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Il ritorno alla storia moderna.

Perché è sempre più forte la sensazione di essere tornati alle Signorie, all’assolutismo, alle guerre di conquista, stragi di innocenti, crimini efferati magari commessi con l’impiego diffuso di mercenari?

La Battaglia di Lepanto (Andrea Vicentino,1603, olio su tela, Palazzo Ducale, Venezia). Il riferimento alla battaglia viene spesso citata nei talk show come esempio storico da seguire per sconfiggere i “nemici” dell’Occidente.

La storia moderna è quel periodo che va dalla fine del Medioevo, sino alla rivoluzione industriale.

Quel periodo che va dalla “scoperta” dell’America (che sarebbe ora di catalogare sotto il più appropriato titolo di “colonizzazione del continente americano”) alla presa della Bastiglia.

Insomma, dal 1492 al 1789, trecento anni che, dal punto di vista sociale, politico e geopolitico hanno disegnato i contorni del mondo, che poi è stato modellato dalla storia contemporanea.

Sappiamo che la storia dell’umanità non è una linea continua, ma un insieme di segmenti, che non sempre coincidono col disegno che si vorrebbe fosse realizzato.

La fine della globalizzazione unica, – provocata dalla paralisi economica e finanziaria prodotta dalla pandemia del Covid -, accanto al panico della perdita di dominio che gli establishment stanno accusando come trauma, danno vita alla volontà di scontro, affinché l’occidente torni a prevalere, sotto l’egida della potenza militare USA.

Come quando si scontravano Francia e Spagna, Inghilterra a Francia, Austria e Impero Ottomano, oggi la lotta sembra tornare per il controllo territoriale e la supremazia sui mari, più che sulla rilevanza delle quote di mercato.

Perché è forte la sensazione di essere tornati alle Signorie, all’assolutismo, alle guerre di conquista, magari con l’impero di mercenari?

Una possibile spiegazione la fornisce un piccolo e prezioso libro che contiene l’analisi elaborata da Jodi Dean, docente di Teoria politica a Geneva, nello stato di New York. Scrive la dottoressa Dean in “Capitalismo o neofeudalesimo?” (Mimnesis, 2024):

“Ho caratterizzato il neofeudalesimo ricorrendo a quattro elementi: la parcellizzazione della sovranità, nuovi padroni e servi; provincializzazione e ansia apocalittica.” (Cfr. pag. 90).

Per essere più chiari: “Oggi l’accumulazione non si realizza tanto attraverso la produzione di merci quanto attraverso l’affitto e la predazione: prendendo e non producendo […]

Il ‘signor un sacco di soldi’ di cui parlava Marx appare meno come una rappresentazione del capitalista e più come quella di un proprietario terriero o un finanziere, come quella di qualcuno che ottiene la sua quota”.

In “Il capitale è morto, il peggio deve ancora venire” (Produzioni Nero, 2021), MacKenzie Mark, scrittrice e studiosa di teoria del media, scrive:

“Capitalismo delle piattaforme, capitalismo della sorveglianza, postcapitalismo, capitalismo green: sono moltissime le definizioni attraverso le quali si è provato a definire o ispirare l’attuale governo economico del mondo, ma nessuna è stata in grado di restituire davvero la contemporaneità in cui viviamo”.

Sempre Jodi Dean (ibidem) scrive: “E che dire del fatto che nel XXI secolo la gran parte dei posti di lavoro si trova nel settore dei servizi, nel servaggio a larga scala in tutto il mondo?

Nei paesi ad alto reddito, il 70-80% dell’occupazione è nei servizi, e anche la maggior parte dei lavoratori in Iran, in Nigeria, in Turchia, nelle Filippine, in Messico, in Brasile e in Sudafrica è impiegato in questo settore […]

Sempre più persone, costrette a vendere la propria forza lavoro nella forma di servizi desinati a chi è in cerca di consegne, di autisti, addetti alle pulizie, trainer, assistenti sanitari a domicilio, babysitter, di guardie, coach e così via. […]

Con i progressi nella produzione che sembrano giunti a un vicolo cieco, il capitale è oggi tesaurizzato e brandito come un’arma di distruzione: i suoi detentori sono i nuovi signori, il resto di noi dipendenti, invece, è composta da servi e schiavi proletarizzati”. (Cfr. pagg. 43 e 44).

Questi ragionamenti, queste analisi hanno bisogno di venir meglio approfonditi, arricchiti, meglio articolati.

Tuttavia, è qui che possiamo trovare le ragioni del nuovo protagonismo della guerra, nei vari scenari in cui si è di manifestata.

Le teorie geopolitiche sono poco convincenti se non si analizza il nuovo corso del capitalismo globale e quindi le nuove ragioni delle strategie di esercizio della potenza militare come strumento di dominio politico e sociale.

Vale per l’Ucraina, per la Palestina, per l’Iran, per il braccio di ferro militare nel contesto indo pacifico tra USA e Cina.

Tanto che è difficile pensare che una nuova versione del pacifismo, che fu strumento di lotta politica durante la “Guerra Fredda”, possa oggi essere ancora efficace a contrastate il nuovo imperialismo, il nuovo colonialismo, il nuovo corso del capitalismo.

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I giorni dell’Iran.

Hanno lasciato che Israele bombardasse un edificio diplomatico iraniano a Damasco.

Hanno lasciato che l’Iran lanciasse duecento droni in territorio israeliano, aiutando la contraerea ad abbatterli.

Gli USA continuano a giocare il ruolo di potenza insostituibile e onnipresente nel Medio Oriente, senza la quale non si fanno le guerre, né le tregue.

Di pace manco a parlarne, finché gli USA non decideranno che Netanyahu e i suoi alleati di governo debbano lasciare la guida di Israele, dopo il fallimento del 7 ottobre, la catastrofe nella gestione degli ostaggi, la carneficina di Gaza, le continue provocazioni colonialiste in Cisgiordania.

I continui tentativi di allargare il conflitto, fino a coinvolgere direttamente l’Iran sono una precisa strategia di Netanyahu.

La domanda è: riuscirà Biden a fermare Netanyahu prima che questi metta in pratica i suoi propositi di vendetta dopo lo smacco subito da Teheran?

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Netanyahu ha bisogno di guerra.

“Nessuno ferma Netanyahu?
L’attacco israeliano all’ambasciata iraniana di Damasco del primo aprile doveva essere fermato: era un chiara provocazione alla guerra. Ancora una volta gli Usa hanno lasciato che si aprisse un altro conflitto.” (Alberto Negri).

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Siamo sicuri di essere smart?

“Avevamo il personal computer, anarco-individualista figlio degli anni Settanta, macchina che permetteva al suo proprietario un controllo pressoché completo.

Siamo ora quasi completamente passati allo smartphone, ovvero al discendente neoliberista del personal computer, un computer molto personale su cui, però, il proprietario ha un controllo limitato, anzi, un personal computer che silenziosamente controlla, sorveglia, spia, manipola il suo proprietario.

È inevitabile che le cose stiano così?” (da “Contro lo smartphone: Per una tecnologia più democratica (Saggi)” di Juan Carlos De Martin) Inizia a leggere: https://amzn.eu/gdq7KKW ————

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Mi sono ripreso il mio tempo.

Mi è stato chiesto di argomentare il perché lascio Facebook. Lo faccio con due libri, di cui pubblico le copertine.

Poi cito un film:

“La grande bellezza”. Dice

Jap Gambardella (Toni Servillo):

“La più consistente scoperta che ho fatto, pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni, è che non posso più perdere tempo per cose che non mi va di fare.”

E, infine, un piccolo ragionamento: ho avuto cura di codesto profilo, eliminando gli hater e i perditempo; ho avuto cura di stare sul pezzo dell’attualità; ho avuto cura di postare brani selezionati di narrativa italiana e straniera, saggistica, poesia, filosofia, economia politica, sociologia.

Ho preso sul serio i commenti, rispondendo sempre a tutti.

Ho anche cercato di alleggerire sempre con ironia, sarcasmo e arguzia.

Mi sono divertito. Ma ho dedicato a Fb 3, 4 a volte 6 ore al giorno. E questo è sbagliato: il tempo è prezioso. Mr. Mark Zuckerberg non può averlo gratis. E io questo tempo me lo riprendo.

Due libri per capire.
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Luciano Colavero e come si scrive per il teatro.

Due riflessioni sulla composizione dell’azione.

Una di Jurij Alschitz, che tocca la questione dal punto di vista dell’attore:

«La creazione da parte dell’attore della propria composizione del ruolo è la strada verso l’indipendenza artistica, che fa dell’attore l’autore del proprio ruolo.

Il ruolo è li risultato dell’interpretazione artistica individuale data dall’attore alla parte e al personaggio creati dal drammaturgo. Il ruolo dunque, in un certo senso, è il racconto che fa l’attore della storia scritta dall’autore drammatico. [La] parte elaborata dall’autore, passa attraverso la sensibilità artistica dell’attore. Se la composizione delle scene, l’ordine degli atti, delle parole appartiene all’autore, la composizione delle immagini, dei sentimenti, dele associazioni appartiene all’attore che crea la composizione della vita spirituale del ruolo. Se il ruolo viene inteso in questo senso, l’attore non ha limiti nella creazione. La sua composizione del ruolo può quindi non coincidere con quella dell’autore, pur essendone strettamente correlata.

La domanda fondamentale che l’attore si deve porre è se questo divario non sia gratuito, se sia realmente necessario al fine di far comprendere meglio l’idea della parte e del personaggio. Il lavoro del drammaturgo, dell’attore e del regista è subordinato a un’unica idea artistica. La composizione rispecchia i gradini della spirale che porta verso l’idea.»

L’altra riflessione è di Eugenio Barba, che guarda alla composizione anche dal punto di vista del regista:

«[…] “comporre” (porre con) significa “montare”, mettere assieme, tessere azioni: creare il dramma […].

Se le azioni degli attori possono costituire qualcosa di analogo a strisce di pellicola che sono già il risultato di un montaggio, è possibile usare questo montaggio non come un risultato, ma come materiale per un montaggio ulteriore. È, in genere, il compito del regista, che può intrecciare le azioni di più attori in una successione per cui l’una sembra rispondere all’altra o in uno svolgimento simultaneo, in cui il senso dell’una e dell’altra deriva direttamente dal loro essere compresenti. […]

Nel montaggio del regista le azioni, per divenire drammatiche, debbono ricevere un’altra valenza che abbatte il significato e le motivazioni per cui le azioni erano state composte dagli attori.

È questa nuova valenza che fa andare le azioni al di là dell’atto che esse, di per sé, rappresentano. Se io cammino, cammino e basta. Se mi siedo, mi siedo e basta. Se mangio, non faccio che mangiare. Se fumo, non faccio che fumare. Sono atti che illustrano se stessi, che si esauriscono in sé.

Ciò che fa trascendere le azioni, e le spinge al di là del loro significato illustrativo, deriva dalla relazione per cui sono poste nel contesto di una situazione. Messe in relazione con qualcosa d’altro, diventano drammatiche. Drammatizzare un’azione significa introdurre un salto di tensione che la obbliga a svilupparsi verso significati differenti da quelli originari.

Il montaggio, insomma, è l’arte di porre le azioni in un contesto che le faccia deviare dal loro significato implicito.»

Due sguardi, diversi e complementari, che ci ricordano quanto la composizione sia uno strumento di lavoro fondamentale per essere attori e registi creativi e non meri interpreti di un progetto altrui.

Luciano Colavero, regista, drammaturgo e pedagogo teatrale.
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L’estremismo verbale dei bellicisti.

Si scrive Iran, si legge terrore. Si scrive Israele, si legge libertà”, al Foglio si credono di essere la gazzetta del Pentagono.

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L’inflazione è la pacchia dei banchieri.

Tutti si lamentano di quanto il costo del denaro pesi sui mutui. Meno uno: l’assemblea dei soci ha dato il via libera al maxi stipendio da 10 milioni di euro per Andrea Orcel, l’Amministratore delegato di UniCredit.

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Enough is enough.

Il 15 aprile 2024 alle 12:00 abbandonerò Facebook, Instagram e LinkedIn. Mi dedicherò a codesto blog e posterò su X.

Grazie a tutte e tutti per l’attenzione che mi avete fin qui voluto dedicare su quei social. Beh, buona giornata.

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Che fine ha fatto la dizione corretta?

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

È noto come in Italia la televisione abbia contribuito alla capillare diffusione della lingua italiana tra gli italiani. E anche tra gli stranieri residenti nelle nostre città, per non dire di alcune aree geografiche del Mediterraneo.

Per molti anni questo fatto ha creato negli addetti ai lavori la consapevolezza dell’importanza della corretta dizione delle parole che compongono le frasi.

Prima a teatro e alla radio, poi al cinema infine nella tv, generazioni di doppiatori, attori, giornalisti radiotelevisivi, speaker -ma anche autori, sceneggiatori dialogisti, e copywriter – si sono impegnati a fare della lingua italiana una veicolo di coesione linguistica del pubblico

Poi, ahinoi, la tv si è trasformata in qual troiaio del marketing, dandosi alla depravazione dei reality, ma anche del talk, in cui mezze figure straparlano, sbagliando gli accenti, i tempi verbali, oltre che le citazioni storiche o geografiche.

E la pubblicità si è contagiata, è diventata una malata terminale di strafalcioni sintattici e grammaticali.

Attualmente una fanciulla sussurra cose incomprensibili a proposito di una passata di pomodoro, per poi piazzare una bella z al posto della s nella parola sapore.

Per non dire delle e aperte che ormai dilagano, che fanno tanto nord Italia, quindi trend (con la é).

Poi la catastrofe. Una ex velina che viene fatta passare per una diva già è poco credibile quando ci dice qual è il suo “segret”.

Poteva essere credibile quando la testimonial di quell’acqua oligominerale era Cindy Crawford, la cui leggendaria bellezza sembrava resistere all’usura del tempo, proprio grazie a quell’acqua.

Quando l’ex velina ha preso il suo posto, bè, quel “my segret” ha assunto un che di poco elegante, improvvisato, un errore di strategia: prodotto e testimonial hanno smesso quella sinergia che faceva credere plausibile il connubio.

Non paghi, al marketing dell’azienda dell’acqua in questione, hanno definitivamente sbragato, quando in una delle ennesime versioni, fanno dire all’ex velina: “che buono é?!”.

È un’esclamazione in slang meneghino che credo si vergognano ormai di dire anche nei negozi del parrucchiere dell’interland.

Sarebbe facile sostenere che quella campagna pubblicitaria fa acqua. Il fatto è che fa pena, sta in piedi solo perché è spalmata a tutte le ore in tutti i canali, pubblici e privati.

Tanto per dimostrare che l’ossessiva ripetizione del messaggio è la prova provata del niente da dire di interessante per lo spettatore, il consumatore, e, – ciò che è alquanto sconcio-, neppure per chi paga il canone.

Ecco allora il punto: pronunciare male le parole, per cercare il consenso attraverso regionalismi è uno sforzo degno di miglior causa, che dovrebbe, invece, essere la ricerca di un’idea forte e credibile.

Facile da capire, facile come bere un bicchiere d’acqua fresca.

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Parla con me, non col tuo telefono.

 Odio quelli che in pubblico parlano al telefono in vivavoce, esattamente come quelli che guardano video ad alto volume senza curarsi di quanti stanno loro intorno.

Per tanto, se ricevo un messaggio vocale, mi tocca cercare in tasca le cuffiette, indossarne una per orecchio, e poi premere il triangolino per ascoltare ciò che avresti benissimo potuto telefonare o scrivere, attività che ti avrebbero almeno costretto a pensare prima di dire cose che nella maggior parte dei casi potevi esprimere meglio.

Perché io devo subire la perdita di tempo, nonché di considerazione, che tu hai voluto risparmiare?

Una cosa avevano di buono le chat, inducevano a scrivere, come fosse una lettera, con tanto di formule di cortesia e cenni di saluto.

Poi tutto è stato vanificato dalla maledetta fretta di aprire bocca. Così che i cosiddetti vocali non sono più messaggi, ma chiacchiericcio solipsista da remoto, non sono più scambio, ma imposizione unilaterale.

Perché è chiaro che tu non parli con me, ma col tuo telefono. Sei liberissimo di farlo, il telefono è tuo. Ma la domanda è: perché dovrei io parlare col tuo telefono?

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Non chiamatelo Me Too.

Premesso che ammiro le giovani donne che hanno avuto il coraggio di denunciare – sia pur in forma anonima e confidenziale – i soprusi a sfondo sessuale subiti da maschietti singoli o in branchi, rimane il problema che tutto quanto è avvenuto è ancora nella bolla del sentito dire.

È stato detto – correttamente – che in assenza di atti formali che avessero permesso all’autorità giudiziaria di entrare nel merito, non ci sono possibilità di andare oltre generiche dichiarazioni di scuse o tardivi lacunosi pentimenti, nonché aleatorie autosospensioni da associazioni di categoria.

Anche le denunce a mezzo stampa a un certo punto sono costrette a fermarsi, perché le illazioni devono lasciare il posto ai fatti, accertati e verificati. “Io so i nomi….ma non ho le prove”, ci ha insegnato una volta Pasolini.

Nel nostro ordinamento le responsabilità penali sono individuali, se non si individuano i responsabili non c’è storia da raccontare.

Anche le responsabilità “ambientali” si stanano solo a fronte dell’accertamento di precise circostanze, che vedano i responsabili essersi avvalsi di omertà o complicità.

C’è anche da dire che la distanza tra gli accadimenti emersi e il tempo trascorso prima che fossero resi noti è risultato oltre i limiti stabiliti per legge, e nessuno può immaginare che si apra un fascicolo a distanza di sei o sette anni per fattispecie penali che prevedono 12 mesi di tempo per la denuncia.

Il punto è che la semplice disapprovazione non risolve la questione, la quale tanto lentamente è venuta a galla, quanto velocemente si riassorbirà nel vortice degli accadimenti individuali e collettivi delle nostre esistenze.

La cosa peggiore, – che risulterebbe una ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di chi è stata vittima delle molestie – è aver riaperto quelle ferite solo per farne oggetto di estemporanee attenzioni estive, vagamente scandalistiche, con cui indignarsi un po’, per poi passare ad altro gossip.

Vittime, carnefici e complici sono tutt’ora legati fra loro da un reticolo di omertà. Esattamente quel reticolo di ricatti morali e materiali che il “Me too”, quello esploso nel mondo del cinema è stato capace di scardinare.

Nel nostro caso, non c’è stato ancora nessun “anch’io”. Questo è il problema. E c’è da essere certi che in Italia la questione delle discriminazioni, delle disparità e delle molestie non riguardi solo e soltanto l’ambiente della pubblicità.

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FERMIAMOLI.

La classe dirigente della Ue ha condotto l’Europa al declino economico, democratico, politico e sociale.

Sperare che la guerra in Ucraina abbia la capacità di rilanciare l’Unione è una chimera sporca di fango e sangue, sa di polvere da sparo e di uranio.

La prospettiva che si prefigura è che la guerra duri ancora a lungo, arrivi fin dentro la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e continui per tutto il 2024 fino alle elezioni Usa.

È pura follia genocida, è la disperazione politica di chi teme il crollo dell’egemonia occidentale nella globalizzazione dei mercati.

Ci stanno spingendo verso la catastrofe. La barbarie prodotta dalla crisi del capitalismo finanziario va fermata. Ora.
Pace, diritti, redistribuzione della ricchezza devono essere i ricostituenti delle democrazie europee.

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Il quadro politico.

In Italia, la sinistra perde le elezioni alle quali in effetti da qualche anno manco si presenta.

La destra, invece, tende a vincere le elezioni alle quali non si presentano gli elettori.

Il quadro politico è fissato così male, che la società non coincide più col sistema democratico, solo gli interessi forti, che hanno la loro rappresentanza lobbistica in Parlamento e nel governo, sono perfettamente a loro agio.

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Attualità Finanza - Economia Leggi e diritto Politica Potere

Prove tecniche di regime.

Doppio arzigolo carpiato con avvitamento a destra per la privatizzazione del Pnrr.

“Se qualcuno dice ‘vuoi togliere il controllo concomitante sulle amministrazioni pubbliche?’ la risposta è fermamente no, ma se mi dici ‘sul Pnrr ritieni che la disciplina dei controlli possa essere rivista, assegnando una primazia ai controlli comunitari rispetto ai controlli nazionali, la risposta è sì, ma non perché non vogliamo controlli ma perché vogliamo che i controlli siano i controlli comunitari che consentano, loro sì, una omogeneità di visione perché vengono fatti a consuntivo e non in corso d’opera.

Anche perché talune difficoltà legate al Regis (la piattaforma dove le pubbliche amministrazioni inseriscono i dati sui progetti del Pnrr) possono aver indotto determinate relazioni di controllo a uscire con dati non sempre correttissimi, o magari non aggiornati all’ultimo minuto. Poi magari la polemica mediatica fa tutto il resto”.

Chi parla è tale Federico Freni della Lega, sottosegretario al Mef che, come tutti i componenti del governo, è impegnato a mettere fuori controllo i piani di attuazione del Pnrr, invece che fare di tutto per stare nei tempi per accedere regolarmente alle nuove rate di finanziamento.

Una vera e propria vergogna politica e istituzionale, un capovolgimento dei veri motivi delle inadempienze verso gli obblighi previsti per la gestione dei fondi comunitari.

Cercano il colpevole della loro inettitudine nella magistratura contabile, per creare le condizioni che favoriscano la gestione dei fondi da parte di privati e senza controlli.

Vogliono solo “privatizzare” il Pnrr, trasformandolo in un veicolo di consenso verso i soliti potentati, invece che di crescita per uscire dalle strettoie economiche post pandemiche.

Come sempre, alla borghesia italica importa solo il tornaconto immediato, piuttosto che le strategie di crescita; compra privilegi come buoni contro termine; preferisce privilegi oligarchici e corporativi in cambio della sovranità delle regole costituzionali, della correttezza istituzionale.

Ai liberali, intrisi di liberismo, non dispiace l’autoritarismo, se supporta il capitalismo, togliendo di mezzo ogni intermediazione delle istituzioni democratiche. Compresa la Corte dei Conti.

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Lasciatela in pace.

L’aver trasformato i quotidiani in rotocalchi ha spesso aspetti grotteschi, come quando s’investiga sui Rolex che una subrette avrebbe fatto sparire per dispetto del calciatore da cui si sta separando.

Stavolta invece il fatto è grave, perché riguarda una giovane donna di cui si fa nome e cognome, si indica l’età, il nome della madre, il nome di un fratellino nato da una relazione della madre, il luogo in cui vive, e, in pieno stile da giornale scandalistico, si pubblica addirittura una sua foto.

Il fatto che sia la figlia di un superlatitante – che tanto latitante pare proprio non sia mai stato, ed è su questo che l’attenzione della stampa si dovrebbe concentrare – non autorizza nessuno a violare la sua privacy.

Che vada o non vada a trovare in carcere il padre biologico sono problemi suoi.

Anche se ci andasse la cosa non avrebbe nessuna rilevanza.

Anche se avesse aiutato il padre durante la latitanza non sarebbe reato, perché i famigliari non sono imputabili di favoreggiamento.

Nel caso poi che la giovane donna di cui si fanno solo pettegolezzi stia vivendo un dramma interiore sulla figura non certo pregevole del padre, questa intrusione nella sua vita è da considerarsi alla stregua di una molestia, di stalking a mezzo stampa, che non fa certo onore alla redazione di Palermo di un noto quotidiano nazionale.

Se è questo il modo per incrementare le vendite locali, siete davvero disperati. Piantatela. Lasciatela in pace.

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È ora di dire basta.

“È ora di dire basta” è andato in scena con la compagnia “Signori chi è di scena!” e la regia di Monica Ferri, il 25 novembre al Teatro San Giustino di Roma.

“È ora di dire basta con la violenza degli uomini”, di Marco Ferri.

Quando mi è stato chiesto un testo sulla violenza contro le donne, sulla base di un corto che avevo scritto e diretto in “Il menù del ghiaccio, trilogia della passione”, – plot narrativo che è poi diventato un racconto dal titolo “Non è questo il modo di uccidere una donna”, selezionato dal premio Calvino e di prossima pubblicazione in “Oltre il velo del reale”, a cura di Franco Pezzini, per i tipi di Meridiano Zero , – non ero molto convinto che si potesse partecipare alle celebrazioni della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulla donne, che si svolge ogni anno il 25 novembre, con un testo teatrale, al quale bastasse aggiungere un prologo che ne rappresentasse il contesto.

Qualcuno ha scritto che è sempre meglio evitare le celebrazioni, perché il rischio della captatio benevolentiae verso il pubblico è una trappola retorica, in cui la foga dell’evento mal si addice al linguaggio del teatro.

Nel mio testo precedente la vicenda è l’intima, violenta, disperata contraddizione tra i sessi per il predominio della passione amorosa nella vita di coppia. In “È ora di dire basta”, invece, il discorso si fa politico, in senso lato. 

Una riflessione sulla pièce teatrale.

La giornata nasce, infatti, da un fatto politico, l’assassinio di tre donne da parte di un dittatore sudamericano.

Dunque, si poneva un ragionamento che collocasse un episodio specifico, diventato un efferato crimine politico, come viatico per entrare in una vicenda di pura invenzione teatrale, ancorché emblematica.

La cosa non si poteva risolvere solo dal punto di vista della macchina scenica. 

Mi sono, allora, reso conto che era in agguato un’insidia, cioè ridurre tutto a un fatto di costume, invece che fargli fare un salto in una visione d’insieme, errore che si corre quando si pensa, per esempio, a una generica parità di genere, appunto, o si tessono teorie attorno al tetto di cristallo, come se bastasse promuove qualche donna al comando del potere maschile per risolvere una questione che è invece uno dei problemi fondamentali della vita sociale in un’economia capitalistica.

La messa in scena ha incontrato il favore del pubblico.

La subalternità femminile è un fatto storico, ha a che vedere con l’evoluzione dell’organizzazione sociale e produttiva, andrebbe vista sotto il profilo dell’economia politica, e della lotta per il cambiamento della condizione materiale, si rifà alla divisione del lavoro, al potere patriarcale che si ripercuote nell’atavica divisione dei ruoli, da cui dipendono anche le ripercussioni psicologiche e i comportamenti privati.

“Il personale è politico” dicevano le femministe negli anni Settanta.  “Basta guerre sui nostri corpi”, affermano oggi le donne impegnate nel movimento Non una di meno.

 Forse, in un certo senso, questa è la chiave interpretativa di “È ora di dire basta” il cui sotto titolo è “con gli uomini che uccidono”, che comprende un prologo che inquadra la problematica in una modalità spettacolare, quasi da flash mob; un primo quadro in cui il protagonista è un lui violento, ma sconfitto; un secondo in cui c’è una lei vittima, ma niente affatto vinta; per concludere con un colpo di scena che ci riporta alle contraddizioni che la nostra quotidianità dovrebbe affrontare, usando tutti gli strumenti del cambiamento di prospettiva, a cui il linguaggio del teatro può contribuire e non solo rappresentare. 

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Estinti Saluti, due libri in uno.

“Sono le short-stories, i racconti brevi, rapidi canti, sapidi di autenticità testimoniale, narrativa  di un’era aurea della pubblicità italiana. Non è la riproposizione di quella irripetibile esperienza che si vuole  affermare nel libro, ma la testimonianza del senso, della carica innovativa nel linguaggio della comunicazione proprio dentro l’imposizione omologante che la merce inesorabilmente in sé reca. (Riccardo Tavani, su stampacritica.org)

A Gabriele Qualizza (1962-2022) 

che ha dato un importante 

contributo a questo libro, 

ma un malore improvviso

 gli ha impedito per sempre 

di vederne la stampa.

Un saggio che sembra un romanzo di formazione.

Estinti Saluti (Fausto Lupetti Editore, 2022) che è in uscita in questi giorni, è stato definito un saggio che sembra un romanzo di formazione. Perché questa doppia lettura?

Publio Advertito Crea, l’autore – che è in realtà lo pseudonimo, un nome collettivo di ben 66 autori -, ha raccolto e organizzato le testimonianze di creativi pubblicitari italiani degli ultimi trent’anni, e, come in una ricerca antropologica, raccontano in presa diretta episodi salienti della loro esperienza professionale.

Un’antropologia della coesione creativa, che ha resistito fino alla fine alla mutazione del conformismo, che anzi il conformismo ha cercato di prenderlo in giro, come attitudine a non piegarsi all’antropologia dell’omologazione, come l’avrebbe definita Pasolini. 

Dunque, la prima lettura è un gustoso romanzo di formazione, fatto di tante storie, spesso molto divertenti, ma anche emblematiche e sorprendenti, che restituiscono il clima, le pulsioni, il vissuto di più generazioni professionali impegnate nella comunicazione commerciale. 

Ed è così che vengono fuori cose interessanti: non solo il rapporto con i committenti dei diversi settori commerciali, il cliente, ma il robusto contatto con la realtà politica, economica e sociale del paese, le antenne sempre pronte a cogliere i significati e i significanti che attraversano la società e la cultura di massa, come se i creativi fossero veri e propri sensori che sanno individuare con utile anticipo il nuovo che si muove nei modi di pensare, di dire, di vedere le cose.

E poi, la grande curiosità nel ficcare il naso ovunque vi sia qualcosa che possa alimentare un’intuizione e poi far nascere un’idea che partorisca una campagna. 

Ma eccoci già nel secondo libro, cioè nel saggio. Grazie alla prefazione di Gabriele Qualizza, che è stato docente di Sociologia dei media all’Università di Udine, si entra nello specifico delle teorie e delle pratiche della comunicazione moderna, su cui questo volume ha molto da dire.

Il rapporto conflittuale tra la cultura creativa e le logiche dell’azienda viene da lontano, riguarda il linguaggio, cioè la forma e la sostanza della comunicazione.

“Televisione e giornali sono stati i primi a registrare questo cambiamento epocale per il quale ‘centri creatori, elaboratori e unificatori di linguaggio, non sono più le università, ma le aziende”, scrive Francesco Virga, citando Pier Paolo Pasolini (“Eredità dissipate, Gramsci-Pasolini-Sciascia”, Diogene Multimedia 2022).

Perché la questione dell’efficacia del messaggio è sempre quella domanda basica che si faceva Henry Ford: è più efficace la creatività o i mezzi su cui viene veicolata verso il consumatore?

Questo dubbio amletico ha sempre attanagliato gli investitori pubblicitari, fin dai tempi in cui la pubblicità era solo sulla stampa, per poi arrivare alla cartellonistica, alla radio e soprattutto alla televisione e, attualmente, sul web. Ovviamente la realtà di oggi non è più quella di Henry Ford. 

“Come Ford aveva attinto al nuovo consumo di massa, Apple è stata tra le prime aziende a raggiungere il successo commerciale intercettando la domanda di una forma di consumo individuale proveniente da una nuova società di individui. Un’inversione resa possibile dall’avvento dell’era digitale, che ha fornito gli strumenti per spostare l’obiettivo dal consumo di massa al consumo individuale, liberando e riconfigurando attività e beni del capitalismo”, ci ammonisce Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”, LUISS 2019).

Uno dei tanti annunci teaser che hanno accompagnato il lancio del libro.

Tuttavia, la domanda che genera il dubbio è questa: bisogna investire in buone idee o concentrarsi in tanti mezzi di comunicazione di massa? Ovviamente, il punto di vista dei creativi è intuibile: il moltiplicatore della reputazione di una marca, da cui deriva il successo dei suoi prodotti, è nella qualità delle idee. Diceva Emanuele Pirella (1940-2010) che una marca deve essere scelta per “simpatia, per amicizia, per stima”. 

Ecco che è ancora il Vincenzo Virga di Eredità dissipate che sottolinea che “Pasolini sa che nel linguaggio della pubblicità ‘il principio omologatore e direi creatore è la tecnologia’.” (Ibidem).

In realtà, come Howard Gossage (1917-1969) ci ricordava “La gente non legge la pubblicità, legge solo quello che le interessa. A volte si tratta di un annuncio pubblicitario”. E la cosa, obbiettivamente, vale anche oggi, ce lo dice Cathy O’Neil (“Armi di distruzione matematica”, Bompiani, 2017) quando ci fa presente che tutto sommato anche gli algoritmi sono creazioni di uomini e donne che lavorano per le Big Tech, e che sono fallibili, perché soggetti al comando dell’azienda.

Il che conferma la teoria di Luciano Floridi (“Etica dell’intelligenza artificiale”, Raffaele Cortina Editore, 2022), secondo cui il digitale e l’analogico convivono nell’Infosfera. Vale a dire che scrittura, fotografia e video, sono attività analogiche che convivono con la matematica del sistema binario, che è il linguaggio del digitale. Insomma, affidarsi mani e piedi agli algoritmi, ai motori di ricerca, all’intelligenza artificiale per fare buona pubblicità è come affidarsi semplicemente a un aeroplano per fare un bel viaggio: se non decidi la meta non sarà mai un vero viaggio.

Uno degli annunci della campagna di lancio di Estinti Saluti

Fatto sta che così come per un annuncio su un quotidiano, un’affissione per strada, o un filmato pubblicitario in tv, nessuno legge un post se questo non ha la capacità di attirare l’attenzione, cioè di emergere prepotentemente da quell’oceano in tempesta che è la comunicazione odierna. 

Se poi da quella prima attenzione rimane qualcosa, allora nasce un fatto concreto, per esempio una manifestazione d’interesse attraverso un like, la richiesta di informazioni e magari anche un acquisto, vuol dire che in quell’attenzione c’era qualcosa di buono, cioè c’era una buona idea.

Dunque, se dai tempi dei primi esempi di pubblicità sui giornali inglesi, fino all’universo dei social dell’era digitale, i media hanno condizionato le idee, il successo della pubblicità sta nel fatto che le idee hanno saputo condizionare i media. 

Estinti Saluti attraversa questa dialettica tra le idee e i mezzi che le veicolano. Il passaggio dalla pubblicità sulla carta stampata all’era dello spot  televisivo avvenne all’interno delle agenzie di pubblicità sotto forma di formazione e autoformazione professionale intergenerazionale.

Con l’era digitale, questa dialettica s’è interrotta con una velocità centrifuga imposta dall’avvento del digitale, che ha messo ai margini gran parte del bagaglio professionale di un mestiere che, tutto sommato, non s’insegna, si può solo imparare, perché ha in sé una forte componente artigianale.

Lele Panzeri, che ha curato Estinti Saluti insieme a Till Neuburg, Ambrogio Borsani e Marco Ferri, con un moke up del libro, durante la fase di preparazione della campagna di lancio.

Ed ecco, allora, la funzione di questo libro: riallacciare il dialogo tra generazioni professionali, perché alla destrezza con cui le nuove generazioni di creativi maneggiano la tecnologia cibernetica sappiano aggiungere buone idee, grazie a metodi ed esperienze, attingendo alla ricca storia collettiva dell’advertising. 

Estinti Saluti è un libro nato come fosse una campagna pubblicitaria di quelle belle, da un’intuizione di Lele Panzeri, cui hanno lavorato sodo Ambrogio Borsani, Till Neuburg e il sottoscritto, un libro su cui Fausto Lupetti ha creduto, cioè ha fatto l’editore come si facevano gli editori che hanno contribuito alla diffusione della cultura nel nostro paese. 

Estinti Saluti è un libro pieno di storie vivide e di spunti di riflessione, è serio e allegro, è avvincente e istruttivo, tanto piacevole quanto importante, proprio come un saggio che sembra un romanzo di formazione.

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Il primo saggio che sembra un romanzo di formazione.

A grande richiesta, Estinti saluti è prenotatile ora con una e-mail con scritto semplicemente PRENOTATO indirizzata a: daniele@faustolupettieditore.it. A partire dal 13 novembre è acquistabile nelle librerie on-line e potrà essere ordinato presso tutte le librerie. La distribuzione ordinaria è prevista nel mese di dicembre.

Un racconto in presa diretta dell’epopea dell’advertising italiano.

Dal prossimo 13 novembre, a cominciare dalle librerie on line, è in uscita Estinti saluti, che racconta in presa diretta, spesso con lo stile delle short-stories, episodi divertenti, appassionati, a volte amari, sempre realistici, di quella lunga stagione della creatività italiana, – l’epopea dell’advertising made in Italy -, vista con gli occhi, la mente, la penna, i pennarelli, le idee, le parole di chi la pubblicità italiana l’ha creata, tanto da venire definiti i creativi.

La pubblicità italiana ha una lunga e ricca storia. Nei primi anni Ottanta del ‘900, la comunicazione pubblicitaria in Italia arrivò a essere quotata 2mila miliardi di PIL in lire; alla fine del decennio avrebbe superato i 10mila miliardi, per crescere esponenzialmente con l’avvento della tv commerciale. 

Migliaia di giovani creativi furono attratti dalla pubblicità, diventarono copywriter e art director formandosi nelle agenzie di pubblicità, grazie alle generazione professionale precedente. 

La crisi economica globale del 2004 fece perdere valore di mercato alla pubblicità del 30 per cento, perdita che via via negli anni si è allargata a macchia d’olio su tutti i settori merceologici: quella generazione fu quindi messa ai margini dalla velocità centrifuga con la quale si è poi affermato il digitale, interrompendo la dialettica professionale intergenerazionale.  

Il digitale ha ridefinito la spesa pubblicitaria, i ruoli professionali, l’antropologia del creativo e in sostanza ha cambiato la percezione della pubblicità presso i consumatori. 

L’idea è che Estinti saluti possa essere per tutti un buon viatico alla conoscenza storica di quel mondo, ma anche uno strumento agile per riallacciare le nuove generazioni alle storie collettive e individuali in cui si sono formate le esperienze personali, ha preso vita il clima professionale, la mentalità, il modus operandi, le manie e i tic di quello che un giorno Emanuele Pirella definì “il popolo dei creativi”.

L’autore:

Publio Advertito Crea è uno pseudonimo collettivo di tutti gli autori che hanno dato vita questo libro.

A cura di Lele Panzeri, Till Neuburg, Ambrogio Borsani, Marco Ferri

L’editore:

Fausto Lupetti Editore è la casa editrice specializzata nella conoscenza culturale della comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

La copertina: 

Art director – Lele Panzeri

Copywriter – Marco Ferri 

Illustratore – Victor Togliani

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Questo libro farà testo.

Uno degli annunci teaser nati per il lancio di “Estinti saluti”.

Una ricca produzione di annunci teaser per la campagna di lancio di “Estinti saluti” sta inondando i social, come un sasso analogico nello stagno digitale. Come recita il testo, “ Ci sono libri che è meglio non si dica che non avete ancora letto.” La domanda è: chi ha scritto “Estinti saluti”? La risposta il 12 novembre.

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