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Quei leader politici che continuano a giocare.

di Mario Calabresi- La Stampa

Mario Monti ha pochissimo tempo davanti, l’Italia non può stare a lungo senza un governo in questa situazione, ma per cominciare la sua navigazione deve riuscire a conquistarsi un patrimonio di credibilità con i cittadini e a costruirsi una tenuta politica che ne eviti il naufragio precoce.

Una sfida difficile in un Paese che ancora oggi mostra di non avere consapevolezza delle difficoltà che affrontiamo: lo dimostrano quei leader politici che continuano a giocare e a opporre veti e tutti quei cittadini che sono pronti ad accettare ogni sacrificio, basta che tocchi qualcun altro e non loro.

Il premier incaricato però, pur con quella sua aria distante e un po’ lunare, ha mostrato ieri sera di essere un attento ascoltatore degli umori degli italiani, ha capito che stava crescendo il malessere per un governo che si prevedeva composto solo da uomini e di grande esperienza. Così ha corretto l’impressione sottolineando che la sua squadra sarà orientata a dare risposte ai bisogni delle donne e dei giovani, che perseguirà la crescita e l’equità e non avrà come motto: «Lacrime e sangue».

Se tende ancora l’orecchio allora gli sarà chiaro che, per conquistarsi un ampio consenso e il sostegno della maggioranza degli italiani, dovrebbe mettere al primo punto del suo programma un intervento vero sui costi e sui privilegi della politica.

In tempi di sacrifici e di tagli l’esempio deve venire dall’alto, da chi ci governa: solo se si hanno le carte in regola allora si può chiedere agli italiani di fare rinunce o pagare nuove tasse. La maggioranza uscente ha sottovalutato il problema in questi anni, non ha capito quanto fosse grande nel Paese l’insofferenza verso la cosiddetta «casta», e anche per questo ha perso il consenso di chi l’aveva votata.

E’ necessario un gesto di discontinuità, le possibilità sono moltissime perché moltissimi sono i privilegi e i costi delle burocrazie e della politica (lo hanno spiegato con grande chiarezza ieri Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera , ricordandoci tra l’altro che a Palazzo Chigi ci sono ben più del triplo dei dipendenti che nella sede del primo ministro britannico). Molte sono le cose inaccettabili, per esempio non si capisce perché ogni cittadino italiano abbia una trattenuta sulla liquidazione del 23 per cento (fino a 15 mila euro, perché sopra questa cifra l’aliquota sale al 27) mentre i parlamentari invece non pagano tasse sulla loro indennità di fine mandato. E, come abbiamo raccontato in un’inchiesta di Carlo Bertini, dopo una sola legislatura l’indennità è di ben 46 mila euro netti. E’ chiaro che i tagli alla politica non faranno la differenza nel bilancio dello Stato e non saranno certo determinanti per ridurre il nostro debito, ma è certo che faranno un’immensa differenza nella percezione dei cittadini e nella loro propensione ad accettare i sacrifici necessari a rimettere in equilibrio il Paese. E’ un’impresa difficile e coraggiosa a ogni latitudine (ieri i parlamentari francesi hanno rigettato la proposta di tagliarsi gli stipendi del dieci per cento, preferendo un ben più modesto 3 per cento e non da subito), ma è il necessario punto di partenza.

Ma se ha bisogno dei cittadini, Monti ha bisogno anche del sostegno convinto del Parlamento, per questo ieri sera è stato attento a mostrare rispetto per la politica, i suoi tempi e i suoi percorsi necessari. Anche se non può sfuggire che se la giornata è stata nuovamente drammatica ciò è accaduto perché non c’è ancora un nuovo governo e non ci sono certezze sui tempi.

Alla politica l’ex commissario europeo si è rivolto mostrando la possibilità di trasformare un momento difficile in una vera opportunità di rilancio e speranza. Dovrebbe essere chiaro a tutti i nostri leader di partito che Monti è l’ultima scialuppa di salvataggio sia per loro sia per l’Italia. Ma non tutti l’hanno capito e questa mattina sarà cruciale per misurare la reale volontà dei due partiti maggiori di sostenere il nuovo governo.

Monti avrebbe voluto avere nel suo esecutivo esponenti di peso legati alle tre maggiori forze politiche del Parlamento, non voleva dire tornare indietro o chiedere ai segretari di partito di farne parte, ma costruire un filo diretto con il Parlamento che desse maggiore tenuta al nuovo esecutivo. Si parlava di Gianni Letta e Giuliano Amato, ma questa soluzione è rimasta schiacciata tra i veti incrociati di Pd e Pdl, che non riescono a uscire dalla stagione della contrapposizione e della battaglia. Monti non ha ancora abbandonato la speranza di rafforzare il suo governo, cosciente insieme al Presidente della Repubblica che ad un governo puramente tecnico è più facile «staccare la spina», e ai partiti ha detto chiaramente che è «indispensabile un appoggio convinto».

Quest’uomo, che appare un marziano delle scene politiche per come risponde o non risponde – alle domande, sembra avere presente meglio di quasi tutti noi la gravità del momento. Intorno a lui, nei partiti e nell’opinione pubblica, la memoria sembra essere brevissima, non più lunga di una giornata. Accade perché il cambiamento non ce lo siamo conquistato, perché questa situazione è figlia di spinte esterne più che di una consapevolezza maturata all’interno. Ora abbiamo davanti una seconda occasione, dopo quella seguita al crollo della Prima Repubblica, per riformare il sistema, per ripartire e per ricostruire. Una terza probabilmente non ce la darà nessuno. (Beh, buona giornata).

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Mario Monti presidente del Consiglio incaricato: la partita è solo all’inizio.

http://video.repubblica.it/dossier/crisi-italia-2011/monti-crescita-ed-equita-sociale/80672?video=&ref=HREA-1

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito a Mario Monti l’incarico di formare un nuovo governo. Monti ha accettato con riserva. L’annuncio poco fa dal Quirinale.

Contemporaneamente, Silvio Berlusconi ha emesso un telecomunicato, parlando con le insegne del governo uscente. Un gesto di pessima educazione istituzionale che intende deliberatamente gettare un ombra sulla nascita del nuovo governo.

Alla gravità della situazione finanziaria e politica, Silvio Berlusconi aggiunge il peso del suo insano egocentrismo umano e politico, dimostrando quanto fosse necessaria la sua immediata rimozione dal delicato incarico di guidare il governo in questi frangenti.

C’è da augurarsi che nessuno cada nella tentazione di seguire Berlusconi su questo terreno: rimanga pure in compagnia della Destra di Storace.

C’è anche da augurarsi che a nessuno venga in mente di misurarsi polemicamente sul terreno scelto da Berlusconi: ricatti e velate minacce questa volta sono prive di capacità di verificarsi.

Va ignorato politicamente, lasciato solo con i suoi problemi giudiziari, con la sua causa di divorzio, con i suoi problemi di gestione delle aziende che, ormai senza più la copertura di nessuno scudo governativo, dovranno affrontare la crisi e la concorrenza ad armi pari con gli altri player sul mercato.

Mario Monti, presidente incaricato non ha per niente un compito facile. Oltre al terreno accidentato dalla crisi del debito, dagli obblighi verso l’Europa e i mercato finanziari, si troverà un partito come il Pdl che ha tutta l’intenzione di mettergli i bastoni fra le ruote.

A Berlusconi non interessa il Paese: gli interessano le leggi ad personam in fatto di Giustizia e quelle che proteggono le sue aziende. E farà di tutto per intimorire il nuovo esecutivo, per impedirgli di mettere mano a leggi che possano danneggiare i suoi privilegi.

D’altro canto, ai cittadini, alle imprese, alle istituzioni interessano profondi cambiamenti, capaci di far intravvedere al Paese una luce in fondo al tunnel della crisi.

Ecco che la dialettica dello scontro tra interessi fortemente contrapposti, tra rilancio dell’economia e mantenimento delle rendite di posizione sarà durissimo: quello che finora si è contrabbandato come moderno dovrà essere svelato come artificio per difendere gli interessi più retrivi del Paese. Al contrario, quello che è stato contrabbandato come vetusto, cioè eguaglianza di fronte alla legge, eguaglianza di fronte ai diritti, dovrà assumere di nuovo l’energia per spingere avanti il Paese: l’intero Paese, non solo una parte, quella più ricca e furba.

Mario Monti non è uno sprovveduto. Non lo è il Capo dello Stato: il governo dell’uno coincide temporalmente con il mandato dell’altro. E questo è un bene. Non siano sprovvedute le forze politiche chiamate a tirare fuori dai guai l’Italia.

A cominciare dalle forze di sinistra. Che devono accollarsi il compito storico di ridefinire il perimetro dei diritti delle classi subalterne e medie impoverite dalla crisi.

Bersani è il segretrio del Pd che ha visto di persona il crollo del governo Berlusconi. Non si accantenti di entrare a far parte di un governo di salute pubblica, non si accontenti di accreditarsi come affidabile presso banche e grandi imprese. Chiami, attiri, stimoli attorno a se le forze sociali e intelletuali migliori del Paese, guardi con sguardo limpido ai movimenti 99%, e metta in moto energie capaci di prefigurare una alternativa possibile al capitalismo in crisi. E’ il momento: se non ora, quando? Beh, buona giornata.

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Elezioni in Russia: Putin scopre il bungabunghismo?

(fonte: ANSA)

Russia Unita, il partito del premier Vladimir Putin, si affida a un video sexy per conquistare voti per il rinnovo del Parlamento previsto il 4 dicembre: una bella modella in un seggio invita un giovane a seguirla. Quindi appare la scritta ”Facciamolo insieme”, mentre l’inquadratura si sofferma sui piedi della coppia. I due poi escono insieme e depositano la scheda. Il video ha scatenato polemiche per i contenuti e perche’, per alcuni, crea confusione, perche’ il voto deve restare segreto. Prima Putin ha contagiato Berlusconi, adesso Berlusconi ha contagiato Putin? Speriamo il contagio arrivi fino a provocare le caduta del nuovo zar.
Ecco lo spot bungabunghismo di Putin: http://video.repubblica.it/mondo/amore-in-cabina-polemiche-per-lo-spot-di-putin/80561/78951?ref=HREV-5

Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Politica

E’ ufficiale: il governo Berlusconi si è dimesso.

(fonte: quirinale.it)

“Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto oggi alle ore 21.00 al Palazzo del Quirinale il Presidente del Consiglio dei Ministri, onorevole Silvio Berlusconi, il quale essendosi concluso l’iter parlamentare di esame e di approvazione della legge di stabilità e del bilancio di previsione dello Stato ha rassegnato le dimissioni del Governo da lui presieduto”.

Lo ha detto il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, al termine dell’incontro tra il Capo dello Stato e il Presidente del Consiglio.

“Il Presidente della Repubblica – ha continuato il Segretario Marra – nel ringraziarlo per la collaborazione, si è riservato di decidere ed ha invitato il Governo dimissionario a rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti. Le consultazioni del Capo dello Stato si svolgeranno nella giornata di domani”.

(Beh, buona giornata).

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3DNews/QUANDO ERAVAMO RE.

di Giulio Gargia
Il trionfo dei dietrologi.

Immaginiamo che tu che leggi sia uno juventino. Immaginiamo che oggi non sia oggi, ma l’ultima giornata del campionato 2004-5. Immaginiamo ora che qualcuno ti venga a dire le seguenti cose : che la Juve non si è guadagnata lo scudetto sul campo, ma grazie a un sistema paramafioso in cui i suoi dirigenti concordavano con i designatori degli arbitri chi doveva arbitrare i loro incontri e perché, che chi doveva controllare era loro complice, che il mercato calcistico era nelle mani di una società fatta dai figli dei presidenti e dei dirigenti delle maggiori squadre, e che grazie a tutto questo i risultati del campionato erano stati alterati.
Immagina anche che qualcuno ti dicesse che alcuni arbitri pianificavano le ammonizioni dei giocatori più bravi delle altre squadre con una partita d’anticipo in modo che quando incontrava la Juve quelle squadre fossero comunque indebolite.
Immagina infine che ti predicesse – allora – che tutto questo prima o poi si sarebbe stato scoperto e che la Juve sarebbe andata in serie B … che cosa avresti detto ?
La tua passione per l’anti Dietrologia come si sarebbe espressa ?
Con quali epiteti alla Mughini avresti bollato queste teorie del complotto ?
Qualche anno fa, quelle su Moggi erano chiacchiere da bar Sport.
Quelli che li ripetevano erano definiti “ dietrologi”. Oggi, sono cronaca. Definita da una sentenza. Tenetelo presente, quando leggete di altre cose che vi sembrano “ dietrologia”. Dall’11 settembre, alla trattativa Stato mafia, ai meccanismi dell’Auditel .
L’unica cosa, per favore, quando la verità verrà alla luce , non pensate “ lo sapevo”. Perchè voi, noi, tutti non lo sapevamo. Non volevamo saperlo.

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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3DNews/“Zero titoli”, storia del degrado di un grande telegiornale.

Paolo Ojetti racconta il suo libro su Minzolini

Parlare degli anni di Minzolini a Saxa Rubra, è fermare la storia, la storia di un evento traumatico, drammatico per l’informazione italiana. Il Tg1 della Rai, nonostante i disastri editoriali nei quali è stato cacciato, nonostante la colpevole e suicida complicità di gran parte del corpo redazionale, rimane – per antonomasia – il principale organo di informazione e di “formazione” dell’opinione pubblica.
Il Tg1 dovrebbe essere la fonte chiara e limpida delle notizie,l’amico fraterno dei cittadini, il luogo magico nel quale, per postulato, alberga la verità. Ebbene, durante la direzione Minzolini, il Tg1 è stato esattamente l’opposto di tutto questo.Se si trattasse però solo di un problema di cattivo giornalismo, non varrebbe nemmeno la pena di occuparsene.

La Rai è un’azienda enorme ecomplessa. Produce in un regime parzialmente duopolistico, ma subisce nuove forme di concorrenza, soprattutto nel campo dell’informazione.
Basta avere una parabola e un telecomando per abbandonare la Rai e quella che era una volta “l’ammiraglia” della televisione, intesa come un unico universo. Ed è quello che, con progressione esponenziale, è avvenuto nel corso della direzione Minzolini. Dove c’è un delitto di leso giornalismo, c’è un conseguente castigo: la disaffezione dei lettori (in questo caso i telespettatori),
il declino inarrestabile della testata.

Il 14 luglio del 2011, i vertici Rai fecero due conti e si accorsero che il Tg1 della sera perdeva “copie” e, di conseguenza, milioni di pubblicità.
Ce n’era voluta, ma anche i consiglieri più berlusconiani ammisero, alla fine, la disfatta. Si accorsero di qualcosa molto più grave: che il Tg1 di Minzolini era poisoned, avvelenato, e trasmetteva il suo veleno tutt’intorno anche ai programmi che lo precedevano e che lo seguivano. In una parola, il Tg1 di Minzolini “respingeva” il telespettatore il quale, come tutti sanno, una volta accasato altrove, non torna indietro.

Alla lunga, avendo capito che quel telegiornale obbedisce a logiche che nulla hanno a che vedere con il giornalismo, quel telespettatore è perduto per sempre.
I vertici della Rai porteranno con sé per anni il peso di grandissime responsabilità. I costi per riportare il Tg1 a livelli di decenza saranno altissimi:
la credibilità non è merce che si compra al mercato.

Ma c’è qualcosa di più serio e più grave di una cattiva gestione del servizio pubblico di Augusto Minzolini. Nel momento in cui il Tg1 è stato consegnato a
un direttore perché ne facesse l’house organ non di un Governo, ma di una persona, la ferita alla democrazia è stata vile e profonda.

Augusto Minzolini è stato “realista” quando, intervistato nella primavera del 2011, disse: «Resterò direttore del Tg1 finché Berlusconi sarà capo del Governo». Il senso di questa affermazione è tragico, rimarrà per sempre la confessione cinica di aver svenduto se stesso, l’intera redazione, l’autonomia e la libertà di una testata – e che testata – a un padrone che è addirittura un corpo estraneo all’azienda dalla quale egli dipendeva e dalla quale riceveva uno stipendio. Fu non solo il tradimento dei principi deontologici della professione giornalistica, ma anche la confessione del profondo disprezzo della libertà di stampa e, per dirla tutta,della democrazia. E quel giorno, tutti seppero che il Tg1 era stato ridotto in schiavitù.

Il “minzulpop” non può trovare descrizione più asciutta e completa. Il peccato mortale di Minzolini fu quello di aver restituito al “Re” il potere di scegliere le notizie. Ma attraverso quali disegni, attraverso quali cabale, attraverso quali collettori sotterranei, Augusto Minzolini arrivò a comandare l’ammiraglia?

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3DNews/Venezia, la caduta di Pol sPot.

Galan ritira la nomina del presidente dell’ Auditel Malgara a capo dell’Ente Biennale

Alla fine, non ce l’ha fatta nemmeno stavolta, Giulio Malgara. Galan lo voleva a tutti i costi al posto di Paolo Baratta come presidente della Biennale di Venezia. Prima lo ha rallentato una straordinaria raccolta di firme , promossa da La Nuova Venezia, di cittadini e personalità di tutto il mondo della cultura, che non volevano trovarsi PolsPot – il pasdaran della pubblicità – alla testa di uno degli enti culturali più prestigiosi del mondo. Poi tutte le opposizioni al completo , che ne hanno stoppato la ratifica della nomina in commissione Senato.

Il colpo di grazia gliel’ha dato la crisi della maggioranza che ha impedito alla Commissione Cultura della Camera di esprimere un parere entro i previsti 60 giorni. “ Lui dice che si è ritirato, e Galan che avrebbe potuto comunque nominarlo lo stesso ma la verità è che non sono stati capaci di riunire la Commissione competente entro i 60 giorni chiesti dalla legge – dice Beppe Giulietti, uno degli animatori della battaglia parlamentare – e siccome è vero che il parere non è vincolante ma deve essere espresso obbligatoriamente, la verità è che si sono ingarbugliati nella loro crisi ”.

Dall’altra sponda, a Palazzo Madama, Vincenzo Vita, uno dei protagonisti della battaglia, aggiunge :
“Bene, si è evitata una brutta storia, quale sarebbe stato l’ingresso alla Biennale di Venezia del contestatissimo Giulio Malgara. Non c’è neanche bisogno di ricordare che è stata una candidatura impropria, inopportuna e figlia della spregiudicata stagione berlusconiana. Prendiamo atto con soddisfazione che l’opposizione aspra in Parlamento , supportata da una straordinaria mobilitazione della mondo della cultura, ha portato a un ripensamento. Ci auguriamo che il nuovo governo voglia dare la conferma dell’attuale presidente e del gruppo dirigente della Biennale. Ora, naturalmente, continuiamo a vigilare”.

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3DNews/Il vero problema? Sono i soldi finti.

Il modello neoliberista sta fallendo, affondato dalla demografia ,dal concetto di Pil e dall’abuso delle leve finanziarie

Per ogni barile di petrolio reale se ne trattano 19 virtuali che non esistono ma che ne influenzano il prezzo.

di Diego Gargia *

La politica interna italiana non è mai stata così determinante per l’andamento dei mercati finanziari. Non solo i BTP e l’S&P MIB ma anche le obbligazioni governative EMU, borse e persino mercato dei cambi seguono minuto per minuto le dichiarazioni dei politici italiani e la sorte del governo e della legislatura del nostro Paese.
I mercati finanziari hanno dimostrato negli ultimi mesi di valutare positivamente l’annuncio di un cambio di guida politica.

Poiché l’Italia ha essenzialmente un problema di debito più che di deficit, il mercato potrebbe lecitamente attendersi da un nuovo governo soluzioni per riportare il rapporto incriminato Debito/PIL verso il 100% in tempi più brevi di quanto consentito dalla sola azione sui saldi correnti. Dunque, le alternative sono operazioni in conto capitale(privatizzazioni), o un’imposta patrimoniale (che se ben fatta si potrebbe
auto-finanziare) o meglio , un prelievo temporaneo tipo TARP USA ( Troubled Asset Relief Program è un programma del governo degli statuniti per comprare titoli e azioni dalla istituzioni finanziare per sostenre e rinfonzare il settore (attuato nel 2008 a seguito della crisi subprime) finalizzato a sostenere il mercato primario del BTP (se non decolla il sostegno del fondo speciale detto’EFSF).

Una diga di questo genere alla dismissione di titoli italiani da parte degli stranieri (possessori di quasi metà dei BTP in circolazione) potrebbe essere eretta sino a passare l’emergenza: a tre anni dalla crisi, la TARP ha prodotto un piccolo utile per il contribuente USA….

Comunque, se mai si abbasserà il rischio Italia, rimane un grosso problema ben più grande del nostro. Parlo degli strumenti derivati,nati per ridurre i rischi finanziari, che a causa dell’assenza di una seria regolamentazione fanno si che minimi movimenti dei mercati vengano amplificati.
Per dare un esempio concreto vi dico che per ogni barile di petrolio estratto venduto e raffinato né esistono altri 19 virtuali che non esistono e mai esisteranno che però ne influenzano il prezzo.

Questo avviene per tutto ciò che ci circonda alimenti,merci,materie prime,azioni,obbligazioni valute e debito sovrano, potete voi immaginarvi gli effetti sulle nostre economie di queste dinamiche e comunque già qualche speculatore sta iniziando a puntare il debito della repubblica francese rompendo il teorema dei piigs.
Il modello neoliberista che ha dominato gli ultimi 30 anni, sta fallendo sempre più affondato dalla demografia ,dal concetto di Pil e da una società dei consumi, che ha saturato i propri cittadini di ogni bene e che però ora non avrà la capacità di assisterne le esigenze primarie (Welfare).

Una guerra generazionale è gia in corso tra quelli che hanno avuto tanto e non vogliono perderlo fino all’ultimo e quelli che hanno avuto poco e non avranno niente.
Dopo che anche il sommo sacerdote Greenspan’ ha ammesso davanti al congresso che non avevano piena coscienza della gravità della situazione durante gli anni del suo mandato non ci resta, dopo aver risolto il problema interno, che rivolgersi a Wall Street per guardare non ai soliti mercati ma il movimento di Occupy Ws .
Questa crisi non è la solita che si risolleverà con tagli ai costi,tassi bassi e investimenti e incentivi e le solite misure.

Una riforma del sistema capitalistico e dei mercati è obbligatoria altrimenti il sistema imploderà. Eppure basterebbe poco per far si che i mercati siano al servizio dell’economia reale e non viceversa. Ma questa è una altra storia. Oggi purtroppo la nostra prima preoccupazione resta la sopravvivenza dei nostri risparmi e di quel che resta della solidità e della reputazione del nostro paese.

* promotore finanziario, già consigliere regionale ANAF

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3DNews/Jack Caldoro e Giggino Matthau, la strana coppia a Napoli.

Luigi De Magistris

Il sindaco e il governatore si inseguono sulla scena mediatica, rivaleggiano ma alla fine si sostengono
di Oscar Aldino

Stefano e Giggino come Felix e Oscar nella celebre commedia di Neil Simon. Jack Lemmon (Felix) è un tipo preciso, pulito, maniaco dell’ordine. Walter Matthau (Oscar) è uno che azzarda, impetuoso e pokerista. Diversi in tutto, ma costretti a coabitare nello stesso appartamento. Alla fine ognuno impara qualcosa dall’altro.

Che ne dite? Non sembrano, gag a parte, Caldoro e De Magistris? Si chiama collaborazione istituzionale, ma qualcuno la definisce “cazzimma” per necessità. Divorziati entrambi dalle tortuose logiche di coalizione (come Felix e Oscar dalle rispettive mogli), sbarcano il lunario, l’uno governando con ordine e precisione compulsiva la cassa regionale (e tenendo a distanza Cosentino), l’altro promettendo impetuose “rivoluzioni nel modo di fare politica” (e tenendo vicini gli indignati). Sono opposti, nel fisico e nei programmi, ma preferiscono aiutarsi, piuttosto che cedere a capipartito e ras elettorali. E poi non si sa mai. Con i tempi che corrono meglio ripararsi sotto la pensilina della collaborazione che ritrovarsi inzuppati d’acqua sotto la tempesta perfetta della politica italiana.

E allora via alla prima foto di famiglia: a Capodichino insieme per accogliere il vicepresidente Usa Joe Biden e sua moglie Jill. Poi, insieme a polemizzare con la Lega, insieme a Plymouth per la Coppa America a Napoli, insieme per il Forum delle culture (presidente in quota sindaco, direttore in quota governatore), insieme per togliere i rifiuti dalle strade durante la crisi e ora quasi d’accordo (sarà vero?) sul termovalorizzatore partenopeo che emigrerebbe da Napoli est a Capua, per la gioia di Giggino e il disappunto di qualche amico del governatore. Finanche propensi all’uso combinato delle “piazze”, perché ce n’è una di protesta e un’altra di proposta. “Uniamole “, esorta Caldoro, affidando la prima al sindaco e riservando, da buon riformista, la seconda per sé. “Non esistono due piazze –schiva la classificazione il sindaco- ma esiste un solo luogo sociale e politico”.

Comunque sia, Jack Caldoro e Giggino Matthau, quando possono, si scambiano garofani e bandane. E si rincorrono, in questa corsa all’aplomb istituzionale e alla notorietà pubblica, sui media e sui social con un diluvio di video, contatti, pagine fan, “mi piace”, tweet e amici fb. Falangi di giovanissimi, interpreti del “nuovo”, a guidare la macchina della comunicazione o a fare il tifo per il sindaco del popolo o per il governatore persona perbene.

Protagonisti per caso, si inseguono sulla scena mediatica, rubando all’altro qualche virtù e anche qualche trucco del mestiere. Caldoro non disdegna ora la platea, i new media e alza pure la voce col governo. De Magistris continua a bucare il video, è padrone dei social (più di 270mila fan su fb e 36mila sulla pagina di sindaco), ma non disprezza qualche conticino e si appella al governatore: “Mi devi 12 milioni di euro per le buche stradali”.

Felix e Oscar, al secolo Stefano e Giggino, hanno davvero “scassato” ogni previsione. Meglio, per il governatore, elogiare il modello De Magistris che dare punti e credito al centro-sinistra. Meglio, per il sindaco, accordarsi con chi tiene la cassa regionale che invischiarsi in rapporti troppo stretti col Pd e rinunciare al “movimento”. La strana coppia funziona.

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Il comunicato del Quirinale che annuncia le dimissioni di Berlusconi. (Il governo non c’è più, lui però c’è ancora).

da quirinale.it

Il Presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato una volta compiuto l’adempimento dell’approvazione della Legge di Stabilità

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto questa sera in Quirinale il Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, accompagnato dal Sottosegretario dott. Gianni Letta. All’incontro ha partecipato il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Consigliere Donato Marra.

Il Presidente del Consiglio ha manifestato al Capo dello Stato la sua consapevolezza delle implicazioni del risultato del voto odierno alla Camera ; egli ha nello stesso tempo espresso viva preoccupazione per l’urgente necessità di dare puntuali risposte alle attese dei partner europei con l’approvazione della Legge di Stabilità, opportunamente emendata alla luce del più recente contributo di osservazioni e proposte della Commissione europea.

Una volta compiuto tale adempimento, il Presidente del Consiglio rimetterà il suo mandato al Capo dello Stato, che procederà alle consultazioni di rito dando la massima attenzione alle posizioni e proposte di ogni forza politica, di quelle della maggioranza risultata dalle elezioni del 2008 come di quelle di opposizione. (Beh, buona giornata).

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La Destra americana ha una gran paura di Occupy Wall Street.

http://argomenti.ilsole24ore.com/paul-krugman.html

Negli ultimi due giorni ho ricevuto mail di gente che mi accusava di connivenza con i nazisti. La mia reazione immediata è stata: ma di che accidenti stanno parlando? Poi ho capito: la destra sta montando una campagna a tutto campo per etichettare Occupy Wall Street come un movimento antisemita, sulla base, a quanto capito, di un cartello esposto da un tizio.

Contemporaneamente, c’è chi accusa il movimento di essere all’origine di un’ondata di criminalità. Secondo un articolo sul New York Post del 22 ottobre, «le recenti sparatorie hanno portato il numero delle vittime di armi da fuoco a New York quest’anno leggermente al di sopra del tragico bilancio dell’anno scorso (1.484 morti contro 1.451) alla data del 16 ottobre. Quattro alti funzionari di polizia puntano il dito contro i manifestanti di Occupy Wall Street, dicendo che le loro proteste costringono la polizia a dirottare le unità speciali anticrimine dalle zone calde, dove ci sarebbe bisogno di loro».

Per credere a una tesi del genere bisogna credere non solo che qualche migliaio di manifestanti non violenti siano capaci di mettere in difficoltà una forza di polizia che può contare su 35mila agenti, ma che tutti gli assassini e gli stupratori dei quartieri periferici stiano dicendo: «Ehi, la polizia è occupata a dare la caccia agli hippy. Scateniamoci!». Per favore.
La prima cosa che mi viene da pensare è che Occupy Wall Street deve aver spaventato parecchio la destra, per spingerla a reagire così. E probabilmente è vero, ma c’è anche da dire che questo è il modo tipico in cui reagisce la destra contro tutti coloro che le si oppongono: accusarli di qualsiasi cosa, non importa quanto implausibili o contraddittorie siano le accuse. I progressisti sono socialisti atei che vogliono imporre la sharia. La lotta di classe è un male, però John Kerry è troppo ricco. E così via.

La chiave di tutta la faccenda, secondo me, è che la destra, in quanto movimento, è diventata un universo chiuso e ripiegato su se stesso, in cui per guadagnare credito non bisogna mostrarsi ragionevoli agli occhi degli elettori indipendenti (anche se qualche raro caso di opinionista di destra che interpreta il suo ruolo in modo professionale c’è), ma bisogna mostrarsi ancora più zelanti e oltranzisti degli altri compagni di strada.

Mi ricorda un po’ le invettive degli stalinisti contro i trotskisti ai vecchi tempi: i trotskisti erano deviazionisti di sinistra e al tempo stesso sabotatori al soldo dei nazisti. Ma i propagandisti non si sentono idioti quando sostengono cose del genere?
Niente affatto: nel loro universo mentale, l’estremismo in difesa di una verità più grande non è un vizio, e non c’è letteralmente limite a quello che si può dire a tale scopo.
Molti illustri commentatori non vogliono accettare il fatto che questo è quello che è diventata la politica americana: si aggrappano all’idea che a destra ci siano anziani statisti gentiluomini pronti a uscire allo scoperto se solo Obama dicesse le parole giuste.

Ma la verità è che da quel lato dello schieramento politico nessuno è disposto o è in grado di fare accordi con il guerrafondaio-antimilitarista-ateo-di-fede-islamica che risiede alla Casa Bianca.
Allacciate le cinture: non sarà per niente piacevole. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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Attualità democrazia Politica Potere

Vecchi altarini di Matteo Renzi.

(fonte: http://www.unioneinquilini.it/index.php?id=528)

Firenze: Ritratto di Matteo Renzi, candidato PD a sindaco. Interessanti i suoi rapporti con dei noti immobiliaristi e altro ancora. Altro che l’Obama fiorentino! (A cura della sinistra unita e plurale (SUP)di Firenze).

Matteo Renzi è figlio di Tiziano Renzi, ex parlamentare della DC e gran signore della Margherita e della Massoneria in Toscana. Il feudo
incontrastato della famiglia Renzi è il Valdarno, dal quale si stanno allargando a macchia d’olio. Il padre di Matteo controlla dalla metà degli
anni ’90 la distribuzione di giornali e di pubblicità in Toscana. Questo, unito agli affari con la Baldassini-Tognozzi, la società un po’ edile e un
po’ finanziaria che controlla tutti gli appalti della Regione, spiega l’ascesa di Matteo Renzi.
Le prime 10 cose che non vanno di Matteo Renzi:

1) Da presidente della Provincia, tra il 2004 e il 2009, ha acquisito il controllo di tutta la stampa locale, radio e tv, in Toscana. L’ultimo giornale che un po’ gli era ostile era “La Nazione”. Per questo, in occasione dei 150 anni di questo giornale, ha fatto ospitare dai locali della Provincia, in via Martelli, una mostra che, naturalmente, è stata pagata coi soldi di noi contribuenti. In questo modo, La Nazione è divenuta renziana.

2) Renzi per controllare ancora meglio l’informazione locale, ha trovato un secondo lavoro a moltissimi giornalisti: gli uffici stampa degli eventi
organizzati dalla Provincia, come il Genio fiorentino, il suo stesso portavoce, tutta una serie di riviste inutili e costossime per la collettività (Chianti News, InToscana, ecc.) servono a lui e a Martini, il presidente della Regione, a tenersi buoni i cronisti locali. Inoltre, trasmissioni come “12 minuti col Presidente”, che va in onda su RTV 38 e Rete 37, gli sono servite a dare delle tangenti legalizzate alle redazioni di queste emittenti che ormai, in lui, riconoscono il vero datore di lavoro.

3) Tra le cose di cui più si vanta Renzi, vi è il recupero di Sant’Orsola.
Il grande complesso situato in San Lorenzo, chiuso e abbandonato da molti decenni, sarebbe stato recuperato dalla Provincia -così dice Renzi- conun
investimento iniziale di 20 milioni di euro. E questo non è vero. Infatti, a bilancio, a fine anno, la Provincia per Sant’Orsola ha stanziato la miseria di un milione di euro. E’ un esempio del suo continuo modo di mentire.

4) Renzi in questi 5 anni ha utilizzato la Provincia allo scopo di promuovere la propria immagine personale coi soldi nostri. A questo servono manifestazioni inutili e costose come “Il Genio fiorentino e “Riciclabilandia”. Attraverso l’utilizzo delle consulenze, degli uffici stampa, della commissione di sondaggi, pubblicazioni e pubblicità ha creato una vasta rete clientelare di giornalsti che non ne contraddicono mai le posizioni.

5) L’inchiesta di Castello: Matteo Renzi, come presidente della Provincia, è molto più coinvolto del sindaco Domenici. Infatti, le opere oggetto dell’inchiesta sono quasi tutte commissionate dalla Provincia: tre scuole, una caserma nonché naturalmente il nuovo (e che bisogno c’è?) palazzo della Provincia. Eppure sui giornali ci è finito Domenici.

6) Il braccio destro di Ligresti, patron della Fondiaria, Rapisarda, lo si vede bene nelle intercettazioni telefoniche, pretende che per le commissioni di Castello la Provincia faccia una gara d’appalto. “sennò ci accusano di fare noi il prezzo”, spiega Rapisarda al telefono all’assessore Biagi.
Pochi giorni dopo quella telefonata, compare questo titolo su Repubblica: “Renzi contro la Fondiaria: per Castello si farà la gara d’appalto”. Ovvero: Renzi è colui che meglio esegue le volontà della Fondiaria e poi appare addirittura come quello contro i poteri forti!

7) Nel 2004 come prima cosa taglia i fondi della Provincia per la raccolta differenziata. Risultato, i Verdi si arrabbiano (giustamente) e lui li espelle dalla Giunta.

8) DAl 2004 Renzi ha creato un’infinità di società alle quali la Provincia commissiona eventi culturali, indagini di mercato e così via. Il caso più clamoroso è quello di “Noilink” che, durante le primarie del PD, diventa il suo vero e proprio comitato elettorale!

9) Tutti i giornaletti del cappero che arrivano nelle case dei fiorentinim a partire da “Prima, Firenze!” sono stampati coi soldi della Provincia

10) Nessun giornalista osa fare una domanda su quanto abbiamo riportato nei primi nove punti a Matteo Renzi.

(Beh, buona giornata).

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

Il movimento del 99% pone la questione globale della democrazia come controllo dell’economia.

di ULRICH BECK-la Repubblica- (traduzione di Carlo Sandrelli).

COM’ È possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell’ Occidente, cioè la visione economica dell’ american way? Com’ è possibile che il grido “Occupy Wall Street” raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro “il sistema”.

Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato “libera economia di mercato” e che ora ricominciaa essere chiamato “capitalismo” viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l’ 1% dei profittatori? Sul sito web “WeAreThe99Percent” si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i “superflui” (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza “il sistema”. Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo.

Questo condizionale catastrofico è l’ uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un’ esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa “bancarotta di Stato”, per me? Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d’ occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca.

Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall’ interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.

Sotto il diktat dell’ emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze. Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo – ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto “follia” quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto “follia” quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto “follia” quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale.

Cosa significa “follia”? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager,i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri. Tutti noi – vale a dire il 99% – siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall’ altro, ha conseguenze durissime per tutti.

Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d’ atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza. Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni “involontarie”. Qui sta il loro bello – in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c’ è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune.

La società mondale del rischio – questo mostra il grido del “99%” – può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente. Ma da dove nasce la forza o l’ impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c’ è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in mo do pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari – come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie – nell’ interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità.

Per applicare questa “Robin Hood Tax” si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un’ alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globalie la politica nazional-statale. Quest’ ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz’ altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione. In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell’ anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico.

Nell’ alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l’ economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l’ economia. Contro la percezione – che sta diffondendosi rapidamente – di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell’ economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l’ avversario più convincente e tenace dell’ economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale. (Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche Potere

Verso la terza manovra? Il governo in balia della crisi.

Da controlacrisi.org

L’Italia è il prossimo candidato a diventare la vittima della “tempesta perfetta”: mancano solo 0,77 punti percentuali al baratro, ovvero la differenza tra il 6,33% di rendimento toccato dai titoli italiani e la soglia del 6,5%-7% ritenuta da tutti gli analisti il punto di non ritorno in cui il nostro paese potrà solo dichiarare la bancarotta a causa dell’impotenza nel far fronte ai debiti. Silvio Berlusconi è pronto all’ennesimo inconcludente Consiglio dei ministri. E, soprattutto, ad infilare nel decreto sviluppo la terza finanziaria del 2011, che dovrebbe aggirarsi tra i 5 e i dieci miliardi.

A suonare il de profundis all’esecutivo non è solo l’opposizione in Parlamento ma anche il mondo imprenditoriale e alcuni settori del sindacato, come la Cisl. E’ Pier Ferdinando Casini a voler dettare al premier l’agenda della settimana invitandolo a presentarsi alle Camere prima del vertice del G20 previsto per il week end. Abi, Alleanza delle cooperative, Ania, Confindustria e Rete imprese italia invitano Berlusconi ad “agire immediatamente al G20 di Cannes risultati concreti” e verificare se esistono le “condizioni per assumere le misure necessarie”, altrimenti “ne tragga le necessarie conseguenze”. “La situazione sui mercati finanziari – sottolineano in una nota – sta precipitando e il nostro Paese è al centro delle turbolenze internazionali. L’attuale condizione è insostenibile per l’Italia e per gli italiani. Non possiamo continuare ad assistere alla corsa degli spread e al crollo dei valori azionari. Non possiamo correre il rischio di perdere in poche settimane ciò che abbiamo costruito in decenni di lavoro”.

Anche per il centrosinistra siamo ai vertici straordinari. Pierluigi Bersani ha sentito ieri, oltre al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, in una «delle giornate più drammatiche che l’Italia abbia mai visto in questa crisi finanziaria», fa sapere il Partito democratico. Domani c’è in programma un vertice; non si è capito se per discutere del default dell’Italia o di quello suo dopo lo scontro tra Renzi e Bersani.
Da parte sua, il centro dello schieramento politico non sembra incline a concedere a nessuno la patente di difesa degli interessi nazionali. E così il bel Pier, che pretende ufficialmente da Berlusconi di comparire in Parlamento per riferire sulle decisioni concrete «prima del vertice del G20, non si lascia scappare l’occasione per menare fendenti a destra, ed anche a sinistra. «In una giornata come questa – scrive su Facebook – a sinistra c’è chi si preoccupa delle primarie e a destra chi annuncia trionfante un milione di tessere. È sbalorditivo e drammatico allo stesso tempo, molti di noi sembrano sulla luna».

Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom, sottolinea invece che il tanto vitupereato referendum della Grecia “è sacrosanto”. “Vogliamo un referendum anche in Italia”, aggiunge, “no alla dittatura della Bce”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il segretario del Prc Paolo Ferrero. “E’ del tutto evidente che le politiche del Governo, della Ue e della Bce ci stanno portando al disastro, come in Grecia“, dice. “La Bce per bloccare la speculazione deve acquistare i titoli di stato nel mercato primario e non in quello secondario, ed il nostro Governo deve pretendere con forza che questo avvenga da subito”, aggiunge. “Inoltre bisogna fare subito un referendum così come in Grecia, sulle politiche economiche e della Bce. Le politiche di austerity vanno sconfitte con la democrazia reale, sia il popolo e non le banche a poter decidere il proprio destino”, conclude Ferrero.

Ovviamente, l’ipotesi del referendum non è nemmeno presa lontanamente in considerazione dal Pd, che invece parla di «scelte straordinarie». «Anche attraverso la costituzione di un esecutivo di emergenza nazionale che affronti pochi punti qualificanti, a partire da quelli dell’economia e dell’occupazione», dice Cesare Damiano, capogruppo Pd commissione Lavoro della Camera. Secondo Damiano servono «misure di rigore necessarie debbono avere il carattere dell’equilibrio nei sacrifici richiesti, se non si vuole commettere l’errore di pensare che colpendo esclusivamente lo stato sociale si possa uscire da questa situazione». (Beh, buona giornata),

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Politica

Aspettando il prossimo convegno di Confindustria.

di Roberto Mania-repubblica.it

La casa brucia. L’Italia è a un passo dalla prospettiva del default. Il rendimento dei Btp decennali si è impennato oltre il 6 per cento, lo spread con i Bund tedeschi viaggia costantemente sopra il 4 per cento, la Bce ha ripreso a comprare titoli italiani, crollano le azioni in Borsa, risale l’inflazione, il tasso di disoccupazione è cresciuto all’8,3 per cento e proseguirà in salita con la cassa integrazione che via via esaurirà la sua funzione per lasciare sul campo la perdita di migliaia di posti di lavoro, un giovane su tre, infine, non ha un’occupazione. Succede tutto questo ma gli industriali, piccoli e grandi, hanno perso la voce. Dove sono?

Nelle settimane scorse avevano chiesto, tutte le loro lobby insieme (dalla Confindustria all’Abi, passando per l’Alleanza delle cooperative), “discontinuità”. Hanno lanciato, più alcuni che altri, penultimatum a gogò: ancora venti giorni, quindici, dieci, sei, poi il governo deve andarsene se non è in grado di cambiare rotta. Nulla. Berlusconi ha presentato la lettera-fuffa a Bruxelles. Una lista delle cose non fatte più che di impegni per il futuro. Ma gli industriali hanno detto che andava nella direzione giusta. Fine degli ultimatum. E poi nella lettera hanno ritrovato il vecchio spartito: basta con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con annesso lo slogan “più assunzioni con più licenziamenti”. Il mondo alla rovescia. Per la discontinuità insomma sono arrivati i tempi supplementari. Il rischio terrorismo evocato dal ministro Sacconi? Silenzio. Se ne parlerà – forse – al prossimo convegno. D’altra parte questo è il ponte d’Ognissanti. Il ponte degli industriali.

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Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

La crisi? E’ nel modello neoliberista e monetarista.

di Stefano Corradino- articolo21.info

“…E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio”. Paolo Cacciari, giornalista, ex parlamentare ed oggi membro dell “Associazione per la Decrescita”, intervistato da Articolo21, analizza a tutto campo la crisi economica ed internazionale, che è crisi “del modello neoliberista e monetarista”. Quella di Cacciari (e non solo lui) è una visione altra dell’economia e delle relazioni sociali “Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio”.

Le istanze della manifestazione di sabato 15 ottobre sono state praticamente oscurate dagli scontri che hanno messo la Capitale a ferro e fuoco. Ma le rivendicazioni degli indignati restano. “Noi la crisi non la paghiamo” recitava lo slogan portante delle mobilitazioni. Quali sono i soggetti più colpiti dalla crisi e quelli maggiormente responsabili di averla prodotta? In che modo questi ultimi possono essere inchiodati alle loro responsabilità?
E’ la politica che deve farlo? O sono le stesse istituzioni economiche e finanziarie a doversi “autoriformare”?
I giovani nelle piazze di tutto il mondo rivolgono a chi ci governa una domanda molto semplice: se chi ha provocato la crisi economica che si protrae da oltre tre anni sono stati operatori finanziari imprevidenti, intermediari di capitali spregiudicati, gestioni speculative delle valute e dei titoli azionari, perché non sono costoro a pagarne i costi? Perché i capi dei governi invece di porre il sistema bancario sotto rigido controllo svuotano le casse pubbliche e impegnano i denari dei contribuenti per tamponare i buchi di bilancio (crediti inesigibili) delle banche private? Perché i movimenti di capitale continuano a fluttuare liberi come l’aria, mentre le economie reali, l’occupazione, il potere d’acquisto dei salari precipitano? La risposta che viene dall’establishment è disarmante: i debiti sono troppo grandi per essere lasciati insolvibili.

“Default”, è il termine che più di ogni altro sembra terrorizzare gli Stati. Cosa succederebbe se fallissero le banche e gli stati?
Appunto. Non è più dato scegliere se salvare quattro banche o uno stato. La dichiarazione di fallimento di più istituti bancari e/o di più stati potrebbe avere un effetto di trascinamento (contaminazione, la chiamano) davvero dirompente in un sistema economico internazionale integrato e comandato dalla finanza come è quello in cui viviamo. Ma questa verità non può essere una scusa per lasciare le cose come sono, per non affrontare le cause strutturali che sono all’origine della crisi finanziaria, per non individuare e rimuovere i responsabili (che non sono solo dentro le banche e i governi, ma anche tra i prezzolati teorici del neoliberismo e del monetarismo dentro le accademie universitarie) e, quindi, operare i cambiamenti profondi che sono necessari. A proposito di “riforme” che non si fanno.

La politica è ostaggio dell’economia?
Le persone per bene si sono “indignate” proprio perché vedono che la politica è ostaggio dei detentori dei titoli di credito, dei capitalisti che continuano a pretendere ed ottenere tassi di rendimento (rendite finanziarie) dieci, venti volte superiori ai tassi di profitto reali delle imprese. Quando anche i manager dell’industria vengono pagati con le stock option (penso a Marchionne), cioè con le azioni e non con i fatturati industriali, allora si capisce bene che il sistema economico è semplicemente impazzito. Per essere più precisi: si regge solo grazie all’immissione di dosi sempre più massicce di droga. Droga di stato: stampa di cartamoneta, ricapitalizzazioni, acquisto di bond che non valgono nulla, rinuncia al prelievo fiscale, ecc.

Tu sei uno dei principali animatori italiani della cosiddetta “decrescita”, modello altro di sviluppo che gli stessi giovani indignati hanno più volte evocato. A prima vista sembra un paradosso. Una delle accuse rivolte all’Italia e ad altri Paesi è che sono a “crescita zero”. Voi affermate il concetto contrario: l’aumento del Pil non aumenta il benessere generale; il problema non è privilegiare la crescita ma “fermarla”, redistribuire le risorse globali. Come si realizza praticamente?
E no, sono loro immersi in una spirale perversa! La crescita del volume del valore monetario delle merci in circolazione (del Pil) può avvenire solo facendo altri enormi debiti. Ma ogni debito ha il difetto di portarsi dietro un creditore che – se lasciato libero – chiederà per se sempre qualche denaro in più del rendimento dei profitti industriali. E’ la crescita che produce il debito! Se invece dicessimo: produciamo solo quello che di cui c’è davvero bisogno mirando a fare economia (in senso stretto!) e non business (la fortuna di pochi), vedremo che staremo tutti meglio. La sfida più avanzata e moderna è: stare meglio con meno. E non penso solo agli sprechi, all’usa e getta, alla obsolescenza programmata per far durare meno gli oggetti, alle psicopatologie del consumatore compulsivo… Penso alla rarefazione delle risorse naturali (non solo il petrolio e l’uranio, ma il litio, senza del quale niente batterie per le auto elettriche, o i minerali rari, senza i quali niente telefonini, o il coltan, niente computer) che ci obbliga a diminuire i flussi di materie e di energia impegnati nei cicli produttivi. Questa è già una prima definizione, la più immediata e banale, se vuoi, di decrescita.

Un rallentamento della crescita economica e la conseguente diminuzione della produzione di merci non provocherebbe un aumento della disoccupazione e della povertà?
Non facciamo confusione: si possono creare e produrre dei beni, delle cose utili (e già ora se ne fanno moltissime, pensiamo solo al lavoro domestico, che non viene conteggiato nel Pil) senza che assumano per forza la forma di merci, valutate cioè in termini monetari e scambiate sui mercati globali. Certo, la nostra società spinge a mercificare ogni cosa: dalla cura dei bambini e degli anziani all’inquinamento atmosferico (una tonnellata di CO2 sulla borsa di Londra valeva ieri 18 euro), dalle sementi brevettate dalle multinazionali agro-farmaceutiche, al sesso… Ma è possibile ed auspicabile pensare di soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente passare per un supermercato. Se solo l’enorme potenzialità della tecnoscienza fosse finalmente indirizzata a preservare l’ambiente e a ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione (e non invece a intensificare gli sforzi produttivi) riusciremmo tutti a vivere in ambienti più salubri e a lavorare meno. Non era questa la felicità?

La crescita economica ha dimostrato di essere diseguale, accrescendo l’ineguaglianza sociale, e concentrando ricchezze nelle mani di pochi. La “decrescita”, in questo caso, si concretizzerebbe come una sorta di azione alla “Robin Hood”, togliendo materialmente le ricchezze a chi ne ha di più per redistribuirle tra i ceti meno privilegiati?
Anche, certo: lavoro e ricchezza vanno meglio distribuiti. La società capitalistica crea per sua natura accumulazione e concentrazione di ricchezze. Fino a ieri tale diseguaglianza era giustificata perché – dicevano – aumentava la competitività, l’emulazione, la produttività del sistema tutto. Il concetto di “sviluppo” e di “sottosviluppo”, quando è nato, nell’immediato secondo dopoguerra, conteneva l’idea di una avanzata di tutte le nazioni del mondo. Era, a suo modo, un’idea universalista e progressista. Assistiamo oggi al fallimento storico di quella promessa. La forbice si allarga, nel mondo, ma anche terribilmente all’interno di ogni singolo stato. Non ci sono mai state nella storia dell’umanità disparità di ricchezze patrimoniali e reddituali così marcate. Pensate: le tre persone più ricche del mondo posseggono guadagni pari alla ricchezza dei 600 milioni di persone che abitano nei 48 paesi più poveri del pianeta. 257 individui possiedono quanto il 45% delle persone sulla terra (2,8 miliardi). Raccapricciante!

La decrescita presuppone una vera e propria rivoluzione culturale. Da dove partire? Quanto siamo schiavi della crescita e della logica del profitto a tutti i costi?
Serge Latouche dice che dobbiamo “decolonizzare l’immaginario” e Gregory Bateson scriveva di “ecologia della mente”. Dobbiamo compiere un lavoro di sgombro dalle macerie che ci ha lasciato il falso mito della crescita infinita. Elevare le capacità critiche del pensiero. Le rivoluzioni non si esportano e non cadono dall’alto. O sono molecolari, condivise dal basso, consensuali… o non sono rivoluzioni.

Anche per la decrescita sarà così?
Sì, una rivoluzione democratica, scelta, partecipata. La decrescita già si vede in mille pratiche individuali e comunitarie. Si coniuga con l’“altra economia”, con l’economia solidale e sociale e con la gestione collettiva dei beni comuni, il nuovo potente paradigma (riscoperto anche grazie al Nobel alla Elinor Ostrom) che ci indica come sia possibile transitare dalla società del possesso a quella dell’essere, dalla competizione alla cooperazione, dal saccheggio alla preservazione, alla sufficienza, all’abbastanza, alla frugalità. E non per angelico francescanesimo, ma perché smarcarsi dalle costrizioni produttivistiche e consumistiche è bello. Saper fare da sé soddisfa. Avere più tempo da dedicare ai propri affetti ti fa vivere meglio. Scambiarsi oggetti, servizi, mezzi di trasporto, abitazioni… allarga i tuoi orizzonti. Prendersi cura delle cose pubbliche aumenta le occasioni di occupazione.

Da giornalista, quanto contribuiscono i media ad incentivare i consumi materiali superflui rispetto a una logica del consumo responsabile?
Dico sempre (vedi: Decrescita o barbarie, scaricabile gratuitamente da internet) che noi, persone comuni, siamo sicuramente scemi, “schiavi volontari” di convenzioni sociali e dispotismi di chi ci comanda. Ma anche loro devono impegnarsi molto per renderci così docili. I due settori economici che non conoscono crisi sono gli armamenti e la pubblicità: il bastone e la carota necessari per mantenere inalterato uno stato di cose che altrimenti, senza violenza e senza manipolazione delle menti, salterebbe subito. Tu mi chiedi dei media. Oggi televisioni e rotocalchi, ma anche la stragrande maggioranza dei quotidiani – tu mi insegni – non vendono notizie: vendono spazi pubblicitari, se è vero che gli editori ricavano più denari dagli inserzionisti che non dai lettori.

La “decrescita” parte da un rifiuto netto dei principi dell’economia liberista o si può costruire all’interno del libero mercato stesso?
Anche all’interno dei sostenitori della decrescita vi sono opinioni e tendenze diverse, più o meno radicali nei confronti del mercato. Nella Conferenza internazionale sulla decrescita, la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale di Barcellona lo scorso anno (la prossima si terrà a Venezia nel settembre del 2012) si sono sentite molte voci e viste esperienze diverse. Si va da Tim Jechson (autore di: Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011) che dirige un gruppo di ricerca governativo del Regno Unito, al Wuppertal Institute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, sempre di Edizioni Ambiente) guidato da Wolfgang Sachs che è stato un allievo di Ivan Illich, per arrivare ai francesi del “Journal la Décroissance” che sicuramente sono i più anticapitalisti. Quello che penso io è sicuramente poco importante, ma i mercati, come le monete, esistevano prima del capitalismo e, per molti prodotti e se ben regolamentati, potrebbero continuare ad avere un ruolo positivo. Il guaio è quando profitto e accumulazione diventano la regola aurea, esclusiva e totalizzante dei rapporti sociali, quando natura e lavoro diventano meri strumenti (coseificazione e alienazione) per l’accrescimento del capitale impiegato nei cicli produttivi. La famosa “distruzione creativa” schumpeteriana – s’è visto – distrugge più di quanto non riesca a creare.

Questo nuovo paradigma socio-economico sembra avvicinarsi alle tesi dei modelli socialisti o comunisti di matrice marxista. In che modo la “decrescita” si sovrappone o si differenzia da queste tesi e dalle sue applicazioni pratiche così come le abbiamo conosciute? (Urss, Cuba, Cina…)
Nonostante intuizioni profetiche – anch’io ho tentato di mettere in relazione marxismo ed ecologismo (“Pensare la decrescita, Carta e Intra Moenia”, 2006, ndr) . Molto più approfondito il libro di Badiale e Bontempelli: “Decrescita e marxismo”; Marx non riesce a liberarsi dal fascino del progresso tecnologico industriale. E credo che si possano far risalire a lui molte responsabilità della parabola dell’esperienza sovietica. Con il “capital comunismo” cinese, invece, credo proprio che il povero Marx non c’entri per nulla. Ho letto che a Cuba si stanno facendo esperienza importanti nel tentativo di riterritorializzare l’economia. Così come entusiasmanti sono le esperienze in corso in Ecuador, dove i diritti di Pacha Mama, la madre terra, sono stati costituzionalizzati.

Insomma dovremmo cominciare a imparare a fare quello di cui abbiamo bisogno con quello che abbiamo?
E’ così, rinunciando definitivamente a mire imperiali, a superiorità coloniali, a ogni sogno di potenza. Alberto Magnaghi (fondatore del movimento territorialista) parla di “autarchia cosmopolita”. L’idea, non è nuova, è quella della confederazione delle autonomie sociali locali. Swadeshi, diceva Gandhi, per indicare l’autodeterminazione dei villaggi. Comunanze, si potrebbero chiamare, ma non chiuse, in reciproco, paritario rapporto tra loro. Bioregioni. Per un’idea di bioumanesimo planetario. La decrescita, insomma, non è solo dematerializzazione, non è solo demercificazione. E’ una direzione di marcia che segue una idea di società, di individuo, di natura più correlati, più armoniosi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Politica Potere

Cosa manca a Matteo Renzi? Un’idea di sinistra.

di Stefano Cappellini-ilmessaggero.it
A Matteo Renzi va riconosciuto un merito non secondario: ha coraggio. Non è merce molto diffusa nel Pd. Il modo in cui Renzi è diventato sindaco di Firenze, vincendo primarie nelle quali correva contro i candidati ufficiali del partito, ne è stata la dimostrazione principale. Anche nella sua contestazione all’attuale leadership democratica dimostra una intraprendenza che troppo a lungo, e per più di una generazione, è mancata ai giovani del Pd.

Aggiungiamo che la necessità di rinnovare il gruppo dirigente democratico è tema di assoluta urgenza, che può essere negato solo per cecità politica o per malafede. La gran parte della nomenclatura del Pd, con poche ma significative eccezioni, ha cavalcato tutti i vent’anni della Seconda Repubblica e con poca gloria. Gli stessi maggiorenti e capicorrente sono stati di volta in volta ulivisti e anti-ulivisti, prodiani e anti-prodiani, destrorsi e sinistrorsi. Il problema di un radicale ricambio non è dunque tanto una questione di vetustà, ma soprattutto di credibilità. Le ragioni di Renzi rischiano però di essere indebolite, fino quasi a essere cancellate, dai limiti della sua proposta politica. Limiti di forma e insieme di sostanza.

Innanzitutto c’è una questione che potremmo definire di appartenenza. Pier Luigi Bersani rischia di mancare il bersaglio quando accusa Renzi di «tirare calci», perché le contese per la leadership non sono mai un pranzo di gala e se ai giovani si toglie l’arma del conflitto dovranno far conto solo sulla cooptazione dei vertici. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ma Bersani ha ragione quando, con la metafora dei calci, vuole intendere anche che la battaglia di Renzi sembra condotta, e non da oggi, contro il Pd, più che dentro il Pd.

Renzi ha spiegato a Firenze che ha scelto di non nominare Berlusconi, perché «così si guarda avanti». L’ultima campagna elettorale ha dimostrato che non basta ignorarlo, Berlusconi, per metterselo alle spalle. Renzi è peraltro uno di quei leader che dal berlusconismo attingono eccome, imitandone la tendenza a fare più attenzione alla confezione che al contenuto. Non è il primo né l’unico a sinistra, anzi. Per testimoniare la carica di innovazione dei cosiddetti rottamatori riuniti a convegno alla stazione Leopolda di Firenze s’è inventato la parola d’ordine del wiki-Pd. Un nome di battesimo internettiano, suggestivo e certo familiare alle orecchie dei ventenni-trentenni.

Ma in cosa consiste il wiki-Pd? Perché dovrebbe essere meglio del bronto-Pd? A chi è in grado di
parlare questa formula, oltre che alla comunità dei social network e degli smartphone? Mistero. Troppo spesso ci si dimentica che Berlusconi ha sì inaugurato la stagione della politica spettacolo e ipermediatica, ma poi i suoi storici slogan vincenti sono stati «meno tasse per tutti» e «aiutare chi è rimasto indietro». Sospettiamo che la wiki-politica sia una formula molto cool e smart, utile a fare (ottima) immagine, meno a rendere il Pd una credibile forza di governo, seppure in mano a una nuova generazione.

Ma peggio ancora va nei passaggi in cui Renzi cerca di dare una sostanza all’etichetta giovanilistica. A parte la polemica con i «vecchi», il messaggio principale arrivato dalla Leopolda è che Marchionne è in cima al pantheon dei rottamatori. Una apologia del marchionnismo che oltre ad arrivare decisamente fuori tempo massimo – nel momento in cui il manager è pesantemente sotto accusa per il deficit di politica industriale della Fiat – è incompatibile con l’ambizione di guidare il principale partito del centrosinistra. Non perché Renzi sia «di destra», come gli ha rimproverato Nichi Vendola, a torto, visto che neppure nella maggioranza di centrodestra la linea Marchionne riscuote l’acritico consenso che Renzi e i suoi gli hanno tributato a Firenze. Un grande partito di centrosinistra non si sdraia sulle ragioni dell’una o dell’altra parte.

Nella recente contesa Fiat-Fiom il Pd ha giustamente cercato, con fatica ma a ragione, di coniugare le istanze di una grande impresa nell’economia globalizzata e le sacrosante ragioni del mondo del lavoro, cui un grande partito di centrosinistra non può voltare le spalle in nome di astratti furori ideologici. Parlare all’elettorato del campo opposto è un obiettivo giusto. Ma non è con il salto di barricata o con la scorciatoia del marchionnismo che la strategia di allargare i consensi può funzionare.

E se a Renzi non è chiaro, per rendersene conto gli basta fare un salto in Parlamento, dove il capolista del Pd in Veneto alle ultime elezioni, Massimo Calearo, già falco di Federmeccanica e berlusconiano ante litteram, è tornato alle origini e non nega mai il suo voto di fiducia al governo del Cavaliere. (Beh, buona giornata).

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La nomina di Malgara alla Biennale di Venezia fa acqua da tutte le parti.

Questa storia della nomina di Giulio Malgara a futuro nuovo presidente della Biennale di Venezia ha tutta l’aria di essere un pretesto per scatenare una baruffa chioggiotta.

Malgara e la cultura non sono esattamente come due piselli in un baccello. Uomo di marketing, imprenditore di varie imprese, per oltre un ventennio capo indiscusso dell’Upa (l’associazione delle aziende che investono in pubblicità), presidente a vita di Auditel, Malgara è stato un fedelissimo del Berlusconi tycoon della tv commerciale, per poi diventare anche e soprattutto, un membro dell’entourage del Cavaliere sceso in campo. Malgara è uno degli uomini che ha contribuito a convincere gli imprenditori italiani a investire nella pubblicità televisiva, nella tv commerciale innanzi tutto.

Chi lo ha conosciuto quando era in servizio permanente effettivo come “cliente” delle agenzie di pubblicità ne ricorda il pragmatismo, la distanza stellare da sofismi comunicazionali: pretendeva approcci basici, di pancia, per lui la pubblicità era un business, mica tanti intellettualismi. Difficile pensarlo alle prese con l’impalpabilità dei significati artistici, con i dibattiti culturali, con le scuole e le correnti di pensiero. Lo si è visto subito: alle polemiche sulla sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo di presidente di una delle più prestigiose istituzioni culturali del mondo, Malgara ha risposto alla Malgara: io di arte ci capisco, a casa ho ci ho pure tre o quattro quadri di valore.

Anche la difesa d’ufficio di Sgarbi, che sostiene la tesi dell’alternanza politica delle nomine, per cui sarebbe logico che a un presidente nominato dal centro sinistra ne segua uno nominato dall’attuale governo, anche questo suona strano: è vero che Sgarbi è un valletto di corte, ma questi argomenti suonano meglio in bocca a un sottosegretario qualsiasi che sulle labbra di una che ha la lingua come una saetta incandescente.

Galan, veneto come Malgara, quasi ex collega, essendo stato un funzionario di spicco di Publitalia, la concessionaria della pubblicità di Fininvest prima e di Mediaset poi, e proprio per questo un’altro che ha seguito il capo nella discesa in campo, neanche Galan è sembrato spendere più di tanto le sue doti di venditore per “portare a casa” la nomina di Malgara.

E mentre sale la protesta degli uomini di cultura e si schierano contro amministratori locali e i cittadini di Venezia; mentre i media cominciano a occuparsi della cosa con una certa frequenza, tanto da mettere in luce, per esempio, il silenzio assordante del presidente della Regione Veneto, il leghista Zaia; mentre si fa, magari ingiustamente, un bel po’ di ironia sulle capacità anche come manager di Malgara, arrivando a scomodare gli ultimi bilanci non proprio fantastici della Malgara Chiari e Forti; mentre tutto questo succede comincia a aleggiare il sospetto di un già visto. Il sospetto, cioè di una candidatura nata per essere bruciata al solo scopo di far posto a un’altro nome che all’ultimo momento spiazzi tutti.

Questo metodo è nelle abitudini di Berlusconi e dei berlusconisti. Malgara, poi, non sarebbe nuovo a prestarsi a questo gioco delle parti. Era già successo nel 2005, quando la sua nomina alla presidenza della Rai fu lanciata come si lancia il coniglietto di pezza nelle corse dei levrieri. Alla fine arrivò a sorpresa la nomina di Claudio Petruccioli, che inaugurò la stagione dei presidenti del.a Rai bolliti prima ancora di mettere la casseruola sul fuoco.

Insomma, questa baruffa chioggiotta attorno alla nomina di Malgara sembra proprio un ballon d’essai. Magari, alla fine ci diranno che era solo una semplice nomination. Il che apre un un altro capitolo, forse quello vero: chi vogliono piazzare davvero alla guida della Biennale di Venezia? Beh, buona giornata.

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business Finanza - Economia - Lavoro Marketing Politica Potere Pubblicità e mass media

Il CEO di Palazzo Chigi.

Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, Angela Merkel e Nikolas Sarkozy vorrebbero mettere sotto pressione Silvio Berlusconi al prossimo vertice europeo anticrisi.

Contemporaneamente, il quotidiano tedesco Handelsblatt riferisce quanto affermato dal commissario economico dell’Ue Olly Rehn, secondo cui: ”L’Italia deve sgombrare il campo da ogni dubbio sulla sua politica fiscale”. Non solo.

Si apprende anche che la Commissione Ue “prende nota dello slittamento del decreto sviluppo in Italia e chiede al governo di finalizzare con la massima urgenza forti misure per la crescita”: lo avrebbe detto proprio il portavoce del Commissario Ue agli Affari Economici Olli Rehn.

In epoca di presentazione dei risultati del terzo trimestre, possiamo immaginare che questa scena stia succedendo, più o meno con le stesse parole, in tutte agenzie di pubblicità che fanno parte di network globali.

Non c’è network, infatti, in cui non si mettano sotto pressione i CEO nostrani perché taglino più costi e spingano con più energia verso una sostanziale crescita dei fatturati. E la minaccia, sempre meno velata di essere rimossi per venire sostituiti da manager più giovani e dinamici incombe, come la famigerata spada di Damocle, a ogni meeting internazionale.

Che, mutatis mutandis, è esattamente quello che sta succedendo al CEO di Palazzo Chigi. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Politica Popoli e politiche

Grecia in sciopero.

(fonte:ANSA)

Oltre alla centralissima piazza Syntagma, dove da alcune ore sono radunati oltre 50.000 manifestanti e sono in corso scontri tra giovani incappucciati e le forze dell’ordine, anche le strade di accesso alla piazza sono ridotte a un campo di battaglia, con cassonetti delle immondizie dati alla fiamme, vetrine di negozi infrante e segnali stradali divelti. Il tutto è avvolto da una fitta nube di acre gas lacrimogeno. Lo riferisce la corrispondente della Tv privata Skai in collegamento in diretta.
Con lo sciopero di 48 ore cominciato questa mattina, le manifestazioni di protesta dei lavoratori greci contro le misure di austerita’ varate dal governo socialista di Giorgio Papandreou e contro il multi-disegno di legge che domani sara’ votato dal Parlamento, raggiungono il loro culmine. In giornata sono previste diverse manifestazioni di piazza ad Atene e nelle maggiori citta’ del Paese.
Tra manifestanti greci e polizia sono cominciati poco fa i primi incidenti sulla piazza Syntagma, davanti al Parlamento e su una via laterale. Alcuni giovani incappucciati hanno lanciato sassi e almeno cinque bottiglie incendiarie contro gli agenti schierati a difesa dell’edificio che hanno reagito esplodendo alcuni candelotti lacrimogeni
Questo sciopero generale – il quinto dall’inizio dell’anno e il secondo di 48 ore da giugno – e’ considerato il piu’ vasto dopo la caduta del regime dei colonnelli (1974) ed arriva a paralizzare completamente il Paese dopo due settimane in cui si sono succeduti gia’ decine di scioperi settoriali. Tutto e’ fermo: scuole, ministeri, banche, uffici postali, ospedali, studi professionistici, supermercati, panetterie mentre sono tornati a lavorare i giornalisti di radio, tv e quotidiani. Il consiglio direttivo della Confederazione Nazionale del Commercio di Grecia (Esee) ha deciso la chiusura, per oggi, di tutti i negozi del Paese.
Anche i distributori di benzina resteranno chiusi in segno di protesta per le misure economiche del governo. Fermi anche i traghetti da e per le isole, i voli nazionali e internazionali e i controllori di volo che pero’ si astengono dal lavoro solo per 12 ore, dalla mezzanotte di martedi’ fino a mezzogiorno di oggi. Come gia’ altre dicasteri nei giorno scorsi, anche il ministero della Giustizia e’ da questa mattina occupato dagli impiegati del sistema carcerario. In un comunicato sostengono che ”la situazione nelle carceri ha raggiunto livelli molto pericolosi perche’ che manca il personale in tutti i reparti che in certi casi raggiunge il 60% del necessario”.
Anche le guardie carcerarie hanno annunciato la loro adesione allo sciopero generale indetto dai due principali sindacati greci – Gsee e Adedy – e nello stesso tempo hanno proclamato una agitazione di 24 ore per venerdi’ 21 ottobre. Durante lo sciopero non saranno permesse le visite ai detenuti da parte dei parenti o dei loro avvocati. Allo sciopero di oggi e domani, oltre i dipendenti del settore dei trasporti pubblici, partecipano anche i proprietari di taxi perche’ il nuovo disegno di legge presentato dal ministero dei Trasporti non li soddisfa e chiedono al governo di ripristinare le legge precedente che prevedeva che il numero delle licenze per i taxi fosse collegato al numero degli abitanti di una determinata area geografica. Beh, buona giornata.

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