e 3 figli, quando il 16 luglio 2014 morì all’ospedale di Messina, dove era ricoverato dal 24 giugno per una caduta dal tetto in un cantiere di Canicattì.
Lavorava in nero e senza misure di sicurezza alla realizzazione di un manufatto abusivo.
Dieci anni dopo è arrivata la sentenza di primo grado per una storiaccia in cui c’è stato anche il tentativo di far passare per incidente stradale la morte di un lavoratore.
Dieci lunghi anni che hanno fatto cadere in prescrizione numerosi capi d’accusa, come la violazione della normativa sulla sicurezza del lavoro, la simulazione di reato, il favoreggiamento personale, l’abusivismo edilizio (quest’ultimo per via della intervenuta sanatoria).
È rimasto in piedi l’omicidio colposo, per il quale sono stati inflitti 4 anni di reclusione a Giovanni Garlisi, 45 anni, titolare dell’impresa esecutrice, che ai medici dell’ospedale di Canicattì aveva detto di aver investito con il furgone Bordonaro mentre raccoglieva erbacce; un anno a Roberto Lauricella Donisi, 56 anni, titolare dell’impresa affidataria dei lavori; 8 mesi ad Antonio Ferraro, 64 anni, proprietario e committente dei lavori.
L’accusa aveva chiesto per tutti e tre la condanna a 4 anni e 6 mesi.
Tutti risarciranno le parti civili per importi da 25mila a 50mila euro, mentre la vedova e i tre figli riceveranno una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 135mila euro.
La pena a Ferraro e Lauricella Donisi è stata dichiarata “condizionalmente sospesa” per il termine di 5 anni.
La prescrizione è intervenuta per altri due imputati, la comproprietaria Maria Grazia Cuva (assolta dall’omicidio colposo), e Gioacchino Caracciolo, collega della vittima, che aveva negato la presenza di Bordonaro nel cantiere.
Due autotrasportatori morti in poco più di 24 ore portano a 9 le vittime della categoria nel mese di ottobre, quasi un decimo del totale.
Stefano Corsato, camionista 56enne di Latina, è morto mercoledì 30 ottobre al km 266 della A14 nel territorio di Porto Sant’Elpidio (Fermo).
Dopo 5 ore alla guida è stato colto da malore mentre viaggiava in direzione sud ma ha avuto la prontezza di spirito di tentare di spostarsi sulla corsia d’emergenza, tamponando un altro tir.
Una volta fermo ha perso conoscenza e le manovre dei soccorritori intervenuti, anche con l’elisoccorso, non hanno sortito effetto.
Vale la pena ricordare che quello del camionista non è considerato dalla legge “lavoro usurante”, al contrario di quello di conducente di mezzi adibiti al trasporto pubblico.
Antonio Silvestre, 22enne di Forlimpopoli (Forlì Cesena), aveva scelto il mestiere di camionista, seguendo le orme del padre. Martedì 29 ottobre, all’alba, ha perso la vita in un incidente stradale mentre andava al lavoro.
È accaduto a Casemurate, frazione del comune di Ravenna, dove l’auto del giovane si è scontrata con un furgone che proveniva in senso contrario, quasi certamente durante un tentativo di sorpasso.
Quattro complessivamente i veicoli coinvolti. Fatale, nella tempistica, anche un contrattempo: Silvestre, partito alle 5 da casa della ragazza, si era accorto di aver dimenticato i documenti, era tornato indietro e poi si era avviato di nuovo verso il lavoro, cercando di recuperare il tempo perduto.
Fabrizio Nicolò, tecnico ascensorista 50enne, residente con la moglie e le figlie a Mosorrofa, frazione collinare di Reggio Calabria, è morto mercoledì 30 settembre precipitando per una decina di metri nel vano di un ascensore condominiale a Locri. Non ancora chiara la dinamica dell’evento.
Come è stato possibile che lo Stato di Israele si sia trasformato in paese fascista, guerrafondaio, genocida? Perché gli USA e l’UE hanno fatto finta di non vedere l’involuzione antidemocratica della leadership di Netanyahu? In queste pagine una spiegazione plausibile.
Lo studioso israeliano Dani Filc ha messo in evidenza le somiglianze fra il primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu da una parte e Bucaram, Menem e Fujimori dall’altra.
Sebbene in genere il nome di Netanyahu non compaia negli studi sul populismo, Filc sostiene con decisione che egli rappresenta un peculiare esempio di populismo neoliberale.
A mio avviso, leader come Netanyahu sono compagni di strada del populismo, come nel periodo fra le due guerre i regimi e i movimenti di destra furono compagni di strada dei fascisti.
Sono vicini, e condividono perfino significativi elementi antistituzionali e l’idea che la politica sia una guerra all’ultimo sangue contro molteplici nemici, ma non danno molta importanza al culto del leader e alla logica della contrapposizione fra élite e popolo.
Netanyahu non ispira un forte culto della personalità, al confronto di Menem e Berlusconi, ma è ricorso spesso a strategie populiste e a un vocabolario ben calibrato. […]
Dani Filc ritiene che ‘Bibi’ Netanyahu sia un esempio assai appropriato del rapporto del populismo con la guerra e con le politiche a base etnica: il primo ministro israeliano gli appare come l’emblema del populismo etnico incentrato su politiche di esclusione.
La concezione di cittadinanza discriminatoria adottata da Netanyahu conserva in parte, ma in forma attenuata, l’orientamento relativamente inclusivo che fu proprio del partito della destra, il Likud, negli anni sessanta e settanta.
Se infatti il suo fondatore, Menahem Begin, aveva affiancato all’inclusione dei cittadini ebrei di origini non europee l’esclusione dei cittadini arabi, per altro verso aveva ribadito che la minoranza araba era titolare di tutti i diritti civili.
Netanyahu, invece, accusa regolarmente gli arabi israeliani di costituire una minaccia alla sicurezza nazionale, senza con ciò annullare i loro diritti politici.
In una fase precedente della sua carriera, negli anni Novanta, lo stesso Netanyahu si era presentato come figura estranea alle élites del partito, identificandosi per certi aspetti con i settori più poveri della società israeliana.
In questo contesto, lo studioso israeliano Uri Ram sostiene che il leader del Likud riuscì a miscelare l’anti-elitarismo populista col ‘tradizionalismo populista ebraico’ e con la continua inclusione delle minoranze, dei coloni e dei nazionalisti religiosi e laici ebrei. Questa coalizione proponeva una nuova concezione del popolo di Israele, allo stesso tempo inclusiva e basata sull’esclusione.
È emblematico che nel 1999 Netanyahu individuasse i suoi oppositori nelle ‘élites’ mosse da odio contro il popolo. Il soggetto collettivo sottointeso nel suo uso del ‘noi’ era concepito come una vittima.
Le élites erano contro il popolo: ‘Lo odiano. Odiano il sefardismo e i russi. Odiano chiunque non sia come loro: etiopi, sefarditi, marocchini, e religiosi. Li odiano’. Per lui le élites erano antagoniste del popolo, rappresentavano una ‘sinistra’ che aveva dimenticato cosa significava essere ebreo.
In questa sua idea di nemico, Netanyahu non includeva le élites degli affari. Ai suoi occhi, spesso élites politiche e sinistra erano difficilmente distinguibili.
Come ha rilevato Filc, ‘sinistra’ era un termine particolarmente generico, che poteva applicarsi contemporaneamente agli ashkenaziti che discriminavano i mizrahim, agli impiegati statali e ai sindacati, ai regimi comunisti europei, agli ebrei liberali, agli accademici, ai media, ai lavoratori stranieri e agli arabi.
Per questo studioso, “il leader del Likud sostiene la concezione populista dell’opposizione fra popolo puro ed élites corrotte. ‘Noi’ sta per il vero popolo ebraico”.
In modo analogo, Zeev Sternhell sostiene che l’odierno Likud identifica le sue politiche con i “diritti storici”, considerati superiori ai diritti umani.
Sternhell è uno dei principali esperti di fascismo -storico, sopravvissuto all’olocausto, sionista, ex ufficiale e veterano dell’esercito israeliano, è rimasto lui stesso vittima di una bomba piazzata nel 2008 da un estremista di destra israeliano.
Per Sternhell le posizioni del Likud confermano ampiamente le concezioni illiberali del significato del mandato elettorale: “di fatto quello che dicono è ‘siamo la maggioranza, possiamo fare tutto quello che vogliamo”. Dare alla maggioranza carta bianca ha portato a chiedere l’esclusione delle minoranze.
Nelle elezioni del 2015 Netanyahu ammonì gli israeliani affermando che gli arabi votavano in gran numero, come se l’esercizio di un legittimo diritto da parte di quei cittadini minacciasse la sua concezione della democrazia. Quello che in realtà voleva dire è che i palestinesi con cittadinanza israeliana (il 20% del corpo elettorale dell’epoca) non facevano parte della maggioranza etnica che lui stesso, in veste di leader populista, sosteneva.
Ai suoi occhi, gli arabi israeliani sono chiaramente una sorta di anti popolo, non rientrano nella sua concezione unitaria che accomuna leadership, nazione e etnia. Avidgor Lieberman, leader populista israeliano e alleato di estrema destra di Netanyahu, disse che il leader “sa anche che se gli arabi votano in massa, solo un forte Lieberman li può fermare”. E aggiunse che gli arabi israeliani “sleali” avrebbero dovuto essere decapitati.
Per la leader dell’opposizione israeliana Tzipi Livni, come riferì lo “Jerusalem Post”, “il premier aveva tentato di fare della Sinistra israeliana il nemico di Stato, e tale posizione era “imperdonabile”. Livni ha affermato che la manovra aveva portato Netanyahu alla vittoria, ammonendo però che quella mossa avrebbe provocato odio e paura.
Quando nel 2016 Netanyahu nominò Lieberman ministro della Difesa, Ehud Barak, già primo ministro israeliano, mise in guardia dal pericolo fascista, affermando che il paese era stato “infettato dai germi del fascismo”. È interessante notare che questa considerazione di Barak sembrava riecheggiare l’analisi di Sternhell, il quale rilevò che “la democrazia israeliana [era stata] sempre più erosa”, e avvertì che si scorgevano i segni del fascismo.
Ai suoi concittadini Sternhell ricordava che “la democrazia richiede l’accettazione delle decisioni della maggioranza, ma non autorizza a riconoscere la giustezza o la legittimità morale della maggioranza”.
Seguendo questa indicazione, che inquadra una dimensione fondamentale del populismo, direi che ragionare in termini di populismo di destra piuttosto che di fascismo permette di comprendere meglio il partito di Lieberman e le straordinarie somiglianze che lui e altri politici di destra mostrano con la destra xenofoba europea.
Come avviene anche altrove, in Israele il populismo si affida a una miscela di procedure democratiche e concezioni del popolo antidemocratiche e discriminatorie nei confronti del diverso.
Come ha scritto Filc, “la paura viene alimentata lungo il confine che separa ‘noi’ (il vero popolo) da ‘loro’ (il nemico straniero, i palestinesi e i loro alleati interni, che possono cambiare nel corso del tempo)”. (“Dai fascismi ai populismi”, Federico Finchelstein, Donzelli Editori).
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Abbiamo denunciato più volte la lentezza con la quale circolano le notizie sugli incidenti di lavoro in generale e sulle morti in particolare.
In alcuni territori è una vera e propria strategia messa in atto dagli organi ufficiali per nascondere fatti anche gravi.
Accade per esempio a Firenze, dove la locale Procura ha deciso di chiudere i canali di comunicazione con i media.
L’Associazione della Stampa Toscana ha emesso martedì 29 ottobre un duro comunicato contro il procuratore Filippo Spiezia (senza nominarlo), dopo che con giorni di ritardo è emersa la notizia della morte di un operaio marocchino 58enne.
Il fatto risale a sabato 26, quando un pirata della strada 82enne ha travolto il lavoratore in un cantiere stradale sulla A1 nei pressi di Bagno a Ripoli. Ricoverato in ospedale, l’operaio è morto domenica 27 per le gravi ferite riportate.
Questo un passaggio della denuncia Assostampa, che accusa la procura di violare il diritto all’informazione: “Ancora una volta è stata censurata una notizia di cronaca e i cittadini si sono visti negare il diritto ad essere informati su un fatto grave qual è un incidente mortale sul lavoro”. Sottoscriviamo.
Lorenzo Salis, allevatore 28enne di Senorbì (Sud Sardegna), padre di due figli, è morto martedì 28 ottobre per le conseguenze di una caduta da un edificio che stava demolendo insieme al padre.
Lavori in economia, portati avanti senza le necessarie attrezzature e senza misure di sicurezza, come appurato dai carabinieri.
Tutti i media hanno riportato la notizia della morte della 19enne sciatrice Matilde Lorenzi, spirata al San Maurizio di Bolzano nella notte tra il 27 e il 28 ottobre per le conseguenze di una caduta in allenamento su una pista rossa della Val Senales.
Matilde era una promettente atleta professionista, tanto da essere entrata con il grado di caporale nel Gruppo Sportivo dell’Esercito.
Nicola Farruggio, 59enne presidente di Federalberghi Palermo, è morto lunedì 28 ottobre per un malore mentre era al lavoro nel Mondello Glam Hotel, ultimo nato del gruppo. Vani i soccorsi.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Di Lorenzo Parelli, lo studente 18enne morto il 21 gennaio 2022 alla Burimec di Pavia di Udine nell’ultimo giorno di stage, si era parlato molto nello scorso fine settimana per la firma di Confindustria sotto la “Carta di Lorenzo”, una dichiarazione di intenti in cui le aziende promettono di tutelare la sicurezza degli studenti impegnati nella cosiddetta alternanza scuola-lavoro (si chiama in realtà PCTO, “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, uno di quei nomi pomposi che servono solo a nascondere le magagne).
Se ne torna a parlare oggi, martedì 29 ottobre 2024, dopo le condanne inflitte con il rito abbreviato dal gip di Udine ai tre responsabili dell’incidente in cui Lorenzo perse la vita, colpito alla testa da una putrella.
Per tutti l’accusa era di omicidio colposo con l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro: Claudio Morandini, l’operaio che doveva affiancare Lorenzo ma si era allontanato dalla postazione, è stato condannato a 3 anni di reclusione, stessa pena patteggiata dall’imprenditore Pietro Schneider; 2 anni e 4 mesi sono stati inflitti a Emanuele De Cillia, tutor aziendale, quel giorno assente perché colpito dal Covid.
Al di là della vicenda giudiziaria, resta la speranza che sia messo un punto definitivo alla sciagurata esperienza della scuola trasformata in succursale aziendale (nel caso specifico si trattava dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine).
Gli studenti vanno a scuola per imparare, non per fornire manodopera a basso costo alle piccole aziende del territorio. I corsi di formazione li faranno una volta diplomati, a carico delle varie ditte.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Sei lavoratori hanno perso la vita in Italia lunedì 28 ottobre; a loro se ne aggiunge uno deceduto nella serata di domenica 27.
Tre sono state le vittime in itinere (tutte in Puglia), quattro quelle nei luoghi di lavoro.
I più giovani sono due venditori ambulanti morti per le conseguenze di un incidente stradale avvenuto alle 6,30 di lunedì 28 mentre andavano al lavoro lungo la statale 16, nel Foggiano.
Si tratta del 31enne Vito Ippedico, di Torremaggiore, moglie e una figlia; e di un 33enne della Sierra Leone di cui è noto solo il nome, Dennis.
Il furgone guidato da un terzo lavoratore ha sbandato ed è finito contro il guardrail all’altezza del bivio per Ripalta, nel territorio di Lesina, lo stesso punto in cui nell’estate del 2018 morirono 12 braccianti africani.
Domenica 27 ottobre a Surbo (Lecce), era morto il 42enne Salvatore Daniele, moglie e due figli.
Finito il turno al cimitero comunale, è salito sulla sua automobile per tornare a casa, ma appena fuori dal cimitero si è schiantato contro una vettura in sosta, morendo sul colpo.
Nicasio Moncada, 44enne di Sciara (Palermo), moglie e un figlio, è morto lunedì 28 a Termini Imerese mentre con un mini-escavatore ripuliva un terreno sul quale sorgeva un vecchio traliccio da demolire.
Proprio quest’ultimo si è abbattuto all’improvviso sull’escavatore, non lasciando scampo al lavoratore.
Un lavoro, come sottolineano i sindacati siciliani, che non poteva essere fatto da una persona sola e, soprattutto, richiedeva la messa in sicurezza preventiva del traliccio.
Franco Di Francesco, corriere 65enne di Tortora (Cosenza), è morto sul suo furgone a San Giovanni in Fiore, quasi certamente per un infarto.
Il mezzo ha rallentato improvvisamente, fino a tamponare a bassa velocità un’auto di passaggio. La gente accorsa ha trovato il lavoratore privo di conoscenza e nulla hanno potuto i medici intervenuti rapidamente.
Natale Maccari, 54enne di San Benedetto Po (Mantova), dipendente della Iscot (pulizie industriali), è morto nel piazzale della Iveco di Suzzara, vittima di un malore fulminante.
Ha avuto appena il tempo di dire ai suoi compagni “Mi sento stanco”, poi si è accasciato ed è spirato.
Non conosciamo ancora il nome né le circostanze in cui un 44enne di Bellizzi (Salerno), è morto lunedì 28 ottobre in un’azienda agricola di Pontecagnano.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Lo ha detto Sergio Mattarella giovedì 24 ottobre a Bologna, dove il giorno prima un’esplosione alla Toyota Material Handling ha ucciso due lavoratori e ne ha feriti undici.
Come a dire “basta chiacchiere, è tempo di agire”.
Esattamente il contrario di quello che ha fatto la ministra del (contro il) lavoro, Maria Elvira Calderone, che sull’esplosione di Borgo Panigale ha partorito il solito comunicatino di finto dolore.
Tutto questo mentre si aggiungono altre tre vittime alla conta dei morti di lavoro, con il totale del 2024 che sale a quota 939.
Due lavoratori morti, undici feriti, uno dei quali in condizioni molto gravi: è il bilancio dell’esplosione avvenuta dopo le 17 di mercoledì 23 ottobre alla Toyota Material Handling (ex Cesab) di Borgo Panigale, a Bologna, azienda che impiega 850 lavoratori.
Le vittime sono due operai bolognesi: Fabio Tosi, 34 anni, e Lorenzo Cubello, 37, che tra due mesi sarebbe diventato padre per la seconda volta. Uno ha perso la vita nel crollo, l’altro poco dopo il ricovero in codice 3 all’ospedale Maggiore. Degli undici feriti, uno è ricoverato in codice 3, sei in codice 2 e quattro in codice 1.
L’esplosione ha provocato il crollo parziale di un capannone nell’area logistica. I 300 operai di turno in quel momento sono stati fatti evacuare dai vigili del fuoco. Per giovedì 24 ottobre era in programma uno sciopero di due ore sul tema della sicurezza in azienda. È slittato a venerdì 25 ottobre, trasformato in sciopero di 8 ore di tutte le aziende metalmeccaniche della provincia di Bologna.
AGGIORNAMENTO (24/10) – La procura di Bologna ha avviato un’indagine per omicidio e lesioni colpose, affidata alla procuratrice aggiunta Morena Plazzi e alla pm Francesca Rago. È quasi certo che l’esplosione sia stata esterna al capannone semidistrutto: ci si concentra sull’impianto di climatizzazione e in particolare su un grosso scambiatore che è stato riacceso proprio mercoledì 23.
L’azienda ha comunicato ai rappresentanti dei lavoratori la chiusura dello stabilimento, la sospensione delle attività e l’attivazione della cassa integrazione.
In Puglia l’operaio 47enne Maurizio Misciali, padre di 4 figli, è morto intorno alle 8,30 di mercoledì 23 ottobre durante l’allestimento di un cantiere a Galatina (Lecce).
L’uomo è stato travolto in retromarcia da un camion carico dei ponteggi destinati al cantiere.
Intorno alle 4 di mercoledì 23 ottobre i sommozzatori dei vigili del fuoco di Firenze hanno recuperato nel lago di Bolsena, a 25 metri di profondità, il corpo del 45enne Vincenzo Aiello, sergente maggiore aiutante del 185° reggimento acquisitori della brigata Folgore.
Calabrese, single, da venti anni di stanza a Livorno, Aiello martedì 22 ottobre era a Capodimonte (Viterbo) per un’esercitazione congiunta della Folgore con il 3° reggimento elicotteri Aldebaran. Lanciatosi da bassa quota nel lago insieme ai commilitoni, era scomparso tra i flutti. Nella notte il ritrovamento del corpo.
Due operai di un’azienda specializzata nella realizzazione di cassoni metallici sono morti intorno alle 6 di giovedì 24 ottobre al km 457 dell’A1, in direzione sud, tra i caselli di Orvieto e Attigliano (Terni).
Il furgone con il quale stavano rientrando dalla Toscana in Basilicata si era fermato in corsia di emergenza perché a secco. Due dei tre occupanti sono scesi per rifornirlo con il carburante in dotazione ma sono stati travolti da un tir, morendo all’istante.
Le vittime sono il 52enne Donato Colangelo, residente a Ruoti (Potenza) con la moglie e i due figli, e il 35enne bengalese Ahmed Joni, residente ad Avigliano (Potenza). Illeso il terzo lavoratore.
Una badante romena di 63 anni, Maria Smical Firiza, è morta intorno alle 6,45 di mercoledì 23 ottobre investita da un’auto pirata a Formia (Latina), mentre aspettava l’autobus per andare al lavoro.
Nell’incidente era rimasta coinvolta una seconda vettura ma inizialmente nessuno si era accorto della vittima; poi il rinvenimento a bordo strada di una borsa da donna ha insospettito i soccorritori, che hanno trovato il corpo nei campi. Il pirata è stato poi individuato e denunciato: si tratta di un militare americano di 42 anni, di stanza a Gaeta.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Edoardo Starc-Albi, 60enne triestino responsabile della logistica del corriere marittimo Stamer, è morto lunedì 21 ottobre mentre si recava al lavoro in moto.
È accaduto intorno alle 8, quando Starc-Albi ha perso il controllo del mezzo e si è schiantato contro un albero, morendo sul colpo.
Massimo Sabato, 62enne di Susa (Torino), moglie e 3 figli, è morto lunedì 21 ottobre a Sansicario di Cesana Torinese, durante i lavori per conto di una ditta delle telecomunicazioni.
È caduto da una scala mentre con un collega era impegnato nello spostamento di cavi telefonici ed è morto sul posto mentre i soccorritori si adoperavano per stabilizzarlo e trasportarlo in ospedale.
Luca Barbarese, 61enne ternano, autista di Busitalia prossimo alla pensione, è morto sabato 19 ottobre a Terni rientrando a casa in scooter dal lavoro.
A un incrocio è stato investito da un’automobile, che l’ha sbalzato a venti metri di distanza. Nulla da fare per i soccorritori.
Nel 1919 Lenin, come presidente del Consiglio dei Commissari del popolo della Russia rivoluzionaria, inviò una calorosa lettera all’emiro dell’Afghanistan, nella quale, oltre ad offrire il reciproco riconoscimento tra stati, forniva tutto il possibile sostegno alla lotta del’emiro contro le mire coloniali della Gran Bretagna. Pare che poi, in una riunione dell’Internazionale Comunista, Lenin abbia commentato “contro l’imperialismo fa più l’emiro dell’Afghanistan che tutta la socialdemocrazia”.
Mi è tornato in mente questo suo celebre e attualissimo giudizio leggendo il bel libro di Massimo Gabella “La rivoluzione come problema pedagogico. Politica e educazione nel marxismo di Antonio Labriola” (Edizioni Il Mulino), nel quale con accurata ricerca si documentano i tratti fondamentali del pensiero di Antonio Labriola, filosofo marxista italiano e militante socialista fino alla sua morte del 1904.
Alla fine dell’Ottocento Labriola è stato uno dei fondatori del pensiero marxista nel nostro paese, affermandolo come una scienza e una filosofia particolari, perché da un lato analizzavano e definivano le leggi della società con metodo scientifico, dall’altro però erano anche il punto di vista e l’elaborazione della prassi del soggetto antagonista nella società capitalista, il proletariato.
Quindi Labriola rompeva con il tentativo di normalizzare il marxismo come pensiero economico e politico nell’alveo più generale del positivismo e del liberalismo borghese, che dominavano la fine dell’Ottocento. Contro i liberali egli affermava la concezione materialistica della società capitalista come filosofia della prassi, cioè come teoria dell’educazione, dell’organizzazione e della lotta del movimento operaio per rovesciare il potere capitalista e costruire il comunismo.
Questa indipendenza del pensiero marxista, questo suo essere al tempo stesso scienza e rivoluzione, erano rivendicate da Labriola non solo sul piano della teoria, ma su quello dell’azione politica concreta, con il suo impegno per la costruzione del partito e dell’organizzazione socialista come forza indipendente da tutti gli altri schieramenti politici.
Per queste ragioni Antonio Labriola è stato considerato da Gramsci e Togliatti come uno dei rifermenti nella costruzione del partito comunista, ed anche a livello internazionale il suo pensiero ebbe un momento di particolare fortuna tra filosofi marxisti rivoluzionari come Karl Korsch.
Il concetto marxiano del capitalismo come formazione economica sociale storicamente determinata – oggi diremmo sistema – con una sua complessa totalità da rovesciare con una totalità superiore, il comunismo; questo concetto che era al centro del pensiero di Labriola, è diventato centrale ogni qualvolta nel capitalismo si sono sviluppate rotture radicali, dalla Rivoluzione Russa alla contestazione generale del 1968. Per questo il materialismo storico di Labriola riemerge ad ogni crisi del capitalismo e ad ogni rottura rivoluzionaria.
Ma il libro di Massimo Gabella ci fornisce anche una preziosa documentazione di un’altra dimensione del pensiero di Labriola, molto meno conosciuta: la sua sostanziale adesione al colonialismo.
Con la coscienza di oggi, con la lotta di gran parte del mondo contro il dominio dell’imperialismo bianco occidentale, con il genocidio in corso in Palestina per opera della “sola democrazia nel Medio Oriente” le parole di Labriola colpiscono e suscitano profonda repulsione.
Il filosofo e militante socialista sposa in pieno la tesi imperialista sulla missione civilizzatrice del colonialismo. Lo fa convinto che l’estensione a tutto il mondo del dominio borghese capitalista, sia la condizione perché l’antagonista di questo dominio, il proletariato, avvìi la marcia verso il comunismo.
Interpretando nella maniera più statica il Manifesto del Partito Comunista del 1848 di Marx Engels, là dove essi descrivono la funzione progressista della borghesia rispetto al sistema feudale, cinquant’anni dopo Labriola vede la continuazione e l’estensione di questa funzione con il colonialismo. Una gara conquistatrice tra tutte le potenze europee alla quale l’Italia deve partecipare, perché è legittimo che le nazioni più civili assumano il potere “là dove non ci sono nazionalità vitali”. E se queste nazionalità ritrovano la vitalità necessaria per ribellarsi, allora bisogna intervenire…
Labriola si pronuncia a favore dell’invasione della Cina da parte delle potenze occidentali per reprimere la rivolta nazionalista dei boxer e polemizza duramente coi socialisti contrari alla partecipazione italiana a quell’aggressione. Per il filosofo l’Italia non può chiamarsi fuori dalla storia e chi si oppone è affetto da “anticolonite cronica, che in alcuni casi diventa cretinismo organico”.
Con questa brutalità che anticipa il linguaggio dei nazionalisti che porteranno il paese all’impresa di Libia e alla Prima Guerra Mondiale, Labriola rivendica il “dovere” dell’Italia di partecipare alla spartizione coloniale del mondo, pena il restare indietro rispetto al progresso.
Qui è inutile girarci intorno, e tutta la documentazione contenuta nel libro di Gabella lo sottolinea: Labriola compie una operazione culturale e politica che va nella direzione opposta a quella di Lenin,e anche di Rosa Luxemburg, che proprio in quegli anni iniziano per vie diverse studiare, definire e combattere l’imperialismo colonialista.
Il cattivo storicismo politico di Labriola contraddice quello filosofico. Egli infatti rifiuta di applicare al mondo intero quella categoria di totalità del sistema capitalista che pure è centrale nella sua concezione materialista della storia. Egli in fondo è semplicemente eurocentrico.
Il mondo del 1900 non è più quello del 1789, non c’è più alcuna funzione rivoluzionaria della borghesia, che anzi ha esteso il suo dominio nel mondo alleandosi con le peggiori classi feudali. Ma, soprattutto agli albori del ventesimo secolo, quello che oggi chiamiamo l’Occidente ha imposto il suo dominio razzista e sfruttatore sui popoli del mondo. Se c’è un progresso in tutto ciò, è solo nella ribellione dei popoli al potere coloniale.
Oggi la missione civilizzatrice – “il fardello dell’uomo bianco“. secondo le parole di Kipling – ci fa orrore, anche se non a caso viene ribadita dal risorgere del fascismo e del suprematismo guerrafondaio occidentale. Alla fine del diciannovesimo secolo era più difficile distinguere il progresso reale della civiltà dall’affermazione del potere coloniale europeo. Eppure c’era chi lo faceva, Labriola no.
Egli morì nel 1904, e quindi non sappiamo se avrebbe seguito il filo delle sue ultime scelte politiche, nel qual caso difficilmente avrebbe potuto evitare di confluire nel fascismo.
O se invece avrebbe compiuto un’altra rottura come quella che aveva precedentemente compiuto con il pensiero illiberale aderendo al marxismo. In questo caso avrebbe dovuto fare i conti con la corruzione della filosofia rivoluzionaria della pressi in un evoluzionismo positivista nel quale, per dirla con con la critica di Togliatti, “si sperava che lo sviluppo del capitalismo assumesse il compito del socialismo“.
Non sappiamo cosa avrebbe fatto Antonio Labriola se fosse arrivato al 1914, quando l’Internazionale socialista crollò di fronte alla scelta dei suoi principali partiti di aderire all’imperialismo del proprio paese contro quello altrui. Ma le contraddizioni del suo pensiero sono da studiare e capire ancora oggi, con il mostro della “superiore civiltà occidentale” che ha di nuovo ghermito la parte maggioritaria della “sinistra”.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Antonello Bongiovanni, imprenditore 55enne di Casteltermini (Agrigento), è morto dopo 10 giorni di coma nell’ospedale Sant’Elia di Caltanissetta.
Martedì 8 ottobre vi era stato ricoverato in condizioni gravissime dopo essere stato colpito alla testa da un tubo durante la posa della rete idrica nel territorio di Butera (Caltanissetta).
Venerdì 18 ottobre il decesso.
Un operaio albanese di 62 anni, A.M., dipendente di una ditta dell’appalto Anas, è morto venerdì 18 ottobre durante le operazioni di smontaggio di un cantiere sotto un cavalcavia della E45 a Borello, frazione di Cesena.
Il lavoratore è rimasto schiacciato nel ribaltamento di un bobcat che stava caricando sul pianale di un furgone, forse causato dal cedimento di una rampa metallica.
Un meccanico 60enne di Terni, F.D.N., operatore del soccorso stradale, è morto nella prima serata di venerdì 18 ottobre sulla superstrada Terni-Rieti, nei pressi dello svincolo per Greccio (Rieti).
Il lavoratore, impegnato nel recupero di una vettura in panne, si trovava accanto al carro attrezzi quando è stato travolto da un’automobile, morendo sul colpo.
Non è ancora noto il nome dell’autotrasportatore 47enne di Napoli morto in un incidente stradale nella mattinata di venerdì 18 ottobre al chilometro 686 dell’autostrada A1, poco dopo l’uscita di Caianello (Caserta).
Il bilico che guidava ha improvvisamente sbandato, forse per lo scoppio di uno pneumatico, e si è rovesciato su un fianco, finendo intraversato sulla carreggiata.
Il lavoratore è rimasto intrappolato tra le lamiere della cabina di guida, senza scampo.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Gianfranco Grosso, 72enne di Peveragno (Cuneo), per mezzo secolo aveva fatto l’autotrasportatore e, una volta in pensione, aveva deciso di continuare a lavorare per non lasciare un mestiere che gli era entrato nel sangue.
Martedì 15 ottobre era in viaggio lungo la A6 in direzione Torino come passeggero di un grosso furgone frigorifero. Una sorta di accompagnatore-formatore per un collega molto più giovane.
Al km 86,500, sul viadotto Priero, il mezzo ha sbandato ed è finito contro il guardrail e rimanendo in bilico.
Nell’urto la portiera lato passeggero si è spalancata e Grosso è stato scaraventato giù dal viadotto, morendo sul colpo. Leggere ferite per il conducente.
Silvio Milia, autotrasportatore 56enne di Biancavilla (Catania), è morto mercoledì 16 ottobre nell’ospedale Cannizzaro, dove era stato ricoverato in coma il 9 ottobre.
In viaggio sulla ss 417 con un camion carico di fichi d’India, nel territorio di Mineo il mezzo era uscito di strada finendo ruote all’aria e schiacciando il lavoratore.
Antonio Purchiaroni, agricoltore 86enne di Vasanello (Viterbo), è morto mercoledì 16 ottobre per il ribaltamento del trattore con il quale stava lavorando un terreno di proprietà.
A dare l’allarme un altro agricoltore, accortosi del mezzo agricolo adagiato su un fianco.
Marco Ghiroldi, operaio 37enne di Samarate (Varese), è morto martedì 15 ottobre durante una trasferta di lavoro in Piemonte.
Rientrando in albergo a Front (Torino) con la sua vettura, è finito fuori strada percorrendo un fossato laterale fino a schiantarsi contro un ponticello.
Che ne è oggi dei popoli europei? Ciò che non possiamo oggi non vedere è lo spettacolo del loro perdersi e smemorarsi nella lingua in cui si erano un tempo trovati.
Le modalità di questo smarrimento variano per ogni popolo: gli anglosassoni hanno già compiuto l’intero cammino verso un linguaggio puramente strumentale e obiettivante – il basic English, in cui ci si possono solo scambiare messaggi sempre più simili ad algoritmi – e i tedeschi sembrano avviati per la stessa via; i francesi, malgrado il loro culto della lingua nazionale e forse anzi per questo, perduti nel rapporto quasi normativo fra il parlante e la grammatica; gli italiani, furbescamente insediati in quel bilinguismo che era la loro ricchezza e che si trasforma ovunque in un gergo insensato.
E, se gli ebrei sono o almeno erano parte della cultura europea, è bene ricordare le parole di Scholem di fronte alla secolarizzazione operata dal sionismo di una lingua sacra in una lingua nazionale: «Noi viviamo nella nostra lingua come dei ciechi che camminano sull’orlo di un abisso…
Questa lingua è gravida di catastrofi… verrà il giorno in cui essa si rivolterà contro coloro che la parlano».
In ogni caso, quel che è avvenuto è la perdita del rapporto poetico con la lingua e la sua sostituzione con un rapporto strumentale in cui colui che crede di usare la lingua ne è invece senza avvedersene usato.
E dal momento che il linguaggio è la forma stessa dell’antropogenesi, del diventare umano del vivente homo, è la stessa umanità dell’uomo che appare oggi minacciata.
Decisivo è però che quanto più un popolo si smarrisce nella sua lingua, che gli diviene in qualche modo estranea o troppo familiare, tanto meno è possibile pensare in quella lingua.
Per questo vediamo oggi i governi dei popoli europei, divenuti incapaci di pensare, imprigionarsi in una menzogna di cui non riescono a venire a capo.
Una menzogna di cui il mentitore non è consapevole è in realtà semplicemente una impossibilità di pensare, l’incapacità di interrompere almeno per un istante il rapporto puramente strumentale con la propria parola.
E se gli uomini nella loro lingua non possono più pensare, non ci si dovrà stupire se si sentiranno obbligati a trasferire il pensiero all’intelligenza artificiale.
Va da sé che questo smarrimento dei popoli nel linguaggio che era la loro dimora vitale ha innanzitutto un significato politico.
L’Europa non uscirà dal vicolo cieco in cui si sta chiudendo se prima non ritroverà un rapporto poetico e pensante con le sue parole.
Solo a questo prezzo una politica europea – che oggi non esiste – diventerà eventualmente possibile.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Il dottor Francesco Negrini, 74enne medico gastroenterologo di Bergamo, a dicembre dell’anno scorso si era autodiagnosticato un tumore.
Aveva deciso di affrontarlo a viso aperto, sottoponendosi a terapie ma continuando a esercitare.
Il suo fisico si è però indebolito con il passare del tempo e lunedì 14 ottobre il medico è stato stroncato da un infarto mentre era al lavoro nella Casa di cura San Francesco.
L’argomento “malore al lavoro” è assai controverso e a volte le nostre scelte in materia sono state contestate da chi sostiene che una sincope, un infarto, una crisi respiratoria o di altra natura nulla hanno a che fare con l’attività lavorativa. ù
Noi la pensiamo diversamente, soprattutto nell’attuale scenario di crollo delle tutele e delle garanzie. “Darsi malati” è sempre più difficile, stanti la precarietà di gran parte dei rapporti di lavoro e l’allungamento dell’età lavorativa dettato dalle normative previdenziali e dalla difficoltà di arrivare a una pensione decente.
Dunque sempre più spesso si va al lavoro anche in condizioni precarie, ostentando una salute di ferro e un fisico che non cede all’avanzare del tempo. E i malori fioccano.
Un altro medico, il 70enne Francesco Di Virgilio, scienziato di fama internazionale e docente di patologia clinica all’Università di Ferrara, è morto a causa di un infarto durante un viaggio di lavoro in Cina per partecipare a un congresso mondiale.
È accaduto alla fine di settembre e il funerale, alla luce delle lungaggini per il rientro in Italia, si terrà il 26 ottobre a Polverara (Padova), dove Di Virgilio risiedeva.
Roberto Nieri, 51enne dipendente della Esselunga di Lucca, si è sentito male martedì 15 ottobre mentre era in servizio nel reparto drogheria.
I soccorsi sono stati velocissimi, ma né il defibrillatore né il massaggio cardiaco hanno potuto fare qualcosa.
Michelangelo Sangiorgio, metalmeccanico 51enne, è stato stroncato da un malore martedì 15 ottobre mentre era al lavoro nella fonderia Pandolfo di Maniago (Pordenone).
Ache nel suo caso i soccorsi nulla hanno potuto.
Rudy Ballatore, 53enne operatore sociale di Cavallermaggiore (Cuneo), guida della cooperativa Laboratorio e referente di Progetto Emmaus per i disabili e i fragili, è stato ucciso da un malore mentre si trovava per lavoro a Narzole (Cuneo).
Fernando Coletta, idraulico 62enne di Gallipoli (Lecce), è stato ucciso da un’esplosione mentre manuteneva l’impianto di riscaldamento di una villetta a Racale (Lecce).
Ancora non chiare le cause dello scoppio, che però potrebbe avere a che fare con il vaso di espansione dell’autoclave.
di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro
Poco più di 500 metri separano via di Campo Marzio, dove l’Inail ha presentato lunedì 14 ottobre la relazione 2023, da via delle Vergini, dove è morto un ascensorista nigeriano di 48 anni, Peter Isiwele, per il crollo di una cabina ascensore.
Ma sono due mondi che più lontani non si può: da un lato l’annuncio in pompa magna di una diminuzione epocale di infortuni e morti di lavoro in funzione filogovernativa (nonché del solito, cospicuo avanzo di cassa), dall’altro la dura realtà di un cantiere in cui il sospetto del subappalto e la mancanza di controlli hanno fatto aprire un’indagine giudiziaria affidata alla polizia e all’ispettorato del lavoro.
Il fascicolo è stato aperto dal procuratore aggiunto Giovanni Conzo e dal pm Pierluigi Cipolla, che ipotizzano i reati di omicidio colposo e lesioni in violazione delle norme antinfortunistiche.
Sì, perché nel crollo dell’ascensore di via delle Vergini sono rimasti gravemente feriti altri due lavoratori, uno dei quali ricoverato al Bambino Gesù avendo appena 17 anni.
Secondo il padre, presente anche lui nel cantiere, il ragazzo è un ascensorista con un anno di esperienza e regolare patentino, cosa quest’ultima impossibile per motivi di età.
Così come sarebbero stati semplici muratori gli altri due lavoratori coinvolti.
L’edificio appartiene a un fondo facente capo a Kryalos Sgr, società immobiliare – pardòn, di Real Estate – con sede a Milano, che si è affrettata a mettere le mani avanti: “L’immobile di Via delle Vergini è detenuto da un fondo di Kryalos Sgr per il quale la società svolge attività di gestione amministrativa e non svolge ruolo operativo.
Sull’immobile sono stati avviati lavori di bonifica per i quali è stato affidato mandato integrale all’Impresa Intereco Servizi Srl, fornitore altamente qualificato.
Inoltre, conformemente alla legislazione vigente e nel pieno rispetto delle regole, è stato nominato un responsabile dei lavori di comprovata esperienza (ing. Giorgio Lupoi) al fine di garantire la piena applicazione delle norme a tutela dell’igiene e della sicurezza sul lavoro”.
Mentre Giorgia Meloni e la sua ministra Calderone gonfiavano il petto commentando i dati Inail, per ribadire che la sicurezza dei lavoratori è una priorità di questo governo, in Italia lunedì 14 ottobre è stata sfondata la barriera dei 900 morti nell’anno.
Per l’esattezza 903, grazie alle 4 vittime odierne, tre delle quali extracomunitarie.
Kamal Mziuoira, 30enne marocchino residente a Borghetto Santo Spirito (Savona), è morto sulla A10 tra Varazze e Arenzano mentre a bordo di un furgone andava ad aprire un cantiere stradale.
Il mezzo al km 22 ha sbandato ed è finito contro un muro in cemento. Mziuoira e un collega sono stati sbalzati sull’asfalto, riportando ferite gravi, fatali per il 30enne.
Oleh Anitsa, camionista ucraino di 47 anni è morto al km 43 della A13, nei pressi di Ferrara, dove il furgone che guidava è andato a schiantarsi contro il camion che lo precedeva, in rallentamento per via di una coda.
Giampietro Barboni, agricoltore in pensione di 81 anni, è morto a Baldissero Torinese (Torino), nel ribaltamento del trattore con il quale stava lavorando in un terreno di sua proprietà.
In visita negli Stati Uniti nel novembre 1977, quando il presidente democratico Jimmy Carter voleva “moralizzare”la politica estera americana dopo il predecessore Richard Nixon, lo scià suscitò violente manifestazioni di ostilità.
I gas lacrimogeni utilizzati per disperdere studenti e attivisti, prevalentemente marxisti o di sinistra, che avevano invaso il Mall di Washington furono sospinti dai venti fin nel roseto della Casa Bianca, dove il monarca dovette interrompere il suo discorso radiotelevisivo in lacrime.
L’effetto simbolico di queste immagini incrinò il sistema autoritario e diede all’opposizione iraniana il coraggio di esprimersi, a maggior ragione visto che l’insistenza americana sul rispetto dei diritti civili contribuì a far mitigare la repressione. (“Uscire dal caos”, Gilles Kepel, Raffaello Cortina Editore.)
Sabato 12 ottobre ad Altavilla Vicentina (Vicenza), ha perso la vita Giuseppe Tagliapietra, 29 anni, dipendente della Tecnomat (il nuovo nome italiano di Bricoman, di proprietà della multinazionale francese Groupe Adeo, quella di Leroy Merlin e altri marchi della GDO).
Il lavoratore, che lascia la compagna e una figlia piccola, intorno alle 13 è stato schiacciato da un bancale di finestre crollatogli addosso durante la movimentazione nel piazzale esterno, ed è morto poco dopo nell’ospedale San Bortolo di Vicenza.
Mentre Giuseppe spirava, nel magazzino Tecnomat tutto continuava come nulla fosse e solo intorno alle 16 è stato deciso di chiudere i cancelli e sospendere gli affari.
Domenica 13 il punto vendita era regolarmente aperto, con buona pace della giornata nazionale dedicata alle vittime degli incidenti sul lavoro organizzata da Anmil.
“Business as usual”, insomma, ennesima riprova che le morti sul lavoro sono considerate un inevitabile danno collaterale e che, in prospettiva, non c’è alcuna intenzione di mettere seriamente mano alla sicurezza dei lavoratori.
Accade mentre le vittime del lavoro salgono a 899 nell’anno (altro che i 680 di cui parlano tutti i media riprendendo i proclami Inail).
Venerdì 11 ottobre il 25enne Paolo Cancian, ingegnere alla Lamborghini di Sant’Agata Bolognese, è morto sulla strada del ritorno a Modena, dove abitava, scontrandosi in moto con un’automobile.
Pasquale Malzone, idraulico 59enne di Postiglione (Salerno), è morto venerdì 11 ottobre colpito da malore durante un sopralluogo in un’abitazione di Controne.
Lascia la moglie e due figli.
Marco Capozza, 41enne operaio della Marcegaglia di Ravenna, è morto sabato 12 ottobre sulla strada del ritorno a casa, nella frazione di Sant’Alberto. Ha tamponato un furgone ed è stato tamponato a sua volta, volando con l’auto in un campo. È morto all’ospedale Bufalini di Cesena, dove era stato elitrasportato.
Lascia la moglie e due figlie.
Mauro Zearo, 63enne agricoltore di Gemona del Friuli (Udine), è morto sabato 12 ottobre nella sua azienda, schiacciato da un muletto che stava revisionando.
Dell’incidente si è accorto un parente, che ha dato l’allarme, ma Zearo è spirato poco dopo il ricovero nell’ospedale di Udine.
Carmine Casciello, autotrasportatore campano 65enne, è morto nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 ottobre in un incidente stradale sulla E45, in corrispondenza del famigerato curvone di Collestrada.
L’autoarticolato carico di carni di maiale ha urtato il jersey e si è ribaltato su un fianco.
Casciello è morto sul colpo, mentre il secondo autista è stato ricoverato con una prognosi di 30 giorni.
Pietro Mastino, carabiniere 55enne residente a Olmedo (Sassari), ha perso la vita nelle prime ore di domenica 13 ottobre mentre andava a prendere servizio nel comando di Alghero.
Sulla provinciale 19 la vettura del militare è stata investita frontalmente da un’auto che aveva invaso la sua corsia di marcia.
Un 61enne di Cinisello Balsamo (Milano), è morto seppellito da una frana del terreno in una profonda trincea scavata nel giardino di casa.
Da verificare la versione che fosse alla ricerca di una perdita di acqua, date le dimensioni e la struttura degli scavi: i vigili del fuoco hanno dovuto lavorare due ore per recuperare il corpo.
La tesi da me avanzata, e che verrà espressa in maniera esaustiva, è che i partiti stanno crollando in due modalità differenti.
Da una parte, come ormai è stato dimostrato, i partiti non sono più in grado di coinvolgere i cittadini, la cui partecipazione elettorale è al livello più basso mai registrato e con un senso di appartenenza partitica in declino.
In modo simile, i cittadini sono sempre meno disponibili a impegnarsi con i partiti, sia in termini di identificazione sia di appartenenza. In questo senso, i cittadini stanno rinunciando a un coinvolgimento politico di tipo convenzionale.
Dall’altra parte, i partiti non svolgono più il loro ruolo di base per le attività dei loro leader, che guardano con sempre maggiore attenzione alle istituzioni pubbliche esterne e da esse prendono risorse.
I partiti possono ancora fornire la piattaforma necessaria ai leader politici, ma questa piattaforma è utilizzata nei fatti come rampa di lancio per raggiungere altri uffici e posizioni.
I partiti stanno dunque fallendo come risultato di un processo di mutuo indietreggiamento o abbandono, in cui i cittadini si ritirano verso una vita più privata o si rivolgono a forme di rappresentanza più specializzate e specifiche, mentre i leader di partito si ritirano nelle istituzioni, traendo i loro termini e modelli di riferimento più facilmente dai loro ruoli di governatori o funzionari pubblici.
I partiti stanno fallendo perché la tradizionale arena della democrazia partitica, in cui i cittadini interagivano con i loro leader politici e condividevano una senso di appartenenza partitica, è venuta meno. (“Governare il vuoto”, Peter Mair, Rubbettino).
Circa l’8% del patrimonio finanziario delle famiglie è detenuto nei paradisi fiscali. Cosa significa concretamente?
Il patrimonio finanziario delle famiglie è la somma di tutti i depositi bancari, i portafogli di azioni e obbligazioni, le quote dei fondi comuni di investimento e i contratti di assicurazione vita detenuti dalle persone fisiche in tutto il mondo, al netto dei loro debiti.
All’inizio del 2014, secondo i bilanci nazionali pubblicati da organizzazioni quali la Federal Reserve negli Stati Uniti e l’Office for National Statistics nel Regno Unito, il patrimonio finanziario globale delle famiglie ammontava a circa 87.000 miliardi di euro.
Dalla mia stima risulta che l’8% di questo totale, pari a 6900 miliardi di euro, è detenuto in conti situati nei paradisi fiscali. È una somma non da poco.
A titolo di paragone, il debito pubblico totale della Grecia – che pure ha un ruolo centrale nell’attuale crisi europea – è di circa 320 miliardi di euro.
Come abbiamo visto, gli attivi detenuti in Svizzera ammontano a 2100 miliardi di euro, cioè circa un terzo del totale della ricchezza offshore.
Il resto è collocato negli altri paradisi fiscali che erogano servizi bancari privati per ultraricchi, tra cui Singapore, Hong Kong, le Bahamas, le Isole Cayman, il Lussemburgo e Jersey.
Bisogna tuttavia ricordare che la distinzione tra la Svizzera e gli altri paradisi non ha davvero molto significato, perché gran parte degli attivi registrati a Singapore o a Hong Kong è in realtà gestita dalle banche svizzere, a volte direttamente da Zurigo e Ginevra.
l valore totale della ricchezza privata offshore raggiunge quindi i 6900 miliardi di euro (o 7600 miliardi di dollari), di cui 1400 sotto forma di depositi bancari a basso rendimento più o meno «dormienti» e 5500 investiti in azioni, obbligazioni e fondi comuni di investimento, per un totale pari all’8% del patrimonio finanziario globale delle famiglie.” (da “La ricchezza nascosta delle nazioni: Indagine sui paradisi fiscali, di Gabriel Zucman, Thomas Piketty, Add editore).