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“Zingaropoli”, neologismo razzista.

“No alla parola Zingaropoli, è carica di disprezzo”, di ROBERTO NATALE- www.fnsi.it

Umberto Bossi“Il leader della Lega Umberto Bossi, intervenendo sul prossimo ballottaggio milanese, ha detto che Giuliano Pisapia vuole “trasformare la città in una Zingaropoli”. La polemica politica è affare dei candidati e delle coalizioni. Ma l’avvelenamento del linguaggio è un problema che riguarda tutti, compresi noi giornalisti che le parole le maneggiamo per lavoro. E allora non si può accettare che entri in circolo un nuovo termine così carico di significati spregiativi: il popolo Rom si chiama così e ha il diritto di essere chiamato così.

All’estero un uso tanto contundente del linguaggio politico verrebbe bollato come “hate speech”, incitamento all’odio. E’ bene che anche il discorso pubblico italiano recuperi il senso del limite. Ci abbiamo messo vent’anni a imparare che gli immigrati non andassero chiamati “vu’cumprà”, e abbiamo ancora difficoltà a non definirli sbrigativamente “clandestini”. Non c’è proprio bisogno di aggiungere un altro vocabolo al glossario del disprezzo”. (Beh, buona giornata)

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Attualità Cinema Società e costume

Habemus Papam di Moretti ovvero la messa in scena di una crisi altrettanto reale e minacciosa.

In sala con il filosofo: Paolo Virno commenta Moretti. “Habemus Papam”: rito e abisso dell’apocalisse culturale. Da “Palombella rossa” alla “palla prigioniera” dei porporati
di RICCARDO TAVANI -3Dnews/Terra

Paolo Virno si lascia trascinare volentieri alla proiezione per la stampa dell’ultimo film di Nanni Moretti. Virno insegna filosofia del linguaggio a Roma ed è uno dei nostri pensatori più stimati e citati, soprattutto all’estero. Una stima che si è conquistato con anni di studi e pubblicazioni di importanza decisiva e crescente.

A fine proiezione, Virno deve subito tornare ai suoi impegni universitari e appena fuori la sala comincia già a svolgere il rullo delle impressioni che ha ricavato da “Habemus Papam”. A non essere scambiato per uno che cela il proprio giudizio dietro pomposi riferimenti speculativi, afferma subito che gli è sembrato un film riuscito.

Dice che ha pensato a Ernesto De Martino, alla sua definizione di “apocalisse culturale”, che è una sorta di messa in scena, o forse di “messa in abisso” degli elementi reali di una crisi altrettanto reale e minacciosa. L’apocalisse culturale è quella rappresentazione nelle forme profonde di un rito collettivo che serve a impedire l’avvento di una apocalisse vera e incombente. È ciò che De Martino ha osservato nei suoi cruciali studi antropologici: quando un aggregato umano sente che una crisi sta mettendo in discussione le premesse e le condizioni stesse alla base dell’esperienza umana, ricorre al rito. Rappresenta tutte le tappe che hanno condotto alla catastrofe e cerca di invertirne il segno, di trovare un contravveleno.

“Habemus Papam”, rappresentando un particolare e originale stato di crisi, in quanto film, prodotto cinematografico si carica esso stesso del ruolo di apocalisse culturale tesa a scongiurarne una reale. Nel conclave per eleggere il Papa, ogni cardinale implora Dio per non essere eletto proprio lui; così la scelta cade su uno dei meno favoriti. Ma questi, di fronte all’enormità del compito che lo aspetta rimane paralizzato, incapace di proferire una sola parola alla folla che lo attende sotto la famosa finestra e, anzi, fugge, senza farsi neanche vedere.

La psicanalisi, dice Virno, cui si tenta di far ricorso per risolvere la crisi del Papa si dimostra del tutto impotente, anzi, grottesca perché non di una crisi individuale si tratta ma di quella di un intero organismo collettivo. Il Papa non soffre di alcuna crisi riguardante la propria fede, non ha alcun trauma infantile del tipo “deficit da accudimento” da parte della madre. Sente solo la sproporzione tra sé e la necessità di una rottura di continuità storica che la chiesa dovrebbe segnare ma che è incapace di determinare.

Anche i prodromi di un’analisi collettiva all’intero corpo cardinalizio, però, si dimostrano grottescamente infecondi, perché né i porporati e tanto meno l’analista conoscono la regola dello “spariglio”, della rottura di continuità, sia a carte che nella vita reale. Così la “palombella rossa” della crisi della vecchia chiesa comunista, dice Virno, diventa qui la palla a volo tormentata dei cardinali, i quali, però, sono rimasti alla “palla prigioniera” del secolo e del millennio scorso.

Il Papa prigioniero di un ruolo mummificato e sprofondante sotto il proprio sovraccarico è egli stesso elemento fondamentale della crisi, della catastrofe incombente. Per questo fugge davanti al compito assegnatogli, evade dalle mura vaticane, tenta un esodo paradossale sulle strade, sui tram, nei supermercati, nelle cornetterie notturne, negli hotel di terz’ordine, come nelle piccole chiese della città. Fino a imbattersi nella passione vera della sua vita: il teatro.

Si mette a seguire una compagnia che sta rappresentando “Il gabbiano” di Checov. La vera rappresentazione, però, a cui assiste è quella della crudele follia di un suo “doppio”, ovvero di quella degenerazione patologica costituita dall’incapacità di sottrarsi alla coazione a ripetere un ruolo svuotato di senso. Quando i porporati, nota Virno, fanno irruzione nel teatro con tutto il loro austero e cupo apparato scenico abbiamo come un raddoppiamento del tema della rappresentazione apocalittica: il delirio autentico che colpisce l’attore principale è esattamente l’orlo dell’abisso reale su cui stiamo pericolosamente oscillando.

Il disordine, l’incertezza, il caos magmatico che ci minacciano non possono essere assolutamente limitate alla vicenda della chiesa, anche se Virno comprende le necessità di un’efficacia narrativa del film circoscritta a questo particolare ambiente. La chiesa, il Papa hanno sì rappresentato nel passato quello che San Paolo chiamava il katechòn, ovvero la forza che abbraccia il male, il disordine, la confusione per impedire loro di dilagare completamente.

Oggi, però, è l’intero ordine economico, politico, istituzionale mondiale a rappresentare su vasta scala la pericolosa “crisi di presenza” di cui parlava De Martino. La fuga, la sottrazione, l’esodo dai ruoli sociali prefissati e ormai insensati, soffocanti diventano esse stesse forme attuali del katechòn. Non riguardano, però, solo un Papa, immaginario o reale che sia, ma tutti noi.

Ma intanto, il papa immaginato e messo in scena dal film di Moretti mantiene aperta l’apocalisse culturale nell’unico modo tormentosamente eppure coraggiosamente conseguente a impedire l’inabissamento in quella reale.
(Beh, buona giornata).

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“C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà.”

Il grande imbroglione,di GIUSEPPE D’AVANZO-La Repubblica.

BERLUSCONI mente con costante insolenza. È una consuetudine che da sempre sollecita molte attenzioni per afferrarne le ragioni, per così dire, costitutive. Per dirne una. C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà. Lungo questa via è suggestiva l’interpretazione di chi avvista Berlusconi afflitto da “pseudologia phantastica”.

«Una forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede – scrive Carl G. Jung – che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi». Sono accostamenti utili e intriganti, ma rischiano di annebbiare quel che è semplice e chiaro da tempo: se l’imbroglione è, come si legge nei dizionari, «una persona che ricorre al raggiro come espediente abituale», Berlusconi è innanzitutto un imbroglione.

È un imbroglio, un abituale inganno l’ultimo flusso verbale del capo del governo – che come sempre parla soltanto di se stesso, soltanto del suo prezioso portafoglio, soltanto dei complotti che gli impedirebbero di governare e arricchirsi. Berlusconi manipola fatti, eventi e contingenze della sua storia di imprenditore e di politico per mostrarsi vittima di un’aggressione, nell’una come nell’altra avventura. Deve farlo, il Cavaliere, poverino.
Non solo per una fantasia di potenza adolescenziale (anche per quello), ma (soprattutto) per la consapevole accortezza di dover nascondere il catastrofico fallimento della sua leadership e i sistemi che ne hanno fatto un uomo di successo.

Dice il Cavaliere: «Mi trattano come se fossi Al Capone». Il fatto è che Berlusconi, con Al Capone, condivide il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l’avidità, una capacità di immaginazione delirante. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta – ne è il simbolo – l’Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. Berlusconi è tutt’uno con quella storia e senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato un “delinquente abituale”.

Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. La fortuna del premier è il risultato di evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il dominio nell’informazione e il controllo pieno dei “dispositivi della risonanza”, sarebbe chiaro a tutti come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell’illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

Deve farlo dimenticare e deve mentire per tenere in vita la mitologia dell’homo faber e il teorema vittimistico. È quel che fa per nascondere il passato e salvare il suo futuro. Confondendo come sempre privato e pubblico, Berlusconi ora denuncia anche un assalto al suo patrimonio, la sola cosa che ha davvero a cuore. Si lamenta: «Contro di me tentano anche un attacco patrimoniale: a Milano c’è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti, per un lodo a cui la Mondadori fu costretta. È una rapina a mano armata».

Si sa come sono andate le cose. La Cassazione dice colpevoli il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora (assistono la Fininvest nella guerra di Segrate): hanno barattato la sentenza del 1991 sul cosiddetto “Lodo Mondadori” che, a vantaggio di Berlusconi, ha sottratto illegalmente la proprietà della casa editrice a De Benedetti (editore di questo giornale). Sono i soldi della Fininvest che corrompono il giudice, ma Silvio Berlusconi si salva per una miracolosa prescrizione.

Per il suo alto incarico (nel 2001 è capo del governo) gli vanno riconosciute – sostengono i giudici – le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio per le sue pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini che, nel suo interesse, truccarono il gioco. «Corresponsabile della vicenda corruttiva», il Cavaliere con Fininvest deve ora risarcire – come ha deciso la Cassazione – i danni morali e patrimoniali quantificati in primo grado in 750 milioni di euro. Troppo o troppo poco, lo dirà il giudice dell’appello che deciderà degli interessi di due privati e non, come vuole far credere l’Imbroglione, di due fazioni politiche.

È altro quel che qui conta ripetere, una volta di più semmai ce ne fosse bisogno. Come dimostra il tentativo di gettare nel calderone delle polemiche anche un suo affare privato, dietro la guerra scatenata dal capo del governo contro la magistratura ci sono soltanto gli interessi personali del premier. Null’altro. Riforma costituzionale, riforma della giustizia, asservimento del pubblico ministero al potere politico, che oggi paralizzano la vita pubblica del Paese, sono soltanto gli espedienti ricattatori di Berlusconi per ottenere un salvacondotto che lo liberi dal suo passato illegale, da una storia fabbricata, oggi come ieri, con l’imbroglio. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Società e costume

Confused Italian Approaching Obsolescence. CIAO, Italia.

(fonte: repubblica.it).

Un ‘ragazzo carino e di potere’ che, con un duro lavoro, è riuscito ad avere a disposizione la settima economia mondiale e a costruire dal nulla la sua impresa di comunicazioni, ora è in difficoltà e, non riuscendo a venire fuori dai suoi problemi sessuali, si rivolge al principale commentatore americano di vicende legate a sesso per ottenere un consiglio. Ha per titolo “Confessioni di un sessodipendente” ed è firmata Confused Italian Approaching Obsolescence (ovvero “ciao”), la lettera immaginaria scritta da Dan Savage, giornalista e scrittore, e pubblicata dalla solitamente seriosa rivista americana Foreign Policy, fondata da Samuel Huntington e ora edita da Slate. L’autore immagina che a scriverla sia un Silvio Berlusconi confuso e preoccupato, che si rivolge al titolare della rubrica ‘Savage Love’ per uscire dall’impasse.

Tra i tanti dubbi che affliggono CIAO quello che più lo preoccupa è di sapere se è o meno gay. “No, non sei gay. Non ancora”, lo tranquillizza Savage, anche se, dice il giornalista, la condizione di omosessuale in alcune circostanze potrebbe tornargli più che utile, nel caso, per esempio, che le “donne dovessero sparire o se si trovasse in una situazione senza signore disponibili: su una nave pirata, nella Città del Vaticano, in una prigione italiana…”.

CIAO, che ammette di aver avuto avventure con molte donne, la maggior parte giovani (“più sono giovani, meglio è”)
e di essere sempre riuscito al meglio in ogni campo, si dice afflitto del fatto che, da quando la moglie lo ha lasciato “pubblicamente e creando scompiglio”, ha perso la magia: “Le autorità hanno iniziato a indagare su di me. E le donne con cui sono stato hanno iniziato a estorcermi più denaro di quanto ne avessi già dato loro… Come posso venirne fuori?”, chiede a Savage.

La risposta del giornalista non è una vera soluzione. Dopo aver ricordato che né Bill Clinton né François Mitterrand hanno mai dovuto pagare per avere relazioni extraconiugali e dopo essersi detto sorpreso dal fatto che lui – che si dice tanto potente e fortunato – abbia dovuto fare ricorso ai soldi in cambio di sesso, Savage sottolinea che il problema forse sta nel tipo di donne che CIAO sceglie: “Forse non sei così potente come dici di essere. O forse il problema sta nel particolare tipo di donna che trovi attraente: ragazze con corpi tirati e teste vuote. Che però non si rivelerebbero così sprovvedute: sanno con chi hanno a che fare e non trovano attraenti un corpo obeso e una testa calva… Chiedono compensi e – come un certo ex governatore di New York può confermare – questi compensi possono portare a complicazioni”. O forse, dice ancora il giornalista, è la troppa sicurezza a portare guai: “Si diventa imprudenti: si trascurano dettagli, si viene braccati, ci si ritrova sotto accusa e qualche volta si scompare finendo in posti dove non ci sono donne”.

E poi la conclusione: “Il pubblico, diversamente dal tuo entourage, non è composto da ragazze senza cervello facili da impressionare. La gente non si aspetta che tu sia un santo o che tu abbia una vita personale meno complicata della loro ma si aspetta che la mantenga legale e discreta. Se non sei in grado di gestire i tuoi affari senza infrangere leggi e fare notizia, la gente non è disposta a darti fiducia nel gestire i propri”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Quest’anno, niente auguri di Buon Anno nuovo.

La vicenda della non concessione dell’estradizione a Cesare Battisti, chiude un anno di incapacità, gaffes e cialtronerie in politica estera del governo Berlusconi. Scrive Benedetta Tobagi, su Repubblica di oggi, 31 dicembre:

” La pagina nera della gestione vergognosa di questa vicenda di estradizione va ad aggiungersi alle gaffes collezionate dal premier Silvio Berlusconi all’estero, oggetto di scherno (per gli stranieri) e profondo imbarazzo (per buona parte dei cittadini italiani), che negli anni hanno degradato l’immagine dell’Italia e della sua diplomazia. E sì che la vicenda è antica, e si sa quanto sia delicata, su molteplici fronti. Nel campo dei rapporti bilaterali, la legittima
domanda della giustizia italiana si scontra con la Realpolitik, nutrita dai fortissimi interessi economici che legano Italia e Brasile: basti ricordare che Lula l’altroieri stava inaugurando un nuovo stabilimento Fiat in Brasile, oppure Telecom, che considera il Brasile “una seconda patria”, o l’accordo di partnership militare, 5 miliardi di forniture militari da Finmeccanica e Fincantieri (che imporrebbe al ministro della Difesa La Russa un imbarazzato silenzio, anziché dichiarazioni ammiccanti a un generico boicottaggio)”.

Per poi aggiugere la ferale notizia dell’ennesima lingua biforcuta di Berlusconi: ” Se si può dubitare della buona fede del senatore brasiliano Eduardo Suplicy, fiero sponsor di Battisti, altrettanto triste scetticismo suscitano le smentite da Palazzo Chigi da parte di un premier che è uso invalidare dichiarazioni battute dalle agenzie e riprese dalle telecamere”.

L’anno si chiude, ma le vicende che riguardano l’incapacità del governo Berlusconi continueranno anche oltre la mezzanotte dell’ultimo giorno del 2010. Esse riguardano la governabilità di una compagine senza maggioranza reale; la grottesca vicenda della munnezza a Napoli, perché di promesse in promesse i napoletani faranno il Capodanno tra i cumuli di immondizie nelle strade; l’apertura dell’inchesta a Lecce, promossa dagli azionisti Alitalia contro la dissennata scelta di liquidare la compagnia di bandiera, per farla mangiare da una nuova campagnia, permettendo di scaricare i debiti su una bad company, violando le leggi, come al solito; la vicenda della Fiat, che dimostra l’incapacità assoluta del governo di mediare le tensioni sociali,vicenda che porterà a una scontro frontale tra diritti acquisiti e interessi meramente finanziari dell’azienda torinese. E poi ci sono i terremotati de L’Aquila, cittadini senza città, dunque senza cittadinanza. E poi ci sono studenti, insegnanti, precari e ricercatori per i quali, come ha sottolineato lo stesso presidente della Repubblica, sono state varate norme sbagliate. E poi ci sono pastori sardi, trattati come servi della gleba, pestati, respinti e deportati in Sardegna, come se non fossero cittadini italiani, come se per il nostro governo fossero “indesiderati” sul territorio italiano. E poi c’è il generale impoverimento delle famiglie italiane, su cui graveranno, senza controlli, gli aumenti previsti di tutte le tariffe nel 2011. E poi, proprio oggi un altro militare italiano è caduto in Afghanistan

Purtroppo, il cambio di un anno è solo una superstizione del calendario. Il cambio di un governo, bugiardo, cialtrone, incapace, arrogante, sciagurato e pericoloso è da venire. Solo quel giorno ci potremo fare davvero auguri di buon anno. Beh, buona giornata.

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democrazia Popoli e politiche Società e costume

L’adolescenza molesta del piccolo satapro col cerone.

Il bamboccione al potere, di Marco Bracconi-repubblica.it

Chiunque abbia cresciuto dei figli sa che c’è una età in cui la colpa è sempre di qualcun altro. Se si va male a scuola è perché il professore è stronzo, se si perde la partita è colpa dell’arbitro cornuto, se si va a sbattere col motorino è perché il comune non ripara le buche.

E’ una età particolare, che va assecondata con pazienza, e ai poveri genitori non resta che continuare a spiegare che la colpa, se le cose non vanno come dovrebbero, non è sempre degli altri.

Silvio Berlusconi sta appunto attraversando questa delicata fase del suo sviluppo.

Se nessuno apprezza il suo straordinario lavoro in Abruzzo perché c’è chi butta fango. Se a Napoli si farà Natale tra i rifiuti è perché c’è una manovra contro di lui. Se in pochi gli riconoscono il ruolo di grande capo della politica estera europea è perché la stampa internazionale si fa dettare i pezzi da Di Pietro. Se il debito pubblico sale ancora è perché qualcuno lo ha fatto salire prima di lui.

Quando l’adolescente si comporta così, i bravi genitori gli tolgono il motorino o lo spediscono a ripetizioni di greco e latino. Ma in Italia, si sa, i papà e le mamme sono molli come pasta di sale. E coccolano fieri il loro bamboccione, tutti contenti se il pargolo – piangendo e fottendo – finisce a Palazzo Chigi, e domani al Quirinale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Che Billy Bilancia non ci sia più è uno sproposito.

“Il quartiere è malfamato, la clientela è quello che è, il locale è sporchino, il proprietario è losco, il personale lascia a desiderare, le bevande sono dozzinali, la cassiera è triste, ma la musica….!” Con questo tormentone cominciava il mio personale rito dell’aperitivo serale da Billy Bilancia. Lo inventai all’Euclide, bar di piazza Euclide a Parioli , il quartiere-bene di Roma, dove per un paio d’anni Billy aveva creato l’angolo degli aperitivi. Billy, mentre preparava il Martini, era la spalla ideale di giochi di parole, che facevano di quei momenti di guarnizione tra la fine di una giornata di lavoro e l’inizio della serata un momento di svago innocente, infantile, giocoso come sanno fare gli adulti tra loro, quando sono amici e il cazzeggio è un tramite di relazione.

Perché Billy era il bar. Non si andava all’Euclide, da Vanni, da Annibale a piazza dei Carracci, tanto per citare solo alcuni tra gli ultimi bar che Billy ha animato. Si andava semplicemente da Billy. Ci vediamo da Billy? Era l’invito per un appuntamento con un amico. I proprietari dei rispettivi locali lo sapevano: Billy, nel suo peregrinare tra i quartieri di Roma, si trainava diverse combriccole di affezionati clienti. Perché a Billy faceva piacere avere “i suoi clienti” sempre intorno. E quando non ti vedeva da un po’, allora ti chiamava. “Pronto, sono Billy.” E io: “Ciao, avanzo di balera, che mi dici?”. E lui:“Ma si può sapere dove vai a prendere l’aperitivo?”. E io, addirittura auto colpevolizzato: “Billy, sono a Milano”. E lui: “Torna presto che sta casa non è un albergo”.

Negli anni siamo stati insieme al ristorante, al cinema, a bere in altri bar, quando era di riposo. Sempre a cazzeggiare, coinvolgendo gli altri, spesso sconosciuti, nei nostri giochi con le parole. Billy mi avrà preparato un numero indefinibile di Martini cocktail. Lo scherzo era che mentre stava tagliando la striscia di limone per il classico twist, gli dicevo: “Billy, ma io volevo l’oliva”. E lui: “Me lo dovevi dire prima”. E io: ”Tu me lo fai apposta”. E lui: “ Non te lo ha mai detto nessuno che tieni la capa fresca”. E io: “In questo bar si mangia pane e veleno”. E lui: “ quale pane, solo veleno”. E allora succedeva che i clienti intorno capivano lo scherzo e si rilassavano e ridevano. Poi, il momento del finale della gag. Portavo il bicchiere alle labbra, assaggiavo un sorso di Martini, lo tenevo in bocca per assaporarlo. In quel momento Billy diceva: “Dai, dillo su!”. E io, roteando la mano destra, dicevo: “Ahhh, che schifo!”. E giù a ridere come ragazzini. Ridevano i clienti, ridevano i camerieri, rideva il proprietario. E, ovviamente, rideva anche la cassa. E la cassiera.

Altro tormentone: “Scusi, ma lei è oriundo?”. “No, io sono Billy”. “Aborigeno, nativo?”. “Noo, io sono Billy, quante volte glielo devo dire”. “Mi scusi devo averla scambiata per un altro”. Lo scherzo della sigaretta nacque per caso al Bramante, il bar che gestiva Giuseppe Pecora, in via della Pace. “Ascoltami Billy”, esordii con aria seria “quando la Nina , la Pinta e la Santa Maria salparono alla volta delle Indie e sbagliando i calcoli nautici si imbatterono nelle Americhe, Cristoforo Colombo, che tutti credevano genovese, ma che forse non è vero, riportò in patria, che infatti era la Spagna e non la Liguria, il pomodoro, la patata, il mais e il tabacco”. Billy mi guardava con gli occhi di chi dice “vabbè, ma dove vuoi arrivare”. “Ecco, Billy, a proposito di tabacco, non è che mi offriresti una sigaretta?”. Questi due sono pazzi, devono aver pensato i clienti del Bramante, che oggi non c’è più.

“E’arrivata la nave dal Brasile?” era il modo per chiedere un caffè. Oppure: “Marco, il solito?”. E io: “Un po’ meglio del solito, per favore”. Per tutti gli anni in cui ci siamo frequentati, il botta e risposta è stato il nostro modo di incontrarci, di passare qualche mezz’ora insieme, io di qua, lui di là del bancone del bar, divertendoci e coinvolgendo gli altri nei nostri scherzetti verbali.

E alla fine, l’immancabile “sigla di chiusura”. Sulla porta, accomiatandoci, la nostra ora dell’aperitivo finiva sempre così: “Billy, dire che è stato un piacere…”. E lui: “…sarebbe uno sproposito”.

Caro Billy, avanzo di balera. Non poter più venirti a trovare e vederti smanettare dietro il bancone di un bar è davvero uno “sproposito”.

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Attualità democrazia Società e costume

Berlusconi: “una ragazza che si dichiarasse prostituta davanti al mondo si preclude tutte le strade per un lavoro futuro, o per trovare un marito”.

Donne da marito-http://sasso.blogautore.repubblica.it/

La prima reazione è stata furiosa: basta! Berlusconi non deve più permettersi di aprire bocca in quel modo. Ospite a Tripoli dell’amico Gheddafi (gli amici di Berlusconi sono tutto un programma: Gheddafi, Putin, Fede…), il presidente del consiglio dice che non bisogna credere a una parola di quello che le ragazze che ha frequentato raccontano di lui. Non importa che abbiano fotografato perfino la carta igienica dei bagni del suo palazzo Grazioli, che abbiano consumato la giostra a cavalli di villa Certosa, e che abbiano mostrato le immagini a tutto il paese. Abituato a mentire, il premier dice che sono loro, compagnie ormai assodate, a mentire.

Ma l’indignazione non scatta per quello. Perché c’è perfino di peggio delle bugie. E c’è perfino di peggio dell’imbarazzo davanti a un signore di 74 anni che ha perso qualsiasi dignità. E il peggio è questo. Sapete perché Berlusconi è certo che le ragazze mentano sui loro incontri a pagamento con lui? Perché .

Ecco cosa sono le donne nella testa di questo vecchietto: mezze persone, che per realizzarsi hanno bisogno di trovare marito. Dai capelli tinti non si direbbe. Ma dalla cultura che traspare delle sue parole emerge chiarissimo: il povero Berlusconi è proprio un uomo di un’altra epoca, proprio vecchio dentro. Bisogna che qualcuno glielo dica: nonno, la società è cambiata. Hanno chiuso le case, le donne hanno il diritto di voto, vanno a scuola e sono più brave degli uomini, comandano perfino le aziende. Pensano anche all’amore, certo. Ma è un’attività assai fuori moda. (Beh, buona giornata).

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“Le scrive una madre cinquantaseienne, una madre che nonostante l’età, non ha mai smesso di sognare.” Lettera a “Beh, buona giornata” di una donna “prigioniera” di un Paese prigioniero del berlusconismo.

Sembrerà strano in tempi in cui ovunque si guardi, ovunque ci si giri, si sente il lezzo delle manovre megalomani di politici o di personaggi televisivi di potere che, al timone delle nostre vite, vorrebbero traghettarle nel nulla, nell’assenza totale di stimoli vitali, di sogni di aspirazioni, le scrive una madre cinquantaseienne, una madre che nonostante l’età, non ha mai smesso di sognare.

Amante della libertà di pensiero, degli spazi aperti dove ognuno possa esprimersi, perché in ognuno di noi dorme un pensiero creativo, positivo che non va taciuto.

Ho insegnato ai miei figli la fiducia negli altri, ho sempre descritto loro un mondo possibile, che li avrebbe accolti e dove loro si sarebbero sentiti parte costruttiva e determinante.

Ho insegnato loro a sognare.

Mio figlio ora ha trent’anni, dopo la laurea e lo Ied (Istituto europeo del design, ndr) si trova a sbarcare il lunario battendo il ferro in cantieri sempre diversi, solo per non sentirsi dipendente dalla famiglia. Ma il suo stato di frustrazione è cosmico. Lui ha sempre amato scrivere, creare, leggere e dalla lettura trarre conclusioni sempre diverse da quelle ovvie che gli altri cercano.

Ora le sue idee restano intrappolate in un circuito che si interrompe solo per consumare un panino a mezzogiorno.

Mia figlia si sta laureando in Comunicazione internazionale, è una bella ragazza e per come va il mondo oggi mi vergogno di dire che spero che il suo aspetto fisico l’aiuti ,lei che e’ sempre stata pulita nell’aspetto e nell’animo e che ha creduto che l’impegno l’abnegazione, la bravura fossero premianti, come io le ho insegnato.

Se leggerà, le saro’ grata.

Firmato: Paola, una madre che ha ancora voglia di volare alto e che
non ne può più di vivere in un paese opprimente. (Lettera firmata). Beh buona giornata.

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Riusciranno i nostri eroi a ritrovare la politica misteriosamente scomparsa in Italia?

In omaggio alla Festa del Cinema di Roma, e soprattutto in omaggio e solidarietà piena alla protesta sul “red carpet”delle maestranze del cinema italiano contro i tagli alla Cultura, questo articolo titola con la citazione di un famoso film di Ettore Scola:”Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”

In un’epoca in cui si celebrano le gesta del Cavaliere, tanto simpatico e spiritoso da intrattenerci con le sue vecchie e triviali barzellette dal calor razzista, dal sapor sessista, dalla banalità omofoba, e forse dalla demenza senile a proposito di tribù africane che sodomizzano i malcapitati col rito del bunga-bunga, codesta citazione filmica ci sembra, ahinoi!, pertinente.

Tanto più che secondo Emilio Fede, – che con l’impresario Lele Mora è uno dei protagonisti dei fatti giudiziari relativi alla minorenne marocchina, un’ inchiesta penale che potremmo intitolare “l’inchiesta bunga-bunga”- l’ interpretazione autentica della barzelletta del Cavaliere sarebbe che è proprio Sandro Bondi, Ministro della cultura, il bersaglio della protesta dei cineasti italiani, uno dei personaggi della storiella in questione, assieme a Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl. Insomma, dopo Gianni e Pinotto, i fratelli De Rege, Stanlio e Ollio , Ric e Gian, (Lele Mora&Fabrizio Corona) abbiamo un’altra coppia comica: Bunga&Bunga.

Il film di Scola ha un finale commovente: la tribù africana insegue fino alla spiaggia lo stregone fuggiasco (Nino Manfredi che, nella parte di Titino, altro non era che un ciarlatano che si faceva credere un potente sciamano), e intona verso la nave che avrebbe riportato Titino in Italia una litania ritmica, che alle orecchie di Titino sembrava suonare: “Titì non ce lascià”. Titino non resisterà allo strazio, e tuffandosi ritornerà a nuoto dalla tribù, unica, vera e genuina sponda affettiva.

Nell’Italia odierna, Silvio Berlusconi, il potente sciamano della politica, della finanza, della tv, della monnezza, del potere è incappato di nuovo in uno scandalo sessuale. Una metafora dell’impotenza affettiva.

Per la gioia della signora Veronica Lario, che dopo l’ennesima rottura delle trattative per raggiungere soddisfacenti accordi economici per il divorzio, conquista una nuova freccia al suo arco.

Per la disperazione della democrazia di un Paese che non sa più se ridere o piangere delle gesta del Cavaliere. E allora, dovremmo tutti insieme intonare una litania propiziatoria, per liberarci di questa noiosa ordalia: “ Cavaliè, te ne vuoi andà”. Gli italiani, grati, ringrazierebbero. Beh, buona giornata,

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democrazia Lavoro Leggi e diritto Società e costume

Lavoratori di tutto il mondo, unitevi per dire al vostro capo che non capisce un cazzo.

fonte: ilmessaggero.it
«Lei non capisce un c…». Dirlo al datore di lavoro si può. Almeno secondo una sentenza emessa dal giudice di Pace del Tribunale di Frosinone che si è appellato al «gergo comune» sdoganando quella che potrebbe essere considerata una frase ingiuriosa. E così infatti l’aveva interpretata il titolare di un’agenzia di sicurezza privata che durante un’animata discussione con un suo dipendente si ritrovo investito da un «Lei non capisce un c…» dove l’incipit della frase, un forbito Lei, strideva con la parola finale, dal significato diretto. Troppo diretto tanto che il titolare denunciò il suo dipendente per ingiurie. In primo grado arrivò la condanna ma il legale del dipendente, l’avvocato Nicola Ottaviani del foro di Frosinone, si appellò e ci fu l’annullamento per un vizio procedurale.

Il processo fu rimesso così al giudice di pace. Non solo ma la difesa ha argomentato che quella frase, seppur colorita, non può più essere considerata reato perchè «rientra nel gergo comune». E per avvalorare l’ipotesi difensiva l’avvocato si è appellato all’orientamento di circa due anni fa della Corte di Cassazione su un «vaffa….» considerato non più reato. Così ieri il giudice di Pace del Tribunale di Frosinone ha riconosciuto quella frase non ingiuriosa. (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Questa è la storia solitaria dell’uomo che morì sette anni fa.

L’incredibile storia di Dante Nencioni, morto e dimenticato in casa per 7 anni
Nessuno ha mai suonato alla porta del pensionato, stroncato da un malore e rimasto cadavere nella sua villa di Frascati- di Marida Lombardo Pijola-ilmessaggero.it

Questa è la storia di un uomo senza storia. Un uomo rimosso dalla memoria di ogni consimile incrociato negli otto decenni in cui ha vissuto. Un uomo che non ha lasciato traccia negli affetti e nei ricordi di nessuno. Che si è lasciato alle spalle solo morti, o abbandoni, o indifferenza, o rancori, o labilità della memoria, o sciatterie dell’attenzione degli esseri umani verso gli altri esseri umani.

Nessuno può dire può dire come sia andata davvero, la vita di Dante Nencioni, in questa storia che va oltre la solitudine e l’indifferenza, in un non-luogo dove una vita può evaporare in una bolla vuota, eludere la memoria e i sentimenti, precipitare nel buco del nulla. Infatti non era nulla per nessuno, quel pensionato fiorentino, vissuto a Frascati per vent’anni, morto da solo a ottant’anni -presumibilmente nel 2003, per cause ignote – e rimasto per i successivi sette a deperire, come una cosa oltraggiata dall’umidità dell’altrui smemoratezza, sul pavimento del bagno di una villa isolata nella zona più prestigiosa di Frascati, che il tempo ha trasformato in un ossario.

Nessun parente. Soltanto due nipoti acquisiti, di Firenze, che appena si ricordano di lui. Due decenni a Frascati, eppure nessuno sa niente di lui. Un fantasma. Solo un’immagine sfocata nella memoria lunga di un paio di anziani che abbiamo rintracciato. «Massì, ”l’ingegnere”, simpatico, la renna e il cashemirino, la station wagon, distinto, capelli tinti, denti rifatti con gli impianti, molti soldi, parlava di aprire un Bingo a Roma, di andare a vivere in un residence». «Diceva, mi pare, di una figlia lontana con cui aveva litigato, e di una moglie divorziata e poi morta. Scendeva in piazza ogni tanto a prendere il caffè».

Eppure nessuno lo ha cercato, nessuno ha chiesto o si è mai chiesto di lui. Nessuno ha mai bussato per avere sue notizie al cancello di via Enrico Fermi 34, alto, massiccio, dissuasivo, così da inibire ogni sbirciata. Quattrocento metri quadri immersi in un giardino tutto arruffato dalle erbacce. Il tempo ha consegnato quegli ambienti, un tempo eleganti e rifiniti, all’avidità di una muffa implacabile, che si è accanita come un predatore su quella casa, su quel corpo, su quella morte, come, in precedenza, doveva aver divorato quella vita.

Perciò questa è una storia che si svolge in una terra di mezzo, dove la vita di un anziano può consumarsi in un silenzio irreparabile e perfetto come la morte, e può sfibrarsi come gli asciugamani ridotti a fili penduli che hanno vigilato sul corpo di Dante Nencioni come sinistre sentinelle funerarie. E chi lo sa se ha misurato l’entità diabolica del vuoto, Dante, già impiegato all’Agenzia delle Entrate di Roma, divorziato dal ’95, per l’anagrafe senza figli, mentre si accasciava sul pavimento del suo bagno, forse già privo di vita, o forse soltanto intrappolato in un malore che non avrebbe avuto alcun soccorso e alcun conforto. Sarebbe rimasto lì per altri anni, se l’acqua sputata dai tubi sgangherati dei suoi impianti non avesse indotto qualcuno ad avvertire i vigili urbani.

Nessuno di coloro che sono entrati in quella casa potrà dimenticare mai quello che ha visto. L’impatto con qualcosa di ancora più sinistro della devastazione che il degrado aveva minuziosamente prodotto sui mobili antichi di valore, le boiseries, i dipinti, le porcellane preziose, il buddha dorato quasi a grandezza naturale, il laboratorio con gli attrezzi da bricolage per lavorare il ferro e il legno, disposti in meticolosa simmetria. C’era qualcosa, in quell’abitazione, di ancora più inquietante delle ossa abbandonate tra la doccia e il lavandino come un mucchietto di rifiuti. Quell’ordine irreale, quei documenti archiviati e conservati nei faldoni con la pignoleria di un notaio, quei libri, corsi d’inglese ed enciclopedie, disposti in fila perfetta sugli scaffali. E in giro nessuna foto. E nella posta nessuna lettera, nessuna cartolina, nulla che non fosse un rendiconto, una bolletta, una pubblicità. E quella penna a sfera, quegli occhiali, quell’orologio d’acciaio sistemati in fila perfetta sul tavolino davanti al caminetto, accanto ad una copia chiusa di ”Porta Portese”. E quelle armi, regolarmente detenute, custodite con cura in una cassapanca. E quell’Alfa, protetta con devozione dai teli nel garage. E quel vuoto. E quella sensazione di asfissia.

Visitando quella casa il capitano dei carabinieri Marcello Sermoneta si è lasciato rinfrancare dal sollievo ripensando ai suoi cento metri quadri caotici, affollati da figli e da cani; il suo capo Giuseppe Iacoviello, che ha 31 anni, ha riflettuto sul fatto che prima o poi sarà ora di farsi una famiglia; a Barbara Luciani, comandante dei vigili del fuoco, si è stretto il cuore pensando alla sua bimba di 3 anni, che non ha fratelli. La solitudine produce solitudine. E neanche il postino, mentre nella cassetta si ammucchiavano all’inverosimile carteggi sterili da parte di entità neutre e sconosciute, ha pensato di insistere. Suonare due volte. Il postino non lo fa mai, si sa. Gli altri nemmeno. (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume Sport

La calcificazione della politica italiana.

Lo sanno tutti quanto in Italia sia forte l’intreccio tra calcio e politica.
Tanto che negli stadi si fa politica e la politica usa spesso toni da
stadio. Fu la politica a designare Lippi, uomo dell’establishment che portò
al macello la Nazionale in Sud Africa. Fu sempre la politica a salvare i
vertici del calcio italiano: come se nulla fosse successo, ognuno è rimasto
al suo posto, dopo l’ignominiosa debacle africana. Fu il calcio a vaticinare
l’ingresso in politica, o meglio “la discesa in campo” del presidente del
Milan, che poi divenne il presidente del Consiglio. Fu il calcio ad
ammalarsi di politica, come abbiamo visto nelle vicende di Calciopoli.

Dunque, se il calcio si è politicizzato e la politica si è calcificata (in
tutti i sensi), forse è proprio da questo binomio che può venire la
soluzione alla crisi del governo, che è poi la crisi del berlusconismo,
visto che l’attuale squadra di governo è ormai bollita, dunque
irrimediabilmente perdente.

Governo tecnico? Allargamento della maggioranza
conl’Udc? Un neo CLN da Fini a Vendola, passando per Rutelli, Casini, Luca
di Montezemolo? Tremonti, gioca all’attacco o in difesa? Berlusconi vuole
comprare Casini? Basterebbe leggere i titoli dei giornali di queste
settimane, per avere la netta sensazione della calcificazione (in tutti i
sensi) della politica italiana.

Cionondimeno, una soluzione ci sarebbe: è
sotto gli occhi di tutti. C’ è una squadra di calcio in Italia che è stata
capace di vincere tutto, sia sul piano nazionale che su quello europeo.
Proprio quello che servirebbe alla politica italiana, per vincere le
drammatiche difficoltà, in questi frangenti molto critici per l’economia,
per il vivere sociale, per il lavoro, per lo sviluppo. Questa squadra di
calcio ha introdotto un’innovazione che sarebbe molto salutare fosse copiata
pari pari dalla politica italiana. Parliamo dell’Inter di Moratti, nelle cui
fila militano solo giocatori stranieri, allenatore compreso. Ecco allora
l’idea che spariglierebbe le carte (un po’ sporche) della politica
italiana: un governo di soli ministri stranieri, capo del governo compreso.

Una ideale squadra di governo? Presto detto: Nelson Mandela (presidente del
Consiglio); Bono degli U2 (vice presidente); Dave Letterman (portavoce);
Sub Comandante Marcos (Difesa); Baltazar Garzòn (Giustizia); Mark Harmon,
alias Leroy Jethro Gibbs dell’NCIS (Interni); Al Gore (Ambiente); Joska
Fischer (Esteri); dott Hause (Sanità); Woody Allen (Cultura); Dalai Lama (Istruzione); Rigoberta
Manchu (Agricoltura); Aung San Suu Kyi (Pari Opportunità); Steve Jobs
(Sviluppo economico); Kofi Annan (Welfare); Íngrid Betancourt (Attività forestali);Michael Schumacher (Trasporti); Bernard Madoff (Economia);
Mike Tyson (Attuazione del Programma); Dan Brown (rapporti con la Santa
Sede).

La nostra Costituzione dice a chiare lettere che spetta al Capo dello
Stato, il presidente Napolitano, la scelta di chi incaricare per la
formazione di un nuovo governo. Noi rispettiamo la Costituzione e il ruolo
del Presidente della Repubblica.

Ci permettiamo solo di suggerire di lasciar
fuori ministri di nazionalità russa e libica. Niente di personale con i
cittadini di quei paesi, semmai con i rispettivi governanti. Infatti, viste
certe poco chiare frequentazioni, non vorremmo che alla fine Berlusconi
uscisse dalla porta, per poi rientrare negli spogliatoi, e magari tornare in
campo, con un colbacco o un turbante. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Fini, Berlusconi e il “muck-raking” del Giornale di Feltri.

Feltri&Fini:giornalismo d’inchiesta e i “rimestatori del fango” in Italia, di Mimmo Càndito-lastampa.it

Nella tradizione del giornalismo americano (che non è affatto perfetto ma in larga parte segue standard elevati di professionalità e di indipendenza), una categoria di riferimento è quella del “muck-raking”, che letteralmente si può tradurre come “il rimestamento del fango”. Non è difficile capire che cosa s’intenda: un giornalismo che rimesta nei rifiuti – nella merda, verrebbe da dire – per scoprire che cosa ci sia dentro. Ora, la parte più nobile di questo raking è certamente il giornalismo d’inchiesta; la parte invece più volgare è il giornalismo scandalistico. La linea di demarcazione tra i due giornalismi non è sempre netta, e però alla fine non appare difficile trovare il campo di appartenenza, pur nelle inevitabili contaminazioni.

Facciamo un esempio concreto: alcuni mesi fa “la Repubblica” condusse una dura campagna di stampa contro certe abitudini del presidente B per l’ inveterato costume di mescolare con il suo privato la sua funzione pubblica e di farsi “utilizzatore finale” di prostitute, e di signore compiacenti, in una forma spregiudicata, che inquinava pesantemente l’esercizio del suo ruolo di capo di un governo.

La campagna era partita – o aveva comunque trovato una spinta decisa – dalla denuncia che la stessa moglie (oggi separata) di B aveva fatto pubblicamente, che il marito era “fortemente malato” e si accompagnava con ragazzine. Appare evidente come in quel caso si intervenisse sulla sfera privata del presidente B, ma – appunto – poichè non del “signor Berlusconi” si trattava ma del “presidente B” , le implicazioni politiche oltre che quelle etiche generali erano fortemente significative. Ricorderete: si discusse a lungo se ci fosse violazione della privatezza, e se fosse comunque un affare soltanto personale del signor Berlusconi, o se invece il pesidente B travolto dallo scandalo (si sussurrò a lungo di scelte politiche – perfino di nomine di ministre, non solo di selezione per le candidature al Parlamento, al Parlamento europeo, o a livello locale – dettate dalle compiacenze di letto o di sotto il tavolo, stile Clinton, che il signor B aveva ricevuto nel suo ruolo, non di Dongiovanni, ma di capo di governo oltre che di potentissimo uomo di potere: la televisione etc.), si discusse se B travolto dalla scandalo non dovesse avere la decenza minima di dimettersi per salvare l’immagine fortemente compromessa di istituzioni centrali dello Stato.

Finì che B non si dimise, anzi non fu nemmeno sfiorato dall’ipotesi che l’opinione pubblica intesamente dibatteva, ma certo l’ulteriore danno all’immagine della politica fu rilevante e significativo. Il giornalismo muck-raking de “la Repubblica” aveva svolto con efficacia il proprio lavoro, ma non aveva ottenuto il risultato, altrove inevitabile, del rimestamento del fango (l’analisi delle ragioni fu ampia e partecipata, resta la realtà di quella inefficacia).

Un altro caso concreto di muck-raking è quello che sta affollando molte pagine dei quotidiani ( e molti minuti televisivi) in questi giorni: la casa di Montecarlo affittata al “cognato” di Fini e con procedure che ancora non appaiano affatto chiare. Questa volta il raking è condotto dal quotidiano “il Giornale”, ma anche dal suo parente “Libero” (oltre che dal consanguineo “il Tempo”) ,tutte testate di proprietà o di forte contiguità con B, in una intensità d’intervento che non ha nulla da invidiare alla intensità messa in campo da “la Repubblica” nel caso delle “escort” (le puttane) con cui si accompagnava il capo del nostro governo. La similitudine appare evidente: uomo pubblico nell un caso e nell’altro, faccende poco edificanti nell’un caso e nell’altro, richiesta di dimissioni nell’un caso come nell’altro, giornali con linee editoriali schierate nell’un caso e nell’altro.

Tuttavia, essendo questo blog dedicato alla riflessione sui processi della comunicazione e non all’analisi dei fatti politici, mi pare utile, oltre che necessario, tralasciare l’analisi specificamente politica e tentare soltanto la decodifica dei due “messaggi”, che si mostrano simili nella loro “apparenza” e però mostrano disssimilituini rilevanti nella loro realtà. E’ soltanto la definizione delle diversità – ammmesso che ce ne sia una, e a me pare di sì – che può smontare il meccanismo perverso delle similitudini, e consentire dunque di colloccare con maggior esattezza questa operazione di muck-raking nel campo del giornalismo d’inchiesta o, invece, in quello del giornalismo scandalistico, pur con la inevitabilità delle contaminazioni.

Qual è la dissimilitudine più rilevante? Che nel caso 1 si trattava di realtà denunciate e sostenute da prove inattaccabili,oggettive, documentali, mentre nel caso 2 ci troviamo di fronte a ipotesi ancora non confermate e anzi, in alcuni episodi, addirittura inquietanti per l’a’mbiguità o, peggio, la scorrettezza nell’uso delel “fonti” (penso al dipendente del mobilificio romano che se ne va via dal lavoro e – subito dopo! – spiffera a “il Giornale” che Fini ha comprato i mobili “per Montecarlo” mentre altri quotidiani intervistano il titolare del mobilificio che assicura che mai si è detto di spedire quei mobili a Montecarlo:uso scorretto, o poco professionale, delle fonti; e penso a questa dichiarazione di ieri, di un testimone che “Fini andò a visitare la casa di Montecarlo”, dichiarazione che poi il testimone smentisce con controreplica parziale de “il Giornale” e con accertamenti presso la nostra ambasciata che, anche loro, smentiscono la denuncia de “il Giornale”: e anche qui, lavoro assai poco professionale dell’inchiestista, che non incrocia mai le “fonti”, unico metodo invece per garantirsi l’attendibilità delle testimonianze, come ben sanno tutti gli studenti di giornalismo prima ancora di diventare giornalisti ).

Nel caso 1 come nel caso 2 ci troviamo di fronte a un’aspra lotta politica, ma l’evidenza delle prove del caso 1 non si manifesta nel caso 2 e, anzi, solleva molte perplessità per le forme e i tempi dell’attacco de “il Giornale”, forme e tempi assai simili a quelli del “caso Boffo” (il direttore de “l’Avvenire” costretto alle dimissioni) quando alla fine venne dimostrato che la campagna de “il Giornale” era stata basata su documenti palesemente falsi e usati strumentalmente come mezzi di denigrazione di un direttore, Boffo, che stava manifestando critiche severe ai comportamenti pubblici/privati di B. Anche qui – cioè nel caso 2 – ci troviamo di fronte a forme e tempi che si mostrano rigidamente legati al ruolo critico che Fini si è scelto nei confronti di B, e “il Giornale” appare dunque come uno strumento servile, più che della denuncia e della ricerca della verità, di un attacco spregiudicato contro chi “ha osato” attaccare il presidente B.

Qual è il punto di rottura della spregiudicatezza? Quando il muck-raking abbandona il campo del giornalismo d’inchiesta e si sposta nel terreno del giornalismo scandalistico o, peggio ancora, del giornalismo servile? E’ possibile immaginare una indagine dell’Ordine dei giornalisti che definisca con autorevolezza se vengano rispettati i principi ai quali l’Ordine lega la’ttività giornalistica?
Sono domande complessse, e anzi, meglio ancora, sono domande cui appare molto difficile dare risposte chiare e univoche, proprio per quella ambiguità delle “contaminazioni” tra le due identità del muck-raking. Lascio a voi l’invito a discuterne, con una notazione che è utile fare, perchè attiene direttamente all’anslisi dei processi della comunicazione: la teoria dell'”effetto consumato”, che sostiene che, un a volta emesso il messaggio, questo consuma il suo risultato, e questo risultato non sarà più cancellato (o comunque sarà cancellato solo in minima parte) anche qaundo il messaggio venga successivamente smentito. In aggiunta: chi ricorda più le ragioni – la difesa della legalità nell’azione politica – che hanno mosso Fini alla sua denuncia critica? chi le ricorda più, dopo la campagna de “il Giornale”?

Una sola osservazione finale: se il potere politico può usare con tanta spregiudicatezza al proprio servizio il giornalismo, allora davvero questi si vanno facendo tempi bui assai, non solo per il giornalismo ma anche per il ruolo di una opinione pubblica che è tale – come insegnava Pulitzer – soltanto quando è informata correttamente. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume Sport

L’Italia fa fiasco nel calcio. Nella politica. Nell’economia. Nella democrazia. Nella giustizia. Nei conti pubblici. Nella disoccupazione.L’Italia fa fiasco nel governo.

La stampa straniera ci deride, L’Equipe: “Italia, l’altro fiasco”-tgcom.com
Un misto di ironia e triste realtà nei titoli dei quotidiani online dopo la debacle azzura ai Mondiali sudafricani. I francesi de L’Equipe titolano “Italia, l’altro fiasco” riferendosi proprio alla loro eliminazione. In Spagna Marca titola in italiano: “Arrivederci Italia” e As: “Ridicolo Italia, fuori dal Mondiale”. Il Sun scrive anche: “Arrivederci”. Infine Bild: “Italien raus, quelli che nel 2006 hanno fatto kaputt della nostra estate di sogno”.

In Italia La Gazzetta dello Sport scrive “A casa con vergona”, mentre Tuttosport non ha dubbi. C’è un solo colpevole: Lippi. Il Corriere dello Sport titola: “Italia che vergogna, fuori e ultima nel girone”. Passando ai generalisti. “Mai così brutti: l’Italia torna a casa” scrive La Repubblica e Il Corriere della Sera: “Italia, addio al Mondiale”. Infine La Stampa: “Naufragio Italia, si torna a casa”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Società e costume

Berlusconi e il suo solito show da guitto di periferia. Che palle.

Show del premier al Quirinale-corriere.it

Giardini del Quirinale, ricevimento per la festa della Repubblica del 2 giugno. Occasione per uno show del premier Silvio Berlusconi. Che non risparmia nessuno: Bersani, Rutelli, alcuni alti prelati, la mamma di un magistrato.

RUTELLI – Il premier dunque è in vena di scherzi e battute. Una signora gli si avvicina e dice: «Presidente, sa che mio figlio è il più giovane magistrato d’Italia?». Risposta: «Poverino, sarà disperato». Poi Berlusconi incontra Francesco Rutelli e la moglie Barbara Palombelli. «Ma come mai è sempre abbronzato?» chiede il premier alla giornalista. Rutelli abbozza una difesa d’ufficio, ma il Cavaliere lo precede: «Ho capito – dice alla moglie -, tu lavori e lui lo mandi al mare». La Palombelli accetta lo scherzo e critica i politici: «Presidente, si sa che non fanno niente». Berlusconi la corregge: «No quelli che governano hanno da fare, sono quelli dell’opposizione che non fanno niente».

BERSANI – Poi arriva lo “sketch” con Bersani. Il premier sta rassicurando un’invitata sulla sua presenza alla parata di mercoledì: «Ci sarò sicuramente, faccio parte della banda». Si accorge della presenza del leader del Pd: «Io faccio la banda ma lui fa la cavalleria; è sempre all’attacco, è inesauribile. Ogni giorno ce ne ha due o tre, mica solo una. Ha una costanza…». Pronta la replica di Bersani: «Faresti meglio a pensare a Bonaiuti: quanti stipendi gli dai? Due o tre?». «No, lavora gratis» ribatte il premier.

CESA E CONTI – Nel mirino del premier anche Lorenzo Cesa e l’ad dell’Enel Fulvio Conti: Berlusconi rivela (fra il serio e il faceto) di aver offerto ai centristi il posto di ministro dello Sviluppo economico aggiungendo però che il partito di Pier Ferdinando Casini «ha preferito restare in vacanza». Poi tocca al sondaggista Renato Mannheimer: «Nonostante lui ho ancora il 62% dei consensi». Di Mario Baldassarri (presidente della commissione Finanze del Senato) dice – a una signora che lo accompagna – che è «saggio ma molto focoso».

PEDOFILIA – Infine arriva il turno di alcuni alti prelati. Berlusconi dice loro di aver difeso «accoratamente» la Chiesa cattolica sotto attacco per gli scandali di pedofilia. Prima però ha raccontato di uno scherzo che gli è stato fatto a una cena di compleanno: un signore travestito da monsignore si è improvvisamente messo a cantare per poi togliersi l’abito talare e rivelarsi un cantante di professione. «Mi ha persino dato la benedizione» dice il premier, aggiungendo infine: «E io che avevo fatto anche una difesa così accorata della Chiesa per alcune cose che stanno accadendo».

GELO CON FINI – L’unico che non può godere dell’inesauribile buon umore del premier è Gianfranco Fini, al quale viene riservata una fugace stretta di mano lontano da occhi indiscreti. Durante il ricevimento il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, accompagnato da Elisabetta Tulliani, si sono praticamente ignorati evitando qualunque contatto. Anche con i giornalisti il premier ha mantenuto il più assoluto silenzio, tacendo sull’attacco israeliano alle navi dei pacifisti e sulle questioni di politica interna, come il ddl intercettazioni. «Parlo solo con dichiarazioni ufficiali, tutto quello che dovevo dire l’ho detto» spiega.
Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Società e costume

“La memoria è l’anima della civiltà e della cultura.”

Il futuro della memoria, di Dino Messina-http://lanostrastoria.corriere.it/2010/05/il-futuro-della-memoria.ht

Quale avvenire per la memoria? Sembra un gioco di parole ma è uno dei temi cruciali del mondo contemporaneo, assediato da un fiume di informazioni, da un eccesso di dati. Non a caso questa domanda ha dato il titolo a uno degli incontri più seguiti al Salone del libro, con Umberto Eco affiancato da Patrizia Violi e Maurizio Ferraris. “Senza memoria – ha esordito Eco con la consueta verve – non si può andare né in paradiso né all’inferno. Se non metti insieme quel che hai visto oggi con quel che è successo ieri affronti la realtà come un drogato. Se non hai memoria perdi l’anima e la memoria è l’anima della civiltà e della cultura. La funzione della memoria non è soltanto di ricordare ma anche di selezionare”.

Ed è su questo punto che mostra tutti i suoi limiti il mondo del web, paragonato a quel personaggio creato da Jorges Luis Borges, “Funes el memorioso”, con una tale capacità di ricordare da essere quasi un prodigioso idiota. “Con il suo eccesso di informazione – ha detto Eco – il web rappresenta una cultura che non ha messo niente in latenza e che a volte ci impedisce di capire”. Inoltre questa informazione enorme rischia di scomparire. Chi ci garantisce, si è chiesto lo scrittore e semiologo, che gli attuali supporti informatici abbiano la stessa capacità di durata della carta? “Oggi un computer non riesce a leggere un floppy disk di dieci o quindici anni fa mentre riusciamo ancora a studiare un incunabolo di cinquecento anni fa”.

Il paragone tra carta e web riguarda naturalmente le enciclopedie. Anche Umberto Eco consulta Wikipedia, l’enciclopedia on line controllata dal basso, dalla comunità, “che tuttavia non è la comunità scientifica”. E’ vero che esiste un comitato che controlla le voci ma non lo fa con tutte: “Nella biografia a me dedicata per esempio avevano scritto che ero sposato con la figlia del mio editore. Un’invenzione totale. Il rischio – ha concluso Eco – è di un disfacimento medioevale dove vale soltanto la voce della tradizione senza un vero controllo”. E, ritornando alla triade iniziale, ha scandito il professore, “se la memoria è l’anima della cultura, SOS”.

Selezionare, ragionare sui fatti, costruire memoria è compito essenzialmente degli storici, cui ieri sono stati dedicati due incontri di particolare rilievo: “Dalla memoria alla storia” di Giovanni De Luna, e la discussione tra Ernesto Galli della Loggia e Francesco Traniello, con Roberto Righetto di “Avvenire”, “Memoria e oblìo. 150 anni di storia d’Italia”. De Luna si è misurato con il problema delle tantissime leggi sulla memoria, una campo nient’affatto neutrale: “Perché per esempio per ricordare le vittime della Shoah è stata scelta la data del 27 gennaio 1945, giorno della liberazione di Auschwitz e non il 16 ottobre 1943, giorno della deportazione nel ghetto di Roma? Evidentemente si voleva far passare in secondo piano le responsabilità italiane”.

Tra le tante leggende riaffioranti in questi anni sul processo unitario, Galli della Loggia ha criticato tra le altre la vulgata che vuole il Mezzogiorno penalizzato dal processo di unificazione nazionale: “Al Sud gli analfabeti erano l’80 per cento della popolazione, contro una percentuale del 40-50 al Nord. Le regioni settentrionali avevano per esempio l’85 per cento della produzione della seta e esportavano soprattutto in altri Paesi europei. C’è da chiedersi perché sia nata e si sia diffusa questa leggenda”. Una delle risposte è che le tre grandi ideologie, il cattolicesimo politico, il comunismo e il fascismo hanno sposato la tesi del Risorgimento incompiuto fatto ai danni delle popolazioni meridionali.
Se la memoria è uno strumento inerte quando manca la selezione, senza l’analisi storica può essere anche dannosa.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Per Draquila della Guzzanti una grande campagna pubblicitaria, con Bondi, Brambilla e Bertolaso come testimonial.

Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, ha «declinato» l’invito a partecipare al prossimo festival di Cannes, esprimendo «rincrescimento e sconcerto per la partecipazione di una pellicola di propaganda, Draquila, che offende la verità e l’intero popolo italiano».

Draquila è un docufilm satirico scritto e interpretato da Sabina Guzzanti, sulla vicenda della ricostruzione de L’Aquila, colpita dal terremoto.

Giorni fa il ministro del Turismo Micaela Brambilla ha detto: “Mi riservo di dare mandato all’avvocatura dello Stato per i danni che queste immagini potrebbero arrecare al nostro paese. Queste immagini mi indignano e mi offendono ancor prima come cittadino che come ministro. E’ ora di finirla di gettare discredito sul nostro paese. La sinistra da mesi critica e cerca di buttare fango sulla nostra Italia”.

Ma il primo a urlare alo scandalo è stato il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso: “Portando Draquila a Cannes credo che l’Italia non farà una bella figura. Presto, prestissimo, si parlerà di noi e dell’Aquila, a un festival del cinema si presenterà una verità che non è ‘la’ verità ma, appunto ‘una parte’ di verità”.

Se queste cose avessero un senso, allora dovremmo dire che tutta la stagione del neo-realismo italiano, per esempio, ha gettato discredito alla rinascita e alla ricorstuzione dell’Italia post-bellica. Cosa, che tutti sanno è risultata essere stata proprio l’esatto contrario.

D’altro canto c’è poco da stupirsi: per quanto sia avvilente, questa è la realtà del livello politico e culturale degli uomini e delle donne del nostro attuale governo. Per far bella figura davanti al loro capo, il Cavaliere, non si rendono neppure conto che sono proprio queste insensate dichiarazioni di servilismo che gettano discredito sul nostro Paese.

Parole che fanno il verso ai quei tempi bui e feroci, quanto cialtroni e ridicoli in cui la Cultura di questo paese era diretta dal famigerto Minculpop, il ministro della propaganda durante il Fascismo.

Detto questo, c’è da notare un risvolto incredibilmente grottesco: così facendo, i membri del governo stanno interpretando, inconsapevolmente e gratuitamente, il ruolo di testimonial di una inedita campagna pubblicitaria a favore di Draquila, che a questo punto rischia seriamente di vincere un premio a Cannes. Da non credere. Beh, buona giornata.

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Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Scorie di tutti i giorni.

di Marco Ferri – da 3D, inserto di Terra.(pubblicato anche su megachipdue.info)

“Viviamo in un mondo di merda”. Niente di più vero, niente di meno retorico. Ora una giornalista inglese, Rose George, ha sostanziato questa affermazione, facendo la sua personale indagine su come e quanta sostanza organica producano gli umani. In un libro inchiesta che si chiama “ Il grande bisogno”

ci informa di come e quanto sei miliardi di persone si svuotino le viscere tutti i giorni, più o meno in contemporanea, a seconda dei rispettivi fusi orari.

Certo, se sei nato in paese ricco, la fai nella tazza. Se sei nato in paese povero la fai dove capita. La cosa più gustosa (con rispetto parlando) è che l’autrice del libro in questione divide il mondo in due categorie: quelli che si siedono e quelli che si accucciano (dietro un albero, in un vicolo, in mezzo a una strada).

In effetti, bisogna dire che anche “ il grande bisogno” risponde alle leggi del mercato. Se sei nato nel mondo “ricco”, la fai in una tazza di ceramica, hai a disposizione della carta “igienica” per strofinarlo, e magari anche un altro apparato, dotato di acqua calda, per pulire l’origine della nefandezza e un morbido asciugamanino per rendergli l’estremo, confortevole omaggio. Se sei un pezzente, “vai a cacare” dove capita.

La lotta di classe passa anche per la tazza del gabinetto: se sei un operaio, un impiegato, un precario, vai nel bagno comune. Se un quadro, un dirigente hai il tuo WC. Se poi sei il capo, vuoi mettere: una bella seduta confortevole, igienizzata, in una vera stanza da bagno, spaziosa e profumata, ti da il senso del comando: una vera e propria cacata da Re. Senza contare che se sei nato in una metropoli moderna, tiri l’acqua e tutto sparisce. Va nelle fogne. E chi si è visto si è visto. Se sei nato nel momento sbagliato e nel luogo sbagliato, allora sei nella merda fino al collo: l’escremento rimane lì e da li fa danni, all’ambiente, alla salute.

La gente si ammala e magari ci muore di malattie infettive. Perché quella, lei, è proprio stronza: diffonde malattie, peggio di un’arma di distruzione di massa. Certo anche qui il problema è che se sei nato nel mondo dei WC, hai il privilegio di lavarti il sedere con l’acqua potabile. Se sei nato nella parte sbagliata, sei nella merda fino agli occhi: non hai acqua da bere, figuriamoci per fare il bidè.

Per noi occidentali, che la facciamo nella tazza, e a volte la facciamo pure fuori dal vaso, le fogne sono un “luogo non luogo”, da utilizzare come figura retorica: “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”, tanto per fare un esempio. Ma per chi si accuccia e la fa quando proprio gli scappa, beh, le fogne sono un miraggio, una conquista sociale, un traguardo del benessere. Anche da noi, d’altro canto, il sistema fognario è spesso la prova provata che il quartiere non è più abusivo: il palazzinaro ha tirato su case, poi arriva il Comune che deve fare strade, allacciare acqua, luce e telefono e, finalmente, fare le fogne.

E’ uno sporco lavoro, certo, ma con un poco di mazzette qualcuno lo deve pur fare. Rimangono tracce di sporco, sbaffate di malaffare, olezzo di corruzione.

Ma così va il mondo. Una volta c’era una scritta, nei bagni di un liceo romano. Così recitava: “Chi col dito il cul si netta, presto in bocca se lo metta, resterà così pulito, carta, culo, muro e dito.”

Ogni riferimento al rapporto tra la cacca e la classe dirigente di questo nostro bel paese è assolutamente intenzionale. Serviva per restare in argomento, senza cambiare discorso. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche Società e costume

La Sindone esposta in questi giorni a Torino è un falso. Perché nel Terzo Millennio la fede cattolica ha bisogno di venerare relique e insistere ancora sugli aspetti feticistici e superstiziosi di questa come di tante altre «devozioni popolari»?

di Paolo Flores d’Arcais, da MicroMega 4/2010, in edicola

La Sindone esposta in questi giorni a Torino è un falso. O meglio, è un vero telo di lino di produzione medioevale, ed è vero – al di là di ogni ragionevole dubbio – che non ha nulla, ma proprio nulla a che fare con il corpo di un profeta ebraico itinerante in Galilea ai tempi dell’imperatore Tiberio, morto per crocefissione a Gerusalemme sotto l’imputazione di lesa maestà all’impero romano. (….) Eppure, basterebbe confrontare quanto sappiamo dalla lettura critica dei vangeli sulla sepoltura di Gesù, per escludere che la Sindone di Torino abbia qualcosa a che fare con il suo corpo.

Basterebbe confrontare quanto ricaviamo dalle sepolture ebraiche di quell’epoca per giungere ad analoga esclusione.

Basterebbe prendere atto che quando in epoca medioevale la Sindone compare per la prima volta, il primo vescovo che se ne occupa la presenta esplicitamente e tassativamente come un artefatto di un artista dell’epoca (dando perfino ad intendere che sia noto il «chi»). Basterebbe prendere atto che l’analisi del tessuto, delle fibre, della lavorazione, esclude che il telo sia collocabile per la sua produzione nella Palestina dell’occupazione romana, e affermi che le sue caratteristiche coincidono invece con i manufatti medioevali.

Basterebbe prendere atto che l’impronta di un volto umano avvolto in un lenzuolo, una volta che il lenzuolo venga steso, ha una larghezza pressoché doppia di quella della Sindone – è il noto effetto della maschera di Agamennone, che ciascuno può riprodurre con se stesso – e che lo stesso effetto di «dilatazione» dell’immagine, benché in misura minore, dovrebbe aversi anche per il resto del corpo.

Basterebbe riconoscere che i rivoli di sangue (presunto sangue) avrebbero dovuto colare in direzioni completamente diverse, e del tutto diversi dovrebbero essere i segni (presunti) della flagellazione. Basterebbe prendere atto che la prova regina per ogni datazione di reperto archeologico, quella del carbonio 14, affidata dalla curia di Torino a tre laboratori internazionali di sua scelta, ha dato unanime e inequivocabile risultato: epoca medioevale, tra metà del Duecento e metà del Trecento.

Basterebbe prendere atto che tutti i tentativi per rimettere in discussione questi risultati, scoprendo pollini o monete ad hoc, sono stati tutti ridicolizzati da riscontri critici attenti e circostanziati (che il lettore paziente potrà trovare in questo volume).

Basterebbe non dimenticare che la fede non dovrebbe aver bisogno di reliquie, come non smise mai di sottolineare la Riforma, che stigmatizzava il carattere feticistico e superstizioso di questa come di tante altre «devozioni popolari».

Basterebbe infine ricordare che fu il cardinal Ballestrero, arcivescovo di Torino, a riconoscere che l’esame al carbonio 14 segnava la parola fine ad ogni disputa e doveva essere accettata da tutti i credenti. Ma tutte queste evidenze, ciascuna delle quali già da sé risolutiva, non serviranno a nulla.

Chi oggi vive nell’Italia di Berlusconi e Ratzinger non vive in un paese dell’Europa moderna, tale perché ha metabolizzato tre secoli successivi all’illuminismo, ma in un luogo geostoricamente oscuro e indefinibile, dove l’unica cosa certa è che il modello di razionalità e di scienza, quando va bene, è un’incredibile trasmissione di superstizioni chiamata Voyager, mentre l’accertamento dei fatti, lo spirito critico, l’uso della logica, sono additati urbi et orbi come il nemico e il male da cui libera nos. Amen. (Beh, buona giornata).

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