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3DNews/L’informazione ai tempi della “Concordia”.

di Antonio Mango

Tra falsi, rubamazzetto televisivo e super-show da salotto. La Costa Concordia ha svelato il lato B dell’informazione nazionale. Ricapitoliamo: la nave affonda, il capitano se ne va, i passeggeri si arrangiano con le scialuppe, tra cuochi filippini, eroi di giornata e navigatori già sugli scogli. La tragedia si consuma in due ore, tra le 21.42 dell’inchino omicida e le 23.00 più o meno del si salvi chi può. Segue la notte fonda dei salvataggi à la carte. Il tutto tra furiose litigate telefoniche (capitaneria vs comandante), rivelate per fornire il solito quadro melodrammatico degli italiani felloni o eroi.

Il buono (captain De Falco), il brutto (captain Schettino), il cattivo (lo scoglio assassino). Di questo si è nutrita l’informazione nazionale nelle fatidiche giornate del naufragio, arrivando tardi e male sulla colossale notizia, recuperando la défaillance con scampati e parenti incazzati, il solito psichiatra, qualcuno in divisa. Pronta la classifica della bontà o della sciaguratezza, processo già fatto, ma senza uno straccio di verifica: lo scoglio c’era o non c’era sulle carte? Boh. I circa mille addetti di bordo hanno fatto il proprio dovere o no? Boh. Il cuoco filippino era vicino alla scialuppa per caso o era lì perché queste erano le regole di addestramento? E chi lo sa. Gli ufficiali di coperta quanti erano e dov’erano, visto che sono stati trattati da desaparecidos? C’è qualcuno che lo sa? E soprattutto che cosa si sono detti il comandante e Costa crociere? E’ buio, si potrebbe dire parafrasando Schettino.

Domande senza risposta in quei momenti. Invece, ecco il piatto forte dell’informazione naufragata. Una possente bufala che circola in rete a poche ore dal disastro: un video girato nel ristorante della Concordia al momento dell’impatto, con relativo ambaradan di piatti, bicchieri e tavoli che volano. Peccato si trattasse di un video ripreso su un’altra nave, la Pacific Sea Sun in crociera tempo fa in Nuova Zelanda. Tanto bastò. Abboccano all’amo i principali Tg dell’ora di pranzo di sabato 14 e alcuni quotidiani nazionali on line. Secondo loro e per alcune ore quella era la sala ristorante della Concordia. Su Twitter, invece, il falso viene smascherato (da chi professionista dell’informazione non è) e l’errore rapidamente rimosso dalle testate imbufalate.

Com’era immaginabile si gioca un’altra importante partita tra social network e media mainstream. Mentre le tv nazionali fanno spettacolo (preceduti nella notte dalle notizie in diretta di Bbc e Cnn) e i grandi giornali si incagliano sull’ora tarda di venerdì 13 (Repubblica e Corriere sabato mattina tengono la notizia bassa) la vera informazione circola su Twetter, dove grazie agli hashtag (esempio #giglio oppure #schettino oppure #concordia) si aggregano notizie, si sbugiardano falsi, si dà subito conto della dimensione emotiva del fatto. La “cura” dell’informazione dovrebbe essere appannaggio dei professionisti dell’informazione e, invece, succede (sempre più spesso) che questi rincorrono il tempo dei social, bevendosi qualsiasi cosa che sappia di notizia.

C’è poi il rubamazzetto. Youreporter.it riceve e mette in rete le immagini girate col telefonino da naufraghi incipienti a bordo della nave. Il video va a finire su un Tg nazionale, ma il logo di chi per primo l’ha pubblicato scompare. Stavolta su internet si va, non per verificare, ma per rubacchiare.

Guelfi e ghibellini non potevano mancare e il set, ai tempi della Concordia, diventa la rete. Su FB, ore 21.08, la sorella del maître annuncia: “Tra poco passerà vicina vicina la Concordia, un salutone al mio fratello”. Quaranta minuti dopo si scatena l’inferno. Con i morti, i dispersi e la verità ancora da accertare va in scena la diatriba colpevolisti (quasi tutti) – innocentisti (amici di Meta di Sorrento, riuniti su Twetter #a sostegno di francesco schettino).

Il blob dell’informazione nazionale non poteva che trovare il suo acme nella tre-giorni vespiana con naufraghi rivestiti e truccati a dovere per il salotto, un ufficiale (medico) che non riesce a dire la sua, l’onnipresente psichiatra col maglioncino colorato e un compiaciuto e malinconico sorriso del conduttore per l’immagine clou della serata: la gemella Costa Serena, che passa accanto al Giglio e al relitto della Concordia. La vita continua. E pure le notizie-salotto di Vespa. (Beh, buona giornata).

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3DNews/Il naufragio dei simboli.

di MARCO FERRI

Quella nave abbandonata come la testa della Statua della Libertà in “Il pianeta delle scimmie”, simbolo della disfatta del genere umano: la Costa Concordia passerà alla storia perché, invece che di passeggeri” è sembrata piena di simboli.
A cominciare dal nome (Concordia), per proseguire dal motivo (l’inchino, cioè il saluto ravvicinato alla costa), dalla causa (lo scoglio di cemento), eccola la dozzinale rappresentazione dell’eterna lotta del bene contro il male: De Falco versus Schettino, cioè il senso del dovere contro la condotta irresponsabile.

Eppoi la riscoperta del radiodramma: la telefonata tra i due, un pezzo di altissima recitazione, come non se ne sente più da un pezzo via radio. Infine, non poteva mancare il paese natale di Schettino che si stringe attorno al suo concittadino, sbattuto in prima pagina come il mostro, già condannato dal tribunale speciale dei media, come sempre affamati di tragedie, di colpevoli, di vittime e di eroi.

Ci mancherebbe solo Vespa, che magari, invece di un plastico, sguazza dentro un acquario. E non è detto che non succeda pure questo.

Una nave da crociera piena di simboli, evocati da ogni parte: il mito del coraggio contro la codardia, come panacea per uscire dalla crisi politico-economica che attanaglia sempre più profondamente l’Italia. E quei disgraziati morti affogati, come fossero semplicemente i cadaveri di un episodio trasmesso da Fox Crime. No, non erano persone, ma consumatori di un centro commerciale galleggiante: le loro storie non interessano ai media. Potrebbero rovinare il marketing delle vacanze in crociera? Molto meglio, allora, continuare a ricamare sul codardo sbugiardato dagli eroi. Nuovi ammutinati del Bounty, novelli Capitani coraggiosi, in odor di Master&Commander.

Eppure, il fascino perverso dell’immagine della nave piegata su un fianco, alla deriva sugli scogli dell’isola del Giglio è contagioso proprio per via dei simboli che con lei sono naufragati e che sono poi stati soccorsi dai commentatori: dalle acque basse vengono, così, ripescati stereotipi dell’italico spirito nazionale. Reduci dalle celebrazioni del 150 esimo dell’Unità d’Italia, i soccorritori vengono descritti come personaggi di un nuova stesura del Libro Cuore.
Non ci sarebbe niente di male. Magari se la meritano un poco di attenzione, quegli uomini e donne che di mestiere salvano la vita agli altri. Soprattutto se lo meritano gli uomini di mare, a cui si voleva, non più tari di qualche mese fa, addirittura vietare di soccorrere le barche fradice di migranti alla deriva.

Se non fosse, invece, che la realtà di quanto è successo è molto più banale, dunque più tragica: un uomo commette un terribile errore, che costa vite umane, e per questo perde la testa, e continua a fare errori, primo fra tutti l’abbandono delle sue responsabilità. Banale e tragico, ma umanissimo.

Sarebbe meglio pensare a questo, prima di emettere giudizi capitali che spetterebbero all’inchiesta e a chi delle indagini prima e della sentenza poi è incaricato. E invece che facili riletture di Cuore, potrebbe essere utile interrogarsi sull’essere umano e disumano degli uomini. E spegnendo la tv, chiudendo il giornale e arrestando il sistema del pc, aprire e rileggere, per esempio, “Uomini e no” di Vittorini. Beh, buona giornata.

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3DNews/Il naufragio italiano, l’illuminante metafora del Concordia.

di Beppe Grillo

Costa Concordia è la metafora dell’Italia. Una balena arenata sugli scogli. Il capitano prima ha causato il problema, poi lo ha negato e poi è scappato. Come Piè Veloce Berlusconi. Il capitano pretendeva di dare istruzioni dalla spiaggia, con i piedi all’asciutto, mentre i suoi secondi erano rimasti a bordo .

Esattamente come i partiti con il governo Monti. La nave ha un nome italiano, ma il proprietario è americano… come il nostro Paese. Il padrone americano si chiama Carnival, come la gestione della nostra finanza pubblica. L’equipaggio era formato da extracomunitari sottopagati, belìn, proprio come quelli che lavorano in Italia. Il titolo di Carnival è sprofondato in Borsa, come i nostri titoli pubblici. Per salvare il salvabile il personale di bordo si è ammutinato mentre la nave si inclinava sul fianco.

Ecco, questo non è ancora successo sulla terraferma. Sulla Concordia l’equipaggio ha potuto ribellarsi soltanto perché non era presente la forza pubblica a manganellare agli ordini del comandante, come in Val di Susa. Il nome Concordia si riferisce all’unità fra le nazioni europee. I suoi tredici ponti hanno infatti nomi di Stati europei, tra cui Grecia, Italia, Gran Bretagna, Portogallo, Francia, Germania, un viatico mentre l’euro sta deflagrando e i tedeschi si farebbero tagliare un braccio piuttosto che finanziare Italia e Grecia. L’allarme è stato dato in ritardo, a imbarcazione rovesciata. Uguale-uguale alla catastrofe economica italiana, a Tremorti e alla “crisi dietro alle nostre spalle”.

I soccorsi sono arrivati da imbarcazioni private. Le scialuppe erano insufficienti, i giubbotti di salvataggio erano contesi tra i passeggeri e i pontili in preda al caos. Sembra un’ordinaria giornata italiana. Il disastro non è avvenuto per cause naturali, ma per disattenzione. Una regola per l’Italia. La Concordia è affondata per essersi avvicinata all’isola per “fare un omaggio” con la sirena spiegata a amici e autorità del Giglio a loro insaputa. Come per Scajola e Malinconico!

All’inaugurazione la bottiglia di champagne lanciata contro la fiancata rimbalzò, il disastro è avvenuto di venerdì 13. Se fossimo superstiziosi ci daremmo alla fuga. (Beh, buona giornata)

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libertà, informazione, pluralismo, Media e tecnologia Politica Pubblicità e mass media Società e costume

3DNews/Il direttore del TGUno? Facciamo un concorso pubblico.

di Giulio Gargia *

Chi sarà il prossimo direttore del TG1? Move On lancia un’idea : candidare un giornalista straniero che conosca bene l’Italia. Unica garanzia di un prodotto giornalistico quanto più lontano possibile dalle logiche attuali di fattura dei TG. Il nome ? Wolfgang Achtner, da molti anni in Italia come corrispondente di numerose testate fra cui ABC News, Cnn e Press tv, autore di testi sul giornalismo televisivo, titolare di corsi universitari e di corsi di formazione per videogiornalisti e sulla comunicazione televisiva per il Gruppo Espresso.

Achtner ha scritto una lettera a Garimberti in cui chiede di decidere il direttore del TG1 con un bando pubblico per titoli. E presenta i suoi, candidandosi. La missiva è stata resa pubblica l’11 gennaio, con una conferenza nella sede della Stampa Estera a Roma . Dice il giornalista a Garimberti : “ Ho le carte in regola perchè sono indipendente politicamente, ho una carriera prestigiosa con esperienze nei più grandi network mondiali, come ABC, CNN e Press Tv e una notevole esperienza nel campo della formazione.

Nel momento in cui un nuovo governo è al lavoro per salvare il Paese – afferma Achtner – sono convinto che un buon esito dipenda da una consapevole partecipazione dei cittadini italiani e questo richiede una buona informazione, in particolar modo televisiva, che attualmente non c`è.

In base alla mia consolidata esperienza internazionale in campo televisivo, posso assicurare che, salvo rarissime eccezioni, quello che passa per informazione televisiva in Italia è pura propaganda politica. La funzione dei TG è soprattutto quella di portare nelle case le facce dei politici a ora di cena. Per non parlare del fatto che i servizi dei TG sono ancora una specie di “radio illustrata” , poco attenti allo specifico del linguaggio televisivo che si è così evoluto. Ecco, queste cose mi piacerebbe poterle applicare- continua Achtner – le prime cose che farei? Abolizione del pastone politico, niente editoriali, reintegrare gli emarginati da Minzolini, più servizi sugli esteri e meno sfilate di cani”

Poi Marco Quaranta, di Move On, ricorda il motivo dell’iniziativa : che il servizio pubblico deve operare in condizioni di indipendenza editoriale mentre ci siamo abituati all’idea che la RAI sia lottizzata. Mentre questo è il momento di tornare ai principi che muovono qualsiasi etica dell’informazione, soprattutto perchè bisogna ricordare che c’è un legame indissolubile tra democrazia e buona informazione. E tuttora oltre il 60% degli italiani hanno i TG come unica fonte d’informazione, su cui fondano le loro scelte di tutti i giorni . Compresa quella del voto. Perciò, spiega anche Gianfranco Mascia, questa è solo la prima candidatura, si tratta di riaffermare un principio, il direttore lo fa chi ha più titoli per farlo. Quindi, lanceremo altre candidature, già il 23 gennaio prossimo. E c’impegniamo a rilanciare anche il problema complessivo della governance della RAI, di come viene eletto il CdA. Su quello ripartiremo dalla proposta di Tana de Zulueta elaborata insieme a tante associazioni, che è pronta ed è stata depositata in Parlamento di nuovo già in questa legislatura da Beppe Giulietti.

Alla fine spunta anche un’ ultima idea: fare quanto prima un confronto tra un TG Uno e un nostro TG . Con Achtner mettere sul sito una “ versione alternativa” delle notizie di quel giorno. Per far vedere la differenza che un TG1 Rai rinato potrebbe marcare. Per diventare un punto di attrazione per i migliori, quelli che oggi vengono esclusi per fare posto a persone scelte sulle base della loro affiliazione politica invece che delle loro capacità. (Beh, buona giornata).

* direttore di 3D, inserto settimanale del quotidiano TERRA

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3DNews/Con le liberalizzazioni, che fine faranno i pubblicisti? Intervista a Roberto Natale.

di Lorenza Fruci

I poveri pubblicisti italiani , ancora una volta, sono tornati ad essere boicottati da un sistema e da leggi che non gli favoriscono l’esistenza. Sono circolate notizie allarmanti sulla scomparsa del loro ordine, a causa della manovra Salva Italia (art. 3 comma 5 del DL 138/2011) che potrebbe sancire dal 13 agosto 2012, tra le altre, anche la riforma dell’Odg.

La norma “Riforma degli ordini professionali” presente nel decreto che è in applicazione della direttiva europea sulle professioni regolamentate (2005/36/CE), impone il superamento di un esame di stato per l’accesso a tutte le professioni intellettuali. Prova che non è contemplata per l’ordine dei pubblicisti la cui iscrizione all’Albo è regolata dagli articoli 1 e 35 della legge 69/1963 e definisce che “Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”. Oltre al fatto che la figura del pubblicista è una peculiarità tutta italiana, la maggior parte dei pubblicisti italiani lavora di fatto da redattore, cioè come se fosse un giornalista professionista, senza godere però degli stessi diritti dei colleghi. La “Riforma degli ordini professionali” ha dunque inquietato gli animi di pubblicisti, giornalisti (ai quali è stato prospettato un futuro senza la tutela dell’Odg del quale si è ipotizzato l’annullamento), addetti ai lavori e blogger che hanno prodotto anche molta disinformazione sull’argomento per interpretazioni errate delle varie norme della riforma.

Ne sono scaturite anche diverse polemiche, alle quali ha risposto il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino che, in una nota del 30 dicembre 2011, ha cercato di tranquillizzare gli animi e fare chiarezza sul futuro dei pubblicisti, scrivendo in sintesi che è escluso che l’Ordine venga sciolto. Resta aperta invece la questione dell’esame di stato e quindi il destino degli attuali iscritti all’Albo dei pubblicisti. Le soluzioni pratiche possono essere due (fonte www.francoabruzzo.it): i Consigli dovrebbero ammettere all’esame di Stato tutti quei pubblicisti che, 730 in mano, dimostrano di vivere esclusivamente di giornalismo (come è avvenuto dal 1969 in poi in Lombardia); l’Albo dei pubblicisti potrebbe rimanere in vita ma come Albo ad esaurimento. La Costituzione, con il suo articolo 33 (V comma), taglia la strada a soluzioni che prescindono dall’esame di Stato. Si è parlato quindi di “percorsi formativi professionalizzanti” per i quali c’è bisogno, però, di una legge che individui questi percorsi e che preveda alla loro conclusione il rilascio di un titolo universitario che abiliti chi ne é in possesso ad esercitare la professione di giornalista. L’esame di laurea in sostanza potrebbe equivalere anche all’esame di Stato per l’accesso alle professioni intellettuali.

La discussione andrà avanti il 18/19/20 gennaio 2012, quando si riunirà Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti per esaminare tutti i delicati argomenti legati alla Riforma dell’ente e alla costituzione di una “Fondazione Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti”. Il tema sarà “come salvare i pubblicisti” poiché non è possibile chiedere l’esame di stato per l’accesso a questo elenco: i pubblicisti non svolgono la professione ed oggi, dice la Cassazione, non possono lavorare nelle redazioni. E’ possibile ipotizzare la sopravvivenza dell’elenco esistente ma soltanto fino ad esaurimento. Tra le proposte, una sanatoria per i pubblicisti che vivono di giornalismo con l’iscrizione d’ufficio al Registro dei praticanti e l’ammissione conseguente all’esame di “abilitazione all’esercizio professionale” (artt. 33, V comma, della Costituzione e 32 della legge 69/1963).

Intanto ne parliamo con Roberto Natale, segretario della FNSI.

È d’accordo con quello che scrive Enzo Iacopino?
Dal punto di vista delle norme, la cosa è in quei termini. Aggiungo che, qualsiasi siano le intenzioni del governo, il sindacato continuerà a difendere nella maniera più netta i pubblicisti che svolgono attività giornalistica -perché non sempre le due cose coincidono-. In Italia tantissimi pubblicisti svolgono di fatto attività professionale giornalistica a tempo pieno, come attività esclusiva. Il sindacato sarà al loro fianco per difendere la loro piena titolarità a continuare a svolgerla con il tesserino da pubblicista. Dal nostro punto di vista, la distinzione tra pubblicisti e professionisti, quando il pubblicista svolge attività professionista, è di trascurabile importanza.

Quali saranno le conseguenze concrete delle norme della “Riforma degli ordini professionali” e quali cambiamenti interesseranno i giornalisti e i pubblicisti?
Quelle norme fanno chiaramente intendere che sono state pensate per altre categorie, piuttosto che per quella dei giornalisti. Quando si parla, per esempio, dell’assicurazione da stipulare da parte del cliente è evidente che il governo ha in mente un quadro più complessivo delle professioni che non è riferito specificamente all’attività professionale giornalistica. Noi riteniamo che sia importante sfruttare i mesi che verranno da qui ad agosto per arrivare a fare un discorso sulla riforma radicalmente intesa dell’ordine dei giornalisti. Il sindacato intende l’eventualità che si debba rivedere l’assetto dell’ordine professionale non come una minaccia, ma piuttosto come l’opportunità che da anni si sta sollecitando di arrivare ad una vera e propria riforma della legge istitutiva della professione giornalistica in Italia: una riforma che qualifichi l’accesso (in Italia avviene in maniera troppo ampia e non sempre qualificata) e che rafforzi le competenze deontologiche rendendo più incisivo, rapido e di garanzia per i cittadini il loro esercizio da parte dell’Ordine. Queste sono le due cose che ci interessa discutere con il governo nei prossimi mesi, ribadendo naturalmente che se nella riforma dell’accesso noi ci battiamo per un accesso più qualificato, questo in nessun modo può significare che vengano cancellati i diritti di chi già oggi è pubblicista ed esercita la professione giornalistica.

Consiglierebbe ad un giovane di prendere il tesserino da pubblicista oggi?
Sì, se è una persona che ha già scritto articoli: conviene comunque ottenere il riconoscimento che si è guadagnato. Aggiungo che come sindacato ci battiamo da anni perché la discriminazione che c’è nei confronti dei pubblicisti operata da certe leggi venga eliminata. Vedi il caso della giornalista siciliana Giulia Martorana che non si è vista riconoscere il diritto di segreto sulle fonti perché pubblicista e non professionista: la posizione del sindacato è coerentemente al fianco di questi colleghi e chiediamo che venga modificata quella norma perché non ha senso impedire ad un giornalista pubblicista di potersi avvalere di un segreto sulle fonti. Si tratta di una discriminazione. Ovviamente questo discorso si inserisce nel contesto della precarizzazione, fenomeno diffusissimo nella professione, per il quale molti pubblicisti sono dei redattori di fatto (non potendo accedere al praticantato come conseguenza della situazione di crisi) e proprio per questo non meritano di essere distinti da coloro che sono professionisti di diritto.

Di fatto, i veri problemi di oggi dei giornalisti, sia professionisti che pubblicisti, sono la disoccupazione, il precariato, lo sfruttamento. Nel realizzare la riforma dell’Odg si terrà conto di questi problemi reali della categoria che vanno oltre l’appartenenza a meno ad un albo?
Come sindacato, negli ultimi anni, così come ha fatto l’ordine, abbiamo posto il dramma e il problema della precarizzazione al primo posto. Al governo appena insediatosi abbiamo ricordato che c’è un testo di legge al quale teniamo molto che è un provvedimento sull’equo compenso che è in discussione alla camera e che avrebbe in teoria il consenso di tutte le forze politiche. Abbiamo chiesto al governo Monti, così come avevamo fatto l’anno scorso al governo Berlusconi, che quel disegno di legge promosso arrivi a rapida approvazione. Sarebbe un modo per dire ai giornalisti precari, moltissimi dei quali sono pubblicisti, che il legislatore ha compreso quanto scandalosa sia la situazione di vero e proprio caporalato nei quali troppo spesso vengono tenuti.

Visti i cambiamenti in atto, si farà necessaria una regolarizzazione dei blog?
La nostra posizione è che non bisogna confondere giornalismo professionale e libertà di espressione dei cittadini. Noi come sindacato difendiamo il giornalismo professionale, ma questo non significa che vogliamo impedire a chi, per esempio tramite la rete, esercita la sua sacrosanta libertà di espressione; non vogliamo che passino norme bavaglio nei confronti dei blogger e simili e per questo, con la stessa determinazione con la quale diciamo che c’è bisogno di giornalismo professionale, diciamo come giornalisti, ma anche come cittadini, che la rete continui ad essere, malgrado i tanti tentativi di bloccarla, luogo in cui ci possa esprimere in libertà. Non ha senso voler imporre ai blogger le stesse regole che giustamente devono valere per l’informazione professionale anche in rete.

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3DNews/Il Copyleft ? In Svezia è una religione, il Copimismo.

Che la pratica di scaricare film e musica illegalmente abbia molti adepti non è una novità, ma in Svezia è diventata una vera e propria religione riconosciuta: il Copimismo è stato infatti ufficialmente registrato dopo una battaglia durata due anni.

Per la Chiesa del Copimismo, si legge nel sito ufficiale, «l’informazione è santa, e copiarla è un sacramento centrale per l’organizzazione e i suoi membri». «Essere riconosciuti dallo stato svedese – si legge ancora – è un passo verso il giorno in cui potremo vivere la nostra fede senza la paura di persecuzioni». L’idea di formalizzare in un vero e proprio culto una pratica piuttosto diffusa è venuta a Isak Gerson, uno studente di filosofia.

Tra i simboli sacri della neonata chiesa ci sono i tasti Ctrl C e Ctrl V, e il ‘culto’ non richiede un ‘battesimo’ formale: «Basta sentire l’atto del copiare e condividere le informazioni come una chiamata sacra – si legge ancora sul sito – per farlo noi organizziamo dei ‘copyacting’, dei servizi religiosi in cui i copimisti condividono le informazioni con gli altri». Il sito si chiude con quello che è il primo comandamento della ‘Chiesa copimista’: «Copia e semina». (Beh, buona giornata).

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APPELLO DELLA STAMPA A MARIO MONTI

” Stanno morendo cento giornali. Pluralismo bene prezioso”

Ci troviamo costretti ad appellarci a Lei per segnalare la drammatica necessità di risposte urgenti per l’emergenza di un settore dell’editoria rappresentativa del pluralismo dell’informazione, un bene prezioso di cui si ha percezione
solo quando viene a mancare. Alla data di oggi, infatti, queste aziende
non sono in grado di programmare la propria attività, rischiano di
dover a fine mese sospendere le pubblicazioni e anzi alcune hanno già
chiuso i battenti. Si tratta dei giornali gestiti in cooperative
espressioni di idee, di filoni culturali politici, voci di minoranze
linguistiche, di comunità italiane all’estero, no profit per i quali
esiste il sostegno previsto dalla legge per le testate non meramente
commerciali, ma per le quali oggi non ci sono garanzie sulle risorse
disponibili effettivamente per il 2012. C’è inoltre un’ urgenza
nell’urgenza: la definizione delle pratiche ancora in istruttoria per
la liquidazione dei contributi relativi all’esercizio 2010 che riguarda
una trentina di piccole imprese. In assenza di atti certi su questi due
punti sta diventando pressoché impossibile andare avanti, mancando
persino gli elementi per l’accesso documentario al credito bancario.

Nell’ancora breve, ma intensa, attività del Suo Governo, non è mancata
occasione per prendere atto della domanda di garanzie per il pluralismo
dell’informazione, anche nella fase di transizione verso il nuovo
quadro di interventi previsto a partire dal 2014. Siamo decisamente
impegnati a sostenere una riforma. Con il Sottosegretario in carica
fino a pochi giorni fa, Prof. Carlo Malinconico, era stato avviato un
percorso di valutazione delle possibili linee di iniziative. E’
indispensabile riprendere questo dossier al più presto.

Il nostro è un vero Sos che riguarda sia le procedure amministrative in corso, da sbloccare, sia la dotazione definitiva per l’editoria durante il 2012.
Il Governo ha già preso atto dell’insufficienza dello stanziamento
risultante da precedenti manovre sulla spesa pubblica e ha, perciò,
condiviso una norma, approvata dal Parlamento, che include l’editoria
tra i soggetti beneficiari del cosiddetto “Fondo Letta” della
Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’integrazione di questa
somma con un prelievo (cifra ancora indeterminata).

Ritenevamo e riteniamo che il provvedimento sulle “Proroghe”, divenuto frattanto “proroghe”, possa e debba contenere le misure opportune per stabilire l’impegno finanziario dello Stato durante il 2012. Siamo dell’avviso
che sia indispensabile la destinazione da tale Fondo di una somma non
inferiore a 100 milioni di euro, al fine di assicurare alle testate del
pluralismo dell’informazione non meramente commerciale le condizioni
minime di sopravvivenza, nelle more di un riordino del sistema di
interventi per il quale ci sentiamo solidamente impegnati. Si
tratterebbe di operare in una linea di equità, analogamente a quanto
già fatto dal Governo per Radio Radicale, verso l’indispensabile
costruzione di un nuovo e più chiaro modello di intervento.
Condividiamo nettamente l’idea che i contributi debbano sempre più
essere misurati sulla base dell’impiego dei giornalisti e
dell’effettiva diffusione delle testate e che sia davvero “impensabile
eliminare completamente i contributi che sono il lievito di quella
informazione pluralistica che è vitale per il Paese”, come Ella ha
recentemente dichiarato in sintonia con una risposta che il Capo dello
Stato diede tre mesi fa a un appello dei direttori dei giornali.

Grati per l’attenzione – d’intesa con Fnsi, Sindacati dei lavoratori,
Associazioni di Cooperative del settore (come Mediacoop, Fisc e
Federcultura/Confcooperative), giornali di idee, no profit, degli
italiani all’estero, delle minoranze linguistiche Articolo21, e
Comitato per la Libertà dell’informazione – vogliamo aver fiducia che
una puntuale e tempestiva risposta eviti la chiusura di molte delle
nostre testate e la perdita di migliaia di posti di lavoro tra
giornalisti e lavoratori del nostro sistema e dell’indotto.

Se i nostri cento giornali dovessero chiudere nessuna riforma dell’editoria
avrebbe, ovviamente, più senso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cultura Fumetti. Media e tecnologia Società e costume

3DNews/ Occupy Wall Street diventa un fumetto.

Usa, autori e disegnatori partecipano a un svolta radicale nel mondo del fumetto
E Batman disse : ora voglio pagare più tasse
“ Occupy Comics ” prova a cambiare in senso sociale le storie dei supereroi
di Giulio Gargia

Occupy Wall Street diventa un fumetto. Ma non solo perchè, come scriviamo negli altri pezzi, autori e disegnatori ne racconteranno gli sviluppi in strisce e baloons.
Ma soprattutto perchè, in maniera ancor più radicale, porta la sua carica di cambiamento all’interno stesso del mondo produttivo del fumetto e diventa Occupy Comics.
Ovverossia un movimento che chiede che cambino gli atteggiamenti e le azioni delle sue creature, quegli eroi del fumetto popolare che influenzano anche tanto il cinema.

Si comincia con Anjin Anhut, il cui “ Occupare Gotham “ ( nella foto in copertina ) mostra
un Batman in costume ma a volto scoperto, quindi riconosciamo il viso del miliardario Bruce Wayne che chiede di essere tassato di più . La Anhut si è ispirata alle dichiarazioni di Warren Buffet, uno dei uomini più ricchi del mondo, che ricordava che il sistema fiscale degli USA permette che la sua segretaria paghi in proporzione più tasse di lui. “ Allora – scrive a Wired – ho pensato di usare Wayne perchè è un uomo ricco che si pone problemi di etica collettiva . Qualcuno in cui quell’1% che contestiamo si possa identificare per chiedersi cosa farebbe Batman in questi casi ? I personaggi dei comics hanno solitamente affrontato i problemi del loro tempo e dato l’esempio,

Le loro storie più forti sono quelli in cui si riflettono i problemi sociali ”.
Ma non è solo una provocazione artistica, quella della Ahut . Uno dei nuovi disegnatori del Batman ufficiale, Scott Snyder già sembra essere su questa strada, tanto che in alcune scene dei nuovi albi fa promettere a Wayne di combattere il capitalismo rapace, ormai totalmente scollegato dalla realtà di Main Street, che negli Usa è l’equivalente del nostro “ la gente “.
“Occupare i Comics è un operazione radicale” dice Matt Pizzolo, fondatore della
casa di distribuzione multimediali indipendente Halo-8 . “ E’ un protesta artistica che riguarda innanzitutto i territori della mente, dove ci sono grandi temi da sviluppare . Non dobbiamo usare vecchi schemi, questa è un’operazione che rompe i paradigmi di destra e sinistra.
Il progetto Occupare Comics prende il via con l’immagine creata da Anna Muckcracker, ed era
originariamente pensato per illustrare all’opinione pubblica al movimento Occupare Wall Street.

Ma poi con l’esclation delle proteste, la brutale repressione della polizia e le adesioni di autori sempre più prestigiosi si è ampliato anche dentro il mondo dei comics.
“Penso che sia un movimento di spazi fisici e spazi astratti, come i fumetti. Quindi la sua cultura può iniziare a occupare spazi mentali condivisi così come le città” immagina Pizzolo. L’occupazione deve essere la più pervasiva e coinvolgente possibile. E’ un modello adatto ai fumetti, in cui i supereroi diventano spesso simboli per il cambiamento sociale.
Così nella nuova serie di Superman di Grant Morrison tanto il giornalista Clark Kent quanto il suo alter ego supereroe trascorrono la maggior parte del loro tempo a combattere l’ingiustizia dopo ingiustizia.

“Quello che sto cercando di fare con Action Comics è forse provocatorio,” ha detto Morrison, quando è uscita Supergods, la sua storia autobiografica culturale del fumetto. “Perché io sto reinterpretando la figura originale di Superman come un campione degli oppressi, e non necessariamente come un tizio che si occupa solo di ordine pubblico o di difendere la patria.” (Beh, buona giornata).

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3DNews/Auditel, un metro inattendibile che affossa la qualità.

La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti

“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “

di Roberta Gisotti

Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.

Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.

Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.

Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.

Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),

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Attualità Marketing Media e tecnologia pubblicato su 3DNews, Pubblicità e mass media

Se la Borsa si sostituisce al borsino dei direttori dei giornali.

Non bastava un governo sfiduciato dai mercati, e uno nominato dalla Bce. In Italia adesso anche i direttori dei telegiornali vengono nominati dalla Borsa.

I fatti sono che Mentana si dimette, il titolo Telecom crolla. Mentana ci ripensa, il titolo risale. Enrico Mentana deve essersi sentito più importante di un barile di petrolio, di un’oncia d’oro, per non dire più determinante del famigerato spread. Ormai che i mercati finanziari hanno rotto ogni inibizione, superato ogni riservatezza, in Italia da oggi in poi tutto è possibile. Non si muoverà foglia che Piazza Affari non voglia. Chi vincerà in prossimo Giro d’Italia, lo deciderà la Borsa.

Il campionato di calcio, quello già lo decide da un pezzo. La Borsa si sta preparando a decidere chi sarà il conduttore del prossimo Festival di Sanremo, e ovviamente chi nominerà  il vincitore non sarà più il televoto, ma il Mibtel, l’indice telematico. Si quoteranno i titoli delle canzoni? E poi,  chi vincerà le primarie del Pd? Una seduta contrastata di Piazza Affari?  La ricandidatura di Alemanno alla carica di sindaco di Roma? Sospesa per eccesso di ribasso.

Ovviamente, bisognerà stare attenti alle manovre degli speculatori: per sostenere il titolo Mediaset, ad esempio, si sono scatenati contro la Rai Minzolini e Ferrara, e contro SKY direttamente Auditel. Solo che non tutte le ciambelle riescono più col buco: da quando il Cavaliere è stato disarcionato,  l’unico buco certo è quello di Endemol, che Mediaset non riesce va dare via. Senza il santo protettore a Palazzo Chigi, Minzolinil  è stato giubilato, Auditel multata. E’ rimasto Ferrara.  Verrà considerato anche lui troppo grosso per fallire? Eppoi, riuscirà Maccari a salvare il TgUno dalla bancarotta degli ascolti? Staremo a vedere.

Intanto, tornando alla vicenda de La 7 e del suo direttore c’è  dire che i tempi sono cambiati per davvero. Una volta un direttore di successo si vedeva dai titoli di prima pagina. Oggi sono i titoli borsistici a consacrare il ritorno alla guida del Tg La 7 di  Mentana, il quale, se può essere soddisfatto di aver vinto la sua personale battaglia contro l’Associazione della Stampa romana, e di aver riottenuto la fiducia del cdr del suo telegiornale, certo qualche domanda se la sarà pur fatta,  dopo portato a termine con successo il suo personale aumento di capitale: sono un bravo giornalista o una bolla speculativa? Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Politica Pubblicità e mass media Televisione

3DNews/TV, IL MISTERO DEL MILIONE SCOMPARSO.

di Giulio Gargia

Sostiene Pancini, il direttore dell’Auditel, che un milione di spettatori può sparire da una settimana all’altra. Sono quelli della trasmissione di Santoro, che giovedì 8 dicembre avrebbe registrato il 5% , perdendo circa 3 punti di audience rispetto alla settimana scorsa. Senza contare che facendo i conti dal 3 novembre avrebbe perso più della metà dei suoi aficionados, visto che la stessa Auditel l’aveva accreditata del 12%. Insomma, un crollo epocale da fare invidia a Minzolini, Facchinetti o Banfi ( non Lino, l’altro ), cioè i migliori flop della stagione “ ufficiale”. E cosa avrebbe causato questo disastro da parte di gente che – come il pubblico dell’ex Anno Zero – ha tirato fuori 10 euro di tasca sua pur di vedere questo programma e poi se lo è andato pazientemente a cercare facendo lo slalom tra le televendite della miriade di canali del digitale ?

Sostiene Pancini che un pò è stata la festività e un pò la partita della Juventus, in contemporanea su RAI 2, a riuscire là dove la concorrenza di Piazza Pulita non era arrivata. Insomma, un milione di juventini, un pò delusi da Santoro un pò esaltati dalla fondamentale sfida con il Bologna degli ottavi di coppa Italia, match che avrebbe evidentemente deciso le sorti della stagione, hanno abbandonato Servizio Pubblico per andarsene in gita o, accesa la tv, si sono goduti lo spettacolo di Del Piero in panchina.

Sostiene Pancini che i dispersi potrebbero anche essere finiti sul web, però non può dirlo perchè l’Auditel non fa ricerche sulla rete.

Questo sostiene Pancini, e noi gli crediamo. Come gli abbiamo creduto quando disse che 1 milione e mezzo di telespettatori avevano visto per 20 minuti il cartello “ le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile” , una sera d’estate di qualche anno fa su Rai Uno.

Quei fetenti di Sky, invece, abituati alla BBC e alla concorrenza anglosassone, non gli credono. Insinuano il dubbio. Ricordano che Auditel è una società privata, che effettua un servizio in regime di monopolio e che per tale servizio viene compensata da tutti gli operatori del settore. Sui dati prodotti quotidianamente da Auditel si basa la valutazione della performance dell’intero mercato televisivo, una valutazione che impatta direttamente sui ricavi del settore, un settore cruciale per la crescita economica del Paese ma anche per tutto il “Sistema Italia” in considerazione del ruolo fondamentale di traino che svolge la pubblicità per le imprese che hanno un prodotto da far conoscere ai consumatori italiani. Perciò parlano di una governance da riformare e di una rappresentanza azionaria in conflitto di interessi. Nonchè “una distorsione dei risultati sul piano quantitativo e qualitativo”. In pratica Sky contesta all’Auditel la natura del campione (mancano circa 5 milioni di stranieri residenti in Italia, il 7-8 per cento della popolazione) e “vengono conteggiati anche coloro che non possiedono un apparecchio tv”. Circa 400 mila famiglie, il 2 per cento del totale dello share.

Ma che l’Auditel sia degna di fede lo possiamo affermare con cognizione di causa, rivelandovi che Sky ha malignamente copiato queste sue osservazioni da due libri, usciti 8 anni fa: “ La favola dell’Auditel” di Roberta Gisotti, e “ L’arbitro è il venduto”, redatto dal sottoscritto. Perciò, le cose che loro dicono adesso le sapevano. Quindi non solo sono copioni ma anche in malafede. Se lo sapevano, e non potevano non saperlo, perchè sono venuti a mettere zizzania nell’etere italiano ?

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democrazia Lavoro Media e tecnologia Politica

3DNews/SE IL MAGGIORITARIO VA IN EDICOLA

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di Riccardo Palmieri

Ma la democrazia è uno spreco ? Può essere tagliata per mancanza di fondi ? O è un privilegio che si può esercitare solo con certi numeri ? Sì, forse si. E’ questo quello che sembra dire il governo Monti alle oltre 100 testate e ai 4000 lavoratori che perderanno il posto se saranno confermate le misure previste per azzerare i contributi diretti all’ editoria. La ragione di questa legge, che ricalca un principio vigente in tutta Europa, è semplice : si deve permettere anche a chi ha pochi mezzi di poter esprimere il proprio punto di vista. Nessun privilegio, questo si chiama pluralismo, è uno dei pilastri della democrazia. E siccome la Costituzione dice che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli morali e materiali che impediscono tale esercizio di libertà collettive, ecco che il principio diventa una legge. E poi di questa legge si è fatto un abuso tale, da Lavitola a Ciarrapico, da disgustare molti. Ma ciò non toglie che il principio e la sua applicazione materiale ( finanziare le idee OGGI minoritarie, per consentire di diffondersi ) siano sacrosanti. Che i controlli e le selezioni per gli aventi diritto debbano essere tali da non potersi aggirare più, è ugualmente sacrosanto.

Ma che punti di vista come quello del Manifesto o dei Verdi, o dei giornali cattolici, ma anche dei leghisti o di Storace, debbano essere tagliati finanziariamente per ragioni di bilancio non solo è ingiusto, ma è anche controproducente per il bilancio stesso. Solo per gli ammortizzatori sociali ( cassa integrazione in testa ) che entrerebbero in vigore automaticamente per i prossimi 2 anni, lo Stato spenderebbe più delle poche decine di milioni con cui si può integrare il fondo tagliato e ridare un minimo di prospettiva a tutto il settore.

Perciò, non è un problema di soldi ma di volontà politica. Malinconico , nuovo responsabile del dipartimento, ha questo compito: farci capire se il nuovo governo vuole applicare la ricetta Berlusconi, o invece dare un segnale di cambiamento. Qui non c’entrano i conti, questa è una scelta politica.

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business Marketing Media e tecnologia Politica Pubblicità e mass media

3DNews/Santoro e la menopausa dell’Auditel.

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di Giulio Gargia
4 volte su 4. Se è una coincidenza, allora si tratta davvero di sfortuna nera. Per 4 settimane, tutte quelle di novembre, l’Auditel ha fornito in ritardo i dati del giovedì . Giorno in cui, dal l 4 novembre, va in onda il nuovo programma di Michele Santoro, con una formula che evidentemente mette a dura prova le capacità del servizio di rilevazione degli ascolti. Che a furia di ritardi del ciclo – di rilevazione – rischia di andare in menopausa.

“Anche oggi i dati dell`Auditel arriveranno in ritardo, formalmente a causa di `un problema tecnico`. Si tratta di un fatto allarmante, guarda caso ancora una volta in coincidenza con una puntata di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro”. Così dichiarava giovedì scorso Flavia Perina, deputata Fli e membro della Vigilanza.

“A questo punto è innegabile ritenere l`Auditel un sistema obsoleto di rilevazione dei dati d`ascolto, che non tiene conto delle nuove modalità di fruizione dei prodotti televisivi. E diventa anche lecito pensare che forse una parte dei soci di maggioranza del consorzio, Rai e Mediaset in particolare, temono l`effetto Santoro”, concludeva la Perina. Che risolleva così uno dei problemi basilari della Tv : ma l’Auditel è attendibile ? Ora, senza entrare nel merito dei problemi che – secondo chi scrive e tanti altri – NON rendono tali i suoi dati, vogliamo ricordare che ogni volta che si presenta un nuovo network sulla scena TV, i suoi rapporti con l’istituto di via Larga non sono mai tranquilli. E’ successo con La7 ai tempi del mancato lancio del “terzo polo”, quando furono disdetti contratti già firmati con star come Fazio e Litizzetto, e alla rete fu imposta la consegna – accettata dai suoi vertici – di non superare il 3% nel giorno medio. E’ successo con Sky, quando ha chiesto di entrare nel comitato tecnico, tanto che ci sono stati comunicati di fuoco tra Mokridge, ad di Sky Italia e Pancini, direttore Auditel. E sta succedendo adesso con Servizio Pubblico e il network di Tv che lo manda in onda che si propone, almeno il giovedì sera, come un attore capace di rompere i sempre delicati equilibri su cui si spartisce la pubblicità. Perchè il problema è sempre quello : chi controlla gli spot, controlla la Tv . E dall’86 a oggi gli investimenti pubblicitari si sono ridistribuiti a favore della tv, grazie anche ai numeri che ha prodotto l’Auditel, che hanno orientato ingenti risorse a spostarsi da stampa e radio a favore della tv, e in particolare verso il costituendo duopolio RAI – Mediaset. Ma le modalità di produzione e divulgazione di questi dati hanno generato dubbi sempre più consistenti, corroborati da inchieste e libri che ne hanno minato l’attendibilità.

Il caso Santoro è solo l’ultimo , e nemmeno il più eclatante. Ma potrebbe essere quello che finalmente mette in crisi l’Auditel non tanto come apparato tecnologico obsoleto, come dice la Perina, ma in quanto macchina di costruzione e conferma del consenso attraverso la “ visione obbligata”. Come il PIL , che tutti gli economisti stanno rimettendo in discussione come parametro di misura del benessere di una società, così l’Auditel è destinato a implodere dentro una TV sempre più parcellizzata e specifica come quella digitale. E il fatto che le Tv locali siano sottostimate storicamente è un ulteriore conferma di come questa approssimazione chiamata Auditel sia ormai un residuo del passato da superare al più presto. Il problema non è la tecnologia: basterebbe collegare un cavetto telefonico a ogni decoder digitale per avere i dati degli ascolti in tempo reale, come sui siti Internet, in cui sai sempre quanti visitatori ci sono in quel momento. Il problema è l’apparato commerciale e industriale (grandi emittenti, centri media, agenzie dominanti ) di cui Auditel è il servomeccanismo, che non riuscirebbe a “ digerire” dei “ numeri” veri . E che dovrebbe dire ai suoi clienti investitori cose molto diverse da quelle finora avallate dalle curve e dai grafici d’ascolto.

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Lavoro Marketing Media e tecnologia

3DNews/SORU: VOGLIO VENDERE L’UNITA.

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“Sono azionista con grandissimo sacrificio economico. Non vedo l’ora che qualcuno la compri. Sono andato a chiederlo con molta insistenza in tante occasioni”. Renato Soru, intervenuto al seminario di formazione per giornalisti di Redattore Sociale a Capodarco di Fermo e intervistato l’altro giorno dal direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi, parla così de l’Unità, giornale di cui è editore dal 2008. Nella sala una giornalista free lance chiede all’ex presidente della Sardegna perché il quotidiano non paga i collaboratori. Prima Soru dice che non è così. Poi interviene il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino e afferma: “C’è qualcuno che non le dice tutto…”. A quel punto, imbarazzato, il numero uno di Tiscali risponde: “Se ci sono collaboratori che non percepiscono lo stipendio e che hanno scioperato da ottobre me ne scuso come azionista. Questo le dà il segno di un giornale che soffre la difficoltà di andare avanti. Si potrebbe prendere in considerazione anche l’ipotesi di chiudere”

Proprio il direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi parlerà della crisi de l’Unità lunedì 28 novembre con l’ex direttore Concita De Gregorio.

 

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3DNews/La finanza Auditel, quel PirL che insegue il PIL.

I dati Auditel sulle pagine del Televideo Rai.

di Giulio Gargia
L’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società. Sono termometri di una mentalità da cambiare, indicatori di una marcia da invertire. Esempio: “Gli uragani Katrina e Rita avranno ripercussioni negative sull’economia americana solo nel breve periodo, il successivo processo di ricostruzione stimolera’ infatti la crescita”.
Così diceva il segretario al Tesoro Usa, John Snow, presente al vertice del Fondo Monetario Internazionale di Washington. Insomma, benvenuta Katrina, se l’economia poi cresce che sarà mai qualche morto annegato e qualche saccheggio ?
Questa è la logica demenziale di quello che si chiama pensiero unico. Ed è questa logica che l’Auditel ha portato in televisione.

Perciò oggi l’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società . Provo a spiegarlo, usando un bell’articolo di Giorgio Ruffolo di qualche tempo fa sul PIL, l’indice che misura lo sviluppo economico di un paese. Scrive Ruffolo :
“Il governo italiano, ma tutti i governi del mondo sono incollati allo schermo del Pil. Zero virgola in meno, iattura, zero virgola in più, vittoria. Elettorale, s´intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Pil, è una cosa seria? Domanda per niente affatto nuova, come ben sappiamo, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dagli economisti che l´hanno inventato e dai politici che ne usano e ne abusano”.

La cosa curiosa è che tutte le sue giuste argomentazioni si possono trasporre, senza colpo ferire, alla questione dell’Auditel, su cui da anni – grazie anche agli sforzi di Megachip – ormai si discute. Sostituiamo qualche parola e vediamo se è davvero così.
Per inquadrare la questione, riportiamo un’agenzia sugli ascolti di domenica 2 ottobre.
Prime time festivo alla Rai con il 42,83% rispetto al 36.39% di Mediaset, con Raiuno al 26,31%. Mediaset invece si è aggiudicata la seconda serata con il 39.87% (38,19% Rai). In seconda serata lo speciale Tg1 con una puntata sul fenomeno del bracconaggio ha ottenuto uno share del 16,84% e 2 milioni 190 mila spettatori superando il diretto concorrente ‘Terra su Canale 5 che ha avuto 1 milione 508 su Canale 5, share 10.60% occupandosi di Islam. Su Raitre il programma di Serena Dandini ‘Parla con mé ha registrato l’11,13% con 777 mila spettatori.

E‘ evidente che anche qui “Il governo della TV italiana è incollato ai grafici dell’Auditel. Zero virgola in meno, sconfitta, zero virgola in più, vittoria. Televisiva, s’intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Auditel, è una cosa seria? Domanda per molti versi nuova, come ben sappiamo sollevata da noi e da articolo 21, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dai pubblicitari che l´hanno inventato e dai direttori e responsabili TV che ne usano e ne abusano”.
Continuiamo. Afferma Ruffolo sul PIL : “La risposta è sì, certo, è cosa seria, ma solo se utilizzato correttamente, nell´ambito del suo significato: e cioè, come indice della produzione complessiva dei beni e dei servizi venduti sul mercato. Dei beni e dei mali, purtroppo. Se invece è usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice di efficienza dell´economia nazionale nel suo insieme o, addirittura, del benessere sociale, la risposta è tre volte no”.

Contro canto sull’Auditel : ” La risposta è molto dubbia. Ma i dubbi diventano certezze, in negativo, perché certamente l’Auditel non viene utilizzato correttamente, nell’ambito del suo significato ( cioè quello di misurazione per mettere un prezzo agli spot pubblicitari ) ma è ormai indice di gradimento e di giudizio sulla sopravvivenza di un programma. Viene quindi usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice unico di efficienza di un programma e di una rete e, addirittura, del gradimento sociale verso la TV nel suo insieme. Perciò la risposta alla domanda se Auditel è una cosa seria è: tre volte no”.
Ruffolo continua : “Chi sarebbe disposto a sostenere che un paese in cui sono aumentate le devastazioni ambientali la criminalità e le diseguaglianze, diminuita l´istruzione e peggiorate le condizioni sanitarie, stia alla pari con uno in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché il Pil sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino.

Contro canto Auditel : Chi sarebbe disposto a sostenere che una Tv in cui sono aumentate le sopraffazioni,le manipolazioni, in cui è messa la bando la cultura, ( al massimo relegata in 3° serata) quasi azzerata la qualità complessiva dei programmi e peggiorate le condizioni del pluralismo, stia alla pari con un canale in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché l’Auditel sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino
Riprende Ruffolo : “Diceva l´economista Oskar Morgenstern, autore, insieme a von Neuman, della Teoria dei giochi: «Quando la scienza economica raggiungerà uno stato più maturo, sembrerà incredibile che tali misure siano state prese sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera nazione: misure di questo tipo appartengono ai secoli bui».

E allora, perché sono prese sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo del capitalismo; e il capitalismo è diventato la forma sociale e ideale suprema delle società «avanzate».
Diciamo noi : “Quando l’opinione pubblica sarà davvero messa in grado di giudicare, quando le saranno stati forniti strumenti meno rozzi e più flessibili dell’Auditel, sembrerà incredibile che tali dati siano state presi sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera televisione: misure di questo tipo appartengono a tempi bui. E allora, perché li dati Auditel sono presi sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo della Tv dominata dall’Auditel”
Argomenta ancora Ruffolo : La sinistra porta il lutto della catastrofe comunista. Un lutto che si estende anche a quella non comunista e che comporta la sostanziale rinuncia a ogni forma di guida politica e l´adesione sostanziale a una economia di mercato totalitaria: un´adesione troppo a lungo ritardata, e forse per questo acritica.

Di questa acriticità fa parte l´adozione del Pil come stella polare: al posto della rivoluzione, e va benissimo; ma anche di qualunque progetto di società che tenga conto dei bisogni e dei valori che il mercato ignora o offende: e va malissimo.
In questo contesto di resa culturale incondizionata al pensiero unico si colloca il pirlismo della sinistra: la riduzione della sua strategia alla deriva della crescita continua e indifferenziata (di tutto, di più) orientata da una «misura priva di teoria», come diceva l´economista Koopmans.

Coloro che si permettono di ricordare che l´insignificanza del Pil non è un problema di tecnica statistica, ma è una grande ed essenziale questione culturale e politica, sono considerati frivoli disturbatori di una politica severamente e altrimenti impegnata: per esempio, nel grande dibattito sul Partito Democratico .
Ma che cosa pretendono questi disturbatori?

Diciamo noi : E la Sinistra, che dice su Auditel? Cosa dice Petruccioli, che ha celebrato la vittoria della RAI su Mediaset affidandosi ai dati Auditel ? Ma in questo almeno bisogna capirlo. Quali altri strumenti ha ? Perciò ci tratta da disturbatori.
Chiosa Ruffolo : Risponderei che pretendono di ricordarsi dell´insegnamento teorico e delle proposte pratiche di economisti “eretici”, come l´americano di origine romena Georgescu Roegen, l´americano di origine indiana Amartya Sen; i nostri Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, nel senso:

(a) di una riforma del Pil che lo depuri dalle bestialità più clamorose per farne un indice realmente rappresentativo dell´attività economica;
(b) di costruire indici del benessere in grado di rappresentare sinteticamente la qualità sociale del paese nei suoi aspetti più critici: lavoro, ambiente, sanità, istruzione, sicurezza;
(c) di definire infine, al massimo livello della responsabilità democratica, un traguardo progettuale collocato nel tempo, che integri in un «indice normativo» equilibrato gli obiettivi economici e sociali adottati come scelte da proporre al Paese.
Rispondiamo noi: eppure le cose da fare sono semplici.
a ) Bisogna applicare la legge 249 e far sì che sia l’Autorità delle Telecomunicazioni in prima persona a fare i rilevamenti degli ascolti.
b) L’Auditel deve consegnare i dati grezzi ( cioè non trattati dai suoi software ) ad esperti indipendenti per consentire elaborazioni alternative.
c ) Bisogna che l’Autorithy avvi ricerche qualitative che integrino e correggano il dato Auditel nell’opinione pubblica. E devono essere diffusi in contemporanea.

In sostanza, chi dice quanti spettatori hanno visto Fede, ci deve anche dire a quanti è piaciuto e a quanti no, di modo che il numero non diventi automaticamente indice di qualità.d ) Dev’essere reso pubblico l’IQS RAI, ovvero la ricerca sul gradimento dei programmi del servizio pubblico. Ricerca resa pubblica una sola volta, nell’ottobre dello scorso anno, che ha dato risultati “eversivi” per gli attuali vertici RAI e che da allora è stata nuovamente segretata. Nonostante la sua pubblicazione sia prevista , ogni trimestre, dall’accordo tra Stato e RAI.

E chiudiamo, sottoscrivendo la conclusione di Ruffolo sul Pil che vale anche per l’Auditel: Cari compagni: non è questo un modo intelligente e pratico per uscire da un´afasia culturale e politica mal dissimulata dalle chiacchiere sul riformismo; di mettere i numeri al posto dei simboli; gli impegni al posto dei discorsi; insomma, di riacquistare, credibilmente, una bussola perduta ?
E di seguito diciamo noi : non è il caso di ricostruirsela da soli, una bussola, che segni i nostri punti cardinali, senza inseguire quella degli altri ?

Giulio Gargia è l’autore del libro ” L’arbitro è il venduto” , sulle storture delle rilevazioni degli ascolti.

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Attenti, il berlusconismo continua.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

NEL PRESENTARE il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell’esecutivo e ha aggiunto un’osservazione significativa, e perturbante. “Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo”.

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che “concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d’imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l’eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché “stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro” (e non senza asprezza aggiunge: “Spero, che stiano uscendo”) snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l’arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l’emergenza democratica in cui viviamo da quando s’è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ’90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell’idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ’94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l’Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell’età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d’interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell’Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l’insania di Berlusconi e affossando l’accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l’italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: “I fatti dimostreranno” che conflitto d’interessi non c’è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il “potere occulto delle banche”, la “confusione tra politica e affari”) e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c’è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l’elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l’inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l’Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l’acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s’alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: “Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell’abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente”. Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l’avvento di Monti mostra che l’anagrafe non c’entra. Sylos Labini che nel ’94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: “Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall’incantesimo funesto del cerchio” che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L’ironia del premier sull’espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che “sì, assolutamente” usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l’avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l’occasione, il kairòs che se non cogliamo c’inabissa. Per i partiti, è l’occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la “lunga corsa” intrapresa dopo il ’45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall’Annuncio o l’Evento: quell’Evento, dice Giuseppe De Rita, “che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”.

Non c’è un solo partito che abbia idee sull’Europa da completare. Non ce n’è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l’Europa politica non c’è. Monti denunciò a giugno l’eccessiva deferenza fra Stati dell’Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest’uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l’Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di “tritacarne mediatico”, è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell’abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l’aiuto di un’informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.
(Beh, buona giornata)

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3DNews/4 COSE CHE FORSE NON SAPEVI DEL TUO CELLULARE.

di Elio d’Agostino

Ci sono alcune cose che possono essere fatte in caso di gravi emergenze.
Il cellulare può effettivamente essere un salvavita o un utile strumento per la sopravvivenza.
Controlla le cose che puoi fare.

PRIMO – Emergenza

Il numero di emergenza per il cellulare è il 112 in tutto il mondo. Se ti trovi fuori dalla zona di copertura della rete mobile e c’è un’emergenza, componi il 112 e il cellulare cercherà qualsiasi rete esistente per stabilire il numero di emergenza per te; è interessante sapere che questo numero 112 può essere chiamato anche se la tastiera è bloccata. Provalo.

SECONDO – Hai chiuso le chiavi in ​​macchina?

La tua auto ha l’apertura/chiusura con telecomando? Questa funzionalità può risultare utile un giorno. Una buona ragione per avere un telefono cellulare: se chiudi le chiavi in ​​auto e quelle di ricambio sono a casa, chiama qualcuno a casa sul cellulare dal tuo cellulare. Tenendo il tuo cellulare a circa 30 cm. dalla portiera, dì alla persona a casa di premere il pulsante di sblocco, tenendolo vicino al suo cellulare. La tua auto si aprirà. Così si evita che qualcuno debba portarti le chiavi. La distanza è ininfluente. Potresti essere a centinaia di km. e se è possibile raggiungere qualcuno che ha l’altro telecomando per la tua auto, è possibile sbloccare le porte (o il baule).
N.d.r.: funziona benissimo! Lo abbiamo provato e abbiamo aperto l’auto con un cellulare!

TERZO – Riserva nascosta della batteria

Immagina che la batteria del telefono sia molto bassa. Per attivare, premere i tasti *3370#
Il cellulare ripartirà con questa riserva e il display visualizzerà un aumento del 50% in batteria. Questa riserva sarà ripristinata alla prossima ricarica del tuo cellulare.

QUARTO – Come disattivare un telefono cellulare RUBATO?

Per controllare il numero di serie (Imei) del tuo cellulare, digita i caratteri *#06#
Un codice di 15 cifre apparirà sullo schermo. Questo numero è solo del tuo portatile. Annotalo e conservarlo in un luogo sicuro. Quando il telefono venisse rubato, è possibile telefonare al provider della rete e dare questo codice. Saranno quindi in grado di bloccare il tuo telefono e quindi, anche se il ladro cambia la scheda SIM, il telefono sarà totalmente inutile. Probabilmente non recupererai il tuo telefono, ma almeno si sa che chi ha rubato non può né usarlo né venderlo. Se tutti lo faranno, non ci sarà motivo di rubare telefoni cellulari.

ATM – inversione numero PIN (buono a sapersi!)

Se dovessi mai essere costretto da un rapinatore a ritirare soldi da un bancomat, è possibile avvisare la polizia inserendo il PIN# in senso inverso. Per esempio, se il tuo numero di pin è 1234, dovresti digitare 4321. Il sistema ATM riconosce che il codice PIN è stato invertito rispetto alla carta bancomat inserita nella postazione ATM. La macchina ti darà il denaro richiesto, ma la polizia – all’insaputa del ladro – sarà mandata immediatamente alla postazione ATM.
Questa informazione è stata recentemente trasmessa su CTV da Crime Stoppers, tuttavia è raramente usata perché la gente semplicemente non la conosce.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Attualità Media e tecnologia Movimenti politici e sociali Potere

3DNews/CUCCHI E GLI ALTRI, RACCONTI DI MALAPOLIZIA.

di Comitato per la libertà, il diritto all’informazione, alla cultura e allo spettacolo

Il libro che mancava è finalmente in libreria. Si chiama Malapolizia, edizioni Newton Compton. Casi noti e inediti di soprusi, reati, violenze compiuti dalle forze dell’ordine, ma anche qualcosa di più. Il libro indica per la prima volta, oltre i casi diversi di cui si occupa, un percorso di analisi e conoscenza, che supera l’ipocrisia della facile spiegazione delle “mele marce” e ci propone piuttosto quella ben più difficile da accettare di “un sistema profondamente malato”. Il libro lo ha scritto

Stefano Cucchi
31 anni, che secondo biografia da contro-copertina è autore e sceneggiatore, ma non giornalista. E invece il pregio principale delle storie,raccontate in modo sobrio e chiaro, è quello di ricorrere ad un giornalismo oggi considerato “vecchio e fuori moda”: l’analisi attenta delle fonti, l’attinenza ai fatti, la ricerca laboriosa e faticosa dei documenti, l’assenza di tesi precostituite. Come scrive nella prefazione Checchino Antonini, altro giornalista “dai metodi vecchi e in disuso”: Questo libro ha il merito di aver messo in fila un bel po’ di casi in assenza di statistiche ufficiali e di aver cercato un filo nero che li collegasse-.

Malapolizia parte dalla tragedia che ha avuto quanto meno il ruolo di portarne alla luce tante altre: Federico Aldrovandi, così muore un ragazzo, apre il capitolo dedicato agli arresti mortali. Le pagine proseguono con Stefano Cucchi “anoressico e drogato”, Riccardo Rasman morte di uno s’ciavo (è il termine razzista con cui i triestini chiamavano i transfughi dall’Istria), Le ultime ore di Giuseppe Uva, Gabriele Sandri colpito da un colpo accidentale e poi le morti sconosciute, archiviate di Domenico Palumbo, Stefano Brunetti, Aziz Amiri, infine quella recente di Michele Ferrulli morte per un malore. Poi ci sono i sopravvissuti, quelli che hanno potuto raccontare e denunciare le violenze subite. Botte da orbi si chiama il capitolo che si apre con l’incredibile e assurda storia di Luciano Diaz il gaucho argentino.

Alcune di queste persone hanno ottenuto dignità e giustizia e i responsabili sono stati puniti, altre ancora attendono e sperano, e le loro vicende sono al centro di indagini e processi lunghi e controcorrente, altre ancora probabilmente giustizia e nemmeno una spiegazione le avranno mai: Marcello Lonzi un “infarto devastante”, Manuel Eliantonio gli strani effetti del gas butano, Stefano Frapporti per gli amici “Cabana”. In altri casi ancora le storie riportate dal libro necessitano già di un aggiornamento, tanto la realtà svelata supera a volte per gravità quella denunciata dalle vittime. E’ quanto sta emergendo ad esempio nel processo sulla morte di Giuseppe Uva, il giudice ha deciso la riesumazione del corpo e si ipotizza addirittura la violenza sessuale, o ancora i fatti nuovi che stanno per aprire nuovi scenari investigativi sulla morte di Aldo Bianzino e sul pestaggio di Luciano Diaz. Ma un libro inchiesta che parla anche di inchieste aperte a questo deve servire: ricordare e stimolare il bisogno di sapere.

Il filo nero di Malapolizia è quello di un sistema di sicurezza e di giustizia gravemente malato, più di quanto i singoli casi facciano intravedere. Storie e responsabilità diverse, ma una trama terribilmente comune: le vittime sono sempre “catalogate e disprezzate”. Tossico, ubriaco, ultrà, malato di mente, negro, cade a terra da sola, spesso lungo le scale di questure, caserme e penitenziari, si fa del male da sola e a volte si suicida. E ancora il prezzo che la giustizia impone alle vittime e ai loro famigliari è insostenibile moralmente e ed economicamente: spesso sono stati gli stessi parenti a scattare le foto ai cadaveri martoriati dei loro cari e a farle pubblicare sui mezzi di informazione; le indagini, con annesse costose perizie, sono partite dalle parti civili e non dai magistrati, anzi per aver denunciato l’assenza o la complicità delle indagini i parenti, gli amici, i blogger che quelle battaglie hanno sostenuto si trovano oggi a dover affrontare anche processi per calunnia e diffamazione; anche in presenza di sentenze anche definitive i responsabili sono rimasti tranquillamente ai loro posti “di lavoro”, con la solidarietà e il conforto dei colleghi e dei sindacati di categoria che ben li rappresentano, nessuno escluso. Ricorda Adriano Chiarelli nel capitolo dedicato a Emmanuel Bonsu, il ragazzo di Parma pestato in un parco e in comando da vigili urbani in borghese, poi condannati in primo grado fino a sette anni e sei mesi, il comunicato che l’allora assessore alla sicurezza Costantino Monteverdi diffuse subito dopo i fatti: Ho ringraziato gli agenti di polizia municipale che dopo alcuni giorni di appostamento hanno arrestato in flagranza di reato un pusher. E’ stata un’operazione esemplare per professionalità, risultato e correttezza”.

In appendice il libro riporta alcune normative anche in questo caso ben dimenticate. Ad esempio il Codice Europeo di etica per la polizia (CEEP): il personale di polizia deve essere sottoposto alla stessa legislazione dei cittadini comuni; la polizia e il suo personale in divisa devono essere, di norma, facilmente riconoscibili; le persone che sono state condannate per gravi reati devono essere interdette dall’impiego nella polizia; la polizia deve rispettare il diritto di tutti alla vita; la polizia non deve incoraggiare o tollerare alcun atto di tortura, alcuna pena o trattamento inumano o degradante, in nessuna circostanza; la polizia deve fare uso della forza solo se strettamente necessario e solo nella misura necessaria per ottenere un obiettivo legittimo; la polizia deve essere sottoposta ad un efficiente controllo esterno.
Ed è appunto un controllo esterno, civile e documentato, che Malapolizia di Adriano Chiarelli fa e ci invita a fare.

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Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana

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Attualità Cultura Fumetti. Guerra&Pace Media e tecnologia Popoli e politiche

3DNews/UNA GRAPHIC NOVEL PER RICORDARE MARIA GRAZIA CUTULI.

di Barbara Leone

Una vita dedicata al giornalismo. In Dove la Terra Brucia è narrata l’intera vicenda professionale di Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera rimasta uccisa in un agguato in Afghanistan, sulla strada tra Jalalabad e Kabul, il 19 novembre 2001.

Il libro, realizzato da Giuseppe Galeani e Paola Cannatella, catanesi come Maria Grazia ed edito da Rizzoli Lizard, si presenta come una graphic novel che, partendo dal 26 ottobre 2001, giorno del 39esimo compleanno della giornalista, racconta il cammino percorso da Maria Grazia per diventare la grande inviata di guerra che è stata. Frequenti flash back rimandano all’inizio della carriera della giornalista che nel 1986 fu costretta a lasciare Catania, città in cui era molto difficile fare informazione a livello professionale, per trasferirsi a Milano dove, prima di approdare al Corriere lavorò per Epoca, rivista per cui, in cambio delle ferie, cominciò a fare trasferte all’estero.

Fil rouge del racconto è l’etica professionale del giornalismo, caratteristica che ha sempre contraddistinto Maria Grazia. Non mancano descrizioni particolareggiate del carattere della reporter, rese possibili grazie alla viva collaborazione della famiglia Cutuli. Sullo sfondo della narrazione una dettagliatissima ricostruzione delle fasi della guerra afghana, molto utile a chi voglia documentarsi dal punto di vista storiografico. Un lavoro durato due anni quello di Galeani e Cannatella, fatto di decine di interviste ad amici e colleghi di Maria Grazia oltre che ad un’opera di approfondimento della realtà afghana.

Un modo per raccontare, senza fronzoli, la storia di una professionista che per amore della verità ha rischiato la vita.
Ma Maria Grazia Cutuli non rivive solo nel fumetto. Per iniziativa della Fondazione a lei dedicata e di cui è presidente Mario Cutuli, fratello della giornalista, è uscita a fine ottobre un storia epistolare: Maria Grazia Cutuli, libro scritto con passione, intelligenza e curiosità da una collega dell’inviata catanese, Cristina Pumpo. Il volume, inserito nella collana

Maria Grazia Cutuli
(il cui ricavato verrà devoluto alla Onlus “La Città del Sole”), è dedicato alla scrittura di viaggio al femminile.

Tra il carteggio privato e numerose fotografie viene raccontata la storia di una giovane donna che ha dedicato tutta la sua vita alla passione: un viaggio che Maria Grazia ha deciso di intraprendere contro tutto e tutti, dettato da inquietudine, curiosità e forte determinazione, ragioni contro le quali ogni reticenza avrebbe perso.
La Fondazione “Maria Grazia Cutuli” ha fatto sua la volontà della giornalista di essere concretamente vicina all’uomo: quest’anno, il decimo dalla morte dell’inviata, è stata completata ed inaugurata la scuola elementare di Herat, in Afghanistan, già in funzione da sette mesi.

Un progetto dal costo di 150mila euro interamente versati dalla Fondazione. A completamento della scuola verrà realizzata una struttura polifunzionale dal valore di 20mila euro, fondi donati dalla Provincia regionale di Catania mentre grazie ad altri 10mila euro devoluti dall’Ance Catania verrà costruita una biblioteca. A Maria Grazia Cutuli è dedicato anche un “Premio Internazionale di Giornalismo”, diviso in sei sezioni, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Angela Rodicio (stampa estera), Claudio Monici, Domenico Quirico, Elisabetta Rosaspina, Giuseppe Sarcina (stampa italiana) e Fabrizio Villa (giornalista siciliano emergente) i nomi dei giornalisti premiati lo scorso 24 ottobre da Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere. Ad Emma Lupano è andato il premio per “Miglior Tesi di Dottorato” mentre i premi per la “Migliore Tesi Triennale” e “Specialistica” sono stati assegnati, rispettivamente, a Clelia Passafiume e Andrea de Georgio.

Tra le altre iniziative a settembre e ottobre si è tenuto il quarto “Corso di Perfezionamento in Giornalismo per Inviati in Aree di Crisi”, realizzato in collaborazione con l’Università di Roma “Tor Vergata”, il Ministero della Difesa e la Croce Rossa Italiana: 170 ore di lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche per insegnare agli aspiranti inviati come deve comportarsi un giornalista quando si trova in un’area di crisi. Un progetto sostenuto, così come gli altri, da una grande volontà: che Maria Grazia e la sua passione continuino a vivere.

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apps e social network business Dibattiti Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E’ vero: Facebook traccia tutti gli utenti.

(fonte: ilsole24ore.com)

Grazie ad altrettante interviste rilasciate da quattro manager di Facebook, gli ingegneri Arturo Bejar e Gregg Stefancik e i portavoce Andrew Noyes e Barry Schnitt, USA Today è stato in grado di ricostruire le modalità con cui in casa Zuckerberg si tracciano i Facebook-addicted negli immensi spazi della Rete. Metodi che differiscono tra loro: ce n’è uno studiato per i membri di Facebook loggati durante la navigazione, uno per quelli non loggati e uno studiato per chi non è annoverato tra gli 800 milioni di iscritti; fatto che rende ancora più inquietante il potere della piattaforma social.

Il funzionamento è tanto semplice quanto efficace: il computer o il device di un internauta, che dovesse navigare su una qualsiasi pagina offerta da Facebook, diventerebbe ospite di un apposito cookie; il quale diventa due se l’internauta è già registrato al social network, da qui parte l’attività di tracking. Ogni altra risorsa visitata che contiene plugin di Facebook (ad esempio il classico bottone “like”) viene registrata insieme alla data, l’ora e un identificativo univoco assegnato al computer. Visitando altre pagine web, quando si è eseguito il login a Facebook, vengono tracciati anche il nome utente, il proprio indirizzo email ed informazioni relative ai propri “amici”.

Ciò dà maggiore senso alla necessità di certificare il proprio pc o device quando ci si collega a Facebook da una fonte mai utilizzata in precedenza o dopo avere pulito la cache del proprio browser. I dati vengono conservati per 90 giorni e questa tecnica non è del tutto estranea a quelle adottate, ad esempio, da Google o Yahoo!, lasciando peraltro defluire tutta una serie di informazioni che possono fare gola alle agenzie di marketing o a quell’industria che basa il proprio core business sui dati personali degli internauti.

Il tema della privacy torna a bussare forte, ed è uno degli argomenti – insieme alla sicurezza – che spaccano in due il popolo del web. Le strade percorribili sono, al momento, due: o continuare ad alzare gli scudi oppure accettare questa fuga di informazioni personali come lo scotto da pagare per poter godere dei vantaggi offerti dalla Rete. Quest’ultima ipotesi è quella a più riprese sponsorizzata dalla stessa Facebook. (Beh, buona giornata).

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