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Che fine ha fatto la dizione corretta?

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

È noto come in Italia la televisione abbia contribuito alla capillare diffusione della lingua italiana tra gli italiani. E anche tra gli stranieri residenti nelle nostre città, per non dire di alcune aree geografiche del Mediterraneo.

Per molti anni questo fatto ha creato negli addetti ai lavori la consapevolezza dell’importanza della corretta dizione delle parole che compongono le frasi.

Prima a teatro e alla radio, poi al cinema infine nella tv, generazioni di doppiatori, attori, giornalisti radiotelevisivi, speaker -ma anche autori, sceneggiatori dialogisti, e copywriter – si sono impegnati a fare della lingua italiana una veicolo di coesione linguistica del pubblico

Poi, ahinoi, la tv si è trasformata in qual troiaio del marketing, dandosi alla depravazione dei reality, ma anche del talk, in cui mezze figure straparlano, sbagliando gli accenti, i tempi verbali, oltre che le citazioni storiche o geografiche.

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

Attualmente una fanciulla sussurra cose incomprensibili a proposito di una passata di pomodoro, per poi piazzare una bella z al posto della s nella parola sapore.

Per non dire delle e aperte che ormai dilagano, che fanno tanto nord Italia, quindi trend (con la é).

Poi la catastrofe. Una ex velina che viene fatta passare per una diva già è poco credibile quando ci dice qual è il suo “segret”.

Poteva essere credibile quando la testimonial di quell’acqua oligominerale era Cindy Crawford, la cui leggendaria bellezza sembrava resistere all’usura del tempo, proprio grazie a quell’acqua.

Quando l’ex velina ha preso il suo posto, bè, quel “my segret” ha assunto un che di poco elegante, improvvisato, un errore di strategia: prodotto e testimonial hanno smesso quella sinergia che faceva credere plausibile il connubio.

Non paghi, al marketing dell’azienda dell’acqua in questione, hanno definitivamente sbragato, quando in una delle ennesime versioni, fanno dire all’ex velina: “che buono é?!”.

È un’esclamazione in slang meneghino che credo si vergognano ormai di dire anche nei negozi del parrucchiere dell’interland.

Sarebbe facile sostenere che quella campagna pubblicitaria fa acqua. Il fatto è che fa pena, sta in piedi solo perché è spalmata a tutte le ore in tutti i canali, pubblici e privati.

Tanto per dimostrare che l’ossessiva ripetizione del messaggio è la prova provata del niente da dire di interessante per lo spettatore, il consumatore, e, – ciò che è alquanto sconcio-, neppure per chi paga il canone.

Ecco allora il punto: pronunciare male le parole, per cercare il consenso attraverso regionalismi è uno sforzo degno di miglior causa, che dovrebbe, invece, essere la ricerca di un’idea forte e credibile.

Facile da capire, facile come bere un bicchiere d’acqua fresca.

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Attualità

Parla con me, non col tuo telefono.

 Odio quelli che in pubblico parlano al telefono in vivavoce, esattamente come quelli che guardano video ad alto volume senza curarsi di quanti stanno loro intorno.

Per tanto, se ricevo un messaggio vocale, mi tocca cercare in tasca le cuffiette, indossarne una per orecchio, e poi premere il triangolino per ascoltare ciò che avresti benissimo potuto telefonare o scrivere, attività che ti avrebbero almeno costretto a pensare prima di dire cose che nella maggior parte dei casi potevi esprimere meglio.

Perché io devo subire la perdita di tempo, nonché di considerazione, che tu hai voluto risparmiare?

Una cosa avevano di buono le chat, inducevano a scrivere, come fosse una lettera, con tanto di formule di cortesia e cenni di saluto.

Poi tutto è stato vanificato dalla maledetta fretta di aprire bocca. Così che i cosiddetti vocali non sono più messaggi, ma chiacchiericcio solipsista da remoto, non sono più scambio, ma imposizione unilaterale.

Perché è chiaro che tu non parli con me, ma col tuo telefono. Sei liberissimo di farlo, il telefono è tuo. Ma la domanda è: perché dovrei io parlare col tuo telefono?

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Non chiamatelo Me Too.

Premesso che ammiro le giovani donne che hanno avuto il coraggio di denunciare – sia pur in forma anonima e confidenziale – i soprusi a sfondo sessuale subiti da maschietti singoli o in branchi, rimane il problema che tutto quanto è avvenuto è ancora nella bolla del sentito dire.

È stato detto – correttamente – che in assenza di atti formali che avessero permesso all’autorità giudiziaria di entrare nel merito, non ci sono possibilità di andare oltre generiche dichiarazioni di scuse o tardivi lacunosi pentimenti, nonché aleatorie autosospensioni da associazioni di categoria.

Anche le denunce a mezzo stampa a un certo punto sono costrette a fermarsi, perché le illazioni devono lasciare il posto ai fatti, accertati e verificati. “Io so i nomi….ma non ho le prove”, ci ha insegnato una volta Pasolini.

Nel nostro ordinamento le responsabilità penali sono individuali, se non si individuano i responsabili non c’è storia da raccontare.

Anche le responsabilità “ambientali” si stanano solo a fronte dell’accertamento di precise circostanze, che vedano i responsabili essersi avvalsi di omertà o complicità.

C’è anche da dire che la distanza tra gli accadimenti emersi e il tempo trascorso prima che fossero resi noti è risultato oltre i limiti stabiliti per legge, e nessuno può immaginare che si apra un fascicolo a distanza di sei o sette anni per fattispecie penali che prevedono 12 mesi di tempo per la denuncia.

Il punto è che la semplice disapprovazione non risolve la questione, la quale tanto lentamente è venuta a galla, quanto velocemente si riassorbirà nel vortice degli accadimenti individuali e collettivi delle nostre esistenze.

La cosa peggiore, – che risulterebbe una ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di chi è stata vittima delle molestie – è aver riaperto quelle ferite solo per farne oggetto di estemporanee attenzioni estive, vagamente scandalistiche, con cui indignarsi un po’, per poi passare ad altro gossip.

Vittime, carnefici e complici sono tutt’ora legati fra loro da un reticolo di omertà. Esattamente quel reticolo di ricatti morali e materiali che il “Me too”, quello esploso nel mondo del cinema è stato capace di scardinare.

Nel nostro caso, non c’è stato ancora nessun “anch’io”. Questo è il problema. E c’è da essere certi che in Italia la questione delle discriminazioni, delle disparità e delle molestie non riguardi solo e soltanto l’ambiente della pubblicità.

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FERMIAMOLI.

La classe dirigente della Ue ha condotto l’Europa al declino economico, democratico, politico e sociale.

Sperare che la guerra in Ucraina abbia la capacità di rilanciare l’Unione è una chimera sporca di fango e sangue, sa di polvere da sparo e di uranio.

La prospettiva che si prefigura è che la guerra duri ancora a lungo, arrivi fin dentro la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e continui per tutto il 2024 fino alle elezioni Usa.

È pura follia genocida, è la disperazione politica di chi teme il crollo dell’egemonia occidentale nella globalizzazione dei mercati.

Ci stanno spingendo verso la catastrofe. La barbarie prodotta dalla crisi del capitalismo finanziario va fermata. Ora.
Pace, diritti, redistribuzione della ricchezza devono essere i ricostituenti delle democrazie europee.

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Il quadro politico.

In Italia, la sinistra perde le elezioni alle quali in effetti da qualche anno manco si presenta.

La destra, invece, tende a vincere le elezioni alle quali non si presentano gli elettori.

Il quadro politico è fissato così male, che la società non coincide più col sistema democratico, solo gli interessi forti, che hanno la loro rappresentanza lobbistica in Parlamento e nel governo, sono perfettamente a loro agio.

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Attualità Finanza - Economia Leggi e diritto Politica Potere

Prove tecniche di regime.

Doppio arzigolo carpiato con avvitamento a destra per la privatizzazione del Pnrr.

“Se qualcuno dice ‘vuoi togliere il controllo concomitante sulle amministrazioni pubbliche?’ la risposta è fermamente no, ma se mi dici ‘sul Pnrr ritieni che la disciplina dei controlli possa essere rivista, assegnando una primazia ai controlli comunitari rispetto ai controlli nazionali, la risposta è sì, ma non perché non vogliamo controlli ma perché vogliamo che i controlli siano i controlli comunitari che consentano, loro sì, una omogeneità di visione perché vengono fatti a consuntivo e non in corso d’opera.

Anche perché talune difficoltà legate al Regis (la piattaforma dove le pubbliche amministrazioni inseriscono i dati sui progetti del Pnrr) possono aver indotto determinate relazioni di controllo a uscire con dati non sempre correttissimi, o magari non aggiornati all’ultimo minuto. Poi magari la polemica mediatica fa tutto il resto”.

Chi parla è tale Federico Freni della Lega, sottosegretario al Mef che, come tutti i componenti del governo, è impegnato a mettere fuori controllo i piani di attuazione del Pnrr, invece che fare di tutto per stare nei tempi per accedere regolarmente alle nuove rate di finanziamento.

Una vera e propria vergogna politica e istituzionale, un capovolgimento dei veri motivi delle inadempienze verso gli obblighi previsti per la gestione dei fondi comunitari.

Cercano il colpevole della loro inettitudine nella magistratura contabile, per creare le condizioni che favoriscano la gestione dei fondi da parte di privati e senza controlli.

Vogliono solo “privatizzare” il Pnrr, trasformandolo in un veicolo di consenso verso i soliti potentati, invece che di crescita per uscire dalle strettoie economiche post pandemiche.

Come sempre, alla borghesia italica importa solo il tornaconto immediato, piuttosto che le strategie di crescita; compra privilegi come buoni contro termine; preferisce privilegi oligarchici e corporativi in cambio della sovranità delle regole costituzionali, della correttezza istituzionale.

Ai liberali, intrisi di liberismo, non dispiace l’autoritarismo, se supporta il capitalismo, togliendo di mezzo ogni intermediazione delle istituzioni democratiche. Compresa la Corte dei Conti.

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Lasciatela in pace.

L’aver trasformato i quotidiani in rotocalchi ha spesso aspetti grotteschi, come quando s’investiga sui Rolex che una subrette avrebbe fatto sparire per dispetto del calciatore da cui si sta separando.

Stavolta invece il fatto è grave, perché riguarda una giovane donna di cui si fa nome e cognome, si indica l’età, il nome della madre, il nome di un fratellino nato da una relazione della madre, il luogo in cui vive, e, in pieno stile da giornale scandalistico, si pubblica addirittura una sua foto.

Il fatto che sia la figlia di un superlatitante – che tanto latitante pare proprio non sia mai stato, ed è su questo che l’attenzione della stampa si dovrebbe concentrare – non autorizza nessuno a violare la sua privacy.

Che vada o non vada a trovare in carcere il padre biologico sono problemi suoi.

Anche se ci andasse la cosa non avrebbe nessuna rilevanza.

Anche se avesse aiutato il padre durante la latitanza non sarebbe reato, perché i famigliari non sono imputabili di favoreggiamento.

Nel caso poi che la giovane donna di cui si fanno solo pettegolezzi stia vivendo un dramma interiore sulla figura non certo pregevole del padre, questa intrusione nella sua vita è da considerarsi alla stregua di una molestia, di stalking a mezzo stampa, che non fa certo onore alla redazione di Palermo di un noto quotidiano nazionale.

Se è questo il modo per incrementare le vendite locali, siete davvero disperati. Piantatela. Lasciatela in pace.

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È ora di dire basta.

“È ora di dire basta” è andato in scena con la compagnia “Signori chi è di scena!” e la regia di Monica Ferri, il 25 novembre al Teatro San Giustino di Roma.

“È ora di dire basta con la violenza degli uomini”, di Marco Ferri.

Quando mi è stato chiesto un testo sulla violenza contro le donne, sulla base di un corto che avevo scritto e diretto in “Il menù del ghiaccio, trilogia della passione”, – plot narrativo che è poi diventato un racconto dal titolo “Non è questo il modo di uccidere una donna”, selezionato dal premio Calvino e di prossima pubblicazione in “Oltre il velo del reale”, a cura di Franco Pezzini, per i tipi di Meridiano Zero , – non ero molto convinto che si potesse partecipare alle celebrazioni della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulla donne, che si svolge ogni anno il 25 novembre, con un testo teatrale, al quale bastasse aggiungere un prologo che ne rappresentasse il contesto.

Qualcuno ha scritto che è sempre meglio evitare le celebrazioni, perché il rischio della captatio benevolentiae verso il pubblico è una trappola retorica, in cui la foga dell’evento mal si addice al linguaggio del teatro.

Nel mio testo precedente la vicenda è l’intima, violenta, disperata contraddizione tra i sessi per il predominio della passione amorosa nella vita di coppia. In “È ora di dire basta”, invece, il discorso si fa politico, in senso lato. 

Una riflessione sulla pièce teatrale.

La giornata nasce, infatti, da un fatto politico, l’assassinio di tre donne da parte di un dittatore sudamericano.

Dunque, si poneva un ragionamento che collocasse un episodio specifico, diventato un efferato crimine politico, come viatico per entrare in una vicenda di pura invenzione teatrale, ancorché emblematica.

La cosa non si poteva risolvere solo dal punto di vista della macchina scenica. 

Mi sono, allora, reso conto che era in agguato un’insidia, cioè ridurre tutto a un fatto di costume, invece che fargli fare un salto in una visione d’insieme, errore che si corre quando si pensa, per esempio, a una generica parità di genere, appunto, o si tessono teorie attorno al tetto di cristallo, come se bastasse promuove qualche donna al comando del potere maschile per risolvere una questione che è invece uno dei problemi fondamentali della vita sociale in un’economia capitalistica.

La messa in scena ha incontrato il favore del pubblico.

La subalternità femminile è un fatto storico, ha a che vedere con l’evoluzione dell’organizzazione sociale e produttiva, andrebbe vista sotto il profilo dell’economia politica, e della lotta per il cambiamento della condizione materiale, si rifà alla divisione del lavoro, al potere patriarcale che si ripercuote nell’atavica divisione dei ruoli, da cui dipendono anche le ripercussioni psicologiche e i comportamenti privati.

“Il personale è politico” dicevano le femministe negli anni Settanta.  “Basta guerre sui nostri corpi”, affermano oggi le donne impegnate nel movimento Non una di meno.

 Forse, in un certo senso, questa è la chiave interpretativa di “È ora di dire basta” il cui sotto titolo è “con gli uomini che uccidono”, che comprende un prologo che inquadra la problematica in una modalità spettacolare, quasi da flash mob; un primo quadro in cui il protagonista è un lui violento, ma sconfitto; un secondo in cui c’è una lei vittima, ma niente affatto vinta; per concludere con un colpo di scena che ci riporta alle contraddizioni che la nostra quotidianità dovrebbe affrontare, usando tutti gli strumenti del cambiamento di prospettiva, a cui il linguaggio del teatro può contribuire e non solo rappresentare. 

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Estinti Saluti, due libri in uno.

“Sono le short-stories, i racconti brevi, rapidi canti, sapidi di autenticità testimoniale, narrativa  di un’era aurea della pubblicità italiana. Non è la riproposizione di quella irripetibile esperienza che si vuole  affermare nel libro, ma la testimonianza del senso, della carica innovativa nel linguaggio della comunicazione proprio dentro l’imposizione omologante che la merce inesorabilmente in sé reca. (Riccardo Tavani, su stampacritica.org)

A Gabriele Qualizza (1962-2022) 

che ha dato un importante 

contributo a questo libro, 

ma un malore improvviso

 gli ha impedito per sempre 

di vederne la stampa.

Un saggio che sembra un romanzo di formazione.

Estinti Saluti (Fausto Lupetti Editore, 2022) che è in uscita in questi giorni, è stato definito un saggio che sembra un romanzo di formazione. Perché questa doppia lettura?

Publio Advertito Crea, l’autore – che è in realtà lo pseudonimo, un nome collettivo di ben 66 autori -, ha raccolto e organizzato le testimonianze di creativi pubblicitari italiani degli ultimi trent’anni, e, come in una ricerca antropologica, raccontano in presa diretta episodi salienti della loro esperienza professionale.

Un’antropologia della coesione creativa, che ha resistito fino alla fine alla mutazione del conformismo, che anzi il conformismo ha cercato di prenderlo in giro, come attitudine a non piegarsi all’antropologia dell’omologazione, come l’avrebbe definita Pasolini. 

Dunque, la prima lettura è un gustoso romanzo di formazione, fatto di tante storie, spesso molto divertenti, ma anche emblematiche e sorprendenti, che restituiscono il clima, le pulsioni, il vissuto di più generazioni professionali impegnate nella comunicazione commerciale. 

Ed è così che vengono fuori cose interessanti: non solo il rapporto con i committenti dei diversi settori commerciali, il cliente, ma il robusto contatto con la realtà politica, economica e sociale del paese, le antenne sempre pronte a cogliere i significati e i significanti che attraversano la società e la cultura di massa, come se i creativi fossero veri e propri sensori che sanno individuare con utile anticipo il nuovo che si muove nei modi di pensare, di dire, di vedere le cose.

E poi, la grande curiosità nel ficcare il naso ovunque vi sia qualcosa che possa alimentare un’intuizione e poi far nascere un’idea che partorisca una campagna. 

Ma eccoci già nel secondo libro, cioè nel saggio. Grazie alla prefazione di Gabriele Qualizza, che è stato docente di Sociologia dei media all’Università di Udine, si entra nello specifico delle teorie e delle pratiche della comunicazione moderna, su cui questo volume ha molto da dire.

Il rapporto conflittuale tra la cultura creativa e le logiche dell’azienda viene da lontano, riguarda il linguaggio, cioè la forma e la sostanza della comunicazione.

“Televisione e giornali sono stati i primi a registrare questo cambiamento epocale per il quale ‘centri creatori, elaboratori e unificatori di linguaggio, non sono più le università, ma le aziende”, scrive Francesco Virga, citando Pier Paolo Pasolini (“Eredità dissipate, Gramsci-Pasolini-Sciascia”, Diogene Multimedia 2022).

Perché la questione dell’efficacia del messaggio è sempre quella domanda basica che si faceva Henry Ford: è più efficace la creatività o i mezzi su cui viene veicolata verso il consumatore?

Questo dubbio amletico ha sempre attanagliato gli investitori pubblicitari, fin dai tempi in cui la pubblicità era solo sulla stampa, per poi arrivare alla cartellonistica, alla radio e soprattutto alla televisione e, attualmente, sul web. Ovviamente la realtà di oggi non è più quella di Henry Ford. 

“Come Ford aveva attinto al nuovo consumo di massa, Apple è stata tra le prime aziende a raggiungere il successo commerciale intercettando la domanda di una forma di consumo individuale proveniente da una nuova società di individui. Un’inversione resa possibile dall’avvento dell’era digitale, che ha fornito gli strumenti per spostare l’obiettivo dal consumo di massa al consumo individuale, liberando e riconfigurando attività e beni del capitalismo”, ci ammonisce Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”, LUISS 2019).

Uno dei tanti annunci teaser che hanno accompagnato il lancio del libro.

Tuttavia, la domanda che genera il dubbio è questa: bisogna investire in buone idee o concentrarsi in tanti mezzi di comunicazione di massa? Ovviamente, il punto di vista dei creativi è intuibile: il moltiplicatore della reputazione di una marca, da cui deriva il successo dei suoi prodotti, è nella qualità delle idee. Diceva Emanuele Pirella (1940-2010) che una marca deve essere scelta per “simpatia, per amicizia, per stima”. 

Ecco che è ancora il Vincenzo Virga di Eredità dissipate che sottolinea che “Pasolini sa che nel linguaggio della pubblicità ‘il principio omologatore e direi creatore è la tecnologia’.” (Ibidem).

In realtà, come Howard Gossage (1917-1969) ci ricordava “La gente non legge la pubblicità, legge solo quello che le interessa. A volte si tratta di un annuncio pubblicitario”. E la cosa, obbiettivamente, vale anche oggi, ce lo dice Cathy O’Neil (“Armi di distruzione matematica”, Bompiani, 2017) quando ci fa presente che tutto sommato anche gli algoritmi sono creazioni di uomini e donne che lavorano per le Big Tech, e che sono fallibili, perché soggetti al comando dell’azienda.

Il che conferma la teoria di Luciano Floridi (“Etica dell’intelligenza artificiale”, Raffaele Cortina Editore, 2022), secondo cui il digitale e l’analogico convivono nell’Infosfera. Vale a dire che scrittura, fotografia e video, sono attività analogiche che convivono con la matematica del sistema binario, che è il linguaggio del digitale. Insomma, affidarsi mani e piedi agli algoritmi, ai motori di ricerca, all’intelligenza artificiale per fare buona pubblicità è come affidarsi semplicemente a un aeroplano per fare un bel viaggio: se non decidi la meta non sarà mai un vero viaggio.

Uno degli annunci della campagna di lancio di Estinti Saluti

Fatto sta che così come per un annuncio su un quotidiano, un’affissione per strada, o un filmato pubblicitario in tv, nessuno legge un post se questo non ha la capacità di attirare l’attenzione, cioè di emergere prepotentemente da quell’oceano in tempesta che è la comunicazione odierna. 

Se poi da quella prima attenzione rimane qualcosa, allora nasce un fatto concreto, per esempio una manifestazione d’interesse attraverso un like, la richiesta di informazioni e magari anche un acquisto, vuol dire che in quell’attenzione c’era qualcosa di buono, cioè c’era una buona idea.

Dunque, se dai tempi dei primi esempi di pubblicità sui giornali inglesi, fino all’universo dei social dell’era digitale, i media hanno condizionato le idee, il successo della pubblicità sta nel fatto che le idee hanno saputo condizionare i media. 

Estinti Saluti attraversa questa dialettica tra le idee e i mezzi che le veicolano. Il passaggio dalla pubblicità sulla carta stampata all’era dello spot  televisivo avvenne all’interno delle agenzie di pubblicità sotto forma di formazione e autoformazione professionale intergenerazionale.

Con l’era digitale, questa dialettica s’è interrotta con una velocità centrifuga imposta dall’avvento del digitale, che ha messo ai margini gran parte del bagaglio professionale di un mestiere che, tutto sommato, non s’insegna, si può solo imparare, perché ha in sé una forte componente artigianale.

Lele Panzeri, che ha curato Estinti Saluti insieme a Till Neuburg, Ambrogio Borsani e Marco Ferri, con un moke up del libro, durante la fase di preparazione della campagna di lancio.

Ed ecco, allora, la funzione di questo libro: riallacciare il dialogo tra generazioni professionali, perché alla destrezza con cui le nuove generazioni di creativi maneggiano la tecnologia cibernetica sappiano aggiungere buone idee, grazie a metodi ed esperienze, attingendo alla ricca storia collettiva dell’advertising. 

Estinti Saluti è un libro nato come fosse una campagna pubblicitaria di quelle belle, da un’intuizione di Lele Panzeri, cui hanno lavorato sodo Ambrogio Borsani, Till Neuburg e il sottoscritto, un libro su cui Fausto Lupetti ha creduto, cioè ha fatto l’editore come si facevano gli editori che hanno contribuito alla diffusione della cultura nel nostro paese. 

Estinti Saluti è un libro pieno di storie vivide e di spunti di riflessione, è serio e allegro, è avvincente e istruttivo, tanto piacevole quanto importante, proprio come un saggio che sembra un romanzo di formazione.

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Il primo saggio che sembra un romanzo di formazione.

A grande richiesta, Estinti saluti è prenotatile ora con una e-mail con scritto semplicemente PRENOTATO indirizzata a: daniele@faustolupettieditore.it. A partire dal 13 novembre è acquistabile nelle librerie on-line e potrà essere ordinato presso tutte le librerie. La distribuzione ordinaria è prevista nel mese di dicembre.

Un racconto in presa diretta dell’epopea dell’advertising italiano.

Dal prossimo 13 novembre, a cominciare dalle librerie on line, è in uscita Estinti saluti, che racconta in presa diretta, spesso con lo stile delle short-stories, episodi divertenti, appassionati, a volte amari, sempre realistici, di quella lunga stagione della creatività italiana, – l’epopea dell’advertising made in Italy -, vista con gli occhi, la mente, la penna, i pennarelli, le idee, le parole di chi la pubblicità italiana l’ha creata, tanto da venire definiti i creativi.

La pubblicità italiana ha una lunga e ricca storia. Nei primi anni Ottanta del ‘900, la comunicazione pubblicitaria in Italia arrivò a essere quotata 2mila miliardi di PIL in lire; alla fine del decennio avrebbe superato i 10mila miliardi, per crescere esponenzialmente con l’avvento della tv commerciale. 

Migliaia di giovani creativi furono attratti dalla pubblicità, diventarono copywriter e art director formandosi nelle agenzie di pubblicità, grazie alle generazione professionale precedente. 

La crisi economica globale del 2004 fece perdere valore di mercato alla pubblicità del 30 per cento, perdita che via via negli anni si è allargata a macchia d’olio su tutti i settori merceologici: quella generazione fu quindi messa ai margini dalla velocità centrifuga con la quale si è poi affermato il digitale, interrompendo la dialettica professionale intergenerazionale.  

Il digitale ha ridefinito la spesa pubblicitaria, i ruoli professionali, l’antropologia del creativo e in sostanza ha cambiato la percezione della pubblicità presso i consumatori. 

L’idea è che Estinti saluti possa essere per tutti un buon viatico alla conoscenza storica di quel mondo, ma anche uno strumento agile per riallacciare le nuove generazioni alle storie collettive e individuali in cui si sono formate le esperienze personali, ha preso vita il clima professionale, la mentalità, il modus operandi, le manie e i tic di quello che un giorno Emanuele Pirella definì “il popolo dei creativi”.

L’autore:

Publio Advertito Crea è uno pseudonimo collettivo di tutti gli autori che hanno dato vita questo libro.

A cura di Lele Panzeri, Till Neuburg, Ambrogio Borsani, Marco Ferri

L’editore:

Fausto Lupetti Editore è la casa editrice specializzata nella conoscenza culturale della comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

La copertina: 

Art director – Lele Panzeri

Copywriter – Marco Ferri 

Illustratore – Victor Togliani

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Questo libro farà testo.

Uno degli annunci teaser nati per il lancio di “Estinti saluti”.

Una ricca produzione di annunci teaser per la campagna di lancio di “Estinti saluti” sta inondando i social, come un sasso analogico nello stagno digitale. Come recita il testo, “ Ci sono libri che è meglio non si dica che non avete ancora letto.” La domanda è: chi ha scritto “Estinti saluti”? La risposta il 12 novembre.

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I partiti hanno altro a cui pensare.

Siamo un paese che, passando da una crisi all’altra, ha perso i pezzi: salari, diritti costituzionali, Stato sociale sono come rottami abbandonati dai partiti in ritirata dalla realtà del paese.

Per cambiare la qualità della vita, del lavoro, delle relazioni sociali bisogna lottare, studiare, organizzarsi.

“Ora siamo costretti da un sistema politico che ha saputo dare il peggio di sé e della sua classe dirigente a votare per lo stesso sistema che ha provocato la crisi politica.”

Sono stati autorizzati 21 miliardi del Nge per finanziare il Pnrr. È la seconda rata.

Potrebbe essere l’ultima non decurtata da sanzioni: von der Leyen lo ha detto chiaro. Qualcuno pensa non avrebbe dovuto dirlo.

Resta però il fatto che questa è la realtà: il paese che ha ricevuto lo stanziamento più alto previsto dal recovery fund, invece che concentrarsi sul modo migliore per investire le risorse, si è messo a giocare con una artificiosa crisi di governo per tuffarsi poi in una campagna elettorale parossistica.

È chiaro perché.

Perché fare propaganda è più facile che mantenere gli impegni presi in sede europea; perché mettere le mani seriamente sulle inefficienze strutturali significherebbe scovare e tagliate i privilegi a piccole e grandi oligarche, alle corporazioni di vario taglio e alle rispettive camarille, che poi sono quelle che forniscono il consenso elettorale.

Ora siamo costretti da un sistema politico che ha saputo dare il peggio di sé e della sua classe dirigente a votare per lo stesso sistema che ha provocato la crisi politica.

La paccottiglia delle promesse elettorali è grottesca nella sua insulsaggine, è talmente fuori dalla realtà che appare lampante la ‘captatio benevolentiae” verso i peggiori istinti reazionari: la richiesta dei pieni poteri è la rappresentazione plastica della crisi irreversibile della democrazia italiana.

È una rappresentazione macabra, nella quale si muovono personaggi che hanno spinto il proprio ego ebbro oltre i limiti della realtà sociale, economica, e dunque politica.

Siamo un paese che, dalla bassa crescita pre-pandemica è passato alla catastrofe del Coronavirus, per poi trovarsi in guerra e annaspare nella crisi energetica, mentre imperterrita la crisi ambientale martella il territorio. Il Covid ha portato il PIL a -9 circa, la ripresa è stata più o meno del 6,5 nel 2021, ben lontana dal pieno recupero. Quest’anno, poi, l’inflazione all’8% e più ha spazzato via illusioni di risalita, e l’aumento del costo del denaro, combinato col costo dell’energia sta facendo strage di propensione alla spesa delle famiglie.

Siamo un paese che, passando da una crisi all’altra, ha perso i pezzi: salari, diritti costituzionali, Stato sociale sono come rottami abbandonati dai partiti in ritirata dalla realtà del paese.

Non andremo a votare per migliorare, ma per non peggiorare. Come se l’esercizio del diritto di voto fosse un antibiotico col quale speriamo l’infezione non dilaghi.

Una cosa però deve essere chiara, perché di importanza vitale: così come sono stili di vita sbagliati che generano le malattie, il voto può essere un farmaco che tampona la malattia, non guarisce del tutto, non elimina il male. Tutt’al più lo può tenere sotto controllo, fino alla prossimo attacco.

Per restituire salute democratica, prospettive di prosperità, bisogna cambiare modo di vivere la politica: fare più movimento, riattivare la circolazione delle idee, recuperare le forze sociali di chi lavora, studia, e sopravvive alle angherie del precariato, delle discriminazioni di genere, di razza, di scelte sessuali, dei nuovi schiavi dello sfruttamento capitalistico.

Gli esclusi dai programmi elettorali, i non rappresentati nelle liste sono la maggioranza del paese, sanno che queste elezioni non risolveranno i loro problemi, non daranno risposte ai loro bisogni.

Per cambiare la qualità della vita, del lavoro, delle relazioni sociali bisogna lottare, studiare, organizzarsi. Nessuno lo farà al loro posto, neppure dandogli un voto.

Mentre i partiti hanno altro a cui pensare, dobbiamo pensare a un altro modo di intendere la democrazia e di fare politica.

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L’aumento del costo del denaro è la mazzata finale.

La “mano invisibile” -tanto cara ad Adam Smith – sfodera gli artigli monetaristici, e favorisce la destra neoliberista, che si prepara al sopravvento.

La Bce sbaglia le previsioni e aumenta il costo del denaro. Un disastro annunciato per i redditi più bassi, in un momento difficile per l’aumento di tutti i prezzi al consumo.

Con il nuovo rialzo dei tassi di interessi, il più alto dall’introduzione dell’euro, la Bce certifica la stagflazione in Europa: inflazione più recessione sono le due lame della forbice che sta tagliando il potere d’acquisto di stipendi e pensioni, dei risparmi e della spesa sociale.

La politica in Italia e nella Ue è stata completamente messa da parte dalla finanza, dimostrando nei fatti la sua completa inconsistenza.

Questa situazione finanziaria che non potrà non avere ripercussioni sul New generation Eu, e di conseguenza sul nostro Pnrr -vista l’incapacità di gestire l’impatto degli aumenti dei costi dell’energia -, accanto alla totale sudditanza alla Nato in politica estera, sancisce il definitivo fallimento della “Coalizione Ursula”, e di ogni tentativo di riproporla in Italia, dopo questa esasperante quanto inconcludente campagna elettorale.

La “mano invisibile” -tanto cara ad Adam Smith – sfodera gli artigli monetaristici, e favorisce la destra neoliberista, che si prepara al sopravvento.

La destra utilizzando il via libera delle oligarchie e il consenso delle nuove piccole e grandi corporazioni, pretende ora “pieni poteri”.

La democrazia è in pericolo perché si è rotto il vincolo dell’uguaglianza sancito dalla Costituzione.

Sta per chiudersi definitivamente la stagione della Repubblica nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro.

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Gorby e sgorbi.

Quando la Storia da cattiva maestra diventa una pessima alunna.

Fu l’utopia di Gorbachov, è diventata la distopia di Putin.

Quello che lega l’era Gorbachov a quella Putin sono le fregature diplomatiche, politiche ed economiche ordite dagli Usa con la vile compiacenza della Ue contro l’Urss prima e la Federazione russa poi.

Una idea predatoria, affaristica e imperialista dell’Est come bottino di Guerra Fredda.

Ieri come oggi, ne fanno le spese, le donne e gli uomini di quella porzione di mondo, esattamente come succede nella sfera occidentale, gli errori, i sotterfugi, le speculazioni finanziarie prodotte dai governi, ricadono, come slavine, sulla vita presente e futura delle persone.

È il libero mercato dello sfruttamento senza scrupoli, che come sempre nella Storia, usa la guerra per dividere e mettere gli uni contro gli altri quelli che invece dovrebbero unirsi contro il comune pericolo, contro lo stesso nemico, come se fosse il destino e non lo stesso sistema capitalistico; dovrebbero unirsi per immaginare e costruire insieme il mondo che abbiamo il diritto di vivere in pace.

Fu l’utopia di Gorbachov, è diventata la distopia di Putin.

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Missione missina.

Si palesa una situazione simile a quella che per decenni fu il terreno della missione del Msi, cioè quella di essere lo spauracchio dell’avanzata delle rivendicazioni operaie e popolari, del protagonismo diritti delle donne,  dei giovani, della difesa dello Stato sociale.

La destra e le paure dell’establishment.

Scrive su Domani Stefano Feltri: “Se oggi Giorgia Meloni può ambire ad andare a palazzo Chigi è anche grazie al cinismo dell’establishment italiano che ha deciso di legittimarla”. 

Manco a farlo a posta, contemporaneamente, Angelo Panebianco scrive sul Corriere: “C’è sempre, nelle elezioni italiane, un “sovraccarico etico” dato che, secondo le minoranze politicizzate, a scontrarsi sono il Bene e il Male. Per la minoranza di destra la parte del Paese che vota per la sinistra è dominata dai comunisti, per la minoranza di sinistra l’altra parte è in mano ai fascisti”. 

Tralasciando il cerchiobottismo, che è il massimo della moderazione raggiungibile dagli argomenti di Panebianco, pasdaran dell’establishment, la bocca buona della borghesia italiana su certe disgustose formazioni politiche non è una novità. 

Pensiamo al partito di Berlusconi e come in questo ultimo quarto secolo la borghesia italiana abbia sorvolato su tutto, pur di avere a disposizione qualcuno cui affidare i propri privilegi. O alla Lega, che da Bossi è diventata di proprietà di Salvini e delle sue sconcezze politiche sulla legalità, la sicurezza, i diritti umani e la politica estera. 

Per arrivare a Meloni, cui potrebbe essere affidato il ruolo di garante dell’autoritarismo necessario a comprimere le tensioni sociali, inevitabili a fronte del previsto “tzunami” sociale che si preannuncia per via dell’intreccio tra crisi energetica, crisi ambientale e inflazione, con l’aggravio, per i redditi bassi, dell’aumento del costo del denaro. 

Si palesa una situazione simile a quella che per decenni fu il terreno della missione del Msi, cioè quella di essere lo spauracchio dell’avanzata delle rivendicazioni operaie e popolari, del protagonismo diritti delle donne,  dei giovani, della difesa dello Stato sociale, oltre che rifugio di generali felloni e golpisti, ed essere nei fatti il bacino militante dei responsabili delle stragi, anche quelle di mafia, dei tentativi di colpo di stato, della cospirazione antidemocratica ordita dalla P2. 

Perché questo è stato il neofascismo italiano, file da cui Meloni e i suoi “fratelli” provengono: è da questo che non hanno mai preso le distanze, questo è il vero problema politico,  questa è la vera fiamma che arde nella loro storia, non certe pagliacciate nostalgiche, più patetiche che disgustose. 

Il “cinismo dell’establishment” come lo chiama il direttore di Domani è figlio di quella lunga stagione. La borghesia italiana, quella grande e quella piccola, i ceti ricchi e medi temono con tutto il sistema nervoso del lobbismo, delle caste, delle oligarchie, del familismo che prima o poi esploda la rivolta. 

E che redistribuzione della ricchezza, attraverso investimenti nel welfare pubblico, – cioè Istruzione, Sanità e Previdenza, – adeguamenti salariali al pari dei paesi del G7, pieno riconoscimento dei diritti delle donne, degli omosessuali, degli immigrati siano provvedimenti inevitabili.

Per la salvaguardia del nostro sistema politico, della coesione sociale, della stessa produzione delle merci, della loro distribuzione interna ed esportazione e dell’ambiente sarà necessario intervenire con una decisa “agenda sociale”.

Tutto questo fa paura. A ben vedere è proprio questo che la destra sta sfacciatamente dicendo in campagna elettorale, cioè se non votate per noi certi privilegi rischiano grosso. 

Ed è proprio su questo che si misura, al contrario, la timida cautela delle proposte sociali del centrosinistra, cui fa da sponda la goffaggine politica del M5s. 

Invece che puntare a mobilitare la coscienza e gli interessi materiali della stragrande maggioranza degli elettori con una piattaforma, che attivi il loro protagonismo nella lotta politica, per un concreto miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, hanno paura di spaventare l’establishment italiano, che invece sembra pronto a puntare decisamente a destra. 

Per mantenere rendite (esentasse) di posizione, per mettere la mani sui vantaggi del Pnrr, sono disposti a tutto. Tanto da pensare possibile affidarsi a una nuova missione missina.

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Anche gli incubi sono sogni.

Nessuna, ribadisco nessuna delle promesse elettorali che riguardano stipendi pubblici, tasse, pensioni sono realizzabili.

Nessuna cosiddetta riforma promessa è fattibile al di fuori del Pnrr, cioè fino al 31.12.2026.

Il prossimo Parlamento è vincolato alla tabella di marcia prestabilita per ricevere i finanziamenti. Il prossimo governo non può che agevolare le richieste europee.

Quello che è stato chiamato “agenda Draghi” è un nient’altro che un atto politico ingiuntivo.

I programmi elettorali contengono panzane, che servono solo a mettere in allarme chi a Bruxelles deve controllare la corretta applicazione delle regole sottoscritte aderendo al New generation Eu.

Stiamo seriamente rischiando la sospensione del versamento delle rate del Pnrr e la richiesta di rientro dal debito: bisogna tenere conto che attualmente il rapporto deficit/ Pil italiano è stimato al 152%.

Chi crede di far sognare gli elettori sta preparando loro i peggiori incubi.

I programmi elettorali contengono panzane, che servono solo a mettere in allarme chi a Bruxelles deve controllare la corretta applicazione delle regole sottoscritte aderendo al New generation Eu.
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Cose che succedono.

“L’algoritmo femmina”, scritto e diretto da Marco Ferri, è messo in scena dalla compagnia “Signori chi è di scena!”, con Stefano Annunziato, Monica Ferri, Michela Foraggio, Paola Pilone, Cristina Turella. Scenografia Marzia Savi, costumi Cristina Turella e trucco Michela Foraggio.

La Commissione della 47° edizione del Premio Letterario Casentino – sezione Teatro / Cinema / Critica cinematografica e teatrale inediti – ha deciso di conferirmi il Premio Speciale della Giuria per ”L’algoritmo femmina”.

“L’algoritmo femmina” è un corto teatrale che verrà rappresentato a Cori (Lt) dalla Compagnia “Signori chi è di scena!” il prossimo 1 settembre, con la mia regia, nell’ambito della rassegna ”Frammenti di attualità”, con la direzione artistica di Francesco Sala.

Oltre al premio e alla messa in scena, il testo teatrale di “L’algoritmo femmina” apparirà nell’antologia “Poeti e scrittori contemporanei allo specchio 2022”, edizioni Helicon.

Va ricordato che il racconto da cui è tratta la pièce è stato finalista al “Bacarando con un libro” la scorsa primavera a Venezia e pubblicato dalla casa editrice El Squero.

“L’algoritmo femmina”, è un atto unico la cui azione si svolge in un futuro “distopico”, in cui la presenza del digitale è immaginata molto più presente di quanto non sia ancora avvenuto nella nostra vita. 

D’altronde la velocità dello sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto quelle relative all’Intelligenza Artificiale sono talmente rapide da sorprendere gli stessi addetti ai lavori.

È notizia di pochi giorni or sono che un ingegnere sia stato licenziato da Google per aver rivelato pubblicamente il suo sconforto nel constatare che il nuovo sistema di risposte vocali cui stava lavorando aveva “la sensibilità di un bambino di otto anni”, testuale. 

“L’algoritmo femmina” propone, dunque, una riflessione proprio attorno al rapporto tra i sentimenti e l’intelligenza artificiale, in una dimensione che Luciano Lucidi chiama “infosfera”. 

“L’algoritmo femmina”, scritto e diretto da Marco Ferri, è messo in scena dalla compagnia “Signori chi è di scena!”, con Stefano Annunziato, Monica Ferri, Michela Foraggio, Paola Pilone, Cristina Turella. Scenografia Marzia Savi, costumi Cristina Turella e trucco Michela Foraggio.

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Troppo comodo chiamarla indifferenza. (*)

La cosa peggiore che si possa fare è coprire il cadavere, percosso e asfissiato, di Alika con un ipocrita velo di sociologia da ombrellone.

Sono anni che la destra italiana io infesta le campagne elettorali di xenofobia: essere un immigrato è una colpa, è stato detto in ogni occasione, in ogni dialetto. Guai all’accoglienza.

Sono anni che la destra ha fatto della povertà un problema di ordine pubblico: essere poveri è una colpa, che va perseguitata dalle ronde, dalla polizia locale, dal disprezzo collettivo. Guai alla solidarietà.

È in questo mefitico clima che è possibile che un consigliere comunale spari a un disgraziato di nazionalità marocchina a Voghera, e la passi liscia.

È in questo buio in cui brancola la coscienza civile che è possibile che un disgraziato ammazzi di botte e strangoli, con le sue mani un disgraziato con un diverso colore della pelle, in pieno giorno, davanti a tutti.

Come davanti a tutti Luca Traini andò a caccia di “negri” a Macerata nel 2018.

Nessuno è intervenuto, perché è stata la rappresentazione plastica di quella che per anni è stata idealizzata dalla destra come la panacea di tutte le contraddizioni, per cui si è chiesto il voto e promesso di “togliere di mezzo” migranti e mendicanti.

A forza di rincorrere le politiche securitarie, le forze politiche progressiste, loro sì, sono diventare indifferenti; loro sì assistono senza intervenire.

Che fine ha fatto l’abolizione del reato di immigazione clandestina? E lo ius soli? E il salario minimo? Dove sono finiti i soldi per finanziare programmi di assistenza sociale per i più deboli, fragili, problematici?

Dove è finita la capacità politica di mobilitare lavoratori, giovani, donne, intellettuali contro la deriva autoritaria e fascistoide sui territori? Dove sono politiche di inclusione sociale? Dov’è finito lo Stato sociale?

In un paese in cui si assiste ogni giorno al capovolgimento della lotta di classe (guai al salario minimo garantito!), anche l’odio di classe ha preso una nuova dinamica sociale (guai al reddito di cittadinanza!).

Alika era un colpevole predestinato, perché essere povero e immigrato allo stesso tempo è il massimo possibile dell’abiezione, la rappresentazione iconica “del degrado”.

L’odio alimentaro contro Alika è sempre stato utile, – molto utile -, per eleggere sindaci-sceriffi.

Il fatto è che quei cittadini sono diventati assuefatti ai soprusi e alle ingiustizie il giorno in cui hanno scelto di votare sceriffi fascisti, come quello di Civitanova Marche.

Non è indifferenza, chiamatela destra, un’infezione sociale perniciosa. Perché in Italia la destra è fascista. E questo non è un “futile motivo”.

(*) Mi rifiuto di postare una delle foto di chi è stato a guardare.

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Il voto inutile.

Perché stavolta non si tratta di eleggere un nuovo Parlamento, un nuovo governo, un nuovo presidente del consiglio.

Mentre ci si affanna a imbastire programmi elettorali, alleanze e candidature, Draghi dice che sarà un ottobre “complesso”.

Perché – anche se non lo dice apertamente – l’economia europea, quella italiana in testa, stanno andando a passo di carica verso la stagflazione. Che significa?

La stagflazione è la situazione in cui si hanno alta inflazione e scarsa crescita, ed è una condizione “complessa” da affrontare, perché i tipici strumenti di politica monetaria ed economica – quelli che Draghi padroneggia da anni – possono rispondere a solo uno dei due problemi, potenzialmente inasprendo l’altro.

Inflazione, crisi energetica, crisi ambientale, guerra non fanno decollare il New generation Eu, cioè bloccano l’economia ai livelli della pandemia. Il nostro Pnrr rischia di diventare una panacea inefficace.

L’impatto imminente con la stagflazione è aggravato in Italia da redditi – da lavoro dipendente, da partite iva, da impieghi precari e da pensioni – talmente bassi da non mettere in grado la gran parte dei cittadini italiani di affrontare il rialzo accelerato dei prezzi.

È la questione sociale che urla l’assenza di soluzioni da parte della politica. Su questa questione è successa la crisi di governo, su questa questione si sta andando a un voto inutile, autoreferenziale, pericoloso per la stessa democrazia italiana.

Perché stavolta non si tratta di eleggere un nuovo Parlamento, un nuovo governo, un nuovo presidente del consiglio.

Stavolta si tratta di cambiare un futuro predeterminato dalla finanza e dai mercati, con la vile compiacenza della politica, guidata e da una classe dirigente vanagloriosa, incauta, irresponsabile.

Non c’è più tempo per fare il tifo per i giochi da cortile del Palazzo.

O si vota una piattaforma di lotta alla stagflazione, in cui in cima ci siano l’aumento redditi, la riduzione della giornata lavorativa, l’introduzione di fasce sociali per le tariffe, il rilancio dello Stato sociale, a partire da Sanità e Scuola, oppure il voto è inutile. Addirittura dannoso.

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Stavolta l’importante è chi perde le elezioni.


“Altrimenti la nuova compagine governativa dovrà fare finta di cambiare ciò che è semplicemente obbligata a continuare, con maggiore diligenza verso i mercati. E questo creerà una rottura irreversibile con il loro consenso elettorale.

Le linee-guida del programma del governo in Italia sono quelle dell’ultimo intervento di Draghi in Parlamento. Compreso lo sprezzante giudizio sui partiti, giudizio largamente condiviso dai mercati, dalla Bce e nella Ue, basterebbe dare un’occhiata all’ultimo numero di The Economist.

L’agenda del governo è bloccata fino al 2026, la data entro la quale sarà in vigore il Next generation Eu (NGEu) che da noi si chiama Pnrr, in cui le due erre significano “rigido rispetto” del patti, che Draghi garantiva.

Dunque, saper governare nei prossimi anni significherà fare esattamente quello che viene richiesto dalla Ue per ottenere le rate e saper spendere e rendi-contare quei soldi.

E qui casca l’asino: nessuno dei presunti vincitori delle prossime elezioni è affidabile, tenendo conto che i debiti del NGEu sono, per la prima volta, stati collocati tutti insieme sul mercato finanziario.

Nessuno compra titoli se non si fida, e se non si fida se ne libera, e questo fa crollare il valore dei bond.

Per dirla tutta, la straordinaria anomalia delle prossime elezioni italiane non risiede su chi vincerà la competizione elettorale, ma su chi la perderà.

Se perde il centrodestra, il Pnrr continuerà a essere la stella polare del governo.

Altrimenti la nuova compagine governativa dovrà fare finta di cambiare ciò che è semplicemente obbligata a continuare, con maggiore diligenza verso i mercati. E questo creerà una rottura irreversibile con il loro consenso elettorale.

L’aumento del costo del denaro e lo scudo anti spread, condizionato a un sano rapporto pil-deficit dicono chiaro che i falchi del rigore in Europa cominceranno a sventolare minacciosamente il nostro debito pubblico, ormai oltre il 150% del Pil, come la Grecia ai tempi della Troika, e a controllare puntigliosamente il varo delle riforme, col risultato di ritardare il versamento delle rate e ad accelerare i tempi del rientro delle somme relative alla quota di versamenti in debito.

Mentre l’inflazione sorvola, come un’avvoltoio, i nostri redditi, le prime mosse in campagna elettorale sono tutte nel segno della solita stucchevole pantomima delle promesse irrealizzabili. La qual cosa comincia già a suonare come conferma delle preoccupazioni europee.

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