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Perché Grillo ha ragione.

beppegrillo.it

Se si legge con attenzione ciò che ha scritto Grillo sul suo blog, si scoprono due cose importanti, non solo per il M5s.

La prima è risaputa, anche se troppo spesso viene dimenticata: la fonte delle notizie è sempre più genuina delle interpretazioni che forzano la realtà per volersi sostituire alla verità.

La dimostrazione è che attualmente il dibattito politico, come si auto definisce il chiacchiericcio giornalistico è sull’interpretazione del significato di ciò che sostiene Grillo, e non sulla sostanza della posizione politica che ha assunto:

Il consenso è solo l’effetto delle vere cause, l’immagine che si proietta sullo specchio. E invece vanno affrontate le cause per risolvere l’effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente).”

Questa affermazione che Grillo ha affidato al suo blog è assolutamente condivisibile, perché corrisponde allo stato dell’arte del fare politica in Italia, e non riguarda solo la vita interna al Movimento 5 stelle, ma l’intero campo in cui sono schierate le forze politiche, dentro e fuori le istituzioni rappresentative. 

E infatti, Grillo aggiunge: “Le organizzazioni orizzontali come la nostra per risolvere i problemi non possono farlo delegando a una persona la soluzione perché non sarebbero in grado di interiorizzarla quella soluzione e di applicarla, ma deve essere avviato un processo opposto: fare in modo che la soluzione decisa, in modo condiviso, venga interiorizzata con una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti e non di una sola persona. La trasformazione vera di un’ organizzazione come la nostra avviene solo così.” 

Ecco una considerazione, che richiama la seconda scoperta che si farebbe se si leggesse il suo pensiero alla fonte. Vale a dire che la delega ai dirigenti è un atteggiamento sbagliato, perché deresponsabilizza i singoli, li isola dal dibattito collettivo, e introduce il giudizio passivo per l’operato del capo, e così le energie delle idee si riducono ad assenso e dissenso verso i dirigenti, invece che essere la forza motrice che ne riceve linfa critica e produce iniziativa politica.

La storia dei movimenti, compreso quello operaio non solo in Italia, ha sempre avuto davanti  a sé il bivio: centralizzare la struttura o diffondere organizzazione tra i soggetti sociali coinvolti nel cambiamento dei rapporti di forza? 

Andando via via lungo la storia, il potere va ai soviet o al partito, che poi diventa Stato? Il centralismo può essere davvero democratico? Decidono i consigli di fabbrica o le segreterie confederali? Le idee si formano nelle assemblee studentesche o nelle riunioni dei dirigenti dei gruppi? Il movimento deve strutturarsi o diffondersi?

In altri termini: il partito è un fine (come pensa Conte) o uno strumento (come sostiene Grillo)? Ecco la questione che divide il M5s.

È una questione dirimente. E come tale va considerata. Tutto il resto appartiene a considerazioni strumentali sulla tenuta del governo, sull’alleanza col Pd, sulle prossime elezioni, sul semestre bianco, e via cianciando. 

La tesi secondo cui il nemico elettorale è alle porte e quindi non si deve stare a discutere ha sempre spianato la strada a scelte che, al contrario, hanno favorito l’involuzione del quadro politico e fin troppo spesso ridotto la stessa agibilità politica delle istanze che dal basso rivendicano giustizia sociale. 

La parabola del Pd è lì che lo testimonia e continua a dimostrarlo: è un partito che crede di affidare le proprie sorti al segretario di turno, che gestisce il traffico caotico delle correnti, che anestetizza le contraddizioni sociali in virtù del sacro totem della governabilità, invece che alle spinte che vengono dal basso per politiche inclusive, egualitarie, ridistributive, capaci di creare coesione sociale, giustizia sociale, diffusione dei diritti civili, sociali e politici, e un’idea della sviluppo che non sia di solo profitto per pochi e costi sociali insostenibili per la maggioranza delle persone. 

Grillo ha ragione. Il che non significa che ce la farà. Ma personalmente sarei davvero stufo che ce la facciano sempre quelli che  – per avere successo – dicono e fanno cose sbagliate. Il M5s ha fatto molte cose sbagliate. Questo dibattito interno potrebbe essere molto salutare, non solo per loro.

p.s.: ai finti tonti, o genuini ignoranti, ricordo che l’accusa di pratiche seicentesche, di cui Grillo ha fregiato il lavoro di Conte,  si riferisce all’Assolutismo, che dal 1660 al 1789 imperversò in Europa.

Ricorderei che il 1789 è la data della nascita della Rivoluzione francese, che, tra le altre cose, spazzò via proprio l’Assolutismo. Ogni riferimento è tutt’altro che casuale. 

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Marketing

Zitto e compra.

Siamo diventati tutti prigionieri della catena del valore.

L’ultima trovata del telemarketing è farti telefonare non più da un essere umano, donna o uomo, che per pochi euro ti invade il telefono con offerte commerciali sempre più vantaggiose per chi le propone e non per chi le accetterebbe, come scopri solo dopo che incautamente le avresti accettate.

L’ultima trovata è che adesso ti chiama direttamente un nastro registrato che tenta di spararti nelle orecchie mirabolanti vantaggi.

Non bastava che ormai parlare con un essere umano per avere chiarimenti, o segnalare un disservizio è sempre più difficile, visto il proliferare di “assistenti virtuali”, che spesso hanno nomi che sembrano di pornostar, che ti dicono o scrivono quello per cui sono stati impostati, che è in realtà il modo più subdolo di dissuaderti dal rivendicare quel minimo di diritti cui ormai sono stati ricacciati i consumatori, considerati sudditi di grandi compagnie che non hanno tempo da perdere, dunque attenzioni da dedicarti.

Loro fanno tariffe, loro fatturano, loro sono irraggiungibili, intangibili. Il marketing da tecnica commerciale diventa regime autoritario, comando oligarchico.

Ed ecco che la grande maledizione del capitalismo moderno si realizza in pieno: prima hanno trattato male i dipendenti, oggi tocca a quelli che una volta erano venerati come “clienti”, per non perdere i quali i dipendenti hanno dovuto accettare ogni sorta di angherie.

Ormai prigionieri della catena del valore, oggi, finalmente, tu non sei più neppure un cliente, solo una carta di credito o un bollettino postale. Zitto e paga.

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Attualità

Al via “Rotondi, librai dal 1941”.

La nuova campagna di re-branding della Libreria Rotondi di Roma, a cura di Marco Ferri

pubblicato da http://www.adcgroup.it/adv-express/creative-portfolio/

Uno degli annunci della campagna multi soggetto.

Il noto creativo, Riccardo Bizziccari (Art Director e graphic designer) e Leandro Casini (print producer), hanno creato, curato e sviluppato il progetto per nota libreria di Roma: dall’adv all’allestimento del pdv, dall’immagine coordinata all’insegna, dagli spazi esterni all’outdoor, dalla gestione dei social agli eventi, fino agli shopper e i segnalibro.

Il nuovo allestimento esterno,

Nata nel 1941, a libreria Rotondi di Roma compie ottant’anni. Oggi è guidata dalla terza generazione di librai, le cui attività di rebranding sono state curate da Marco Ferri.

“Una libreria di questi tempi è una specie di reliquia della cultura. Un libreria, poi, che ha resistito per 80 anni è una grande notizia, grande e carica di significati, come fosse una cattedrale della fede nella parola stampata”, dice Marco Ferri, che con Riccardo Bizziccari, Art Director e graphic designer, e Leandro Casini, print producer, hanno creato, curato e sviluppato il progetto: dall’adv all’allestimento del pdv, dall’immagine coordinata all’insegna, dall’allestimento degli spazi esterni all’outdoor, dalla gestione dei social agli eventi, fino agli shopper e i segnalibro.

Allestimento interno.

“Una volta c’erano pochi libri e molto lettori – dice Francesco Dante, uno dei titolari -,  oggi è il contrario, troppi libri, meno lettori. E un lettore va aiutato a districarsi nelle mangrovie del marketing editoriale, va ascoltato, consigliato”.

“La nostra formula – dichiara Barbara Dante, che con il cugino Francesco gestisce la terza generazione della Libreria Rotondi – è essere specializzati in volumi di pregio, ma non di antiquariato, anche se abbiamo volumi preziosi. Non siamo una libreria generalista, il negozio è organizzato per aree tematiche, con titoli importanti, spesso edizioni pregiate, fuori catalogo, che offriamo al pubblico in

Allestimento interno.

un ambiente caldo, intimo, confortevole, dove aleggia la sensazione del bello”.

La campagna ‘Rotondi, librai dal 1941’, multisoggetto e articolata nel lancio del nuovo logo, del marchio celebrativo degli 80 anni di attività, di una prossima promozione celebrativa e di una serie di eventi che si alterneranno fino alla fine dell’anno, è partita oggi sui social della Libreria.

http://www.adcgroup.it/adv-express/creative-portfolio/brand-identity/al-via-rotondi-librai-dal-1941-campagna-di-re-branding-della-libreria-rotondi-di-roma-a-cura-di-marco-ferri.html

http://www.libreriarotondi.it

Il nuovo logo.

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L’iniziazione del piccolo Cam.

Ripartono i festival dedicati al cinema. A Spello in Umbria è stato proiettato “La guerra di Cam” di Laura Muscardin. Il film uscì in pieno lockdown, e non potè, dunque, andare nelle sale. A febbraio del 2020 intervistai la regista, via Skype.

Laura Muscardin, sua sorella Anna, Flavia Mariani (per non parlar del cane) a Villa Pianciani, durante il Festival del Cinema Città di Spello.

Una conversazione di Marco Ferri sui temi di La guerra di Cam, con Laura Muscardin, regista, e Flavia Mariani, spettatrice ed esperta di comunicazione.

[pubblicato su grandimagazziniculturali.it

La guerra di Cam è una favola contemporanea che racconta come un ragazzino sia riuscito a rompere il guscio dell’infanzia. L’impatto col mondo dei grandi è duro, faticoso, addirittura pericoloso. Il mondo di Cam è funestato dal disastro: il crollo della civiltà umana, le scorrerie di bande armate, villaggi abbandonati e carcasse di architettura incompiuta o abbandonata, la compravendita della salvezza per i superstiti, l’inganno e il tradimento come ostacoli alla sopravvivenza.  E la natura, lasciata a se stessa, che è tornata ostile e pericolosa per gli umani.

Ci sono diverse chiavi per interpretare il film e anche più di un tasto che si può toccare per accendere l’interesse sulla storia che viene raccontata. Vorrei provare a pigiarne qualcuno. Comincerei dall’atmosfera della narrazione.
Laura Muscardin: È stato detto che è un film distopico, termine che va di moda, ma che a me non piace. Non volevo fare fantascienza. È la storia di un bambino alle prese con una realtà ostile alla sua infanzia. Uscire dall’infanzia è fare i conti con il mondo degli adulti è sempre una lotta, a cominciare dal conflitto con se stessi.

Flavia Mariani: Questo è proprio il tema avvincente del film, in cui si capisce che il contesto “catastrofico” è un pretesto narrativo, ma che la vera trama è incentrata sulle “avventure” di un ragazzino alle prese con l’essere all’altezza del mondo dei grandi. In un mondo degli uomini che è in conflitto con il pianeta.

Tuttavia, non c’è dubbio che il contesto in cui si muovono i personaggi del film è, in prima battuta, apparentabile al filone catastrofico. A cominciare dai luoghi in cui si svolge la scena: archeologia industriale, villaggi abbandonati, opere pubbliche incompiute.
Laura Muscardin: In Italia, secondo un censimento, il 40% delle opere architettonica, sparse da nord a sud del paese, è in uno stato di abbandono e disfacimento, tra la natura che si riprende il suo spazio. D’altro canto, anche il cosiddetto dissesto idrogeologico, cioè la mancanza di cura ambientale, fa sì che spesso alcuni luoghi siano inospitali, per non dire non in sicurezza e dunque pericolosi.

L’uso cinematografico di questi luoghi dell’abbandono architettonico, tuttavia, sembra una sorta di economia circolare: dal momento che l’opera abbandonata diventa protagonista di un’opera creativa, ecco che rinasce nel suo riuso.
Laura Muscardin: In effetti, è così. Senza contare che le prime inquadrature del film si svolgono nel cretto di Burri, là dove, appunto, Alberto Burri creò questa famosa opera di “land art”, realizzata nel luogo in cui sorgeva la città di Gibellina, completamente distrutta dal terremoto del Belice del 1968. Ecco che le opere pubbliche, e soprattutto quelle artistiche, danno memoria ai luoghi.

Flavia Mariani: Quelle scene sono molto suggestive, fanno venire voglia di andare a vedere il cretto di Burri di persona, di venire abbacinati dal riflesso di quella pietra bianca, che riluce al sole della Sicilia.

D’altronde, è un fatto assodato che il cinema sia un potente vettore che stimola il viaggio. I luoghi visti nei film attirano i visitatori, come se le persone, più che andare per la prima volta, ritornassero in un luogo che l’emozione della macchina da presa ha stampato per sempre nelle loro fantasie. E la visita fosse la conferma di quelle fantasie. Ecco un altro aspetto, niente affatto trascurabile, che ci dice dell’importanza dell’economia circolare stimolata dalla creatività, utile al turismo. Tornando alla narrazione, mi pare che lo scenario in cui si muovono i personaggi richiami almeno due grandi emergenze: la prima è umanitaria, quella dell’immigrazione, che nel nostro caso è emigrazione cioè il tentativo di fuga attraverso il mare verso lidi accoglienti.
Flavia Mariani: Mi ha molto colpito quella sorta di perfetta similitudine tra la fuga dalle guerre dei popoli dei paesi della sponda africana del Mediterraneo e il disperato tentativo di raggiungere il mare per mettersi in salvo da parte dei protagonisti del film. Fa riflettere pensare che quei disperati potremmo essere noi.

Laura Muscardin: È il plot attraverso cui si svolge il racconto. Un bambino e sua sorella più grande, durante un tentativo di raggiungere la costa per imbarcarsi in un natante di fortuna, vengono separati da un atto violento dei trafficanti di esseri umani. È la storia del piccolo Cam che cercherà di ricongiungersi alla sorella.

Si capisce, fin dai primi fotogrammi, che il crollo della civiltà ha prodotto guerra, distruzione, povertà e ci sono stati molti morti. Dunque, per venire alla seconda grande emergenza, quella sanitaria, per altro ancora in atto, il tema delle vittime, della paura, ma anche della solidarietà, sembra aleggiare nel film.
Laura Muscardin: È strano. Dovevamo uscire lo scorso anno nelle sale, ma siamo stati bloccati, come tutti, dalla pandemia della prima ondata e la conseguente chiusura delle sale cinematografiche. Il film è stato collocato temporaneamente on line. Da principio, sembrava proprio che il lancio fosse destinato a soccombere per colpa della cattiva sorte. Ma poi è arrivato il successo al Giffoni Film Festival che ci ha dato il premio per le tematiche ambientaliste. Questo, oltre che l’ovvio piacere che un premio ti dà, ci ha fatto riflettere. È come se fossimo usciti nel momento giusto, nonostante tutto: tra le grandi mobilitazioni stimolate dall’attivismo di Greta Thunberg e dai ragazzi del “Friday For Future” e la riflessione collettiva – spinta dall’insorgenza e le conseguenze del CovId-19 -, su quell’infezione da virus, provocata dal cattivo rapporto che il nostro stile di vita ha con la natura, e l’ambiente in genere, che spinge i virus al salto di specie tra animali ed esseri umani.

Flavia Mariani: Comunque nella trama c’è la sotto storia di una ribellione allo strapotere dei trafficanti di esseri umani in fuga dalla catastrofe. Insomma, allo strapotere del denaro e dell’accumulazione di ricchezze l’antidoto è il coraggio della solidarietà. Come un vaccino.

È ora di tornare sull’iniziazione al mondo degli adulti di Cam, il protagonista. Nel suo tentativo di trovare la sorella, egli si imbatte in un adulto, che lo accompagnerà fino alla fine della storia, e fino al colpo di scena di cui non vogliamo parlare per non rovinare le emozioni di chi non lo ha ancora visto. È un adulto ambiguo, istrionico, forse un “cattivo maestro”, che tuttavia si prende cura di Cam.
Laura Muscardin: È in questo incontro che si svolge la storia che raccontiamo nel film. È quest’adulto che in un certo senso officia il rito dell’iniziazione alla vita dei grandi, che costringe Cam, come dici tu, a rompere il guscio dell’infanzia.

Ci sono forti suggestioni che richiamano le ottocentesche favole per bambini: la foresta paurosa, la caverna buia, gli scheletri di uomini morti ammazzati, il ritrovamento di armi arrugginite, la sensazione del pericolo, gli incubi.
Laura Muscardin: La chiave però è moderna, direi attuale. Tra le difficoltà che un bambino deve affrontare, per iniziare a capire qual è la strada migliore per affacciarsi al mondo adulto, ci sono ostacoli spesso incarnati proprio dagli adulti che gli sono più vicino. Edulcorare la realtà e le sue difficoltà non giova alla loro crescita interiore.

Flavia Mariani: Il protagonista adulto del film è, forse, fin troppo cinico, sfrontato nel raccontare come stanno le cose al suo piccolo partner nell’avventura.

Laura Muscardin: Il maestro è “cattivo”, ma alla fine, grazie a lui, Cam avrà ben chiaro come comportarsi e farà la cosa giusta al momento giusto.

La guerra di Cam è un “film a piedi”, tra natura impervia e architettura abbandonata, un film in cui i personaggi camminano sui sentieri delle difficoltà di essere bambini in un mondo in cui gli stessi adulti rischiano di perdere le loro sicurezze, fondate su stili di vita e di benessere sempre più precari, per via della crisi in cui abbiamo scaraventato  il rapporto tra esseri umani a l’ambiente.

Secondo Paul Ehrlich, “Quando una popolazione si avvicina al limite della capacità del suo ambiente di supportarla, la salute media dei suoi individui tende a diminuire, in modo da ridurre la crescita della popolazione. Il problema con l’Homo sapiens è che grazie al nostro ingegno siamo, per millenni, riusciti a sottrarci a questo meccanismo ri-equilibratore, e abbiamo trovato sempre nuovi modi per produrre più cibo, conquistare più aree, anche quelle in precedenza inabitabili, e sfruttare più risorse”.

“Il nostro pianeta, però, adesso ci presenta il conto”, conclude Ehrlich. Il conto è anche sotto forma di pandemie, aggiungo io.

La guerra di Cam, di Laura Muscardin ha vinto il Best Feature Film al Sweden Film Award; il premio come miglior lungometraggio italiano al 74° Festival Internazionale del Cinema di Salerno; il premio CIAL per l’ambiente al Giffoni Film Festival.  È visibile su: https://it.chili.com/content/la-guerra-di-cam/e6fdd0e2-e5b9-4180-9898-2b54663efa4b

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C’è sempre un colpevole.

Sembrerebbe che la soluzione di ogni problema che si presenta davanti alla nostra attenzione sia cercare il colpevole. Le cause del problema e le conseguenze di una possibile soluzione non interessano. Ci vuole un colpevole, a ogni costo, da sbattere in apertura del tg, nell’occhiello di un titolo, in una dichiarazione politica, nel promo di un talk, in un post.

Un colpevole, il mio regno per un colpevole! Contro cui scagliarsi con retorico vigore, violenza verbale e vile compiacenza, con facile e sadico cinismo. L’odio bieco, cieco, implacabile contro le persone, costrette a furor di popolo sul banco degli imputati di un processo alle intenzioni, impedisce volutamente di comprendere i rimedi. È il trionfo dell’ingiustizia sommaria.

Viviamo nelle caverne del risentimento, la vendetta verbale è la nuova clava, utile strumento del nuovo primitivismo dell’informazione e della propaganda politica.

L’immigrazione? È colpa degli immigrati. La disoccupazione? È colpa dei cassaintegrati. Lo stupro? È sempre colpa della donna. Il Covid? È colpa dei cinesi. L’inquinamento? È colpa dei maleducati. La povertà? È colpa dei poveri.

E se provi a dire che forse la soluzione ha bisogno di essere cercata, analizzata e sperimentata, la risposta è pronta, rapida e lapidaria: “il problema è un altro”. E così diventi subito tu un nuovo colpevole, uno di quelli che non vogliono capire  di chi è la colpa. Che è colpa di gente come te se le cose vanno male.

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Furtivi furti.

Cosa succede alle antenne delle Smart?

Dopo la ” moda” di rubacchiare la stella Mercedes, ecco che si asportano le antenne della radio alle Smart. 

C’è stato un periodo in cui “andava di moda” rubare la stella Mercedes. Attualmente, si asportano le antenne della radio alle Smart. 

Ora, la questione è la solita: chi lo fa conta sulla elementare consapevolezza che c’è chi è disposto a comprare l’oggetto rubato. 

È il consolidato rapporto tra la domanda e l’offerta, tipico dell’economia di mercato. Che pone l’antica questione: cos’è il furto se non uno dei modi di ricavare profitto? Perché chi compra una cosa rubata si sente moralmente assolto, tanto da ritenersi molto più furbo di quelli che i pezzi di ricambio-auto li comprano regolarmente? 

Non sarà che è il profitto a fare l’uomo ladro, e che sia l’atavica attrazione per un “buon affare” a rendere un onesto cittadino un banale, bieco, codardo ricettatore di merce rubata? 

Può darsi pure che uno che abbia subìto il furto dell’antenna della sua Smart abbia pensato di risolvere la faccenda facendo a un altro quello che lui era toccato in sorte. Sicché la figura del ladruncolo e del ricettatore si sia incarnata in un’unica persona, autorizzata dal sopruso subìto a farsi giustizia da solo. 

E che di questo gestaccio si senta fiero, pur nella recondita paura di subire di nuovo lo sfregio del furto della cosa rubata. Che forse è la vera punizione: vivere con le antenne perennemente in allarme per paura che qualcuno rubi l’antenna rubata. In una condizione emotiva tipica del Pleistocene, periodo geologico in cui non è raro sentirsi se uno vive a Roma.

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Se le opinioni hanno il sopravvento sui fatti.

Un tempo ci si sforzava di tenere le opinioni separate dai fatti. Poi finalmente la separazione è diventato divorzio: le opinioni sono tutto, i fatti contano più niente. Bisognava scriverli con cura e leggerli attentamente. Roba vecchia. Oggi, l’informazione, per vendere, deve essere veloce, attraente, leggera. Fare informazione era stimolare il desiderio di farsi un’opinione sulla realtà. Ma vuoi mettere vendere direttamente un’opinione bell’è pronta, come un piatto unico surgelato, che bisogna solo riscaldare un po’ al microonde? «È la stampa, bellezza! La stampa! E tu non ci puoi far niente! Niente!» diceva beffardo Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks “Deadline” – U.S.A. (in italiano: L’ultima minaccia, 1952). Oggi diremmo: è “il marketing bellezza”, in cui l’informazione, in tutte le sue moderne articolazioni, soprattutto quando si occupa di politica, ha rubato il ruolo all’advertising. Ma almeno la pubblicità era onesta non faceva finta di essere informazione, anzi cercava di competere sul piano dell’autorevolezza degli argomenti. E questo è un fatto, più che un’opinione. (https://youtu.be/VRq6BH7hFjE). Morale? Sempre più spesso ai fatti si contrappongono le opinioni: è l’apoteosi della propaganda, la negazione assoluta di ogni verità.

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Afghanistan? Mai più.

Morti, feriti, invalidi e tanti miliardi di euro buttati per cosa? 

Il nostro esercito è stato mandato in Afghanistan per togliere il paese dalle mani di quegli stessi cui ora si riconsegna:  nelle mani dei taliban. 

Questa tragica farsa è durata venti anni, tanto inutili quanto sanguinosi, profittevoli solo per chi costruisce armi, armamenti e equipaggiamenti militari. 

Erano al governo Berlusconi, Bossi e Fini, lacchè dell’Amministrazione Bush che inventò quelle panzane andate sotto il nome di “guerra al terrorismo” e “esportazione della democrazia”. Quelle panzane sono costate all’Italia 54 morti, centinaia di feriti, di invalidi tra i reduci.

La partecipazione alle guerre in Afghanistan prima e in Iraq poi si sono rivelate scelte scellerate di politica estera. 

La menzogna dell’azione di “peacekeeping”, con cui si è intossicata l’opinione pubblica, ha distrutto nel mondo arabo la reputazione di un Italia pacifica e pacificatrice, percezione faticosamente ricostruita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo le sciagurate, nonché criminali, avventure colonialiste, nate dalle velleità imperialiste che i Savoia trasmisero, come un’infezione venerea, al militarismo dell’era fascista.

La partecipazione italiana all’avventura afghana è stato un fallimento, sotto ogni profilo.

In questi lunghi e maledetti vent’anni, quanti soldi sono stati tagliati, per esempio, alla Sanità pubblica per finanziare le “missioni militari all’estero”?

L’Italia si è comportata male, in Europa non si è impegnata per una politica estera autonoma dall’arroganza bellicistica del Pentagono. Sul fronte atlantico, non ha stabilito chiare regole. Attualmente, il nostro paese è l’ultima ruota di quel carro che si chiama Nato: nelle nostre basi militari scorrazzano aerei carichi di truppe e bombe.

L’ignominioso ritiro dall’Afghanistan, paese che lasciamo nei guai, – ritiro addirittura ridicolizzato dal boicottaggio degli Emirati che hanno bloccato per ore un aereo italiano zeppo di giornalisti, chiamati a incensare l’evento, – dovrebbe far riflettere il governo Draghi. 

Quando ci si auto definisce “europeisti e atlantisti” esattamente che si intende, per esempio quello che la politica italiana ha combinato in Afghanistan? Mai più.

Dopo vent’anni di fallimenti, quale credibilità possono avere le parole del ministro Guerini, quando dice a quelle donne e uomini, in guerra da due generazioni, che non li abbandoneremo alle ritorsioni dei taliban? 

L’altro giorno Kabul è stata ammainata la bandiera di un paese che ha saputo dare il peggio di sé, perché non ha tenuto fede a quei principi costituzionali per mezzo dei quali la democrazia italiana ripudia la guerra, e di conseguenza ogni forma di invasione militare. Sono quei principi che dovrebbero consentire all’Italia un ruolo da protagonista credibile in Medio Oriente, e non un’opaca funzione da attendente servile di interessi politico-militari altrui.

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La tossicità del pregiudizio.

Come un’ipotesi investigativa sta diventando una verità.

Quello che potrebbe essere successo a Saman è atroce. Ma è solo un’ipotesi investigativa. Che però viene spacciata come verità da tutti i media, e alimenta il chiacchiericcio dei talk show. 

Così si  avvelenano di pregiudizi le indagini e la cronaca, cioè la Giustizia e l’Informazione, che sono i veri antidoti al patriarcato violento e assassino. Così si intossica il discorso pubblico.

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L’ente comunale della lettura.

Conversando con una libraia creativa.

Ripropongo questa conversazione con Monica Maggi, apparsa in gennaio su “Memo-Grandi Magazzini Culturali (grandimagazziniculturali.it) perché la sua esperienza al mercato rionale del Tufello, famoso quartiere della capitale, si è estesa ormai anche a due comuni della Città Metropolitana di Roma, – Riano Flaminio e Sacrofano, dove proprio stamani il Comune ha le ha messo a disposizione uno spazio fisso al mercato. La distribuzione gratuita dei libri, salvati dal macero, sta diventando una vera e propria attività culturale, che riscuote una crescente approvazione, molti consensi e sempre più numeroso pubblico.

Monica Maggi.

Monica Maggi ha sessantadue anni, è una donna minuta, lo sguardo vivo dietro un paio di occhialoni tondi dalla montatura importante. Sposata con un uomo che non sa più dove stipare in casa migliaia di libri (“in garage non ce n’entrano più”). Lei sembra avere l’energia e la vitalità di un’atleta ventenne; l’acume e l’inventiva di una provetta giocatrice di scacchi. Monica Maggi è una libraia molto creativa. Ha inventato una formula di distribuzione senza precedenti. Ha aperto un chiosco al mercato rionale di uno dei quartieri più popolari di Roma, il Tufello, dove è ancora vivo il ricordo di Gigi Proietti, che qui è cresciuto.

Se anni fa nei mercati c’erano i banchi alimentari dell’Ente Comunale di consumo, nati nel dopo guerra come calmiere che tenesse a bada i prezzi, Monica Maggi ha inventato il banco di quello che si potrebbe definire “ente comunale di lettura”. Grazie allo spazio datole in gestione gratuita dal responsabile dei mercati del III Municipio, con il favore della giunta guidata da Giovanni Caudo, giunta nella quale siede come assessore alla cultura Christian Raimo, Monica ha inventato una formula che supera la stessa idea del “book-crossing”, cioè lo scambio dei libri. Lei i libri li sceglie, li consiglia, ne parla e li regala.

Vengono a curiosare, vanno via con un libro. Poi tornano a parlarmi di quello che hanno letto, svelano i loro interessi, ciò che piace e piacerebbe loro leggere, e allora io cerco quello che penso vada bene -mi dice. E aggiunge: –È bello vederli mettere i libri tra le buste della spesa, fare della lettura un gesto normale, come di tutti i giorni. Non è vero che la gente non legge. Se sanno dove trovare i libri, li prendono, li leggono.

-Chi sono? le chiedo.

Soprattutto donne, di tutte le età. Anche giovani. Mamme con i bambini che chiedono fumetti o libri illustrati. E uomini adulti e anziani. Ragazze. I ragazzi pochi, ma credo dipenda dal fatto che i ragazzi non vanno a fare la spesa. Anche i titolari delle bancarelle vicine spesso vengono a chiedere un libro.

-È come aver ridato vita all’idea che il mercato sia un luogo d’incontro di persone che si sentono parte di una comunità, le dico.

Esattamente quello che mi ha detto Giovanni Caudo, quando è venuto a trovarmi, sembrava in incognito, dietro la mascherina, mischiato tra la gente che si aggirava attorno al chiosco dei libri, dice Monica.

A partire dal mercato del Tufello, Covid permettendo, Monica Maggi sta progettando di aprire un chiosco di lettura anche negli altri cinque mercati del III Municipio, che conta oltre 200 mila residenti.

-Quanti libri hai distribuito finora?

Alcune migliaia.

-E come sei organizzata?

Abbiamo fondato un’associazione culturale, Libra. Siamo riconosciuti dall’UNESCO e abbiamo il sostegno delle Biblioteche di Roma. Queste attività di diffusione dei libri sono parte integrata di “Pagine viaggianti”, un progetto che ci vede impegnati nella diffusione della lettura.

-Come fate ad avere i libri che poi distribuite gratuitamente?

Li salviamo dal macero. Li andiamo a prendere dove ci chiamano. Recentemente una collezione di volumi di Mauro Ferri, ex presidente della Corte Costituzionale e una donazione di Dacia Maraini, con il fattivo aiuto dell’assessore alla cultura, li abbiamo consegnati al Comune di Sacrofano, che sta per aprire una biblioteca comunale. È stato emozionante: siamo stati ricevuti nella sala consigliare, la sindaca si era messa la fascia tricolore, perché fosse solenne che le due donazioni rappresentassero idealmente la posa della prima pietra della nuova biblioteca pubblica del Comune.

-Dunque, prendete libri da chi se ne disfa, e li ridistribuite a chi ha voglia di leggerli.

Sì, è proprio così. Oltre al mercato del Tufello, abbiamo due bancarelle nei giorni di mercato a Riano, un paese dell’area metropolitana a nord di Roma, lungo la via Flaminia. Succede spesso che ci portino libri che non vogliono buttare, ma che non trovano più spazio nelle loro case.

-Una specie di “economia circolare della lettura”, dico, quasi per scherzo.

In effetti – dice Monica Maggi – in questo modo si riscopre il rapporto tra libraio e lettore. È un rapporto intimo, fatto di pensieri appresi dai libri e di desideri di conoscenza da soddisfare. I libri sono come le persone, e le persone sono come i libri: quando si aprono, bisogna saperle sfogliare, consultare, leggerle. Parlare con le persone per capire cosa piacerebbe loro leggere è proprio come leggere le storie che i libri poi raccontano loro.

-Claudio Magris dice che tutti i libri sono importanti, anche quelli brutti, le faccio notare.

Però, mi è successo recentemente che mi sia stato riportato indietro un libro di un noto giornalista televisivo che li sforna tutti gli anni per Natale, perché non piaceva a chi lo aveva preso. Gliene ho dovuto cercare un altro. La cosa mi ha dato una certa soddisfazione: il senso critico di un lettore ha sempre la mia simpatia.

-Monica, mi hai detto che scrivi poesie, le dico all’improvviso.

Sì, amo la poesia, la cerco, la scrivo. Organizzo anche “maratone di poesia” sui social, cui partecipano molte persone.

-Umberto Galimberti scrive che secondo Heidegger “fare poesia è fare opera di verità, è svelare, è portare qualcosa alla luce”. Mi pare che sia quello che fai con i libri: porti alla luce il desiderio di leggere.

Mi dò da fare, ci diamo da fare. La diffusione della lettura apre non solo molte menti, ma anche molte porte a nuove idee, per dare vita a progetti. Per esempio, stiamo per inaugurare un corso di italiano per adulti stranieri a Riano, e più in generale facciamo formazione ai docenti sulle tematiche del bullismo, per riuscire a individuare in tempo sintomi di quella rabbia che ne è l’origine. Prevenire è meglio che punire.

-Hai mai pensato di aprire una libreria?

L’ho avuta per qualche anno. Ma ho dovuto chiudere. Non era economicamente sostenibile. Ormai le mie figlie erano diventate grandi, allora, mi sono messa a fare la giornalista free lance. E poi mi è venuto in mente di fondare l’associazione e creare il progetto “Pagine viaggianti”. Amo leggere e vedere che tante persone hanno ripreso i libri in mano mi riempie di energie.

-Dunque, non è vero che la “gente non legge”, le dico.

La gente legge quello che le interessa. Ma bisogna che quando esce di casa incontri facilmente occasioni in cui poter prendere in mano un libro, sfogliarlo, soffermarsi su un brano. C’è sempre un libro che può interessare, e riaccendere la voglia di saperne di più. Della vita, delle cose, del mondo che ci circonda.

Alla fine di questa conversazione con Monica Maggi, libraia appassionata dei libri come oggetti di scambio di esperienze umane, mi viene in mente “La cultura degli europei” di Donald Sassoon (BUR, 2011), il quale a conclusione dell’introduzione del suo monumentale lavoro, scrive: “Gli oggetti culturali, il processo creativo a loro sotteso, la loro vendita, la loro fruizione, il loro commercio servono a molteplici scopi: hanno un valore simbolico, definiscono le identità, recano prestigio e fama, danno lavoro, informano e intrattengono. Soprattutto ci aiutano a passare il tempo. Il fatto di profondere tali sforzi alla ricerca di qualcosa che sembra di così scarsa importanza – se paragonati a questioni rilevanti come la guerra e la pace, la lotta contro le malattie, la ricerca di cibo e di un riparo – è il tratto distintivo della civiltà umana.”

Dunque, questa donna minuta ma tenace, che salva e ridistribuisce i libri, sta facendo bene una parte di quel tratto distintivo di cui parla Sassoon.

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La morale della lezione.

Immagine di repertorio UNINT. La lezione è stata a distanza.

Alcuni giorni fa, sono stato invitato da Gabriele Qualizza a partecipare a una lezione del suo corso presso la UNINT di Roma. L’argomento verteva sul rapporto tra le idee di comunicazione e gli strumenti del comunicare, come McLuhan definì i media. La mia opinione è che il creativo è sempre un artigiano e ogni tentativo di rendere “industriale” la comunicazione ne avvilisca la portata, perché fa esclusivo affidamento alla tecnologia.

Quella dei campioni statistici, ai tempi dello strapotere di Auditel e dei suoi famigerati Grp’s, quella odierna dei social, con l’ossessione persecutoria dei cookies, sono l’anatema di Henry Ford, che si ostinava a voler sapere con esattezza come i suoi soldi potevano essere efficaci in pubblicità.

Oggi la profanazione dei desideri dei target è più sofisticata, ma non garantisce risultati oltre la capacità creativa di inventare messaggi che abbiano l’energia di venir ricordati, apprezzati, che rimangano nella mente dei lettori, degli spettatori, dei naviganti. Messaggi capaci di stimolare la facoltà di ciascuno di farsi un’opinione circa la validità di un servizio, di un prodotto, di una marca, di un’idea.

Ad un certo punto, Gabriele Qualizza mi ha chiesto di suggerire ai suoi studenti, oltre quaranta in collegamento, alcuni consigli per affrontare il mondo del lavoro. Ho suggerito loro di non smettere di studiare, anche dopo la laurea, di sentirsi sempre costantemente in auto-formazione, perché qualsiasi impiego troveranno dovranno essere persone capaci di cogliere i segnali che vengono dal mondo reale, segnali che attraversano la società, le istituzioni, le aziende. Dovranno essere in grado di coglierli velocemente e comprenderne il significato, ma anche il significante, le indicazioni intrinseche e il linguaggio.

Una volta, a una delle mie figlie, fu consigliato da un magistrato, che teneva i corsi propedeutici al concorso per la Magistratura, di leggere sempre anche molta narrativa, perché aiutava a scrivere le sentenze, che, essendo la dimostrazione pratica dell’astrazione del diritto, dovevano essere non solo tecnicamente argomentate ma formulate in modo che avessero il massimo grado di comprensione possibile. Sono molto d’accordo: leggere molto aiuta a parlare correttamente e a scrivere bene.

Bisogna stare sempre con le antenne ben orientate al nuovo, all’inaspettato.

Mentre i codici interpretativi si fondano sul già fatto e quindi spesso, per non dire sempre, non sono dialettici con la realtà, questa, con le sue contraddizioni, le sue modalità, sviluppa costantemente il divenire prodotto dalla storia.

Per esempio, non era prevedibile che il mercato dell’automotive o quello degli elettrodomestici potessero andare in crisi per via della penuria di microchip, la cui produzione è stata assorbita dall’aumento delle vendite di smartphone e tablet. Una richiesta poi imprevedibilmente aumentata in concomitanza dei lockdown imposti dalla pandemia.

E allora, ho mostrato una delle mie matite: ecco, non smettere di scrivere a mano ci aiuta ad andare oltre le eventuali défaillance della tecnologia.

Uno dei ragazzi mi ha chiesto perché ritenessi l’intervento di Fedez durante il Concerto del Primo Maggio alla stregua di un episodio di una campagna ego-riferita al suo ruolo di influencer. E se non ritenessi giusto che i ragazzi di oggi fossero d’accordo con lui e le sue idee di tolleranza di genere.

E qui si è toccato il punto: quando la comunicazione commerciale, ma anche istituzionale e politica, assume posizioni su questioni cosiddette “etiche” non lo fa perché il committente crede fermamente alle tesi della comunicazione esplicita, la fa perché sa di incontrare il favore del pubblico. Dunque, ho detto: ragazzi battetevi per le vostre idee, andate controcorrente, rifuggite la banalità, il conformismo cui spesso le gerarchie aziendali vi spingeranno.

Solo così le vostre idee potranno avere una chance di diventare comportamenti collettivi, che spingeranno anche il marketing ad assumerli come contenuti da comunicare.

E questo, ovviamente, vale per la politica, cioè quel luogo in cui i cambiamenti diventano fatti concreti di una società. Credo anche che non bisogna cadere nella trappola della specializzazione. Specializzarsi è una modalità che può essere utile a trovare un impiego soddisfacente, ma la nostra cultura deve essere rinascimentale, la più vasta possibile, per affinare le doti personali arricchendole di molti interessi.

Una visione ampia della realtà è utile, tra l’altro, anche a cambiare spesso mestiere, che è uno degli sport preferiti nella società capitalista, che, con la vocazione alla cosiddetta distruzione creativa, trasforma il lavoro, costringendoci di continuo ad adattarci a nuovi ruoli professionali.

La questione, del resto non riguarda solo gli studenti del corso cui sono stato invitato a partecipare, ma gran parte dei protagonisti a vario titolo del mondo dell’istruzione, della ricerca, della cultura. Beh, buona giornata.

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Carlo Azeglio Ciampi, martire della toponomastica capitolina.

La tormentata posa della targa stradale in onore di Ciampi è diventa una farsa in due atti.

Dopo l’errore nel secondo nome di battesimo sulla targa stradale, cui si è rimediato in fretta e furia rifacendo di corsa la targa, adesso l’errore – addirittura tanto più grave, quanto grottesco – di aver collocato le date in una posizione graficamente sbagliata, che lo farebbe Presidente a vita, fin dalla nascita, 26 anni prima della proclamazione della Repubblica Italiana.

Ogni giorno Roma va di Raggi in peggio.

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Quei librai di terza generazione.

Conversando con Barbara e Francesco Dante, titolari della Libreria Rotondi, fondata a Roma nel 1941.

[di Marco Ferri – pubblicato su Memo, Grandi Magazzini Culturali]

Barbara e Francesco Dante.

-Che vuol dire essere un libraio oggi,  chiedo a Francesco Dante, che insieme a sua cugina Barbara, gestisce la Libreria Rotondi, al civico 82 della famosa via Merulana, la strada  di “quer pasticciaccio brutto” di Carlo Emilio Gadda. La via che congiunge San Giovanni in Laterano con Santa Maria Maggiore, due delle sei basiliche papali di Roma; la via in cui affaccia il mitico Teatro Brancaccio, dove un murale ricorda Gigi Proietti, che ne fu direttore artistico; la strada che divide il Colle Oppio, che sovrasta il Colosseo, dalla famosa piazza Vittorio, che sarebbe Vittorio Emanuele II, ma i romani  abbreviano, non c’hanno mica tempo da perdere. Qui inizia la mia conversazione con i librai di terza generazione.

-Una volta c’erano pochi libri e molto lettori, dice Francesco Dante. Oggi è il contrario, troppi libri, meno lettori. E un lettore va aiutato a districarsi nelle mangrovie del marketing editoriale, va ascoltato, consigliato. Essere un libraio è come sentirsi Virgilio che accompagna Dante nel viaggio della conoscenza.

-Te ne approfitti perché ti chiami Dante, gli dico a bruciapelo. E Barbara e Francesco scoppiano a ridere. Il fatto è che gli ottanta anni della Liberia Rotondi, oggi gestita dai cugini Dante coincidono con i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Ma il mio è solo un calambour, per animare la conversazione e rendere loro più agevole il parlare di se stessi.

Chiedo a Barbara: -Che cos’è una libreria, oggi, ai tempi del digitale, attraverso il quale ormai libri si possono scaricare su un dispositivo elettronico o farseli portare a casa attraverso l’e-commerce?

-La nostra formula – dice Barbara, è essere specializzati in volumi di pregio, ma non di antiquariato, anche se abbiamo volumi preziosi. Non siamo una libreria generalista, il negozio è organizzato per aree tematiche, con titoli importanti, spesso edizioni pregiate, fuori catalogo, che offriamo al pubblico in un ambiente caldo, intimo, confortevole, dove aleggia la sensazione del bello. 

-Una formula magica, dico io che amo molto questo luogo in cui regna armonia e anche i rumori esterni sembrano abbassare i toni al suono della musica classica di sottofondo. 

-Ci piace molto l’idea di un luogo caratterizzato dalla magia della conoscenza, come un appartarsi dalla frenesia, dal frastuono e dal vociare della vita esterna che scorre magmatica lungo via Merulana. Chi entra qui trova momenti di intimità fra i propri interessi, le proprie curiosità, e può passare un lasso di tempo da dedicarsi, come se il tempo riprendesse il suo giusto scorrere, placato, pacato, appagante. Una sensazione che ognuno può portarsi a casa, come rimanesse attaccata a un bel libro perché è anche bello, un oggetto il cui contenuto sia ben custodito dalla forma, come se la magia del luogo ove è stato acquistato continuasse il suo effetto nei momenti che verranno dedicati alla lettura.

-C’è un pizzico di esoterismo in questa visione del rapporto tra cliente e libreria, che continua tra libro e lettore. 

-In effetti – dice Barbara – Amedeo Rotondi, il fondatore, è stato uno studioso di esoterismo. E la cosa gli procurò fastidi da parte della polizia all’epoca del fascismo. Mi dice che venivano ogni tanto gli agenti della famigerata Ovra, la polizia politica fascista, e spesso sequestravano opere ritenute contrarie al regime. Che puntualmente Rotondi poi ritrovava sulle bancarelle di Porta Portese (il celeberrimo mercato delle pulci di Roma) e se le ricomprava. Racconta Francesco:

– Amedeo Rotondi, (il libraio della prima generazione, ndr) era un maestro elementare. Acquistò questa libreria nel 1941 e la gestì insieme alla moglie. Era stato ufficiale dell’esercito in congedo, per questo, dopo l’8 settembre del ’43, venne richiamato in servizio dalla Repubblica di Salò. Ma, come tanti altri, egli si rifiutò di aderire,  e come renitente alla leva dovette nascondersi. Se non che un giorno dovette letteralmente darsi alla fuga per non essere catturato durante un rastrellamento. Rischiava la pena di morte, sorte che toccò, infatti, a quarantina di uomini catturati proprio in quelle ore. Ma lui riuscì, roccambolescamente, a dileguarsi. E ha sempre attribuito a questo episodio un valore di premonizione.

-Alla fine della guerra, continua Barbara, trasformò la libreria in un punto di riferimento delle sue teorie, alle quali dedicò molti dei suoi scritti, pubblicati dalla casa editrice “Libreria Rotondi”, ma anche da altri editori, e questo permise che Amedeo Rotondi, con i suoi pseudonimi Vico di Varo e Amedeo Voldben, fosse pubblicato e tradotto in varie lingue. Un’attività intellettuale intensa, tanto che il suo  nome  compare negli archivi storici come scrittore e filosofo, studioso di tematiche spirituali ed esoteriche.

-Quanto pesa questa lunga storia sulla libreria di oggi?, chiedo.

-Non è mai stato un peso, ma uno stimolo, dice Francesco. Pensa che fondò un giornale, “Il Corriere Librario”, che metteva in contatto chi voleva vendere libri con chi cercava quei testi, con tanto di brevi sinossi, un vero e proprio antesignano delle piattaforme di vendita diretta.  

Quando Amedeo Rotondi si ammalò, chiese allo zio di Francesco, il padre di Barbara, di prendere le redini della libreria. 

-Siamo quindi alla seconda generazione, dico. 

-La seconda generazione, rappresenta la responsabilità di portare avanti un’esperienza che con passione e generosità era stata condotta dal fondatore. Mio padre – dice Barbara-, pur distante dalle tematiche esoteriche, ha affrontato questa avventura, venendo da tutt’altra professione. (Tuttavia, facendo leva sulla sua cultura e stimolato dalla voglia di fare di Francesco, all’epoca studente di filosofia, sono riusciti ad ampliare l’offerta, pur rimanendo nell’area della specializzazione in testi antichi, pregiati, fuori catalogo, mantenendo la continuità senza rinunciare ai cambiamenti. La seconda generazione non ha perso i clienti di Rotondi, anzi ne ha conquistati altri.

-Quando arrivi tu, Barbara, comincia la storia della terza generazione. Quando succede?

-Alla fine del 2019, mio padre si ritira e io subentro, affiancando Francesco. Anch’io facevo tutt’altro mestiere, venivo dal Centro sperimentale di cinematografia di Roma, mi occupavo dei festival del cinema.

-Aspetta un attimo. Mi state dicendo che i primi passi della terza generazione sono avvenuti in piena pandemia?

-Sì, dice Francesco. Siamo stati chiusi subito, nei primi mesi del 2020, come tutti. Poi, poco dopo, fu permesso alle librerie di riaprire, e abbiamo cominciato la terza avventura.

-Un nuovo inizio contro tendenza, dico  Una libreria indipendente, in epoca digitale, come non bastasse in era pandemica, con il boom dell’e-commerce? Neanche un salmone che risale la cascata  riuscirebbe a risalire la corrente con tutti questi ostacoli. 

-Non ci siamo spaventati, dice Francesco.  Abbiamo riaperto e utilizzato il tempo per risistemare le cose secondo la nuova visione della nostra offerta, catalogando i libri che avevamo in magazzino, risistemando gli scaffali, creando reparti specifici, lavorando a rendere questo luogo più confortevole. I clienti ci hanno premiato.

-Il lavoro del libraio, dice Barbara, non si svolge solo durante l’orario di apertura al pubblico. C’è la gestione del catalogo, la ricerca e la selezione dei volumi da offrire ai lettori, le relazioni con enti culturali, pubblici e privati, l’organizzazione delle presentazioni e la partecipazione agli eventi in cui siamo invitati, il contatto coi clienti  attraverso i social.

-Cosa è cambiato col tuo ingresso?, le chiedo. 

-Oggi, insieme ai libri, offriamo collezioni: ceramiche artistiche, giochi da tavolo di prestigiosa fattura e una deliziosa serie di Kokeshi, le famose bambole giapponesi. Tutte cose che amano stare vicino ai libri, che contribuiscono alla cura del bello Libri belli e cose belle da regalare e regalarsi.

Quando il nostro incontro si conclude, mi ritrovo a pensare a questo luogo, alla convivenza tra vecchio e nuovo, a riflettere sulla vera e propria commistione tra memoria ed entusiasmo, alla  una sana incoscienza del pericolo di una concorrenza fortissima della grande distribuzione libraria e dell’e-commerce. Ma a Roma si dice: “chi non risica non rosica” chi non rischia non vince. E Francesco e Barbara mica sono in via Merulana per caso. 

A chi ama i libri e frequenta librerie e biblioteche, non può sfuggire che sì, c’è qualcosa di magico in questa libreria, guidata da una capace e ostinata terza generazione di librai. 

Roma, 14 maggio 2021

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Attualità

Quelle braccia conserte.

Quell’estate avevo 14 anni ed ero stato assunto come aiutante carpentiere. Un giorno il mastro mi rimproverò: “Non ti voglio mai più vedere con le braccia incrociate. Le braccia si incrociano quando si sciopera. Quando si lavora devi tenere sempre le mani occupate, se non hai niente da fare, datti qualcosa da fare da solo.”

Evidentemente, Luca Cordero di Montezemolo non è stato un buon mastro per Calenda.

Lo dico “sul serio”.

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Attualità

Beh, buona giornata sta tornando.

Problemi di manutenzione, qualche plugin che interferiva, un tentativo di intrusione, ma le cose stanno per essere risolte. Grazie per l’attenzione.

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